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Preso: arrestato il latitante Vincenzo Macrì

Viveva tranquillo a Caracas grazie ad una falsa identità, ma quando si è presentato all’aeroporto internazionale di Guarulhos a San Paolo del Brasile, quei documenti non lo hanno salvato. Dopo anni di latitanza è finito in manette Vincenzo Macrì, uno dei principali broker della cocaina del clan Commisso, incaricato di tessere e gestire le rotte del narcotraffico tra Europa e America Latina per la ‘ndrangheta della zona jonica reggina.

L’uomo, che si presentava come l’italo-venezuelano Angelo Di Giacomo, è stato fermato dagli uomini della Policia Federal brasiliana e dell’Interpol, all’esito di un’indagine della Squadra Mobile di Reggio Calabria e dello Sco di Roma, coordinata dalla Dda guidata da Federico Cafiero de Raho. L’annuncio è stato dato dalla Policia Federal con un tweet e in mattinata confermata dagli inquirenti italiani. Macrì stava tentando di tornare a Caracas, che secondo gli investigatori è stata negli ultimi anni la sua base operative.

Nome noto nel mondo del traffico di droga, Macrì non è solo uno dei “logisti” della droga dei clan. Cinquantadue anni, di cui 13 passati in carcere negli Stati Uniti per traffico di stupefacenti, Vincenzo Macrì è il figlio di Antonio, il “boss dei due mondi” che per decenni ha governato sulla ‘ndrangheta tutta, prima di essere spodestato e ucciso dalla prima guerra fra clan. Considerato dai pentiti il “capo dei capi” con in mano “le ‘chiavi’ per entrare negli Usa, in Canada e in Australia’’, u “Zi Ntoni Macrì” è stato ucciso a 73 anni a colpi di mitra, mentre giocava a bocce, da un commando formato dagli esponenti dei clan più importanti del reggino. Ma quella tranquilla attività da anziano non dà il metro del regno criminale di Macrì.

Vero ideatore del cartello della droga Siderno Group, insieme ai boss di Cosa Nostra americana Frank Costello e Albert Anastacia, Antonio Macrì ha scritto di proprio pugno la storia del narcotraffico internazionale. E nonostante la morte violenta e le avverse fortune del suo clan, il figlio Vincenzo ha ereditato un ruolo di vertice nel settore. E non solo. Per anni residente fisso ad Aalsmeer (Olanda), insieme al cognato Vincenzo Crupi, arrestato circa un anno fa, Vincenzo Macrì ufficialmente lavorava solo nel commercio di fiori. In realtà, è da lì che per anni ha curato la spedizione e l’arrivo in Europa di innumerevoli container pieni di cocaina. Ma non solo. Dall’Europa, Macrì ha continuato a monitorare con attenzione gli equilibri criminali delle famiglie stabilmente residenti in Canada e direttamente collegate ai clan di Siderno, soprattutto in seguito all’omicidio del boss Carmine Verduci, assassinato a Woodbrige, in Ontario, il 25 aprile 2014. Una “responsabilità” ereditata dal padre ‘Ntoni e che Macrì divideva con esponenti di primo piano della ‘ndrangheta di Siderno, come Cosimo e Angelo Figliomeni, formalmente residenti in Canada ma di fatto latitanti, e Giuseppe e Antonio Coluccio, entrambi arrestati e finiti in carcere negli anni scorsi.

Quando anche per Crupi l’aria si è fatta “pesante” e il boss ha iniziato a sentire che gli investigatori gli stavano con il fiato sul collo, avrebbe trasferito la propria base oltreoceano. Nuovo continente, nuovo paese, nuova identità, ma medesimo settore di business. Secondo gli investigatori, da Caracas Macrì avrebbe continuato a coordinare acquisti, traffici e logistica non solo per il suo clan, ma per tutte le famiglie di ‘ndrangheta decise ad “investire” nel settore. Per gli investigatori infatti, era lui che insieme a Giuseppe Coluccio, Antonio Stefano, Nicola Tassone, Antonio Coluccio e Alfonso Condino decideva presso quali canali di approvvigionamento procurarsi la droga e le località in cui consegnare lo stupefacente, nonché le modalità di ripartizione degli utili.

(fonte)

‘Ndrangheta: intanto hanno arrestato Francesco Condello, figlio del boss Pasquale

(Ne scrive Lucio Musolino per Il Fatto Quotidiano)

L’uomo è accusato di associazione a delinquere finalizzata all’organizzazione di corse clandestine di cavalli e di un giro di scommesse. Ma anche di maltrattamenti dei cavalli e di esercizio abusivo della professione medica in quanto agli animali venivano somministrati farmaci per potenziare il rendimento

È finito in carcere anche Domenico Francesco Condello, detto “Franceschino”  al quale domenica 30 aprile all’alba i carabinieri hanno notificato l’ordinanza dicustodia cautelare emessa su richiesta della Direzione distrettuale antimafiadi Reggio Calabria. È il figlio del boss Pasquale Condello, alias il “Supremo”,  il più grande ex latitante calabrese catturato dai Ros nel 2008 dopo oltre 20 anni alla macchia.

Con lui e con altri tre arrestati, i giudici per le indagini preliminari Domenico Santoro, Karin CatalanoMassimo Minniti hanno chiuso il cerchio dell’inchiesta Eracle convalidando anche i 15 fermi eseguiti nei giorni scorsi da carabinieri e polizia che hanno fatto luce su come la ‘ndrangheta gestisce un vastotraffico di sostanze stupefacenti nella città di Reggio Calabria, il servizio di buttafuori nei lidi sul lungomare e ha affidato il controllo del quartiere di Arghillà alla comunità rom.

Francesco Condello è accusato di associazione a delinquere finalizzata all’organizzazione di corse clandestine di cavalli e di un giro di scommesse. Ma anche di maltrattamenti dei cavalli e di esercizio abusivo della professione medica in quanto agli animali venivano somministrati farmaci per potenziare il rendimento.

Secondo il gip Santoro, le condotte di Franceschino Condello “sono espressione di una particolare pervicacia, connotate da modalità di consumazione che rivelano quale unico interesse quello economico, in totale spregio per la salute degli animali”. In un’occasione, il figlio del boss ha scoperto e distrutto una telecamera nascosta dai carabinieri nei pressi del luogo dove venivano fatti correre i cavalli. “Finanche l’eliminazione di mezzi investigativi, come la telecamera da lui fatta eliminare, – scrive sempre il gip – denota, peraltro, la negativa personalità dell’indagato e la sua contiguità a contesti di criminalità organizzata”.

Oltre a Condello e agli altri indagati già in carcere, sono stati arrestati Domenico Stillittano (che dal carcere impartiva disposizioni agli uomini del suo clan), Fortunato Caracciolo (uno dei soggetti che si occupava assieme a Domenico Nucera del servizio di security nei locali della movida reggina). Entrambi sono accusati di associazione mafiosa. Giovanni Magazzù, infine, è finito in carcere pertraffico di droga in quanto, secondo i pm della Dda, ha avuto un ruolo di primo piano nell’attività di spaccio della cocaina.

Buccinasco: arrestato il genero (latitante) di Papalia

Ne scrive Cesare Giuzzi per il Corriere della Sera:

Nella mafia si dice che non ci sia rifugio più sicuro che casa propria. E in effetti anche Giuseppe Grillo non era andato molto lontano. E non solo perché dalla sua casa di via Cadorna a Buccinasco al covo di via Mascagni 7, c’è poco più di un chilometro in linea d’aria. Ma perché quell’appartamento al quarto piano era stato, qualche anno prima, l’indirizzo di residenza di suo cognato, Domenico Papalia. La casa era vuota in attesa di essere venduta all’asta. Dentro solo pochi mobili: tavolo, sedie, un letto e un comodino. Sopra la copia del libro «L’invisibile» di Giacomo Di Girolamo sulla vita di Matteo Messina Denaro, l’uomo più ricercato d’Italia.

Giuseppe Grillo non è un mafioso. È nato a Locri, in provincia di Reggio Calabria, ma la sua famiglia è originaria di Platì, feudo delle cosche d’Aspromonte, regno dei Barbaro, dei Perre, dei Trimboli, degli Agresta, dei Musitano. Nel pedigree criminale di Grillo ci sono molte note e tutte di poco conto se si esclude la condanna, appunto, a 7 anni e 4 mesi rimediata in un’inchiesta antidroga dei carabinieri di Corsico che risale a dieci anni fa. La condanna è diventata definitiva a febbraio, con il rigetto da parte della Cassazione del suo ricorso, e di quello di altri trafficanti. Era da questa condanna che scappava da quasi tre mesi.

Ma la sua non è la storia di un semplice spacciatore di cocaina. Più dei precedenti (anche un’accusa di tentato furto) — secondo la polizia — conta il suo stato di famiglia. Perché dopo essersi trasferito a Buccinasco Giuseppe Grillo ha sposato Serafina Papalia, la figlia di Antonio, il boss dei sequestri degli anni Novanta. E Antonio, 63 anni, oggi all’ergastolo nel carcere di Padova dove scrive libri e viene premiato per le sue raccolte di poesie, insieme ai fratelli Domenico e Rocco è considerato uno dei padrini più importanti arrivati negli anni Settanta in Lombardia. E la famiglia Papalia è legata in modo indissolubile a tutti i rami della cosca dei Barbaro di Platì, dai nigri, ai rosi, ai potentissimi castani. E oggi condiziona anche i nuovi assetti delle cosche calabresi visto che il maggiore dei figli di Antonio, il 38enne Pasquale, ha sposato Giuseppina Pelle, la figlia di Peppe Pelle, a sua volta discendente del boss Toni Gambazza di San Luca. Il gotha della ‘ndrangheta della droga e dei sequestri riunito in una sola famiglia.

Che i matrimoni nella ‘ndrangheta siano strumento per alleanze criminali più che il coronamento di storie d’amore, lo sostengono molti investigatori e studiosi. Su tutti il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri. Che lo stesso valga nelle aule giudiziarie, invece, è ancora tutto da stabilire visto che proprio il processo Cerberus che vede alla sbarra i nuovi assetti dei Barbaro-Papalia è appena ricominciato (per la terza volta) in giudizio d’appello dopo il doppio rinvio della Cassazione. Perché per i giudici non basta un certificato di matrimonio a stabilire un patto tra clan o la presunta appartenenza alla ‘ndrangheta.

Per questo è impossibile sostenere che anche quello di Serafina Papalia e Giuseppe Grillo sia stato un matrimonio d’interesse. Ma sposare la figlia di un boss ergastolano come ’Ntoni Carciutu, il soprannome di Papalia, garantisce nell’ambiente criminale una sorta di aura di onnipotenza. E allora oggi a leggere i verbali dell’arresto di Grillo qualcuno potrebbe sorridere immaginando la scena di una latitanza quasi improvvisata, con la moglie pedinata mentre porta panni e spesa al marito chiuso in casa e i poliziotti della squadra Mobile nel parco che passeggiano con il cane fingendosi vicini di casa. Perché è stato davvero così, seguendo i movimenti di Serafina Papalia, che gli investigatori guidati da Lorenzo Bucossi sono arrivati a scoprire il covo del latitante e — mercoledì sera — a mettergli le manette. Lui ha detto che si sarebbe consegnato, che attendeva solo la prima comunione della figlia da qui a pochi giorni per presentarsi ai carabinieri. Tanto che ha mostrato la valigia già pronta accanto al letto. Ma le cose non sono andate proprio in maniera così artigianale. Anzi. E per gli agenti Giuseppe Grillo era pronto invece a fuggire. A cambiare covo o forse a cercare riparo nella sulle montagne di Platì, in attesa di tempi migliori. La sola certezza è che Grillo non s’è mai mosso da Buccinasco in questi tre mesi e che si sentiva sufficientemente sicuro. Almeno fino a mercoledì quando a Grillo sarebbe arrivata la soffiata che gli annunciava che sarebbero arrivate le guardie.

I poliziotti hanno seguito la moglie lungo la passeggiata Rossini, un percorso pedonale attraverso il verde che porta al complesso di via Mascagni. Poi sono riusciti a entrare nel palazzo attraverso i box e infine si sono appostati alla porta. Grillo ha cercato di rubare preziosi secondi prima di aprire la porta blindata che gli sono serviti per lanciare dal quarto piano il telefonino (un Nokia di vecchio tipo) con il quale effettuava chiamate brevissime e che accendeva solo pochi minuti al giorno. Il telefono però — a conferma della proverbiale fama dei vecchi cellulari — è rimasto intatto. E ora potrebbe svelare molti segreti sulla rete che lo ha protetto.

A Serafina Papalia gli investigatori erano arrivati durante un’indagine dell’Antirapine, il suo cellulare era in contatto con alcuni personaggi e intercettandolo i poliziotti hanno capito che era lei a fare da «vivandiera» al marito. E lo faceva stando attenda a parcheggiare lontano da via Mascagni e a raggiungere il covo solo a piedi. Lei e il marito fino allo scorso ottobre avevano gestito il bar Ritual di piazzetta San Biagio a Buccinasco. Contro l’apertura del locale si era subito schierato il Comune, poi i carabinieri della stazione di Buccinasco, guidati dal maresciallo Vincenzo Vullo, ne avevano ottenuto la chiusura dalla Prefettura. Il motivo? Ovviamente i legami con il clan di famiglia. Ora il locale, dopo una lunga chiusura, ha cambiato gestione.

‘Ndrangheta, si pente Nicola Femia, il boss delle slot in Emilia

Ne scrive Andreina Baccaro per il Corriere:

Il boss Nicola Femia ha affidato ai magistrati dell’Antimafia di Bologna le sue confessioni sugli affari della ‘ndrangheta in Emilia-Romagna e non solo. Il padrino del processo Black Monkey, che ha sgominato un enorme giro di slot machine truccate tra Bologna e la Romagna, ha intrapreso la strada della collaborazione con la giustizia e lo ha fatto consegnando al pm della Dda bolognese Francesco Caleca quello che sa sui traffici illeciti della ‘ndrangheta, di cui lui è stato personaggio di spicco, con affari dal traffico di droga al gioco d’azzardo.

Per questo le sue rivelazioni, iniziate qualche mese fa, potrebbero far tremare i polsi a imprenditori e politici dall’Emilia- Romagna alla Calabria: Femia sa e conosce molto bene come girano i soldi in molte realtà. Sia per lui che per i suoi familiari sono già scattate le misure di protezione per i collaboratori di giustizia. È iniziato tutto poco prima della sentenza di condanna a 26 anni di reclusione nel processo Black Monkey, pronunciata a febbraio dal Tribunale di Bologna.

In quei giorni, Femia ha maturato la scelta di pentirsi e ha chiesto di poter parlare in carcere con il pm Caleca, che in quel processo ha sostenuto l’accusa, dopo un’indagine complessa che ha incontrato anche ostacoli sul suo cammino, a partire dal reato di associazione mafiosa in un primo momento escluso dal Riesame, ma poi riconosciuto dai giudici di primo grado. A quel primo traguardo per la Dda di Bologna, si aggiungono ora le rivelazioni del boss, che potrebbero aprire altri filoni d’indagine. «Femia ha fatto indicazioni utili — spiega il procuratore Giuseppe Amato — sia a noi che ad altre Procure. Abbiamo inviato a Catanzaro e alla Direzione nazionale Antimafia a Roma i verbali che possono aiutare a far luce su vicende di competenza di quegli uffici».

Contemporaneamente la Dda bolognese sta passando al setaccio le rivelazioni che riguardano l’Emilia-Romagna: dopo le inchieste Black Monkey ed Aemilia, che hanno squarciato il velo su una realtà politicoeconomica che si era sempre considerata immune alle infiltrazioni, presto la Dda potrebbe svelare nuovi affari milionari della mafia in regione. Femia, che a 56 anni ha sul groppone oltre alla condanna per Black Monkey un’altra per traffico di droga a 23 anni e altri processi in Calabria, sa che è destinato a trascorrere il resto della sua vita in prigione.

Il blitz del Gico della Guardia di Finanza di Bologna scattò nel 2013 per lui e altre 29 persone, tra cui i figli e il genero: furono sequestrate 1.500 slot machine truccate che avevano permesso all’associazione di macinare profitti milionari. Nelle carte di quell’inchiesta ci sono le intercettazioni delle telefonate in cui il boss minacciava il giornalista Giovanni Tizian, che per primo parlò degli affari del boss. Adesso è lui stesso a parlare dei suoi affari con i magistrati, ma prima di guadagnarsi la fiducia dei giudici dovrà fornire indicazioni utili e circostanziate.

‘Ndrangheta: arrestato il latitante Facchineri, tradito dall’irrefrenabile “pisellino”

L’operazione «Alcova» è stata così denominata in quanto trae origine dal luogo dove è stato catturato Giuseppe Facchineri, classe 1970, personaggio di spicco dell’omonima cosca di ‘ndrangheta operante a Cittanova (RC), gravato da numerosi precedenti di polizia per associazione di tipo mafioso, omicidio, strage, rapina, porto abusivo di armi, violenza e minaccia a Pubblico Ufficiale, furto aggravato, ricettazione, già sorvegliato speciale.

Le vicissitudini giudiziarie più recenti di Facchineri Giuseppe risalgono al 2014, allorquando era stato tratto in arresto unitamente alla madre Facchineri Caterina classe 1943 e al fratello Facchineri Salvatore classe 1974, in esecuzione di un’Ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Tribunale di Palmi per estorsione e rapina in concorso aggravate.

Le indagini, inizialmente coordinate dalla Procura della Repubblica di Palmi e successivamente proseguite dalla Direzione Distrettuale Antimafia, con il coordinamento del Procuratore Federico Cafiero De Raho, erano state avviate a seguito di una perquisizione di iniziativa effettuata nell’abitazione di un residente del luogo.

In quella circostanza i militari avevano rinvenuto un’agenda e alcuni documenti contabili riferiti a rapporti economici non meglio precisati con componenti della famiglia Facchineri.

Tale materiale era infatti apparso subito molto sospetto, soprattutto in ragione del fatto che l’interessato non era stato in grado di fornire alcuna plausibile spiegazione in merito al contenuto e alla natura del rapporti in questione.

Infatti, solo le investigazioni che ne sono conseguite hanno permesso di riscontrare che alla base vi erano delle richieste estorsive, derivanti dalla vendita di dieci bovini (per un importo di 10.000 euro) risalente al 2009 tra Facchineri Caterina e la vittima: quest’ultima, pur avendo regolarmente pagato a suo tempo la cifra pattuita, era poi stata comunque oggetto di continue richieste di danaro, avanzate a titolo di pretesi interessi sul pagamento del bestiame acquistato.

Pertanto, dopo alcuni mesi in carcere, Facchineri Giuseppe era stato ammesso a beneficiare degli arresti domiciliari presso l’abitazione di alcuni familiari in provincia di Arezzo.

Tuttavia, non appena ha avuto inizio il processo in cui era imputato per le citate vicende, le varie testimonianze che si sono susseguite ne hanno evidenziato una posizione sempre più grave, che lasciava presagire ad un’elevata probabilità di riportare una pesante condanna.

Difatti, proprio nel corso dell’udienza del processo celebrata il 16 gennaio 2016, Facchineri aveva addirittura inveito e minacciato di morte la persona offesa.

A quel punto, i reati di cui era già chiamato a rispondere, uniti alla condotta assunta nel corso del processo e alla pericolosità evidenziata, avevano così determinato il ripristino della custodia cautelare in carcere, che però era rimasta ineseguita in quanto Facchinieri non aveva più fatto rientro presso l’abitazione dove scontava gli arresti domiciliari.

Da quel momento sono iniziate le indagini dei Carabinieri della Compagnia di Taurianova, che dopo quasi un anno e mezzo di attività incessanti sono così riusciti a risalire al covo ove il latitante Facchineri continuava ad incontrarsi periodicamente con la moglie.

Infatti, proprio la necessità e il desiderio di continuare a mantenere comunque il contatto con la donna cui era più legato, gli sono stati fatali: alle ore 03.45 circa di questa notte, è stato tratto in arresto al termine di un blitz portato a termine dai Carabinieri di Taurianova, con l’ausilio dei militari dello Squadrone Eliportato Cacciatori e dell’8° Nucleo Elicotteri CC di Vibo Valentia.

(fonte)

Cosa c’entra la ‘ndrangheta con le scuole abusive

Amministratori e dipendenti pubblici giudicati collusi, imprenditori ritenuti compiacenti ed una cosca di ‘ndrangheta interessata agli appalti pubblici ed in gradi di infiltrarsi nella pubblica amministrazione fino a cedere in vendita o in locazione due immobili totalmente abusivi destinati ad ospitare l’istituto d’Arte e dell’Ipsia di Locri. E’ un’inchiesta dai risvolti clamorosi quella che è stata condotta dal Gruppo carabinieri di Locri sotto il coordinamento della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria e che ha portato all’alba di oggi all’esecuzione di quindici provvedimenti restrittivi che, oltre a Locri, hanno anche interessato Roma.

Indagati “eccellenti”. Tra i destinatari dei provvedimenti di custodia cautelare emessi dal gip del Tribunale di Reggio Calabria figura anche l’avvocato Luca Maio, 45 anni, già consigliere provinciale. Per lui il giudice ha disposto gli arresti domiciliari ed un sequestro di oltre 900 mila euro. Non è il solo professionista coinvolto nell’inchiesta. Con lui risultano indagati architetti, geometri ed ingegneri. Spicca anche il nome Salvatore Calabrese, 85 anni, padre dell’attuale sindaco di Locri che non risulta coinvolto nella vicenda. Per l’85enne la Dda ha chiesto ed ottenuto l’obbligo di firma. Dei 15 indagati, uno è stato posto in custodia cautelare in carcere, 4 agli arresti domiciliari e 10 colpiti congiuntamente dalle misure dell’obbligo di dimora e dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. Tutti sono ritenuti responsabili, a vario titolo, di concorso nei reati di truffa aggravata e continuata, abuso d’ufficio e frode nelle pubbliche forniture, delitti tutti aggravati dalla circostanza dell’agevolazione mafiosa della ‘ndrina Cordì, operante a Locri e territori limitrofi. Numerose le perquisizioni personali e domiciliari nei confronti degli stessi indagati.

I contrasti tra i clan. L’operazione – hanno spiegato gli inquirenti – è stata denominata “Euro-Scuola” proprio perché ha visto concentrarsi l’impegno investigativo dei militari dell’Arma sugli appalti di svariati milioni di euro per la costruzione di un immobile totalmente abusivo, di circa 5.000 metri quadrati, sede dell’Istituto Statale d’Arte “Panetta”, e per l’individuazione di un immobile da acquisire in locazione e da destinare a sede dell’Ipsia, sempre a Locri. Secondo l’accusa si è trattato di operazioni concluse per favorire personaggi legati ai Cordì, una delle cosca protagoniste tra il 1969 e 2005 di una sanguinosa faida ultratrentennale contro i rivali Cataldo per la supremazia nel territorio. Poi la pace siglata tra il 2008 ed il 2010. Un accordo fra i due gruppi finalizzato alla spartizione delle attività illecite e ad al controllo della pubblica amministrazione. Dalle indagini sarebbe emerso come proprio i contrasti generati dai forti interessi delle due consorterie nell’affare dell’edilizia scolastica avessero rappresentato, tra la fine del 2004 e l’inizio del 2005, una delle scintille che aveva fatto riaccendere la guerra di mafia a Locri con l’uccisione di Giuseppe Cataldo.

Le parole dei pentiti. Nell’ordinanza di custodia cautelare sono richiamate numerose intercettazioni, dichiarazioni di collaboratori di giustizia, riscontri di polizia giudiziaria, ordinanze di custodia cautelare, sentenze di primo e secondo grado da cui emerge la capacita’ delle due cosche di insinuarsi e di controllare l’imprenditoria locale anche nel caso di appalti e lavori banditi dalla pubblica amministrazione. Le dichiarazioni di due pentiti, Domenico Oppedisano e Domenico Novella, in particolare, hanno evidenziato l’interessamento delle ‘ndrine di Locri riguardo allo allo svolgimento di lavori pubblici tra cui quelli che hanno portato al sequestro delle scuole.

Le scuole abusive. Lungo l’elenco delle violazioni commesse per la costruzione e l’acquisizione delle due strutture destinate ad ospitare i ragazzi: dalla violazione delle indicazioni del piano regolatore e delle norme tecniche di attuazione del Comune di Locri alla conseguente assenza di concessioni per la costruzione ed all’irregolarità del certificato di collaudo fino all’assenza dei certificati di prevenzione incendi, obbligatori per le scuole di ogni ordine e grado con oltre 100 persone.
Naturalmente, chi ha gestito i progetti si è curato anche di eludere la normativa antimafia, per esempio omettendo la comunicazione alla Provincia di Reggio Calabria di atti con i quali Antonio Circosta, socio accomandatario, comunicava la modifica della compagine sociale, rappresentando falsamente la fuoriuscita dalla sua società di alcuni soci oggi indagati indagati: Antonio, Rocco, Cosimina e Lucia Maiorana, che di fatto, invece, rimanevano comunque soci della società. Secondo gli inquirenti l’obiettivo era quello di consentire a persone vicine ai Cordì di percepire indebitamente, in relazione alla locazione degli immobili da parte della Provincia di Reggio Calabria, un canone di locazione assolutamente incongruo. Frode che si sarebbe ripetuta nell’esecuzione dei contratti di locazione e compravendita dell’immobile adibito a Scuola d’Arte, stipulato con la Provincia di Reggio Calabria, con “l’aggravante – scrivono gli inquirenti – di aver commesso il fatto con modalita’ mafiose – in relazione alle indebite pressioni esercitate con modalità mafiose sull’architetto Tallarida, già responsabile dell’Ufficio Tecnico del Comune di Locri, in vista della concessione dei permessi e delle certificazioni necessari alla costruzione dell’immobile”. Tutto avveniva sotto la “regia” di Pietro Circosta e dell’avvocato Luca Maio. Quest’ultimo, nella sua qualità di consigliere della Provincia di Reggio Calabria, si sarebbe interessato agli iter amministrativi relativi agli immobili in questione.

(fonte: zoom24)

‘Ndrangheta: il comune di Lavagna sciolto per mafia

(Ne scrive Chiara Pracchi. A Lavagna, proprio lì, ne avevamo parlato, in piazza, mentre qualcuno come sempre ci bollava come “allarmisti”)

Lavagna, atto terzo. Così potrebbe essere definita la decisione del Consiglio dei ministri di sciogliere per mafia il comune del Levante ligure, in provincia di Genova, dopo che nel giugno scorso l’operazione “Conti di Lavagna” impose ai domiciliari l’allora sindaco Giuseppe Sanguineti, l’ex parlamentare Gabriella Mondello e l’ex consigliere comunale Massimo Talerico, oltre a portare in carcere 8 presunti affiliati della ‘ndrina Rodà- Casile di Condofuri, in Calabria. Al centro delle accuse, la gestione dei rifiuti in mano alla famiglia mafiosa e lo scambio elettorale.

Il terremoto politico portò subito al commissariamento del comune, che lo scorso 15 marzo ha visto il secondo atto dell’inchiesta, con altre 4 misure cautelari , questa volta per usura, estorsione e traffico di sostanze stupefacenti.

Nella conclusione delle indagini, depositate il 17 marzo scorso, il pm Alberto Lari contesta il reato di associazione mafiosa per i fratelli Paolo, Antonio e Francesco Nocera, i fratelli Francescantonio e Antonio Rodà e per Paolo Paltrinieri, accusati di far parte della locale di Lavagna, capeggiata dallo stesso Paolo Nucera.

Articolo 7, ovvero aggravante mafiosa, per i politici coinvolti nell’inchiesta. Secondo l’accusa la Mondello (storico sindaco di Lavagna ed ex parlamentare), i fratelli Nucera e altri avrebbero procurato 500 voti alla lista dell’ex sindaco Sanguineti in cambio della delega al demanio al loro eletto di riferimentoMassimo Talerico. Alla proroga dell’appalto per la raccolta rifiuti solidi urbani, della gestione Eco-centro, della locazione della stazione di trasbordo rifiuti e del trasporto affidato alla autotrasporti Nucera.

Inoltre, si legge nella conclusione delle indagini, l’ex sindaco Sanguineti, in concorso con l’allora vice sindaco Luigi Barbieri “omettevano di assumere i provvedimenti amministrativi di loro competenza per interrompere le gravi irregolarità riscontrate”. Ed ancora il sindaco Sanguineti, in occasione dell’alluvione che colpì Lavagna nel novembre del 2014, “in esecuzione di un medesimo disegno criminoso intenzionalmente procurava alla ditta di Autotrasporti Nucera snd un ingiusto vantaggio patrimoniale, avendo affidato in maniera diretta il trasporto di rifiuti”. Dall’indagine, durata oltre due anni, accanto alla mafia imprenditoriale emerge anche quella criminale fatta di droga, usura, intimidazioni e armi, rapporti con gli altri affiliati e con la “casa madre”, aiuti ai detenuti e ospitalità ai latitanti.

(fonte)

‘Ndrangheta a Montreal: ritrovato il corpo di Nicola Di Marco

E sono cinque. Cinque come gli omicidi di mafia a Montreal nel corso di quest’anno, prolungamento della guerra che oppone da decenni i clan italiani. Il 18 marzo è stato rinvenuto il cadavere di Nicola Di Marco, 44 anni, noto anche come Big Nick. Lo hanno assassinato a colpi di pistola, poi sono fuggiti. Una fine attesa, visto che l’uomo era da tempo nel mirino. La stessa polizia canadese, già un anno fa, aveva espresso timori per la sua sicurezza.

Di Marco, fisico possente e grandi ambizioni, si era fatto un nome nell’ambiente. A metà degli anni 2000, dopo la prima condanna a 18 mesi, veniva considerato un personaggio in ascesa. Dopo aver gestito una casa per il gioco d’azzardo, era stato coinvolto in numerose indagini che lo avevano portato in prigione. Per gli investigatori era vicino a Giuseppe De Vito, altra figura della criminalità italo-canadese. Avversario dei Rizzuto – famiglia che ha dominato a lungo la scena -, è stato eliminato con il cianuro nel 2013 nonostante fosse all’epoca detenuto. Big Nick era stato rimesso in libertà provvisoria nel 2014, per poi finire di nuovo in manette perché aveva violato le condizioni fissate dal giudice. Si era fatto beccare insieme a Nino De Bartolomeis, alias Nino Brown. Proprio quest’ultimo, alla fine del marzo 2016, aveva subito gravi ferite in seguito ad un agguato, probabilmente legato a vecchi conti da regolare. Nulla di inusuale sulla scena noir di Montreal, segnata da una serie di delitti provocati dalla battaglie tra i grandi gruppi mafiosi. Conflitto che ha decimato i Rizzato, ma anche fatto vittime tra i loro nemici. E secondo gli esperti è possibile che sia in corso una nuova violenta epurazione. Prima dell’eliminazione Di Marco, hanno provato ad uccidere, il 22 febbraio, Salvatore Scoppa. Un sicario – descritto come un uomo di colore – gli ha sparato ferendolo gravemente.

(Fonte)

Aziende in crisi per truffare i fornitori: così la ‘ndrangheta si prende il Nord Est

Acquisivano aziende in difficoltà economica, poi le intestavano a dei prestanome e così realizzavano delle truffe ai danni di ditte fornitrici di diversi prodotti ma anche a banche ed istituti finanziari. Il volume d’affari che erano riusciti a far “girare” con le truffe è stato stimato intorno alla cifra di 12 milioni di euro.

Stamani però è scattato il blitz durante il quale i carabinieri di Venezia, coordinati dalla Dda del capoluogo lagunare, hanno eseguito una decina di misure cautelari e una sessantina di perquisizioni, nell’ambito di un’indagine che farebbe luce sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta calabrese nel tessuto economico del Nord Italia.

Per gli inquirenti i destinatari dei provvedimenti farebbero parte di un sodalizio criminale contiguo proprio alla ‘ndrangheta. Agli indagati vengono contestati i reati di violenza aggravata dal metodo mafioso, truffabancarotta fraudolentaricettazione e riciclaggio.

I DETTAGLI DELL’OPERAZIONE “NUOVA FRONTIERA”

Le misure cautelari eseguite stamani, nell’ambito dell’operazione denominata “Nuova Frontiera”, sono sette in tutto, e l’indagine è scattata nell’area di San Donà di Piave. Una sessantina, invece, le persone iscritte nel registro degli indagati a cui si contesta, a vario titolo, i reati con l’aggravante, per diversi di loro, di aver agito avvalendosi di metodi mafiosi e per agevolare la ‘ndrangheta calabrese, attraverso le sue articolazioni.

Le perquisizioni – che sono ancora in corso – sono state effettuate in varie regioni d’Italia nei confronti dei presunti ricettatori e fiancheggiatori. Dalle indagini è emerso che oltre 150 imprese siano state truffate con un danno stimato intorno ai 5 milioni di euro.

Sono state individuate diverse società e imprese individuali in Veneto che erano divenute obiettivo del gruppo e utilizzate per mettere in atto le truffe ai danni di imprenditori di diverse regioni della Penisola, ad eccezione della Calabria che sarebbe stato invece il luogo di destinazione dei beni ottenuti illecitamente.

Documentate, poi, truffe ai danni di società di leasing e ad istituti bancari, ma anche reati relativi all’utilizzo indebito di carte di pagamento così come casi di bancarotta fraudolenta, patrimoniale e documentale. Quasi tutte le aziende acquisite, difatti, venivano portate al fallimento.

IL MODUS OPERANDI

Da quanto accertato dai carabinieri, il gruppo individuava ed acquisiva le società in difficoltà finanziaria intestandole a dei prestanome così da presentarsi sul mercato come affidabili partner commerciali; tramite le ditte effettuava le truffe e poi le faceva fallire; le aziende si mandavano in bancarotta nel volgere di brevi periodi (circa 90 giorni) così di sfuggire alla reazione delle vittime e alle ricerche degli investigatori; successivamente si ricollocava sul mercato centinaia di tonnellate di prodotti della più disparata tipologia (generi alimentari, latticini, frutta, materiali per l’edilizia e l’idraulica, gruppi elettrogeni, container refrigeranti, ecc.); il ricollocamento avveniva in particolare in Calabria grazie ad una vasta rete di ricettatori del posto(alcuni dei quali contigui alle cosche); i proventi illeciti venivano poi riciclati attraverso delle società di leasing inconsapevoli, cui si chiedevano servizi funzionali alle attività; inoltre si utilizzavano carte carburanti intestate a flotte aziendali inesistenti, utilizzate per l’effettuazione dei rifornimenti e la rivendita clandestina del prodotto petrolifero acquisito illecitamente.

IL COMMESSO MINACCIATO ED IL MARKET SVUOTATO

Le indagini evidenzierebbero dunque un “metodo mafioso” adottato da alcuni componenti del sodalizio, tra i quali uno dei due arrestati, accusati di aver minacciato e percosso un giovane commesso stagionale, dopo averlo condotto di forza nel retrobottega di un supermercato di Jesolo Lido (VE), unità gestita in affitto d’azienda attraverso una società che sarebbe stata asservita alla compagine criminale.

La punizione sarebbe scattata perché il giovane si sarebbe permesso di caldeggiare, legittimamente, la busta paga, paventando, in alternativa, di rivolgersi alle organizzazioni sindacali e così scatenando la capacità intimidatoria del gruppo, che fino ad allora era stata latente. L’episodio risale alla fine di agosto del 2015.

Il supermercato in questione, la notte tra il 30 e 31 agosto di quell’anno, venne svuotato ed abbandonato, suscitando grave apprensione tra i fornitori della zona, raggirati dal sodalizio che da questa operazione ci avrebbe guadagnato di diverse centinaia di migliaia di euro. Il market, secondo quanto accertato dagli inquirenti, riusciva a fruttare almeno cinquemila euro al giorno, al netto delle spese, trattandosi di merce che veniva acquistata con la formula di pagamento a 30, 60 o 90 giorni, tempo sufficiente al gruppo per mettere a segno le eventuali truffe e poi sparire.

L’episodio intimidatorio documentato per gli inquirenti sarebbe “significativo di un innalzamento della pericolosità nel territorio economico veneto manifestata dal gruppo criminale, che pur di realizzare consistenti illeciti profitti” non sarebbe arretrato nei propri propositi “e che, anzi, di fronte agli ostacoli legittimamente posti dal tessuto “sano” della società locale” non avrebbe esitato a utilizzare anche in Veneto metodiche di stampo mafioso.

L’obiettivo di queste condotte sarebbe, evidentemente, quello di condurre ad una posizione di sudditanza il singolo e soprattutto il lavoratore, facendolo diventare un “comodo strumento” non solo dei datori di lavoro ma soprattutto di quei datori “che, per di più avvalendosi di metodiche violente e intimidatorie, hanno danneggiato pesantemente l’economia del territorio veneto”.

I DESTINATARI DEL PROVVEDIMENTO

In arresto sono finiti in due. Si tratta di Michelangelo Garruzzo, 56enne originario di Rosarno (nel reggino) ma da tempo trapiantato in provincia di Treviso; e Antonio Anello, 63enne originario di Curinga (nel catanzarese), che viveva di solito tra la Calabria e il Veneto.

In cinque, invece, considerati come sodali dei due, in pratica il “braccio operativo” del gruppo, sono stati raggiunti dall’obbligo di dimora e di presentazione alla polizia giudiziaria: F.S., 70enne di PescaraA.D., 32enne di Curinga (CZ); P.R., 34enne di Curinga (CZ); G.S., 31enne di Rosarno (RC) e G.C., 47enne di Rosarno (RC),

Quanto alla presunta contiguità con la ‘ndrangheta, in particolare: Garruzzo è ritenuto continua alla cosca Pesce di Rosarno e Anello ai “Fiarè” di San Gregorio d’Ippona (nel vibonese), clan alleato ai Mancuso di Limbadi.

Ad Anello è stata contestata, tra l’altro, anche l’aggravante di aver continuato a commettere reati, sotto il vincolo associativo, nel triennio successivo alla cessazione degli effetti della misura di prevenzione personale, dato che il Tribunale di Catanzaro, fino a settembre del 2011, l’aveva stato sottoposto alla sorveglianza speciale.

La donna con la pistola (che si bulla su facebook)

(ancora, siamo alle solite, ne scrive LaCNews24)

Una vera e propria donna di ‘ndrangheta. Calata a tal punto nel ruolo da scegliere come immagine di copertina del suo profilo Facebook una pistola d’oro. Francesca Allegro, 32 anni, è l’unica donna arrestata nell’ambito dell’operazione condotta dalla Polizia di Stato e denominata ‘Nuove Leve’, perché ha portato in carcere 12 giovani ritenui legate al clan Giampà di cui avrebbero portato avanti gli affari mentre i big della cosca erano in carcere.

E non era un ruolo marginale quello dell’Allegro. Moglie di Domenico Chirico, detto u Batteru, non solo portava all’esterno le direttive del marito raccolte durante i colloqui in carcere, ma commetteva lei stessa estorsioni, spostava armi, contattava gli esponenti dei clan limitrofi e raccoglieva richieste di protezione.

Era, insomma, un vero e proprio punto di riferimento per la cosca. A raccontarne le gesta i due collaboratori di giustizia Giuseppe e Pasquale Catroppa, le cui rivelazioni si vanno a sommare alle decine di intercettazioni ambientali raccolte dagli inquirenti.

La Allegro era fiera del suo ruolo. Sul suo profilo inseriva foto di coppie armate di pistola a sottolineare il legame con il marito. Seguiva decine di pagine che inneggiano alla criminalità. Si recava nei più eleganti negozi di Lamezia, come Artusa e Barbera, e pretendeva uno sconto del 50 per cento sulla merce. Ma non solo. Già nel 2014 era stata denunciata per sfruttamento della prostituzione.