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Raffaele Cinuzzo Urso, l’ambasciatore di Messina Denaro in missione a Roma

A cena, andava al ristorante “Al pescatore” di Ostia. Ma solo con pochi amici fidati. Gli incontri d’affari li teneva invece in strada, dalle parti del Vaticano o alla Garbatella, come fossero chiacchierate fra amici. Raffaele Cinuzzo Urso faceva di tutto per non apparire un boss in missione nella Capitale. E che boss, l’ambasciatore del superlatitante Matteo Messina Denaro. Però, questo distinto signore residente a Campobello di Mazara amava comunque apparire, su Facebook: pubblicava spesso selfie con i suoi quadri e l’amato tavolo da biliardo, oppure si fotografava in bicicletta o a passeggio con un bellissimo cane razza Collie. Cinuzzo Urso è l’uomo del mistero, “è un gran massone” dicevano di lui nelle intercettazioni dei carabinieri del comando provinciale di Trapani.

Da due mesi, ormai, è in carcere, e non ha detto una sola parola davanti ai giudici, nella migliore tradizione mafiosa. Per provare a comprendere quale rete di relazioni avesse nella Capitale, bisogna ripercorrere centinaia di ore di intercettazioni e i pedinamenti fatti a Roma dai carabinieri del Ros. Un viaggio, in particolare, è finito all’attenzione del procuratore aggiunto di Palermo Paolo Guido e dei sostituti Carlo Marzella e Geri Ferrara.

Fra il 7 e il 10 marzo 2016, Urso si trova nella Capitale per una serie di incontri. Prende una camera all’hotel “I triangoli – Best Western”, nella zona dell’Infernetto. E accompagnato da Mimmo Nardo, un siciliano trapiantato a Roma da molti anni, vede alcune persone. Le fotografie dei carabinieri ritraggono Urso a colloquio con un calabrese di Villa San Giovanni, all’interno di un locale in ristrutturazione di via Simone de Saint Bon, dalle parti del Vaticano. Poi, poco prima dell’ora di pranzo, il boss entra nella discoteca Atlantico, all’Eur, e incontra un altro uomo, che è risultato impegnato nel settore della sicurezza. Assieme, vanno a pranzare al ristorante “Molo 9/12”, alla Garbatella. I ragazzi della sezione Anticrimine di Roma si fingono turisti e continuano a fotografare, mentre i colleghi del nucleo Investigativo di Trapani intercettano i telefoni. In alcuni incontri, fa capolino anche una misteriosa donna. E poco prima di una cena a Ostia, un uomo che scende da un’auto presa a noleggio. Poi, un altro giorno, il boss si intrattiene a parlare con un ex comandante dell’Alitalia, sul viale di Castel Porziano.

Cosa legano tutti questi personaggi all’ambasciatore di Messina Denaro a Roma? Anche Nardo è un nome interessante, a metà degli anni Novanta gestiva una società che forniva guardie del corpo e veline al bel mondo dello spettacolo romano, e intanto spacciava droga, avrebbe fornito pure un documento falso a Messina Denaro.

Una sera, invece, Cinuzzo Urso va a cena al Pescatore con un’amica imprenditrice di Frosinone, Sivia Mirabella, che ha un sogno, entrare in una loggia massonica. E allora Urso chiede a un massone di Campobello, iscritto alla loggia “Domizio Torrigiani” del Grande Orientale d’Italia. La pratica va a buon fine.

Il 19 maggio dell’anno scorso, i carabinieri hanno fotografato l’imprenditrice nella sede romana della “Stella d’Oriente”, il centro polifunzionale Casa Nathan, che si trova in piazzale delle Medaglie d’Oro. «Si tratta di un’organizzazione paramassonica di origine statunitense», hanno scritto i magistrati. «Sai, la cerimonia solo per me è stata fatta», si vantava lei. E il massone che l’aveva raccomandata commentava: «Ti sembra poco questo?». Cinuzzo Urso era soddisfatto: «Il favore lo hanno fatto solo ed esclusivamente per lui, si stanno facendo miracoli per te».

(di Salvo Palazzolo, fonte)

Mafia nella Fiera di Milano: arrivano le prime condanne

(lo spiega bene Luca Fazzo)

Non è una bella giornata per l’immagine di Milano. Cosa c’è di più milanese della Fiera? Ebbene, ieri mattina un giudice certifica con sentenza che l’onda lunga della mafia era arrivata fino a ridosso dell’ente-simbolo della città, quello della vecchia Campionaria. Un imprenditore siciliano viene condannato per associazione a delinquere finalizzata all’autoriciclaggio e all’appropriazione indebita: l’aspetto avvilente è che tutti gli affari di questo signore ruotavano intorno ai padiglioni della Fiera, dove rastrellava appalti e si muoveva con fare da padrone; e la sentenza dice che i suoi reati erano aggravati dalla «finalità mafiosa»: non agiva solo per arricchire se stesso, ma per finanziare i clan criminali siciliani, arrivando – passaggio dopo passaggio, tra le «famiglie» di Pietraperzia e gli Accardo di Partanna – fino all’entourage del latitante numero uno di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro.

L’imprenditore siciliano si chiama Giuseppe Nastasi e ieri si vede infliggere dal giudice Alessandra Del Corvo otto anni e dieci mesi di carcere. Il suo braccio operativo era la Dominus, un consorzio di cooperative dietro le quali – schermati da una pletora di prestanome – c’erano sempre lui, Nastasi, e suo padre Calogero (che ieri viene condannato a tre anni e otto mesi). Le indagini del Gico, i super-investigatori della Guardia di finanza, hanno accertato come appalti per diciotto milioni – compresi alcuni lavori sul sito di Expo 2015 – fossero stati assegnati alla galassia dei Nastasi da Nolostand, la società controllata dalla Fiera che per questo è stata commissariata dal tribunale. Lui, Nastasi, arrestato a luglio dello scorso anno, ha negato tutto, e anzi si è tolto la soddisfazione di rivelare un giro di mazzette all’interno di Fiera Milano su cui ora la Procura ha aperto un nuovo fascicolo. Questo però non gli ha risparmiato la pesante condanna di ieri. Insieme a lui e al padre, il giudice ha condannato a pene minori altre sette imputati.

È l’inchiesta che ha travolto l’attuale board della Fiera, spingendo l’intero consiglio di amministrazione a dimettersi. Non ci sono (per quanto se ne sa) personaggi di vertice dell’ente sotto inchiesta, ma le carte del Gico raccontano della disarmante facilità con cui Nastasi (indagato oggi anche per associazione mafiosa in un filone trasmesso a Caltanissetta) poteva interloquire con i massimi esponenti di Fiera, incontrando insieme al suo socio Liborio Pace persino l’allora amministratore delegato E. P. Gli incontri allarmarono il capo della security, Domenico Pomi, ex ufficiale dell’Arma, che denunciò come «in quella sede venissero imposti dai due ai vertici aziendali la natura dei servizi e dei prodotti offerti». Insomma, gli anticorpi contro la penetrazione criminale in Fiera fallirono clamorosamente.

Di fronte a una simile prova di vulnerabilità, la Procura della Repubblica aveva chiesto che l’intera Fiera venisse commissariata: sarebbe stata una prospettiva umiliante, persino la prima edizione milanese del Salone del Libro si sarebbe svolta il prossimo aprile in un ente guidato da un amministratore nominato dal Tribunale. Almeno questa onta verrà risparmiata alla Fiera, perché la richiesta della Procura è stata respinta. Ma la sentenza di ieri, che ritiene provata la «mafiosità» delle infiltrazioni negli appalti dell’ente, è destinata comunque a pesare.

Il consiglio dimissionario resterà in carica fino all’approvazione del bilancio, poi si dovrà andare al rinnovo. Ma oltre agli uomini il pool antimafia della Procura si aspetta che siano cambiate le procedure, togliendo peso a quella lottizzazione politica che nei documenti dei pm Paolo Storari e Sara Ombra viene indicata come la causa principale della facilità con cui gli appetiti dei clan hanno potuto saziarsi a spese della Fiera.

Mafia e Expo: il filo che da Milano porta a Messina Denaro

Ci sarebbe un filo rosso che porta da Milano a Castelvetrano, o dovunque si trovi Matteo Messina Denaro. Un legame che, secondo i pubblici ministeri della procura lombarda che indagano sulle infiltrazioni di Cosa nostra a Expo, sarebbe rappresentato da Giuseppe Nastasi, imprenditore originario del paese del boss latitante. Per lui ieri l’accusa ha chiesto nove anni di carcere nel processo abbreviato nato dall’operazione Giotto. Gli contestano i reati di associazione a delinquere finalizzata all’agevolazione della mafia e riciclaggio. Ed è proprio l’imprenditore che, intercettato mentre parla col suo braccio destro Liborio Pace (pure lui accusato di essere trait d’union con Cosa nostra siciliana, in particolare con la famiglia di Pietraperzia), si mostra preoccupato per la latitanza di Messina Denaro.

«Lì – dice Nastasi riferendosi a Castelvetrano – si sono scantati, se Mimmuzzo si mette a parlare… ma non parla Mimmo (…) Eh, ma sono terrorizzati, eh? Vediamo… insomma che hanno arrestato uno, quello più vicino diciamo… Un bordello c’è al mio paese». Mimmuzzo sarebbe Domenico Scimonelli, imprenditore attivo nel settore della viticoltura e dei supermercati. Secondo la direzione distrettuale di Palermo è l’ultimo anello della catena di postini che ha permesso le comunicazioni del boss latitante. L’intercettazione che la procura di Milano ha depositato nell’inchiesta su Expo è stata registrata la sera del 23 agosto del 2015. Venti giorni prima Scimonelli è stato arrestato nell’ambito dell’operazione Ermes e sarà condannato a maggio con rito abbreviato a 17 anni di carcere per associazione mafiosa. Nastasi e Pace parlano a bordo di un’Audi dei timori in merito alle possibili rivelazioni che Scimonelli potrebbe fare agli inquirenti rispetto alla latitanza di Messina Denaro. «Ma a quanto pare – risponde Pace – questo è cristiano muto». «No, Mimmo è a posto», replica Nastasi.

Quest’ultimo, come emerge nell’ordinanza di arresto, è ritenuto vicino alla famiglia di Partanna, la stessa di cui Scimonelli sarebbe tra i vertici, nonché fedele alleata dei Messina Denaro. Un legame, quello tra Nastasi e Cosa nostra, che sarebbe garantito in particolare dal rapporto di amicizia con Nicola Accardo, ritenuto elemento di spicco della famiglia. Quando Accardo va a Milano, Nastasi lo aiuta per il trasferimento dall’aeroporto, gli trova e gli paga l’albergo, gli indica ristoranti. Disponibilità ricambiata quando l’imprenditore torna in Sicilia per le feste. Favori e cortesie che per gli inquirenti non si giustificano solo con un rapporto di amicizia. Ma anche di affari.

Ed è ricco il business che Nastasi avrebbe gestito grazie all’Expo di Milano. L’imprenditore è accusato di essere il reale gestore del consorzio di cooperative Dominus scarl, che all’esposizione universale ha realizzato i padiglioni di Francia, Guinea, Qatar e Birra Poretti, l’auditorium e il palazzo dei congressi. Appalti che in tre anni, dal 2013 al 2015, hanno permesso di ricavare 18 milioni di euro, pagati dalla società Nolostand, una delle controllate da Fiera Milano. Nolostand è stata commissariata e, assieme a Fiera Milano, ha chiesto 800mila euro di danni di immagine come parti civili (un milione la richiesta del Comune di Milano).

Nelle 70 pagine di informativa del Gico della Guardia di finanza depositate ieri dalla procura meneghina, si parla anche di un altro imprenditore con cui Natasi sarebbe entrato in contatto. Si tratterebbe di Antonio Giuliano Mafrici, di origini calabresi ma residente e attivo nella zona del Canton Vallese, al confine con la Svizzera. Secondo quanto annota la Finanza, l’imprenditore di Castelvetrano e il braccio destro Pace vanno a fare visita a Morici il 24 agosto del 2015 nella sua casa a Pedimulera, paesino del Piemonte nella provincia del Verbano-Cusio-Ossola. Intercettato in auto, mentre torna a Milano, Nastasi direbbe che Mafrici «si è messo a disposizione». L’imprenditore emigrato in Svizzera recentemente è finito nelle cronache perché arrestato per corruzione. L’accusa era di aver pagato delle tangenti per ottenere l’appalto per la ristrutturazione di alcune gallerie sulla strada del Sempione. Mafrici in carcere c’è rimasto solo 40 giorni. Il tribunale amministrativo svizzero ha dato ragione a lui nel ricorso presentato dalle imprese che erano arrivate seconde. E lo scorso luglio l’imprenditore è tornato a guidare la ditta che ha fondato nel 1993, la Interalp Bau, impresa di costruzioni che negli ultimi anni si è aggiudicata diversi appalti pubblici in Svizzera.

Infine, altro elemento presentato dai pm di Milano a sostegno delle accuse a Nastasi è un’altra intercettazione. Nastasi e Pace, prima di essere arrestati, sarebbero andati a casa di un avvocato, manifestandogli l’intenzione di farlo entrare nella cerchia degli uomini vicini a Matteo Messina Denaro. Colloquio che sarebbe stato ascoltato dai militari della Finanza. La procura lombarda ha chiesto la condanna a nove anni per Nastasi. La sentenza dovrebbe arrivare il 3 febbraio, mentre Pace e altri tre imputati sono a processo con rito ordinario.

(fonte)

Operazione Ermes 2. Il cerchio intorno a Messina Denaro. I fatti e le facce.

(il pezzo di Egidio Morici per Tp24.it)

Il cerchio si stringe. Si stringe ancora. La terra bruciata attorno al boss latitante Matteo Messina Denaro sembra non esaurirsi mai. La novità di queste ultime due operazioni antimafia, sta forse nell’aver posto l’attenzione nei confronti di insospettabili. Nell’operazione Ebano aveva fatto molto scalpore che due funzionari del Comune di Castelvetrano fossero finiti nel registro degli indagati, ma nell’operazione Ermes 2 di ieri mattina lo stupore della città è stato ancora maggiore, visto il coinvolgimento del giornalista Filippo Siragusa, al quale è stata applicata la misura cautelare dell’obbligo di dimora nel comune di residenza, per il reato di intestazione fittizia di beni.
L’inchiesta è un approfondimento dell’operazione Ermes dell’agosto 2015, in cui era emerso il ruolo di Vito Gondola, l’allevatore pluripregiudicato reggente del mandamento mafioso di Mazara del Vallo, che si occupava di gestire la “corrispondenza” di Matteo Messina Denaro.

Ieri sono finiti in carcere i fratelli Loretta (Carlo e Giuseppe), pienamente inseriti con le loro aziende nella famiglia mafiosa di Mazara, per associazione mafiosa e attribuzione fittizia di beni a terzi; Epifanio Agate, figlio del capomafia Mariano Agate già deceduto, per estorsione aggravata dal metodo mafioso e, anche lui, per attribuzione fittizia di beni a terzi; ed Angelo Castelli per favoreggiamento alle cosche di Mazara e di Castelvetrano.

I terzi in questione sono invece soci di tre aziende: la Medio Ambiente, di Filippo Siragusa, Paola Bonomo ed Andrea Alessandrino e le due società (My Land e Fishmar) di Rachele Francaviglia, Francesco Mangiaracina, Nataliya Ostashko e Nicolò Passalacqua. Tutti raggiunti dall’obbligo di dimora.

Ma è nelle campagne tra Mazara e Castelvetrano che tutto ebbe inizio, la mattina del 2 marzo 2010, durante un summit mafioso dove c’erano vari personaggi “di spessore”: Antonino Marotta, uno dei componenti della banda di Salvatore Giuliano, consigliere di fiducia di don Ciccio Messina Denaro prima e del figlio Matteo dopo; Vito Gondola, reggente della cosca di Mazara, accompagnato da Carlo Loretta, pregiudicato mafioso mazarese; Giovanni Filardo, cugino del superlatitante poi arrestato nell’operazione Golem 2, meno di due settimane dopo.
In quell’occasione bisognava decidere come spartirsi i proventi degli appalti per la costruzione del parco eolico “Vento Di Vino”.

Anche la sede della ditta Mestra (Materiale Edile Scavi Trasporti Recuperi Ambientali) era spesso teatro di incontri fra boss mafiosi, organizzati dai fratelli Loretta che gestivano anche una discarica per lo smaltimento dei rifiuti e il recupero ambientale. Una discarica che agiva in regime di assoluto monopolio, essendo l’unica ad avere le relative licenze.
Nell’autolavaggio di Angelo Castelli, invece, il capomafia Vito Gondola discuteva con il suo sodale Carlo Loretta di sub-appalti e delle opere di sbancamento per il futuro ospedale di Mazara del Vallo.

La Mestra però, nel febbraio del 2014, era stata raggiunta da un’interdittiva antimafia della prefettura di Trapani, venendo estromessa dai lavori di ristrutturazione dell’ospedale.
Ed è per aggirare quest’interdittiva che i mafiosi decisero di creare la società cooperativa Medio Ambiente. E a questo scopo coinvolsero due dipendenti della Mestra (Anna Bonomo ed Andrea Alessandrino) e Filippo Siragusa, giornalista del Giornale di Sicilia che, da qualche tempo collaborava con la Mestra nel procacciare attività di smaltimento di rifiuti non pericolosi e di dismissione di manufatti di amianto. In poco tempo venivano acquisite tutte le autorizzazioni per accedere agli appalti pubblici.

Sulla possibilità che il giornalista fosse all’oscuro del reale motivo della costituzione della cooperativa, la Polizia di Stato invece è chiara. Le intercettazioni telefoniche dei soci “permettevano di confermare l’interesse del Siragusa Filippo alla gestione dell’impresa accanto ai Loretta. L’indagine ha accertato che il Siragusa era perfettamente a conoscenza dello spessore criminale dei Loretta e del perché era stata costituita la Medio Ambiente”.
Senza contare che, “per circa un mese dopo la costituzione – scrivono gli inquirenti – era stato anche amministratore” della società stessa. E d’altra parte, più volte il giornalista si era incontrato con Giuseppe Loretta per parlare delle strategie di mercato per lanciare la nuova azienda. E quando il Giornale di Sicilia parlò del giro di pizzini scoperto nella prima operazione Ermes, il collaboratore del quotidiano rispose alle lamentele della famiglia Loretta per l’ampio spazio dedicato dalla stampa, dicendo che “sta nel gioco delle parti, i giornalisti gonfiano le cose”.

Se la Medio Ambiente, formalmente intestata a Siragusa, Bonomo e Alessandrino, era invece nelle piena disponibilità dei fratelli Loretta, ci sono altre due società, sempre intestate a terzi, che invece erano di Epifanio Agate (figlio del boss Mariano Agate, ormai deceduto): la My Land e la Fishmar.
I soci di fatto erano l’Agate e Francesco Mangiaracina, cognato del collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori che, per sfuggire alla normativa di prevenzione antimafia, avevano intestato le quote della My Land alle mogli Rachele Francaviglia e Natalyia Ostashko. In seguito, a causa di problemi con le banche, il 95% delle quote della società era stato intestato alla Ostashko ed il 5% ad un uomo vicino all’Agate: Nicola Passalacqua, che ne era diventato l’amministratore.
L’operazione Ermes 2 chiaramente ha comportato il sequestro del capitale sociale e dei beni aziendali della Mestra, ma anche della Medio ambiente e della My Land.

Ciò che ha colpito di più è stato però il coinvolgimento di Filippo Siragusa, molto noto a Castelvetrano che ha dichiarato: “Ci sono momenti nella vita in cui ti arrivano dei colpi che non ti aspetti. Avrò modo di chiarire ogni cosa ai magistrati. Ho fiducia in loro e sono certo che presto sarà tutto chiarito in merito alle accuse che mi sono state rivolte. Dire altro in questo momento non serve. E’ un momento difficile per me e per i miei cari. Questo territorio mi conosce da troppi anni e sa come ho sempre agito come giornalista e lavoratore precario. Buon Natale”.
Di diverso avviso invece il Questore Maurizio Agricola: “Purtroppo era uno di quegli insospettabili che, ben consapevole della caratura mafiosa dei fratelli Loretta, si era intestato una società nuova, la Medio Ambiente, per permetter loro di aggirare la normativa antimafia”.

Ad ogni modo si è trattato di un’operazione che ha dato conferma del saldo legame tra le cosche mafiose di Mazara del Vallo e di Castelvetrano, con Matteo Messina Denaro che detta come spartirsi gli appalti e risolve le varie controversie segnalategli da Vito Gondola. Le condizioni però diventano sempre più difficili ed anche il ricorso a persone insospettabili, potrebbe, come in questo caso, non funzionare più.

Intanto hanno arrestato l’imprenditore vicino a Matteo Messina Denaro

Mafia e appalti, vasta operazione a Castelvetrano: due persone sono finite in carcere, perquisiti anche alcune imprese e l’ufficio tecnico del Comune. Due funzionari raggiunti da avvisi di garanzia

Arrestato l’imprenditore Rosario “Saro” Firenze. Per gli investigatori è vicino al boss latitante Matteo Messina Denaro. Stamane i militari del Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Trapani e del ROS hanno eseguito ordinanze di custodia cautelare in carcere, nei confronti dell’imprenditore castelvetranese, Rosario FIRENZE, e il suo collaboratore, il geometra Salvatore  SCIACCA per le ipotesi di associazione a delinquere di tipo mafioso, fittizia intestazione di beni, turbata libertà degli incanti aggravata dal metodo mafioso e trasferimento fraudolento di beni. Le due aziende edili di famiglia di Firenze, che valgono sei milioni di euro, sono state sequestrate.

L’operazione si chiama Ebano. Altri quattro imprenditori di Castelvetrano sono stati raggiunti dalla misura cautelare del divieto di esercitare l’attività d’impresa.  Il divieto ad esercitare attività imprenditoriale è stato emesso nei riguardi dei presunti prestanome di Firenze, Giacomo Calcara, 38 anni, Benedetto Cusumano, 68 anni, Fedele D’Alberti 41 anni e Filippo Tolomeo, 38 anni, sarebbero stati loro ad aiutare Firenze per potersi accaparrare degli appalti, lavori di manutenzione stradale, fognari e demolizioni.

C’è stata anche la notifica dell’avviso di garanzia nei confronti di altri 4 indagati, tra cui due funzionari del Comune di Castelvetrano e due fratelli di FIRENZE.

Avvisi di garanzia per i due fratelli di Saro Firenze, Giovanni e Massimiliano di 44 e 41 anni. Saro Firenze raggiunto da una interdittiva antimafia aveva ceduto, fittiziamente, ai fratelli l’impresa, e sempre nonostante l’interdittiva era riuscito a restare iscritto nell’elenco delle imprese di fiducia del Comune di Castelvetrano. Secondo l’accusa Firenze controllava molti appalti al Comune di Castelvetrano, e con il ricavato finanziava anche la latitanza di Matteo Messina Denaro.Fra i lavori al centro dell’inchiesta quelli per la realizzazione della condotta fognaria, per la manutenzione ordinaria di strade e fognature, per la demolizione dei fabbricati fatiscenti all’interno dell’ex area dell’autoparco comunale.

Due avvisi di garanzia sono stati notificati ad ex dirigenti dell’ufficio tecnico comunale, uno di questi è l’architetto Leonardo Agoglitta: avrebbero permesso agli imprenditori di “truccare” gli appalti.

A tenere i collegamenti tra Firenze e il Comune sarebbe stato il geometra Salvatore Sciacca ufficialmente dipendente dell’impresa di Massimiliano Firenze, intercettato per esempio a preoccuparsi se in sede di gara di appalto l’imprenditore Filippo Tolomeo aveva notificato la sua appartenenza, “tu glielo hai detto a chi appartieni? A posto.2

I dettagli saranno resi noti durante la Conferenza Stampa che si terrà alle ore 11:00 presso il Comando Provinciale dei Carabinieri di Trapani.

La notizia non è proprio un fulmine a ciel sereno, perché già nel 2014 fu revocata l’autorizzazione per lo stoccaggio di inerti in una cava di proprietà di Rosario Firenze, a Castelvetrano. La revoca dell’autorizzazione arrivò dopo le indagini che svelarono i legami del titolare, Rosario Firenze, con la sorella e il cognato del boss Matteo Messina Denaro.

Nei rapporti investigativi  alla base dell’interdittiva della prefettura, e dal successivo provvedimento di revoca si racconta che Rosario Firenze, è «compare» della sorella e del cognato del superiatitante perché «ha battezzato il figlio» e da loro riceveva incarichi di lavoro. Tra le pagine dell’inchiesta c’è anche un’intercettazione in cui due donne parlano del rinvenimento in un fondo agricolo di materiale di risulta proveniente da demolizionl depositato da ignoti su indicazione del «signor Firenze… Saro…», che risulta «legato ai Messina Denaro… sono una cricca». E anche in questa nuova operazione c’è una intercettazione che svela il rapporto stretto tra Saro Firenze e Patrizia Messina Denaro, “idda si sta cazzuliando con Saro”.

(fonte)

Gli amici del boss scritti in una lettera “dimenticata”

Ne scrive Francesco Viviano qui:

Due primari ospedalieri, un commercialista, tre imprenditori, un gioielliere, personaggi potenti ed insospettabili del trapanese, costituirebbero la rete segreta di protezione del capo mafia Matteo Messina Denaro, latitante da 23 anni. Con alcuni di loro, sarebbe andato a cenare abitualmente in un ristorante di Santa Ninfa, sempre armato assieme a tre suoi fidatissimi guardiaspalle perché non voleva farsi catturare vivo. Nomi e cognomi, indirizzi, età e professioni dei favoreggiatori dell’ultimo grande boss di Cosa Nostra sono contenuti in una informativa dei carabinieri da dieci anni, una informativa incredibilmente mai trasmessa all’ autorità giudiziaria, rimasta chissà in quale cassetto, e soltanto da poche settimane riapparsa e consegnata alla procuratrice aggiunta Teresa Principato (che coordina il gruppo interforze di carabinieri, polizia e 007 dell’ Aisi che danno la caccia a Matteo Messina Denaro) e al sostituto procuratore Nino Di Matteo, pm del processo per la presunta “trattativa” Stato-mafia.

Dopo avere fatto terra bruciata attorno al boss, arrestando decine di familiari e di fiancheggiatori delle cosche del trapanese senza però essere riusciti a stanarlo, gli inquirenti puntano ora agli anelli più alti di quella catena che continua a garantire la latitanza di Messina Denaro. E l’informativa, venuta fuori ora, suggerisce nomi di personaggi finora mai finiti nel mirino degli investigatori. Alcuni di loro si sarebbero anche prestati a fare da “postini” che farebbero la spola tra Castelvetrano (il paese del latitante) ed altri centri della Sicilia per fare arrivare o ricevere i “pizzini” con gli “ordini” e le “raccomandazioni” di Matteo Messina Denaro ad altri boss siciliani. Tra i “postini” più attivi due insospettabili, una donna e un pensionato delle ferrovie dello stato. Informazioni fornite da una fonte ritenuta “attendibilissima” – si legge nell’ informativa- che suggeriva ai carabinieri di non coinvolgere nelle indagini le forze dell’ ordine che allora operavano nella provincia di Trapani per evitare fughe di notizie ed informazioni che sarebbero potute arrivare proprio al boss Matteo Messina Denaro che probabilmente disponeva di qualche “talpa” tra gli investigatori trapanesi. La scottante informativa dei carabinieri che Repubblica ha potuto leggere ha provocato sconcerto e stupore nella Procura di Palermo, che ha avviato una indagine e una serie di accertamenti anche per ricostruire come e perché quell’informativa così importante sia rimasta nascosta per tanto tempo. Le due pagine dell’informativa sono state consegnate nelle settimane scorse alla Procura di Palermo dal generale in pensione dei carabinieri Nicolò Gebbia, che fu tra l’altro comandante della compagnia dei carabinieri di Marsala (che indagava anche su Matteo Messina Denaro) e poi comandante provinciale dei carabinieri di Palermo. Interrogato nei giorni scorsi dal pubblico ministero Nino Di Matteo il generale ha svelato di avere avuto quell’informativa poco prima di lasciare il comando provinciale di Palermo per assumere quello di Venezia e di averla consegnata – ha dichiarato a verbale – al generale Gennaro Niglio allora comandante della Regione Carabinieri Sicilia, morto in un incidente stradale assieme al suo autista, il 9 maggio del 2004 mentre tornava a Palermo da Caltanissetta. Ma da allora di questa informativa nessuno ha saputo più niente.

Nell’informativa si fa riferimento a un altro dei misteri siciliani, il sequestro dell’esattore Luigi Corleo, suocero di Nino Salvo, rapito il 17 luglio 1975 dai corleonesi e il cui corpo non è stato mai ritrovato. Il documento inedito svela ora che il suo cadavere sarebbe sepolto in una campagna di proprietà di uno dei favoreggiatori della latitanza di Matteo Messina Denaro. Un sequestro che provocò uno scontro tra i corleonesi e i boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti (amici dei cugini Salvo) che reagirono uccidendo 17 mafiosi alleati dei corleonesi che avevano partecipato al sequestro di Corleo. Il generale Gebbia ha anche rivelato di avere appreso che pochi giorni dopo il sequestro di Corleo Nino Salvo telefonò a Giulio Andreotti, a quel tempo Presidente del Consiglio, “ordinandogli” di dare un permesso al boss Gaetano Badalamenti che si trovava al confino nel nord Italia, per rientrare per qualche mese in Sicilia per aiutarlo a liberare il suocero. Il permesso non fu concesso ed i Salvo “si adirarono molto” con Giulio Andreotti.

Patrizia Messina Denaro: incastrata la sorella del boss

Il raccordo con la primula rossa di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro sarebbe la sorella Patrizia. Il che dimostra intanto due cose: che in Cosa Nostra le donne continuano a ritagliarsi un ruolo fondamentale e che Messina Denaro, che molti vorrebbero descriverci come un genio del male, all fine si rivelerà un manigoldo banale e ignorantotto alla stregua dei suoi predecessori (Riina e Provenzano in testa) appoggiandosi alla famiglia. Altro che organizzazione.

Ecco l’articolo di Live Sicilia:

«Pena più pesante per Patrizia Messina Denaro e sentenza ribaltata per Antonio Lo Sciuto:assolto in primo grado dall’accusa di mafia è stato ora condannato e arrestato fuori dall’aula della Corte d’appello di Palermo. Ad attendere la sentenza c’erano gli agenti della Direzione investigativa antimafia.

La sorella del latitante in primo grado aveva avuto 13 anni che ora salgono a 14 anni e sei mesi. Lo Sciuto è stato condannato a tredici anni e mezzo. Un anno in più, da tre a quattro, per Vincenzo Torino imputato per intestazione fittizia di beni. Confermati i sedici anni inflitti per mafia a Francesco Guttadauro, nipote del padrino di Castelvetrano.

Il processo nasce da un’indagine del dicembre 2013 che fece luce sulla rete dei colonnelli e dei gregari del boss latitante, svelando il ruolo della sorella che, in assenza del marito detenuto, avrebbe retto le fila dell’organizzazione.

Secondo l’accusa rappresentata dal sostituto procuratore generale Mirella Agliastro, che ha retto al vaglio dei giudici d’appello, da Lo Sciuto sarebbero passati i soldi che servivano al sostentamento della famiglia Messina Denaro. Per conto di Cosa nostra trapanese l’imprenditore avrebbe gestito importanti commesse pubbliche e private nella zona di Castelvetrano.»

Quel consigliere imbecille che finge (ma davvero?) di avere conosciuto Matteo Messina Denaro

giambalvo-castelvetrano

Ogni tanto la realtà si fa sceneggiatura spinta più di quanto sarebbe lecito inventarsi. Così succede che il consigliere comunale del comune di Castelvetrano (patria della primula rossa di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro) Calogero Giambalvo ora neghi di avere conosciuto il boss. Il suo interrogatorio è un pezzo da fotoromanzo:

“Ha mai incontrato Matteo Messina Denaro?”, gli chiese il pubblico ministero Maurizio Agnello. Risposta: “Mai l’ho incontrato”. Quindi millantava? “Sì”. Il giudice Nicola Aiello andò al cuore della questione senza giri di parole: “Scusi ma lei quando parla allora parla così tanto per dire. Secondo lei, a meno che non è pazzo, uno non si mette a dire che conosce Messina Denaro?”. Risposta: “Ha ragione, ha ragione. Io cercavo di vantarmene, ha ragione, perché quel periodo era un periodo brutto”. “Quindi era un motivo di orgoglio conoscere Messina Denaro?”, “Non è un orgoglio, guardi che io ho fatto anche uno statuto contro la mafia”; “A maggior ragione, mi scusi ma se io faccio una attività antimafia, se lei dice io faccio uno statuto contro la mafia, non dico che conosco Messina Denaro”. “Me ne vantavo, mai visto”.

Febbre da stadio. Per Cosa Nostra.

«Io mi sento ‘nnocente e affavvore dellallegalità»

Guardatevi questo video:

Lui è Giambalvo, appena tornato ad essere consigliere comunale a Castelvetrano. Sua vicenda si è mosso anche Claudio Fava (la notizia è qui). Per capire chi è il personaggio in questione basta riprendersi questo bell’articolo di Tp24:

L’ultima “apparizione” politica è stata pochi giorni prima delle elezioni amministrative a Campobello di Mazara. Da quelle parti, oltre che nella sua vicina Castelvetrano, Calogero Giambalvo è molto conosciuto. “Lillo”, così lo chiamano tutti, è tra i sedici arrestati nell’operazione Eden 2 che ha fatto ancora una volta terra bruciata attorno al super latitante Matteo Messina Denaro. Giambalvo è consigliere comunale a Castelvetrano da qualche mese. E’ entrato in consiglio dopo due elezioni andate a vuoto. Nel 2007 si candida nella lista dell’attuale deputato regionale Giovanni Lo Sciuto, e per pochi voti non diventa consigliere. La storia si ripete nel 2012, quando con l’ex Fli tenta ancora la corsa al consiglio comunale. Niente, termina la corsa risultando il primo dei non eletti. Ma un rimpasto di giunta e la nomina ad assessore del consigliere Giuseppe Rizzo lascia a Giambalvo la possibilità di entrare in consiglio comunale. Aderisce subito ad Articolo 4 di Paolo Ruggirello. E proprio con il deputato regionale all’Ars sarebbe stato intercettato nei giorni precedenti le elezioni di Campobello. Le microspie dei Ros avrebbero reistrato una conversazione tra i due. Con il consigliere comunale che gli avrebbe chiesto di seguirlo in auto per parlare con una persona. Ruggirello, guardingo, chiede chi fosse. E Giambalvo avrebbe risposto: “E’ uno condannato a vent’anni, cchiù mafiusu i mia”. Potrebbe essere una battuta, ma arriva proprio pochi giorni prima del blitz dei Ros. Con Giambalvo che finisce in carcere proprio con l’accusa di essere organico all’associazione. Chissà cosa pensava a fine ottobre quando a Castelvetrano si teneva un consiglio comunale aperto contro la mafia, dove il presidente della Regione Rosario Crocetta diceva, provocando non pochi mugugni, che in Sicilia non c’è consiglio comunale che non abbia al suo interno esponenti della mafia. Pensava, magari, che non parlava di lui. Tra estorsioni, raid punitivi, e confidenze fatte ad altri politici, Giambalvo , però, viene intercettato diverse volte nel corso dell’ultimo anno. Viene accusato di estorsione e di aver imposto ad operatori commerciali della zona l’acquisto di bibite presso la propria azienda. Si sarebbe adoperato per sistemare gli appalti per il nuovo centro commerciale “A29”, a cui dovevano partecipare aziende vicine a Girolamo Bellomo, ambasciatore di Messina Denaro a Palermo. Ma non solo. I suoi colloqui, svelano tante altre cose.

1416855018-0-nell-eden-di-messina-denaro-lillo-giambalvo-il-consigliere-comunale-che-incontro-il-bossQuegli incontri emozionanti con Matteo e “don Ciccio” Messina Denaro.
“Abbracci e pianti”. Una scena che Raffaella Carrà non avrebbe saputo confezionare. Siamo tra il 2009 e il 2010, e nelle campagna di Castelvetrano, dalle parti di contrada Zangara, Lillo Giambalvo si sarebbe incontrato proprio con il super latitante Matteo Messina Denaro, il capo di Cosa nostra. La circostanza la racconta lo stesso Giambalvo a Francesco Martino, un altro politico. Martino è infatti consigliere comunale dell’Udc e ascolta con partecipazione i racconti del collega. Assieme rievocano i bei tempi che furono. I rapporti con i Messina Denaro, da quello che emerge dall’inchiesta, erano solidi da tempo. Da quando era in vita il vecchio don Ciccio Messina Denaro, padre di Matteo, morto nel 1998. In una conversazione intercettata dalle cimici dei Ros Giambalvo racconta dell’ultima volta che ha incontrato don Ciccio Messina Denaro: “portava il fazzoletto attaccato, gli faceva due scocche, sempre il fazzoletto portava lo zu Ciccio. Cappello, coppola e fazzoleto al collo. Io l’ho visto prima di morire. Ti pare dove era all’Africa? Qua dentro il paese era! Restando tra di noi, io lo vedevo tutte le settimane”. E racconta di un fatto accaduto pochi mesi prima che il vecchio boss di Castelvetrano morisse ancora latitante: “Un tre mesi prima di morire, io ci sono andato alla casa per scaricare tronconi.Mentre scaricavo tronconi, minchia c’era un profumo di caffè. Entra, ‘Lillo prentiti il caffè’, oh zu Cicciu assabenerica, minchia ci siamo abbracciati e baciati, io ogni volta che lo vedevo mi mettevo a piangere perchè… mi smuvia..” Poi aggiunge il consigliere comunale che in quell’occasione è dovuto scappare: “Lilluzzo ma tu sei cresciuto, tutta posto, mi faceva quattro domande, mi diceva quattro minchiate per dire ci prendiamo il caffè, allora tutto assieme mi sento dire così, senti qua, viene una delle sue figlia e mi dice: Lillo vattene escitene con questo trattore da qua dentro, stanno venendo a fare perquisizione, corri, scappa, vattene Lillo, vattene di corsa, minchia salgo sopra il trattore, esco con il trattore e con il rimorchio, loro di colpo chiudono il portone, minchia sono arrivati 1000 sbirri Ciccio… non l’hanno trovato! Ti giuro, che non devo vedere i miei figli, io ho fatto tutta la via, da Castelvetrano a Zangara a piangere mi sono detto lo hanno arrestato…”. Invece Ciccio Messina Denaro non è stato mai preso vivo, i suoi familiari lo hanno fatto trovare già pronto e vestito per il suo funerale dopo il decesso da latitante. Martino, che ha seguito il racconto quasi in silenzio, è rimasto rincuorato. I “mille sbirri” non hanno trovato il vecchio boss, e lui: “meno male!”. 
Giambalvo a Martino confida di aver incontrato tra il 2009 e il 2010 anche Matteo Messina Denaro“Ero a Zangara a caccia, loro raccoglievano olive, ho preso una lepre che era quattro chili e sei, e l’avevo nel tascapane nella giacca che mi usciva metà di qua e metà di qua, prendi, mentre camminavo, lui (Matteo Messina Denaro, ndr) andava da mio zio Enzo. Mio zio gli ha detto, se vuoi andare a sparare vai a sparare, mio nipote sopra l’ho sentito sparare può darsi che qualche coniglio lo ha preso dice, acchianaci, minchia lui sale a piede da solo come un folle, io non lo avevo riconosciuto a primo acchitto, era invecchiato, mi sono detto, ma questo perchè minchia mi cappina appresso, poi ho fatto che mi sono nascosto nella spalliera nelle filara e mi sono buttato sotto le zucche, minchia lui salendo a me andava cercando, lui perchè non mi ha visto più poi ma quando è arrivato mi ci sono alzato, abbiamo fatto mezz’ora di pianto tutti e due. Lillo come sei cresciuto? Lillo, e io mezz’ora di pianto, e mi voleva fottere la lepre con questa piangiuta, ma io gli ho detto ‘stiamo facendo mezz’ora di pianto e ti stai fottendo la lepre gli ho detto…”. Quello che Giambalvo ha raccontato all’amico è tutto da verificare, se effettivamene il consigliere comunale si è incontrato col boss. E anche se, come confida a Martino, ci ha pensato direttamente “diabolik” a dirimere una questione tra Giambalvo e un altro soggetto: “Ci fu un periodo che lui (Matteo Messinda Denaro, ndr) qua tutte le settimane lo vedevo pure, quando fu dell’ingrosso qua da me, non me l’ha sbrigata lui la matassa? Lui me l’ha sbrigata. Quando fu del mio ingrosso, loro sono andati a cercare “cristiani” io non sono andato a cercare nessuno solo a uno io sono andato a cercare. Sono andato alla “testa dell’acqua”…”. Giambalvo per Matteo farebbe di tutto: “Se io dovessi rischiare 30 anni di galera per nasconderlo rischierei! La verità ti dico! Ci fossero gli sbirri qua? E dovessi rischiare a mettermelo in macchina e fallo scappare io rischierei. Perche io ci tengo a queste cose”


“E’ finita la festa”

Eden 2 è il seguito dell’operazione scattata a Castelvetrano nel dicembre 2013, e che porto in carcere 30 persone fedelissime a Messina Denaro. Tra queste anche diversi parenti, tra cui la sorella del boss, Patrizia. L’indomani del blitz Giambalvo è molto dispiaciuto, entra in panico al solo pensiero che potessero arrestare Girolamo Bellomo, indicato, nell’operazione della scorsa settimana, al vertice del gruppo di fiancheggiatori della primula rossa e suo ambasciatore per le cose palermitane. Giambalvo, si sfoga con suo cognato, Daniele Notarnicola: “Minchia a Patrizia si sono portati? Minchia che cose tinte. Ma come si fa? Ma non se ne può più vero picciotti. Minchia non se ne può vero picciotti miei. Ti faccio vedere che hanno arrestato a Nino Amaro, il fratello di Aurelio. No Alfredo, Nino! Bada tutto a lui lì. Ti faccio vedere che si sono portati a Nino. Ti faccio vedere che si sono portati ad Aurelio, non ci credi tu? Minchia “nzama Dio” mi dispiace troppo assai. Già sto male per patrizi. Minchi ma come si fa, ma come si fa ma come dobbiamo fare? E’ finita la festa. Ma se buttana dell’inferno si fa veramente cose…speriamo u signuruzzu che non ci nuocciono…ma cme si fa, ma come si fa picciotti mei, minchia non si coglionia più picciotti non c’è niente da fare. Minchia ti faccio vedere che si sono portati a Santo Clemente a Luca (Bellomo, ndr) minchia… se si sono portati a Luca tutti consumati siamo, tutti consumati, la terza guerra mondiale succede. Se si sono portati a Luca”. Giambalvo con il suo interlocutore fa i nomi di alcune persone che saranno poi arrestate nel corso di Eden 2. Come i Cacioppo: “ci dovrebbero essere drocu in mezzo. Tu pensi che non li prendono in considerazione? Ma secondo quello che gli hanno fatto fare…”. A Giambalvo la notizia del blitz ha scioccato: “magari a me mi si è svuotato lo stomaco”. E ripete, sempre, “ma come dobbiamo fare?”.

Quell’infame di Cimarosa
E come dobbiamo fare con quel Lorenzo Cimarosa, membro della famiglia Messina Denro, che ha deciso di spifferare tutti i segreti della cosca di Castelvetrano? Non si dà pace Lillo Giambalvo a colloquio con il cognato: “Minchia se ti racconto l’ultima. Cimarosa collaboratore di giustizia! Lorenzo Cimarosa! Minchia!! E’ su internet cose tinti picciotti miei. Tu te lo immagini? Troppo tinta la parte è! Io non capisco più niente…boh…ha detto che in due mesi gli ha dato 60 mila euro a Patrizia per portarli a suo fratello…a tutti consuma chissu… la prima volt se l’è fatta bello sereno la galera e ora si scantà”. Giambalvo però l’avrebbe la soluzione: “si fussi iè Matteo appena iddu….accussì latitante iè ci ammazzassi un figghiu…e vediamo se continua a parlare…perchè come si fa? Minchia chiuddu di dintra! Ehh iddu docu…tutti possono parlare tranne lui!!” E Giambalvo sembra auspicare un intervento di cosa nostra: “se lo devono bloccare s’hanna smuovere”. Non sa di essere intercettato. E non sa che l’operazione Eden scatta anche con le confidenze fatte da Cimarosa.

La spedizione punitiva.
Lillo Giambalvo è uomo di sentimenti. Si mette a piangere con i Messina Denaro, gli si smuove lo stomaco venendo a conoscenza dell’ennesimo blitz antimafia nella sua città. Ma è anche persona di sostanza, di maniere forti. Perchè, quando c’è da recuperare l’oro rubato della madre di Matteo Messina Denaro a casa di Beppe Fontana, lui si mette subito a disposizione per la spedizione punitiva nei confronti del ladro. Alla spedizione punitiva chiesta da Fontana, come emerge dalle intercettazioni disposte dalla Dda, ha partecipato anche il consigliere comunale Giambalvo, che ai suoi amici spiegava un po’ i fatti: “ma io non ci credevo che campava picciotti, io che campava non ci credevo…e tannu ho buttato il maglione nuovo… e l’hanno lasciato morto al kartodromo, poi l’hanno salvato, ma gli ha fotttuto 60 mila euro d’oro, alla madre di Matteo… 60 mila euro d’oro, tutto, proprio da lei, l’oro pure della signora Lucia avevano preso”. Stavano parlando della madre del latitante e di Lucia Panicola, suocera di Patrizia Messina Denaro. E sulle condizioni di Massimo Angileri, il pregiudicato che aveva osato rubare l’oro della famiglia: “ancora in prognosi riservaga, l’hanno lasciato morto, una costola sana non gli è rimasta, le gambe rotte in tre parti e non sappiamo se rimane sulla sedia a rotelle, le praccia rotte, spalle cadute, testa spaccata…”.