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marco biagi

“Gli dissi di andare avanti anche se non aveva più la scorta”

La bicicletta di Marco Biagi. Nel giorno del suo assassinio.
La bicicletta di Marco Biagi. Nel giorno del suo assassinio.

“Lo Stato aveva abbandonato mio marito nel momento peggiore ritirando la scorta che aveva avuto per un anno e mezzo. Ne parlammo anche la sera precedente l’assassinio e si chiedeva e mi chiedeva se doveva lasciare il lavoro che stava portando avanti, cosa che non accettava, e io capendo il suo stato d’animo gli risposi che doveva andare avanti perché la società ne aveva assolutamente bisogno”: è il racconto che Marina Orlandi, moglie di Marco Biagi, ha fatto in una scuola di Imola a pochi giorni dal 14esimo anniversario dell’omicidio del giuslavorista. (fonte)

Marco Biagi è morto? no: prescritto

Nel Paese delle scorte baldanzose, rilasciate per qualche amicizia giusta con un trovarobe di qualche Prefettura oppure usate nel fare compere per l’amante del potente di turno, in questo Paese qui dove basta avere avuto una settimana di scorta per diventare sacerdoti del coraggio, Marco Biagi invece, pur temendo per la propria vita mentre collaborava con il Governo per una delicata riforma del lavoro, è stato ucciso e non scortato. Niente. Anzi: per il Ministro e il Capo della Polizia di quel tempo (Scajola, sotto processo per avere aiutato la latitanza del mafioso Matacena e il sempre presente De Gennaro) Marco Biagi era “un rompicoglioni”, uno che frignava perché avrebbe voluto la scorta, un mitomane, insomma.

La storia (che non ha tempo per seguire gli alterchi tra potenti) ci ha consegnato il cadavere di Marco Biagi e oggi anche la prescrizione per i responsabili della sua sicurezza, Scajola e De Gennaro. Quindi Biagi è morto ma è morto troppo tempo fa, insomma. E forse davvero come mi diceva un famigliare di una vittima di un incidente aereo (ho le sue parole tatuate a mente): “dove non ci sono i colpevoli allora i colpevoli sono i morti”. Chissà che allenamenti con la propria coscienza, per esercitarla alla prescrizione.

Il luogo dell'omicidio

 

Morti per chi?

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La tutela di Marco Biagi era responsabilità di Claudio Scajola, oggi sotto processo per ‘ndrangheta. Questo direi che fotografa perfettamente la classe dirigente di questo Paese (negli scorsi anni ma sarebbe bello aprire l’analisi anche sull’oggi) che si ritrova a prendere decisioni come in questo caso vitali sulla sicurezza e la prevenzione. Oggi a capo di questa responsabilità c’è Angelino Alfano. Per dire. Per questo la notizia dell’apertura di un’indagine nei confronti di De Gennaro e dello stesso Scajola sulla morte di Biagi è da seguire con attenzione. Molta attenzione. Almeno noi.

Perché a furia di disintermediare, l’impalcatura della libertà vien giù.

Questa mattina vale la pena leggere Luca Bottura:

Quando Marco Biagi fu trucidato dalle Brigate Rosse, era in corso uno scontro importante sulla riforma del Lavoro. Conosciamo i colpevoli: i terroristi, e chi, nelle istituzioni, trattò Biagi come un mitomane.

Nonostante queste responsabilità chiarissime, l’attenzione post-attentato si concentrò principalmente su Sergio Cofferati. E sulla Cgil, che sarebbe scesa in piazza (tre milioni o uno, non importa) col lutto nel cuore e l’infamante accusa di esserne la causa.

Non era vero allora. Non è vero adesso.

Criticare le riforme del Governo Renzi, quindi anche il lavoro del professor Taddei, è un esercizio tipico della democrazia. Scioperare pure. Fa parte della dialettica tra classi sociali – sì: ci sono ancora le classi sociali – di un Paese civile. Alzare il livello dello scontro è altro.

Lo sa perfettamente chi vuole sovrapporre la violenza verbale (vagheggiando quella fisica) alla protesta legittima, con lo scopo tra gli altri di mettere i sindacati in un angolo. Tutto già visto.

Intanto però la tentazione di lucrare su queste vicende titilla il Palazzo. Sarebbe facile usare strumentalmente la deriva eversiva come fece, ai tempi, Roberto Maroni, mettendo il cappello (Legge Biagi, invece che Legge 30) su una riforma che snaturava le idee del professore ucciso, mantenendo l’impianto liberista senza attivare le tutele sociali più profonde che Biagi aveva saggiamente previsto.

Sarebbe invece bello e utile se al Governo capissero da subito che una controparte democratica è una garanzia per tutti e che andrebbe legittimata, invece di smontarla a suon di hashtag e battute sui Ponti. In modo da combattere, insieme, i nemici veri.

I nemici di Taddei, della dialettica democratica, di chi ancora interpreta l’informazione come esercizio critico del potere. Perché a furia di disintermediare, l’impalcatura della libertà vien giù.

E ci finiamo sotto tutti.

Chi ha ucciso Marco Biagi?

In questi giorni al di là delle abitudini sentimentali di Scajola sono le parole e i fatti sulla mancata scorta a Marco Biagi che fanno impallidire:

Marina Orlandi, ha spiegato l’avvocato della famiglia, Guido Magnisi, “come ha sempre fatto, ha portato tutti gli elementi di cui è a conoscenza e segue fiduciosa gli sviluppi dell’inchiesta”. Da quanto appreso, la moglie di Biagi non ha consegnato agli inquirenti nuova documentazione.

Orlandi, da sempre riservata, interruppe il proprio silenzio soltanto a dieci anni dall’omicidio.”Era stato abbandonato dalla polizia, dallo Stato che gli tolse la scorta proprio nel momento in cui era piùesposto. Era stato sbeffeggiato da chi avrebbe dovuto proteggerlo”, disse. E raccontò lapreoccupazione del marito e di conseguenza la propria. Ricordò una sera in cui Biagi andò al telefono per rispondere: “Lo vidi impallidire, dopo poco mise giù la cornetta. Gli chiesi: ‘Ma chi era?’, e lui cercò di minimizzare, ma era troppo turbato. Io insistetti. E allora mi disse che lo avevano minacciato, che era una delle brutte telefonate che riceveva in quel periodo”.

Raccontò anche del 20 maggio 1999, giorno dell’omicidio di Massimo D’Antona, a Roma, commesso dalle Nuove Brigate Rosse. Quello stesso giorno Biagi era nella Capitale: “Lo chiamai supplicandolo di tornare. Mi disse che sarebbe rimasto altri due giorni perché doveva finire il lavoro di D’Antona. Da quella sera ho cominciato a temere per la sua vita”. Eppure rimase senza scorta: “E io che posso fare? – mi disse Marco -. La scorta non me la danno”. Sui motivi e sulle responsabilità proprio di questa decisione, i pm stanno cercando di far luce.