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Così la ‘ndrangheta voleva gambizzare un magistrato. A Biella.

La ‘ndrangheta voleva gambizzare il magistrato Ernesto Napolillo perché durante un interrogatorio aveva alzato la mano come se volesse percuotere un indagato. È la confessione fatta dal pentito Cosimo Di Mauro, condannato a 8 anni e otto mesi in primo grado nel processo Alto Piemonte. Dopo la pena inflitta dal tribunale di Torino, l’uomo, considerato una figura di spicco dei clan a Biella, nello scorso settembre ha detto ai pm della procura guidata da Armando Spataro che collaborerà “perché sono stufo e voglio cambiare vita”.

E il retroscena, contenuto nei verbali di interrogatorio depositati sabato al processo d’appello, è una delle prime ricostruzioni fornite da Di Mauro. Il pentito ha raccontato che gli venne chiesto di sparare contro il pubblico ministero e che lui rifiutò di gambizzare Napolillo, all’epoca sostituto procuratore a Biella, messo sotto scorta alla fine del 2014 e dal 2016 in servizio ad Ancona.

Di Mauro ha riferito agli inquirenti del capoluogo piemontese che a chiedergli il “favore” fu Giuseppe F., soprannominato Peppone, insieme a un suo amico. “Il pm Napolillo – è a verbale – lo aveva interrogato e gli aveva fatto il gesto di menarlo. Questa cosa Giuseppe non l’ha sopportata e mi ha chiesto se fossi stato disponibile a gambizzare il magistrato. In cambio mi avrebbe dato i proventi della vendita dell’unico bene che possedevano lui e l’altro, una villetta a Massazza, in provincia di Biella, salvo trattenersi 50mila euro per loro”.

Secondo la ricostruzione di Di Mauro, l’uomo avrebbe detto: “Ci fate il favore e gambizzate il pm e vi diamo questa villetta”. Ma lui rispose “che a me insegnano che giudici e carabinieri non si toccano”. Un quarto personaggio presente alla conversazione, però, secondo Di Mauro “si dichiarò disponibile”.

(fonte)

Quei 170 arresti di ‘ndrangheta, medaglia al valore per i nostri uomini migliori al fronte


L’operazione “Stige” che ha portato all’arresto di 169 mafiosi è frutto anche (e soprattutto) di un’iniezione dei migliori uomini messi a disposizione della Procura di Catanzaro, come ha detto oggi Gratteri. “Avrebbero potuto ambire a città come Milano o Roma, e invece sono stati spediti al fronte”. E i risultati si vedono.
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La ‘ndrangheta e la lingua italiana: ex prof “arruolato” per riscrivere in bello stile le regole dei padrini

(Ottavia Giustetti per Repubblica racconta una storia che merita di essere letta)

Anche le ‘ndrine hanno una loro “accademia della Crusca”: impiegano personaggi acculturati per scrivere e custodire le regole di un rituale segretissimo, la “favella”, con l’obiettivo di affiliare fino alle più alte cariche dello Stato. Sono i cosiddetti “custodi delle regole” incaricati dalle potenti famiglie della ‘ndrangheta di mettere ordine e bella scrittura nei manuali con le “istruzioni” per battesimi e affiliazioni. Francesco Galdi,  laureato, ex insegnante, dice di essere un di loro. “I boss Carmine Chirillo e Franco Giampà mi incaricarono di scrivere le regole, ero uno dei pochi custodi, saremo in quattro o cinque, che dovevamo correggere formule e rituali perché erano state scritte in modo sgrammaticato”, ha raccontato il testimone d’eccezione oggi in aula a Torino, al processo d’appello Minotauro-bis.

Collaboratore di giustizia, arrivato dall’Emilia Romagna (ma originario di Figline Vegliaturo in provincia di Cosenza), Galdi dice di conoscere molto bene i meccanismi più segreti che governano le ‘ndrine della penisola. “Chirillo e Giampà erano interessati alla riscrittura perché Cirillo era considerato la persona più importante del luogo – ha raccontato – aveva su di sé 35 o 40 omicidi, solo una ventina dei quali contestati, mentre Giampà era a capo di una guerra di ‘ndrangheta che ha fatto oltre cento morti, era uno della cupola, degli incappucciati, colegato coi Bellocco di Rosarno: parliamo del gotha della ‘ndrangheta”. Per questo lo hanno ingaggiato.

Galdi, che ha una condanna definitiva per l’operazione “Overloading” della Dda di Catanzaro, si avvicinò al mondo degli stupefacenti quando capì che si poteva ottenere un prodotto similie alla cocaina senza principio attivo, con mannite, etere e altre sostanze psicoattive. Ma il suo punto di forza è stato conoscere i segreti della finanza – curava gli interessi della familia Chirillo di Paderno Calabro e per il clan Lanzino – e soprattutto la sintassi forbita. “Mi vennero insegnate regole, segni convenzionali di riconoscimento reciproco creati per rendere più difficile la captazione da parte delle forze dell’ordine” ha rivelato a luglio in interrogatorio davanti al pm Monica Abbatecola.

Per farsi riconoscere in carcere, ad esempio, si fa così: “Quando entri riconosci subito i calabresi e loro conoscono te. Ci sono frasi, battute convenzionali, anche segni come toccarsi il mento o sfiorarsi il pizzetto, è un modo per presentarsi come santista perché si ricordano Garibaldi e Mazzini che avevano la barba. Se chi sta davanti a me non reagisce non è affiliato, non è “fatto”. Se invece lo è e si sfiora a sua volta la barba si dichiara santista e “si riserva”, che significa che mi farà sapere oltre”.

La notizia a quel punto viene passata in carcere “e da quel momento ti arrivano tutte le informazioni utili”. Galdi ha ricostruito il ruolo del pentito Domenico Agresta, figlio di Saverio, il “boss bambino” che a soli vent’anni ha già la dote di padrino. “Saverio era affiliato – ha raccontato – aveva una dote altissima, o di stella polare o di templare. Io conosco solo fino alla stella”. Della società minore sono il “picciotto”, il “camorrista” e lo “sgarrista”. Della società maggiore: “santista, vangelo, trequartino, quartino e padrino”. Fino a qui si chiamano “fratelli di crociata”. “La crociata non è una dote ma un insieme, un tipo di classificazione che racchiude le doti della minore e della maggiore, a simbologia ci sono le croci con la lametta messa sotto il pollice”. Quindi inizia l’insieme della “stella polare” che racchiude la “stella”.  “Ci sono anche altre doti come cavalieri templari, infinito, la luce ci cui non conosco il rito – ha detto – cariche speciali per magistrati, avvocati e medici”.

Le formule di cui Galdi si è occupato “sono fogli volanti, regole scritte che vengono imparate a memoria: non posso escludere che esista un libro che li custodisca tutti, anche perché chi lo detiene dovrebbe sapere tutti i riti, cosa che comporta una dote altissima. Nel rituale del trequartino e del vangelo vengono inseriti nomi che quasi nessuno ripete. Del resto ci sono simbologie che sono state cambiate proprio a fronte delle collaborazioni con la giustizia, per rendere difficile la decifrazione dei segni da parte degli investigatori”.

Mantova: a Viadana (al Plaza Cafè) l’aperitivo lo serve la mafia

Stop al bar di piazzale Libertà. La bacchettata non arriva dal Comune di Viadana, che non ha ancora ultimato la pratica dello sfratto, ma dalla Prefettura di Mantova. Sulla società Plaza srls che gestisce il locale di proprietà dell’amministrazione comunale, palazzo di Bagno ha emesso l’interdittiva antimafia. La Prefettura ha firmato il documento dopo una riunione del tavolo interforze in cui sono state presentate dai carabinieri carte che raccontano i legami tra la società e personaggi legati alla ’ndrangheta. Legami tali da non poter essere ignorati. L’interdittiva, firmata l’ultimo giorno di luglio, è stata notificata questa settimana al Plaza, al Comune di Viadana, e mandata alla Procura di Mantova, alla Dda di Brescia, e a tutti gli enti previsti dalla legge.

I veleni cominciano a scorrere in piazzale della Libertà nel novembre 2014, quando il commissario prefettizio Isabella Alberti scioglie il contratto con l’Ati Coevit Stone Service per la mancata…

A questo punto pare logico aspettarsi che anche all’ultimo piano del palazzo di giustizia di via Poma ci sia un fascicolo aperto sulle vicende di piazzale Libertà. Una bastonata senza precedenti che va a mettere la parola fine alla melina tra l’amministrazione di Giovanni Cavatorta e la società, costituita con un capitale sociale di 100 euro, di cui sono titolari al 50% Nicola Mungo 41enne originario di Catanzaro residente a Boretto, e per la quota restante Luigi Avantaggiato, 42enne nato in Svizzera e domiciliato nel Leccese. Se Avantaggiato è un personaggio praticamente sconosciuto a Viadana, dove non lo si vede quasi mai, tutt’altra risonanza ha invece il nome di Mungo. Era infatti il gestore del bar MyMo di via Circonvallazione Fosse, punto di ritrovo abituale della comunità di calabresi che vive a Viadana. Il MyMo, per inciso, era di proprietà della società Magia srl, la cui sede legale, in via De Pioppi, coincide con l’abitazione della moglie di Francesco Riillo, fratello di Pasquale arrestato nell’ operazione Aemilia, ritenuto un affiliato della cosca degli Arena. Impossibile pensare a una coincidenza.

Riillo è solo il primo nome allarmante per gli inquirenti. Il secondo è quello di Michele Pugliese, eminenza grigia della famiglia sempre legata alla cosca Arena che a Viadana aveva trovato il suo Bengodi, prima del colpo inferto dalla Dda tre anni fa con il sequestro di tutti i beni, alcuni dei quali, appartamenti e garage, proprio a Viadana. Nicola Mungo è cugino di Salvatore Mungo, condannato in primo grado nell’operazione Zarina perché considerato il prestanome di Pugliese, e sua moglie è imparentata con i Giardino, altra famiglia di spicco della ’ndrangheta. Sul Plaza Cafè pesa un’altra ombra. A compilare le pratiche per l’avvio dell’attività del bar, nel 2014, è stato Luigi Serio, il geometra di origine cutrese ex dipendente della società del pentito Giuseppe Giglio finito in cella nell’ambito dell’inchiesta Aemilia. Evidentemente era già impegnato in altre attività, perché secondo i tecnici che hanno preso in mano la pratica dopo di lui, aveva sbagliato tutte le piante e le misurazioni, che altri geometri hanno dovuto rifare da capo dopo la bocciatura delle verifiche. Ora, in attesa di un prevedibile ricorso, la società Plaza srls dovrà lasciare, nei tempi, molto brevi previsti dalla legge, il bar di piazzale Libertà e non potrà più avere contatti con amministrazioni pubbliche.

(fonte)

‘Ndrangheta, la scalata dei rampolli (spennati) dei Tegano

(il solito bravissimo Lucio Musolino, qui)

A Reggio Calabria, ormai, li conoscono tutti come i “Teganini”. Sono le giovani leve del clan Tegano, ragazzi cresciuti con il mito dei genitori e degli zii, protagonisti della seconda guerra di mafia che, dal 1985 al 1991, ha lasciato a terra quasi mille morti ammazzati. Giovani rampolli, nati tra la prima e la seconda metà degli anni novanta, che quei padri possono vederli solamente in carcere, se non li hanno visti morire ammazzati nel periodo della mattanza.

Come Domenico Tegano, 25 anni ancora da compiere e un carisma “fuori dal comune che, nonostante la sua giovane età, – scrivono gli investigatori – gli garantisce il massimo rispetto sia da parte dei suoi fiancheggiatori, che dai soggetti estranei alla propria organizzazione”. Domenico, conosciuto con il diminutivo di “Mico”, è il primogenito di Pasquale Tegano. Quest’ultimo,  per gli inquirenti è un “elemento verticistico della cosca”: al momento è detenuto al 41 bis nel carcere “di Spoleto, a seguito della cattura avvenuta nel 2004 dopo anni di latitanza”.

LA RISSA DEI “TEGANINI” E IL PESTAGGIO DI DUE POLIZIOTTI

Scena della rissa

Assieme al cugino Giovanni (altro rampollo di 21 anni) e ad 11 coetanei, Mico Tegano ha ricevuto nei giorni scorsi un avviso diconclusione indagini per rissa e lesioniai danni di due poliziotti che, il 5 giugno 2016, sono stati pestati a sangue dal branco. Il tutto era avvenuto sotto le telecamere nel centro di Reggio dove i “teganini” non hanno esitato ad accerchiare i due poliziotti in borghese che avevano cercato di sedare la rissa scoppiata con un gruppo di coetanei di Rosarno, alcuni dei quali sospettati di essere vicini ai clan della Piana di Gioia Tauro. Il caos era scoppiato per un motivo banalissimo: un complimento che i rosarnesi avevano fatto ad una ragazza.

Durante l’aggressione è spuntato un coltello e, se non fossero intervenuti gli agenti, la rissa poteva avere un bilancio ben più grave. Risultato: entrambi i poliziotti hanno riportato un trauma cranico, fratture delle ossa nasali e trauma toracico. Un pestaggio del quale Mico Tegano si è vantato qualche giorno dopo con gli amici: “Quello biondo…sto cornuto… – sono le sue parole – è venuto a dirmi: sono della Polizia. Appena mi ha detto così: E a te chi cazzo… me ne fotto che sei della Questura. Ma vedi che gli ho tirato due calci in faccia fermo… ma sai come? fermo…a quello biondo… mancu li cani Signuri”.

La squadra Mobile aveva chiesto l’arresto ma il codice penale per questo tipo di reato non consente al sostituto procuratore Roberto Di Palma di procedere con la misura cautelare. Per la rissa saranno dunque processati a piede libero, ma nel fascicolo dell’indagine la squadra mobile, diretta da Francesco Rattà, è riuscita a ricostruire il gruppo di rampolli capeggiato da Mico e Giovanni Tegano. Sono loro che, almeno dal 2015, terrorizzano la movida reggina costringendo questore e comandante provinciale dei carabinieri a predisporre in estate controlli serrati nei locali vicini al lungomare.

IL TERRORE ABITA AD ARCHI

Una foto inserita nell’informativa
Gare tra baby mafiosi per chi prende la bottiglia di champagne più costosa ma anche selfie rigorosamente pubblicati su facebook (e poi finiti nelle carte degli inquirenti), risse, spaccio di cocaina e controllo quasi militare dei lidi. Intrecciando i verbali del pentito Mariolino Gennaro (che accusa Mico Tegano di aver piazzato una bomba in una delle sue sale giochi), le carte dell’inchiesta sulla rissa e quelle dell’operazione “Eracle” (che nei mesi scorsi ha portato all’arresto deibuttafuori della ‘ndrangheta) spunta anche una relazione di servizio della questura sulle “giovani leve dei Tegano” in cui si fa esplicito riferimento a “ungruppo malavitoso di 40 persone tutti facenti parte della zona di Archi i quali durante le serate organizzate del sabato sera entravano con violenza e forza aggredendo il personale ed in alcuni casi ferendolo gravemente, distruggendo quanto trovavano davanti ed asportando le casse coi relativi incassi”. La squadra mobile ha identificato tutti anche grazie alle fotografie che gli stessi indagati hanno postato su Facebook. E proprio nei giorni in cui la Procura ha notificato ai “teganini” l’avviso di conclusione indagini, ecco l’account di molti di loro è sparito dal social network: una curiosa coincidenza.

I BOSS AL 41 BIS: I GIOVANI SCALPITANO

Fin qui è quanto viene fuori dagli atti giudiziari. La realtà di quello che sta accadendo a Reggio Calabria, stando ad alcune indiscrezioni, è però ancora più complessa e per comprenderla occorre tenere sempre presente che nelle frizioni tra cosche di ‘ndrangheta i morti – quando ci sono – arrivano dopo. Intanto, le giovani leve delle cosche reggine si muovono apparentemente sul filo delle regole ma soprattutto all’interno di una strutturafluida” ed “evanescente” che consente a rampolli dei clan il tentativo di ritagliarsi uno spazio per poter ridiscutere gli accordi sulle estorsioni e recuperare la fetta di torta che da tempo qualcuno considera troppo piccola. Malumori che affondano le radici alla fine degli anni novanta e che ora sono pronti a riesplodere: negli anni, infatti, le numerose inchieste della Dda sul gothadella ‘ndrangheta hanno fatto finire in carcere i boss più esperti, capaci di tenere a bada le teste calde. L’unico libero, da appena un mese e mezzo, è Carmine De Stefano, figlio del boss don Paolino (ucciso nella guerra di mafia) e fratello del mammasantissima Peppe De Stefano.

Mico Tegano

ESTORSIONI, DANNEGGIAMENTI E GESTI DIMOSTRATIVI
Solo negli ultimi mesi le forze dell’ordine hanno registrato strane richieste di estorsione a storici “protetti” di altri clan, ma anche colpi di pistola nelle auto degli “amici” di Mico Tegano e gesti dimostrativi come quello avvenuto poche settimane fa nella storica gelateria “Sottozero” dove un ragazzo, armato di fucile, è entrato solo per sparare alle bottiglie sul bancone. Per non parlare dei vari arsenali che polizia e carabinieri scovano sparsi per Reggio dove la ‘ndrangheta ha la disponibilità anche di armi da guerra come i kalashnikov.

Il rischio è che dai “messaggi” tra clan si passi a episodi più seri.  La sensazione, tanto in Procura quanto negli ambienti investigativi, è che a fronte di una solida tenuta delle alleanze – caratteristica che sempre risolto sul nascere ogni divergenza tra cosche (anche ricorrendo a omicidi eccellenti) – c’è chi può avere interesse a mischiare le carte, fare confusione e approfittare di assenze importanti. A quel punto lo scontro tra famiglie mafiose un tempo alleate diventerebbe un rischio più che concreto.

Le fratture ci sono sempre state. In casa Tegano la ferita più fresca è la scomparsa nel 2008 del reggente Paolo Schimizzi. Una lupara bianca in piena regola, un omicidio che, secondo pentiti e inquirenti, è maturato all’interno della stessa famiglia perché il nipote del boss Giovanni Tegano stava iniziando a “contare” troppo. C’è chi all’interno del clan non ha gradito e la frattura si percepisce anche da alcune frasi pronunciate dal giovane rampollo Mico Tegano in risposta a chi gli faceva notare che “sono cazzi della sua famiglia”: “Non mi interessa, non mi interessa più un cazzo. Sono cazzi suoi compare! Mio papà ha detto: io non c’entro niente’”.

D’altronde Mico Tegano,insieme ad altri ragazzi (anche loro figli della ‘ndrangheta reggina) si è ritagliato un spazio importante nel business del gioco d’azzardo. Un business che coinvolge anche altre cosche e che consente al figlio del boss Pasquale Tegano di viaggiare ogni tanto nell’Est Europa dove c’è chi cura gli interessi degli “arcoti”.

Per quanto riguarda i De Stefano, invece, nell’inchiesta “Meta” è emerso che il casato di Archi “si è sempre posto all’esterno come un cartello criminale solido e unitario, pur mantenendo al suo interno due ceppi facenti capo a De Stefano Orazio da un lato e De Stefano Giuseppe dall’altro”. Zio e nipote che adesso sono in carcere insieme ai vertici della famiglia, Paolo Rosario e Giovanni De Stefano, e a luogotenenti come Vincenzino Zappia. La loro assenza, così come quella dei boss Tegano, evidentemente ha aperto la strada a giovani rampolli (e non) delle due famiglie mafiose tra cui ci sarebbero delle frizioni che ancora devono essere risolte.

“Avvocati, ingegneri e dirigenti: ecco come sono cambiati i figli dei boss”: un’intervista a Gratteri

(fonte)

Procuratore Gratteri, qual è lo stato di salute della ’ndrangheta al Nord?  

«Buona direi. In Piemonte è abbastanza diffusa, anche per motivi storici. Mi riferisco agli Anni Settanta, con una preminenza nel 1975. Sono gli anni in cui le inchieste della procura di Torino assestarono un colpo mortale al clan dei catanesi, provocando un vuoto criminale sul territorio. Vuoto subito colmato dalla ’ndrangheta che ha potuto espandersi e costruire i suoi “locali”, cioè le strutture criminali di base. Questo trend si è mantenuto inalterato».

 

Una presenza sfuggente?  

«La ’ndrangheta si manifesta in modi diversi. Certo prima sparava di più».

 

È più imprenditoriale.  

«Oggi le famiglie si dedicano di più agli affari, fanno investimenti. Comprano e vendono alberghi, ristoranti, negozi. Si dedicano al riciclaggio dei profitti del narcotraffico».

 

La droga resta il core business.  

«Sono i detentori della vendita all’ingrosso. Il dettaglio lo lasciano ai nigeriani e ad altri. La ’ndrangheta ha quasi il monopolio. Da decenni vende cocaina a Cosa Nostra e alla Camorra. Da sempre i grandi importatori di cocaina sono gli ‘ndranghetisti della zona ionica e della fascia tirrenica».

 

Perché questa specializzazione?  

«In quelle zone la ’ndrangheta, a partire dagli Anni Settanta e Ottanta, si era specializzata nei sequestri di persona. Molti avvenuti in Piemonte e in Lombardia. Con i soldi dei riscatti costruivano case e compravano belle auto. Il resto è finito investito in cocaina».

 

E poi si è sviluppato il business del mattone, con il boom dell’edilizia. L’altra faccia dei clan?  

«Nel mondo dell’edilizia le ’ndrine sono sempre state molto presenti: offrendo manodopera a basso costo, garantendo lo smaltimento dei rifiuti, rifornendo cemento depotenziato. Gli imprenditori del Nord che si sono adeguati, oggi non possono dire di non sapere o di non aver capito. Spiego: se per anni i tuoi fornitori ti offrono un materiale a 100 e i nuovi arrivati te lo danno a 60, c’è qualcosa che non va. È evidente».

 

Alla fine il gioco si fa pericoloso.  

«I nuovi “partner” in genere entrano in società con quote di minoranza, poi finiscono per comandare, per prendere in mano l’azienda».

 

Molte inchieste hanno svelato l’esistenza di rituali di affiliazione più o meno stravaganti. Tutto ciò non è un po’ ridicolo?  

«Tutt’altro. I rituali sono fondamentali. Sarebbe sciocco ritenerli arcaici e superati. Il rito è l’ortodossia, un punto di forza. Le regole sono l’elemento cardine che affascina tutti i sodali. Un collante che permette a tutti di rimanere avviluppati all’organizzazione. È il suo perpetuarsi. Sono le regole a renderla più forte rispetto ad altre strutture criminali».

 

In che senso?  

«La Camorra è sempre più simile al gangsterismo: agisce senza controllo. Non ha disciplina. La Camorra è la prima mafia sorta in Italia ma sarà la prima a finire perché al suo interno non c’è più rigore. Nella ’ndrangheta no: qui le regole sono forma e sostanza. I rituali consentono di entrare a farne parte, di scalarne le gerarchie, ottenendo quelle che in gergo si chiamano “doti superiori”. L’inosservanza delle regole fa scattare le sanzioni».

 

Di che genere?  

«Sono varie. Non è detto che sia sempre la morte. Basta arrivare in ritardo ad un appuntamento perché sia comminata una sanzione, per mancanza di rispetto. Si può essere degradati, esclusi dalle riunioni che contano, sospesi».

 

Sembra una giustizia efficiente.  

«C’è un solo grado di giudizio e le sentenze sono immediatamente esecutive».

 

Come si inseriscono le faide?  

«Sono fasi autodistruttive tra blocchi di famiglie. Sono violazioni. Le faide sono momenti di instabilità. Ecco perché le famiglie cercano di superarle con i matrimoni. Nel matrimonio si suggella la pace con il sangue dei giovani rampolli».

 

Suona come una cosa medievale, in realtà la ’ndrangheta guarda al futuro.  

«È un’organizzazione vivace, capace di costanti mutamenti. Si muove con il mutare della società, cammina con noi, non è un’entità estranea. Si nutre di consensi e sfrutta le nostre relazioni per esistere».

 

Qual è l’identikit delle giovani leve?  

«I figli di ’ndrangheta sono colti, laureati, fanno gli avvocati, i medici, gli ingegneri. Sono nella pubblica amministrazione. Ma rispondono sempre alle stesse regole. A quel metodo mafioso che non possono rinnegare».

 

Malgrado questa espansione radicale, si può ancora scardinare?  

«Ci proviamo con tutte le forze».

Tra Facebook e lo champagne: ecco la seconda generazione dei mafiosi su al Nord

(Un bel pezzo di Giuseppe Legato per La Stampa)

«Ci sono i ragazzi fuori, ma non bisogna bruciarli. Sennò la musica è finita». Il superstite della vecchia batteria criminale è in un bar dell’hinterland di Torino. Spiega ai presenti quali sono i nuovi equilibri delle cosche nel Nord Ovest: i «vecchi» sono in galera, ma i figli no. Sono loro oggi a guidare. Ma bisogna tenere il profilo basso, per non rovinarli. È uno dei segreti del perenne rigenerarsi delle ’ndrine: il ricambio familiare.

Dopo 9 processi in Piemonte dal 2006 ad oggi e 1.090 anni di carcere inflitti a boss e picciotti, la ‘ndrangheta non muore grazie – anche – a una struttura familiare che perpetua gli interregni di casati storici. È la seconda generazione «che si è ben calata nella realtà del Nord perché qui è nata» racconta il magistrato della Dda Monica Abbatecola. «Ciò non vuol dire – precisa – che le colpe dei padri ricadano sui figli, ma si tratta comunque di un dato processuale ormai acquisito».

E il blitz dell’altroieri nel Torinese è l’ennesima conferma. Tra gli undici arresti ci sono le giovani leve di vecchie famiglie «azzoppate» da inchieste del passato. Che cercano di farsi largo «nel vuoto lasciato dalla maxi operazione Minotauro (150 arresti nel 2011) – sostiene il colonnello Emanuele De Santis, comandante dei carabinieri di Torino – coniugando le vecchie regole della ‘ndrangheta arcaica con l’approccio moderno più vicino al contesto del Nord. È una dinamica che seguiamo con attenzione» spiega.

Ritornano i cognomi di Gioffrè e Ilacqua, due «brand» che evocano una stagione di droga e sangue. Stavolta sono i figli e i nipoti. E questo è già successo in una delle famiglie più potenti del Nord Italia: gli Agresta di Volpiano. I grandi – Saverio e Antonio – si sono fatti il carcere. Sui giovani ci sono già processi – non definiti in giudicato – che li dipingono come presunti eredi. «Vengono scelti i figli – spiega Marco Martino, capo della squadra Mobile di Torino – perché per vincolo familiare sono soggetti di massima fiducia».

Facebook e discoteche

E sono anche prudenti. Rigano dritto le nuove leve dei «calabresi» al Nord. Pare che parlino pochissimo al telefono, si incontrino solo all’aperto e ogni tre mesi – ma questo vale in generale – bonifichino le auto a caccia di microspie ambientali. Whatsapp e Signal sono gli unici canali di comunicazione.

Anche per questo le indagini si sono fatte più complesse di qualche anno fa. Ma ci sono. E registrano una calma apparente che è propria di un processo di riorganizzazione in cui – anche i ragazzi – aspettano i nuovi ordini dalla Calabria. Dopo le maxi operazioni Crimine (Reggio Calabria), Infinito (Milano) e Minotauro (Torino), attendono istruzioni su come muoversi, svela un investigatore.

Nel frattempo vestono Moncler, gestiscono palestre, hanno profili Facebook in cui ricordano i padri in galera con post inequivocabili: «Onore ai carcerati, peste agli infami». Di notte, frequentano le discoteche e si confondono tra i ragazzi «normali».

Lo faceva anche Luigi Crea, un giovane di 22 anni, figlio del capo dei capi di Torino, Adolfo. Una nuova leva. Da quando il padre fu recluso in carcere nel 2011, aveva preso le redini della famiglia rispettando gli ordini del genitore. Una delle sue ultime foto postate lo ritrae in un club della Torino da bere. Ha due bottiglie in mano e sorride. Un anno fa è finito in manette per mafia ed estorsioni. Si è bruciato.

E per evitare che ciò accada ci sono anche i consigli paterni. Anno 2009, carcere di Rebibbia. Nella sala colloqui un boss del Piemonte redarguisce il nipote allora diciottenne, oggi sorvegliato speciale: «Hai comprato una macchina costosa. Non dovevi farlo. Sono stato giovane anche io, ti pare che non capisco? I carabinieri a quest’ora hanno già scritto. Quelli vedono tutto». Un manuale di sociologia mafiosa.

Il passaggio di eredità

Dai processi emergono giovani assi criminali legati soprattutto a Platì: Agresta, Marando, Barbaro a Torino. Che sono poi primi cugini delle famiglie di Milano stanziali a Buccinasco e Corsico: Sergi e Papalia in testa. «Comandano ancora loro» si dice nei corridoi delle caserme accreditando una tesi di continuità generazionale che è stata ripercorsa a grandi linee da un giovane pentito, Domenico Agresta, 29 anni: «Noi siamo una sola famiglia – ha detto in aula al processo Caccia a Milano – siamo sempre gli stessi: a Platì, a Milano e a Torino». Un cognome, un destino.

Conservare il capitale

Ma da solo questo non basta per spiegare la continua rigenerazione delle famiglie e delle strutture. «Al netto del vincolo familiare c’è un capitale sociale, politico ed economico che rende la ‘ndrangheta difficile da sconfiggere nonostante le grandi inchieste fin qui fatte. Se non si abbattono quei legami politici ed economici non sarà possibile sconfiggerla soprattutto al Nord» spiega Rocco Sciarrone, docente di sociologia dell’Università di Torino. Quale sarebbe poi questo capitale sociale che i giovani devono mantenere vivo in assenza dei padri è noto dagli atti recenti di inchieste: la ‘ndrangheta si è infiltrata – secondo un’indagine della Dia – nella costruzione delle opere Olimpiche di Torino 2006 (Villaggio ex Moi, Palavela, Media Village), e mirava ai lavori preliminari della Tav. Tutto per riciclare milioni di euro del narcotraffico, il vero business dell’associazione che importa tonnellate di cocaina. I principali broker che riforniscono le famiglie e le piazze di Milano e Torino si chiamano Nicola e Patrick Assisi, oggi latitanti inseguiti dalla polizia di mezza Europa. E guarda caso sono padre e figlio, anche loro.

Settimo, Chivasso e Lini: la ‘ndrangheta piemontese che si bulla su facebook

Ne scrive La Stampa:

Antonio Guerra e a destra Francesco Gioffrè

C’è un triangolo di violenza tra i comuni di Settimo, Chivasso, e Leini, dove regnano violenze e intimidazioni. Contro commercianti, baristi, gestori di impianti di autolavaggio, gioiellieri. Colpi di pistola contro le serrande. Agguati e ferimenti. «Una ’ndrina con una fortissima carica di intimidazione» dicono gli investigatori, descrivendo gli effetti della violenza sui tre comuni della cintura torinese. Dove giocavano un ruolo centrale giovani rampolli di ’ndragheta che impugnano le pistole per affermare il controllo del territorio, o anche solo per divertimento, per «spaventare» per gioco qualche «pusher» clandestino. E che si facevano selfie in pose da boss sui profili Facebook.

L’altra faccia di questa «presenza criminale» è una paura che «smorza ogni collaborazione». Ed è per questo motivo che il sostituto procuratore Monica Abbatecola, nell’illustrare l’attività investigativa ha detto: «Non abbiate paura di denunciare: la magistratura e i carabinieri non vi lasciano soli». Un invito alle vittime di violenze ed estorsioni, a cogliere al volo l’occasione dell’ondata di arresti, per non rimanere in silenzio.

Nelle province di Torino, Varese, Reggio Calabria, Cosenza e Vercelli, i carabinieri di Chivasso, in collaborazione con i reparti competenti per territorio, hanno dato esecuzione a 11 ordinanze di custodia cautelare in carcere, emesse dal GIP di Torino, nei confronti di altrettante persone ritenute responsabili, a vario titolo, di associazione a delinquere di stampo mafioso, tentato omicidio, usura, estorsione, rapina, danneggiamento, incendio, detenzione illegale di armi e munizioni.Sequestrati beni immobili, società e attività commerciali, polizze vita, conti correnti, autovetture di grossa cilindrata, cassette di sicurezza, gioielli e orologi di lusso, e contanti.

In carcere sono finiti Domenico e Francesco Gioffrè, 31 e 34 anni, Antonio Guerra, 38 anni, Luciano, Francesco e Domenico Ilacqua, 29, 38 e 59 anni, Giovanni Mirai, classe 1976, Carmine Volpe del ’63, Salvatore Grosso, 39 anni, Salvatore Calò, 47 anni. Per Valentino Amantea, invece, sono scattati gli arresti domiciliari.

Quest’ultimo è accusato, come Volpe, di avere detenuto e portato un’arma in luogo pubblico, mentre a carico dei Gioffrè, Guerra, Mirai e degli Ilacqua, il GIP ha ritenuto la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza per il delitto di associazione mafiosa e di concorso, a vario titolo, nei delitti di tentato omicidio, lesioni aggravate, estorsioni aggravate anche dal metodo mafioso, detenzione e porto abusivo di armi. Si tratta di diversi molteplici reati accaduti a Chivasso, Settimo Torinese, Leini e zone limitrofe dal 2012 ad oggi.

In particolare, le indagini sono scattate nell’estate 2012 a seguito di gravissimi fatti accaduti a Chivasso tra giugno e agosto di quell’anno, come gli agguati e le sparatorie contro Giovanni Ponente (già coinvolto nel processo “MInotauro” per violazione della normativa sugli stupefacenti), Salvatore Di Maio (poi arrestato nell’ottobre di quell’anno per detenzione di armi nell’operazione “Colpo di coda”), Valentino Amantea, ferito e costretto su una sedia a rotelle.

Lo sviluppo delle indagini, condotte senza alcuna collaborazione delle persone ferite che sin dall’inizio si sono mostrate del tutto reticenti, ha evidenziato, con l’ausilio delle comparazioni balistiche, una serie di connessioni con altri reati, nei quali erano state utilizzate armi da fuoco per intimidire i negozianti di Chivasso, Settimo T.se e Leinì. Il GIP ha accolto anche le richieste di sequestro preventivo di alcune ditte, oltre che di beni mobili e immobili che, allo stato, non risultano compatibili ai redditi dichiarati. Tra le ditte figurano alcune carrozzerie ed autolavaggi riconducibili, anche attraverso intestazioni fittizie, agli arrestati.

Lamezia violenta: cibo gratis per i rampolli del clan e qualcuno che doveva essere arso vivo (scacco alla cosca Giampà)

Ne scrive Giuseppe Baglivo per Lacnews.24:

C’era chi doveva morire arso vivo e chi doveva consegnare carne e pesce ai rampolli dei clan a titolo estorsivo. Fra bombe ed intimidazioni di ogni genere, l’operazione“Filo rosso” della Dda di Catanzaro permette di assestare un nuovo colpo ai clan Giampà e Notarianni di Lamezia Terme, ricostruendo diversi episodi criminosi descritti in 33 capi di imputazione. Fatti delittuosi recentissimi che arrivano sino al 16 giugno scorso e svelano retroscena del tutto inediti

La minaccia a Vescio di arderlo vivo. E’ la notte del 27 maggio scorso quando una bomba piazzata dinanzi al cancello ed al citofono dell’abitazione di Saverio Giampà rende l’immobile in parte inservibile. L’ordigno esplosivo viene collocato male e causa danni anche all’auto di Michele Giampà. Per tale episodio sono accusati Gianluca Notarianni, 24 anni, Giuseppe Cappello, 33 anni, e Fabio Vescio, 20 anni. La bomba sarebbe stata collocata per risolvere conflittualità interne con Saverio Giampà, ma la risposta di quest’ultimo non si sarebbe fatta attendere. In concorso con Michael Mercuri, 28 anni, è accusato di aver provocato il 16 giugno scorso lesioni gravi a Fabio Vescio, tanto da provocargli l’insorgere di una malattia del corpo. Vescio sarebbe stato colpito ripetutamente con calci e pugni tanto da subire la tumefazione del volto curabile solo con il ricorso a farmaci specifici. Il pestaggio ha inoltre provocato a Vescio la rottura di un dente e difficoltà nella masticazione. Dulcis in fundo, Vescio sarebbe stato minacciato di finire bruciato vivo. Il tutto per soddisfare il desiderio di vendetta – in un’ottica tipicamente mafiosa – covato da Saverio Giampà per il danneggiamento alla propria abitazione.

I lavori al Palazzetto dello Sport e la tentata estorsione. Nel mirino dei clan, e nel caso specifico di Gianluca Notarianni, sarebbe finita anche la ditta Cofer srl, impegnata nella costruzione del nuovo Palazzetto dello Sport di Lamezia Terme in via del Progresso. Sul cantiere è stata prima fatta recapitare una bottiglia con benzina accompagnata da alcuni proiettili, poi è stata fatta espolodere una bomba. Nulla è però riuscito a piegare il titolare dell’impresa, Antonio Ferraro, il quale si è sempre rifiutato di pagare somme di denaro. Le contestazioni coprono in questo caso un arco temporale ricompreso fra il 12 novembre 2015 e il febbraio scorso.

Le estorsioni a pescheria e macelleria. Sarebbero stati Gianluca Notarianni e Giuseppe Cappello fra il novembre ed il dicembre 2016 a farsi consegnare un quantitativo imprecisato di pesce dall’attività commerciale “Pedro srl”. Minacce esplicite di atti ritorsivi contro la persona ed il patrimonio avrebbero consentito ai due lametini di prelevare la merce. Minaccia resa ancora più grave dall’appartenenza al clan Giampà.

Gianluca Notarianni, Michele Bentornato e Vescio Fabio si sarebbero invece fatti consegnare da un macellaio diversi quantitativi – non meglio specificati – di carne, mentre sempre a titolo estorsivo otto chili di carne sarebbero stati consegnati a Giuseppe Cappello.

Storie di ordinarie prepotenza criminale in una Lamezia Terme sempre più violenta ed assediata dai clan.


I dettagli dell’operazione:

Nelle prime ore della mattinata odierna personale della Polizia di Stato di Catanzaro e del Servizio Centrale Operativo di Roma, nell’ambito di una operazione denominata “Filo Rosso”, ha eseguito nove fermi di indiziato di delitto emessi dalla locale Procura della Repubblica a carico di: Gianluca Giovanni Notarianni, alias “Luca”, 24 anni, Saverio Giampà, 30 anni, Pasquale Notarianni, 31 anni, Luigi Leone, 33 anni, Giuseppe Cappello, alias “Cutulicchio”, 33 anni, Michele Bentornato, alias “U Grassu”, 32 anni, Fabio Vescio, 20 anni, Alessandra Folino,31 anni, Michael Mercuri, 28 anni.

 

I reati contestati. Gli indagati, tutti lametini, sono ritenuti colpevoli, a vario titolo, di associazione di stampo mafioso, di numerose estorsioni a carico di esercizi commerciali ed imprenditori operanti nella città di Lamezia Terme, di atti intimidatoriconsistiti nel posizionamento di bottiglie incendiarie nei pressi delle attività commerciali e danneggiamenti con l’utilizzo di ordigni esplosivi nonché di numerosi episodi di spaccio di sostanze stupefacenti di ogni genere.

 

Le attività investigative, condotte, con il concorso del Servizio Centrale Operativo, dalla Squadra Mobile di Catanzaro e dal Commissariato di Lamezia Terme, coordinate dalla Procura Distrettuale Antimafia di Catanzaro, nelle persone del Procuratore Aggiunto Giovanni Bombardieri e del pm Elio Romano, con la supervisione del Procuratore Capo Nicola Gratteri, hanno permesso di accertare che alcune persone, già colpiti da provvedimenti giudiziari che ne acclaravano la riferibilità alla cosca Giampà, tornati in libertà dopo l’espiazione delle condanne riportate a seguito delle operazioni di polizia “Medusa” e “Perseo” o all’atto dell’ammissione a misure cautelari alternative alla detenzione, si riattivavano con il fine di reimporre la loro influenza criminale nelle zone storicamente controllate dalla cosca di riferimento.

 

In particolare, Gianluca Giovanni Notarianni e Pasquale Notarianni (figli di Aldo Notarianni e Carmine Vincenzo Notarianni), coadiuvati da Saverio Giampà – uscito dal carcere per fine pena nell’ottobre 2016 – per quanto gli ultimi due fossero sottoposti rispettivamente agli arresti domiciliari e alla Sorveglianza Speciale con obbligo di firma e obbligo di soggiorno nel comune di residenza, non dimostravano alcuna remora nell’intraprendere nuovamente l’attività criminosa interrotta dalle menzionate operazioni di polizia.

Piccoli esercizi commerciali e grosse aziende (un macellaio, un bar, un ristorante, un supermercato), erano sottoposte ad ogni forma di vessazione estorsiva, dalle consegne forzose di merce di poco valore alla richiesta periodica di somme anche importanti in una logica di controllo serrato del territorio da parte del sodalizio.

L’intimidazione al nuovo palazzetto dello sport. E allo stesso modo si è accertata la responsabilità di alcuni degli odierni arrestati dapprima nella collocazione di una bottiglia incendiaria e poi nella collocazione ed esplosione di un ordigno artigianale, nei pressi del cancello d’ingresso del cantiere di costruzione del nuovo palazzetto dello sport di Via del Progresso, quartiere storicamente appannaggio della consorteria, con l’intento di costringere la ditta impegnata nei lavori a cedere alle richieste estorsive.

La rivalità con la cosca Torcasio. E’ poi emerso che l’attività delittuosa della cosca si svolgeva in sostanziale, anche se non aperta, contrapposizione a quella della cosca Torcasio, recentemente colpita da altro provvedimento della dda di Catanzaro e che, in occasione di un sequestro di armi a carico di esponenti di tale sodalizio, gli odierni arrestati entrarono in fibrillazione temendo che il fatto che i rivali ne avessero il possesso costituisse un pericolo, decidendo così di munirsene anch’essi.

I dissidi nel sodalizio. La comune avversione per i Torcasio non ha tuttavia evitato che all’interno del gruppo si manifestassero frizioni anche gravi. In particolare, solo pochi giorni fa, a distanza di venti giorni circa dall’esplosione di un ordigno che ha investito il cancello d’ingresso della abitazione di Saverio Giampà e parzialmente distrutto la sua autovettura, Fabio Vescio, personaggio legato a doppio filo ai Notarianni, è stato vittima di un feroce pestaggio ad opera dello stesso Giampà e di Michael Mercuri. Soccorso dai Notarianni, si è poi nascosto per non dar conto delle lesioni riportate. Da quella data si sono succedute, captate dai diversi servizi di intercettazione, tutta una serie di minacce gravissime nei confronti di Giampà e di Mercuri il quale ultimo, a sua volta, temendo di rimanere vittima di una imboscata, ha lasciato la città. Proprio il precipitare delle frizioni interne alla consorteria è alla base della adozione della misura del fermo.