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‘Ndrangheta: il boss Pesce sotto scacco

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Il boss era ricercato da 6 anni ed è stato catturato a Rosarno, il suo paese di nascita. Non ha opposto resistenza. Insieme a lui c’erano due uomini, padre e figlio

“Ti conosco, ti ho già visto in tv”. Sono queste le parole che il boss Marcello Pesce ha pronunciato rivolgendosi ad un dirigente della Squadra Mobile, nel momento in cui gli uomini della Polizia di Stato hanno fatto irruzione nel covo dentro al quale si nascondeva il capo della cosca egemone di Rosarno. E’ finita così la sua lunga latitanza.

marcello-pesce-latitante-arrestatoIl blitz all’alba. Gli uomini del Servizio centrale operativo (Sco) e della squadra mobile di Reggio Calabria sono entrati in azione attorno alle 5, quando si è avuta la certezza che il boss fosse lì. Pesce era ricercato dal 26 aprile 2010, quando sfuggì alla cattura nell’operazione “All Inside”. Al momento della cattura, era in camera da letto e non era armato. Non ha opposto resistenza ed è stato arrestato con 2 uomini, padre e figlio, che erano con lui. Condannato in appello a 16 anni e 8 mesi di reclusione per associazione mafiosa.

marcello-pesce-latitante-arrestatoLatitante a casa sua. “Un uomo molto particolare, anche molto colto. Sono stati trovati libri di Proust e Sartre nel covo dove si nascondeva”. Lo ha detto il procuratore di Reggio Calabria Gaetano Paci, ai microfoni di SkyTg24, a proposito del boss della ‘ndrangheta Marcello Pesce, catturato a Rosarno, il suo paese di nascita. “E’ inevitabile che sia stato trovato a casa sua – ha aggiunto il procuratore Paci – Un latitante che è anche capo operativo, in questo caso anche capo strategico, deve stare nel suo territorio e deve avere il controllo della situazione”.

Ricercato da 6 anni. “Appartiene a una delle famiglie più blasonata della piana di Gioia Tauro e di Rosarno in particolare: quella dei Pesce, da sempre trafficanti di droga e con il controllo del territorio – ha sottolineato Paci – Lui è stato condannato per associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni a 16 anni, è latitante da sei anni e dalle nostre risultanze è emerso che si tratta di un soggetto altamente operativo ma di una operatività molto raffinata. Le indagini – ha concluso Paci – durano da oltre tre anni e hanno avuto una importante intensificazione negli ultimi sei mesi. Si sono avvalse esclusivamente di attività tecnica e di osservazione sul territorio, un territorio peraltro difficile da permeare all’attività di indagine”.

(fonte)

‘Ndrangheta in Australia: arresti per l’omicidio Barbaro

Nove uomini sono stati arrestati fra ieri e oggi a Sydney, in una serie di incursioni coordinate in vari quartieri della metropoli, per l’uccisione due settimane fa di un boss della locale ‘ndrangheta: Pasquale Barbaro, di 35 anni. Sono stati eseguiti 13 mandati di perquisizione e sono ora incriminati per omicidio nove uomini di età fra 18 e 29 anni, ha detto il vicecommissario di polizia Mark Jenkins. Sono state sequestrate numerose armi di diverso calibro, giubbotti antiproiettile e maschere, oltre a 11 auto, 40 telefoni cellulari, una cassaforte, droga e contante. Dopo una serie di otto omicidi in pochi mesi fra membri delle diverse bande, la polizia ha formato due settimane fa una speciale task force, ora entrata in azione. “Questa non è la fine”, ha detto Jenkins. “Continueremo a prendere di mira questi individui attraverso indagini metodiche e strategie di intervento. Gli arresti continueranno”. In un’ennesima esecuzione nella guerra fra bande per il controllo del mercato della droga, Pasquale Barbaro, che un anno fa era sopravvissuto a un simile agguato, è stato ucciso con numerosi colpi mentre usciva dalla casa di un suo associato. Portava lo stesso nome del nonno, ucciso in una simile esecuzione nel 1990. Suo zio, anche lui Pasquale Barbaro, sta scontando 30 anni di carcere per l’importazione nel 2009 della quantità record di 4,4 tonnellate di ecstasy: 15 milioni di pasticche nascoste i 3.000 barattoli di pomodori pelati provenienti dal porto di Napoli. E il cugino, anche Pasquale Barbaro, è stato assassinato a Melbourne nel 2003 insieme a un noto boss criminale.

‘Ndrangheta, operazione “Borderland”: i fatti, le facce e i nomi

 

Il sostegno diretto al candidato, diventato poi vicesindaco, ma anche incontri e impegni diretti in campagna elettorale. La cosca Trapasso di San Leonardo di Cutro avrebbe partecipato alle ultime elezioni comunali di Cropani del 26 maggio 2014, sostenendo direttamente Francesco Greco, detto Raffaele, attuale vicesindaco di Cropani ed ora accusato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Ad avviso della Dda di Catanzaro, “gli esponenti del sodalizio hanno dato il loro apporto elettorale alla lista che sosteneva la candidatura a sindaco di Bruno Colosimo e al candidato Francesco Greco facendo conseguire l’esito voluto”. Nel corso della conferenza stampa il procuratore aggiunto Giovanni Bombardieri ha sottolineato che “non sono stati trovati elementi penali a carico del sindaco”, mentre gli atti dell’inchiesta saranno trasmessi alla Prefettura per le valutazioni del caso.

Nelle intercettazioni sono finiti gli interventi degli esponenti della cosca durante la campagna elettorale, con lo stesso vicesindaco che non ha avuto problemi a “vantarsi” dei sostegni ricevuti. Come nell’intercettazione nella quale lo stesso vicesindaco Francesco Greco chiede di poter partecipare alla sfilata per la vittoria sedendo sul sedile anteriore dell’autovettura di Nanà Trapasso, figlio di Giovanni, mentre in una seconda intercettazione con uno degli arrestati afferma: “Ci prendiamo il vicesindaco… lo dobbiamo prendere? altrimenti succede una guerra”. Ed in effetti Greco fu nominato vicesindaco per la coalizione “Cropani e’” dopo avere conquistato 111 voti di preferenza, con la lista avversaria sconfitta per 99 voti di scarto”.

Il giudizio del gip sulla campagna elettorale. Su quanto avvenuto a Cropani durante la campagna elettorale è duro anche il giudizio del gip Giulio De Gregorio che ha firmato l’ordinanza: “Non stupisce assolutamente che il devastante inquinamento mafioso del territorio del Comune di Cropani – scrive il giudice – si sia risolto anche in un pesante condizionamento del voto elettorale delle consultazioni amministrative del 25-26 maggio 2014″, al punto che lo stesso giudice evidenzia come “la vittoria della lista del sindaco Colosimo è avvertita come una vittoria della consorteria”.

I reati. Contestati i reati di associazione mafiosa, concorso esterno in associazione mafiosa, estorsione, porto e detenzione illegale di armi, illecita concorrenza con violenza o minaccia, esercizio abusivo del credito, intestazione fittizia di beni, tutti reati aggravati dalla modalità mafiose. Oltre alla cosca Trapasso di San Leonardo è stata smantellata anche la ‘ndrina collegata dei Tropea-Talarico di Cropani.

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Dai villaggi turistici alla politica passando per l’usura e le estorsioni. Gli inquirenti non hanno dubbi: con la maxi operazione denominata “Borderland” è stato liberato il territorio al confine tra le province di Catanzaro e Crotone. Smantellata quella che viene ritenuta come la potente e pericolosa cosca facente capo alla famiglia Trapasso, egemone in un comprensorio ad alta vocazione turistica che comprende i comuni di Sellia Marina, Cropani, Botricello, Sersale, Cutro e la frazione San Leonardo di quest’ultimo centro, ha ispirato il nome della operazione (“Borderland”).

cattura-di-schermata-221L’origine dell’inchiesta. L’operazione ha preso avvio da una serrata attività di sorveglianza fisica ed elettronica degli indagati da parte della Squadra Mobile di Catanzaro diretta da Nino De Santis sotto il coordinamento del sostituto procuratore Vincenzo Capomolla e i procuratori aggiunti Vincenzo Luberto e Giovanni Bombardieri con la supervisione del procuratore capo, Nicola Gratteri. In particolare, l’attività d’indagine ha svelato l’esistenza di due distinti sodalizi mafiosi, pesantemente armati, quello dei Trapasso di San Leonardo di Cutro e quello dei Tropea-Talarico di Cropani Marina, strettamente dipendente dal primo, dediti in prevalenza all’attività usuraria, all’esercizio abusivo del credito, alle estorsioni, alla gestione ed al controllo delle attività economiche presenti sul territorio, soprattutto turistiche, sia direttamente che per interposizione di persone.

I Trapasso. Le investigazioni hanno dimostrato come la cosca di ‘ndrangheta dei Trapasso, capeggiata dal 58enne Giovanni Trapasso e dai figli Leonardo, detto Nanà, e Tommaso, rivestisse un ruolo di assoluto rilievo nel panorama delle consorterie mafiose dell’area, operando in stretta connessione con le omologhe compagini dei Grande Aracri di Cutro, dei Farao-Marincola di Ciro’ Marina, dei Bubbo di Petronà, dei Ferrazzo di Mesoraca e vantando solidi rapporti con le più influenti cosche della regione.

I Tropea. Nel corso delle indagini si è assistito, inoltre, all’ascesa criminale del clan mafioso facente capo a Giuseppe Tropea ed allo zio Francesco Talarico, i quali, inizialmente assoldati come “manovalanza” dal clan Trapasso, hanno gradualmente conquistato una propria autonomia nel territorio di Cropani Marina, soprattutto con riferimento all’attività usuraria, seppur con l’obbligo di rendiconto alla cosca “madre” di San Leonardo.

La gestione dei villaggi turistici. Un fronte di particolare interesse per l’organizzazione mafiosa indagata, è emerso essere, inoltre, quello economico-finanziario, nel quale un ruolo strategico e di assoluto pregio investigativo è risultato appannaggio di Pier Paolo Caloiro, attivo nel campo dei servizi di gestione dei villaggi turistici, nonché uomo di fiducia e imprenditore di riferimento del sodalizio cutrese. Proprio la gestione dei villaggi turistici sul litorale ionico si è rivelato un vero e proprio strumento di consenso per l’organizzazione mafiosa. Attraverso l’opera di Pier Paolo Caloiro, il sodalizio sarebbe riuscito a reclutare un cospicuo numero di soggetti che, assoldati con il sistema delle assunzioni fittizie all’interno delle strutture ricettive, si sono messi a completa disposizione del clan.

Gli interessi in Emilia. Sono inoltre emersi, in particolare con riguardo ad attività di esercizio abusivo del credito, di usura ed a connesse vicende estorsive, rilevanti interessi economici e proiezioni operative della cosca al nord Italia ed in particolare in Emilia Romagna, località di abituale dimora di cinque delle persone raggiunte da misura cautelare che sono state rintracciate e tratte in arresto dagli uomini delle Squadre Mobili di Bologna, Parma e Reggio Emilia. (m.f.)

 

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Raffica di arresti, ma anche un lungo elenco di beni mobili ed immobili sequestrati. Oltre a smantellare quella che gli inquirenti ritengono la potente e pericolosa cosca di ‘ndrangheta che fa capo alla famiglia Trapasso, egemone nel territorio di confine tra le province di Catanzaro e Crotone, collegata a quella dei Tropea, l’inchiesta coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia guidata da Nicola Gratteri, colpisce i clan coinvolti nel cuore dei loro interessi.

Sequestro di beni. Parallelamente alla esecuzione delle misure cautelari personali, con particolare riguardo ai reati contestati in materia di intestazione fittizia di beni, la Procura ha emesso un provvedimento urgente di sequestro di diverse società ed imprese ritenute lo strumento delle attività illecite della stessa cosca o l’oggetto di interposizioni fittizie dei sodali.

L’elenco. Il sequestro, eseguito dagli uomini della Divisione Polizia Anticrimine di Catanzaro e dagli specialisti in indagini patrimoniali del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, ha riguardato, fra l’altro, un esercizio ricettivo, un maneggio ed una società per la distribuzione di slot machine e, in particolare, le società di servizi attraverso le quali la cosca controllava di fatto la gestione delle attività interne ad importanti villaggi turistici della zona, monopolizzando le attività di manutenzione e ristorazione, le forniture di generi alimentari e pesantemente condizionando ogni tipo di servizio.

1) Totalità delle quote societarie della IEAC f.lli Talarico srl, amministratore unico Pasquale Talarico, con sede legale a Cropani

2) Totalità delle quote societarie della A&G srl, amministratore unico Maria Teresa Sinopoli, con sede legale a Cropani

3) Totalità delle quote societarie della Global Service di Domenico Iaquinta, con sede legale a Cropani

4) Impresa individuale di Pezzano Monica con sede legale a Catanzaro

5) Bar denominato “Il Fortino di zio Tommy” a San Leonardo di Cutro, presidente Domenico Falcone, di fatto riconducibile – secondo gli investigatori – a Giovanni, Leonardo e Tommaso Trapasso.

6) Maneggio denominato “Scuderia Le Palmare”, ubicato a Steccato di Cutro all’interno della azienda agricola di Filomena Muto, formale responsabile Riadh Ben Salah, gestito da Salvatore Scandale e, per gli investigatori, riconducibile a Giovanni Trapasso.

‘Ndrangheta, operazione “Lex 2”, i dettagli e i nomi

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Nelle prime ore del mattino di oggi, nelle provincie e di Reggio Calabria, Milano, Pavia e Cremona e presso le Case Circondariali di Vibo Valentia, Nuoro, Spoleto, Tolmezzo, Cagliari, Melfi e Frosinone, i Carabinieri della Compagnia Carabinieri di Gioia Tauro, collaborati in fase esecutiva dai militari dei Comandi Provinciali territorialmente competenti, hanno dato esecuzione ad un’Ordinanza di applicazione di misure cautelari emessa dal Tribunale di Reggio Calabria – Sezione G.I.P. – G.U.P. su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia Reggina, nei confronti di 42 indagati (di cui 33 in carcere, 7 agli arresti domiciliari, 2 al divieto di dimora nel Comune di Laureana di Borrello), ritenuti appartenenti al sodalizio ‘ndranghetista nella sua articolazione territoriale denominata Locale di Laureana di Borrello – formata dalle famiglie “Ferrentino-Chindamo” e “Lamari” – operante nel comune di Laureana di Borrello e comuni limitrofi con ramificazioni in tutta la provincia reggina ed in altre province. L’Ufficio G.I.P., accogliendo in toto le risultanze investigative raccolte dalla Procura della Repubblica – DDA di Reggio Calabria, ha ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza e le esigenze cautelari espresse in sede di richiesta per i delitti di associazione per delinquere di tipo mafioso, concorso esterno in associazione di tipo mafioso, porto e detenzione di armi da guerra e comuni da sparo, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope, estorsione, danneggiamenti, lesioni personali gravi, frode sportiva, intestazione fittizia di beni, incendio, con l’aggravante, per taluni, di aver agito con metodo mafioso.

Gli arresti di oggi giungono all’esito di una complessa attività istruttoria sviluppata all’indomani dei provvedimenti di fermo di indiziato di delitto emessi dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria nell’ambito dell’ Operazione “Lex” del 3 novembre u.s., con la quale si era giunti alla cattura di ben 40 soggetti (uno ancora irreperibile perché all’estero) ritenuti organici, o comunque vicini, alle cosche di ‘ndrangheta attive nel territorio di Laureana di Borrello ed altre città italiane, ossia quelle dei “LAMARI” e “CHINDAMO-FERRENTINO”. L’indagine, svolta interamente dai militari della Compagnia di Gioia Tauro sotto il costante coordinamento della Procura Distrettuale Antimafia, sviluppata prevalentemente con metodologie investigative di tipo tradizionale e con il fondamentale ausilio di un’articolata attività tecnica, a riscontro anche delle propalazioni di alcuni collaboratori di giustizia, aveva infatti consentito di far luce su una serie di episodi criminosi, registrati nei territori della municipalità di Laureana di Borrello (RC) e zone limitrofe a partire dal mese di giugno del 2014, dai quali erano emersi chiari elementi indizianti circa l’operatività e l’efferatezza dell’azione criminale di un sodalizio attivo in quell’area ed in grado di esercitare un controllo di tipo mafioso sull’intera comunità. I fermi, emessi in via d’urgenza anche per l’esistenza del concreto pericolo di fuga di alcuni indagati, avevano quindi consentito, nell’immediatezza, di assicurare alla giustizia soggetti ritenuti avere ruoli di vertice in seno alle cosche “FERRENTINO-CHINDAMO” e “LAMARI”, quali articolazioni autonome dell’associazione per delinquere di tipo ‘ndranghetistico nota come “Locale di Laureana di Borrello” del Mandamento Tirrenico, con ramificazioni in tutta la provincia ed in altre province del Nord Italia e segnatamente Milano, Varese, Pavia e Como. In quella circostanza, inoltre, era stata avvalorata dalla Procura Antimafia l’ipotesi investigativa secondo la quale il Comune di Laureana di Borrello fosse stato, negli ultimi anni, un ente per certi aspetti soggetto ai condizionamenti da parte delle cosche di ‘ndrangheta locali che, grazie alle compiacenze di alcuni politici, erano riuscite ad ottenere l’aggiudicazione di alcuni appalti comunali, facendo leva anche sui rapporti, stretti e continuativi, riscontrati tra gli affiliati alle cosche ed alcuni esponenti della politica locale di Laureana di Borrello. Ipotesi, questa, successivamente avvalorata dalle motivazioni espresse dal G.I.P. in sede di convalida dei fermi e dei sequestri preventivi che hanno interessato aziende ritenute riconducibili alle due cosche, quali la ditta N.P. Costruzioni di Napoli Claudio e Prossomariti Andrea e la ditta D.G. di Digiglio Antonino alias “u liraru”, soggetti, quest’ultimi, attualmente detenuti.

Indicativo, a tal proposito, era stato l’arresto di Vincenzo Lainà, già assessore con delega al “verde pubblico, agricoltura, manutenzione, tradizione, servizio idrico, servizi demografici, viabilità, fiera ed artigianato” del Comune di Laureana di Borrello, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, oggi inserito nell’elenco dei soggetti per i quali il GIP ha inteso emettere la misura cautelare della custodia in carcere, confermando a suo carico gravi indizi di colpevolezza poiché considerato, a pieno titolo, il referente politico del sodalizio criminale, cui lo stesso forniva di fatto un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo.

Tra gli arrestati di oggi compaiono nuovi indagati per i quali la Procura Distrettuale ha inteso richiedere l’emissione, da parte del Tribunale di Reggio Calabria – Ufficio GIP, di idonea misura cautelare personale, ritenendo sussistenti gravi indizi a loro carico per i reati di concorso in intestazione fittizia di beni. Tra questi compare anche l’Avvocato CHINDAMO Domenico del Foro di Milano, ma di origini calabresi, nei confronti del quale, sulla scorta delle evidenze probatorie raccolte a seguito di un decreto di perquisizione eseguito in occasione dei fermi del 3 Novembre u.s., sono emersi gravi elementi indizianti, essendosi lo stesso prestato, in qualità di professionista, ad assecondare le istanze criminali della Cosca Ferrentino. In particolare, le ulteriori analisi investigative sviluppate negli ultimi giorni hanno consentito di avvalorare il ruolo svolto dal legale a favore delle cosche perché, pur non essendo un soggetto affiliato alla cosca scrictu sensu, aveva agevolato l’attività criminale della ‘ndrina FERRENTINO attraverso la creazione della Ditta di import-export “United Seed’s Keepers” s.r.l., con sede a Milano e Roma, già sottoposta a sequestro preventivo d’urgenza in quanto fittiziamente intestata a prestanomi, quale strumento commerciale attraverso cui poter gestire e canalizzare autonomamente il traffico di sostanze stupefacenti dalla Colombia e l’India verso il mercato nazionale.

Sono state poi rinnovate le posizioni cautelari di altri indagati per i quali inizialmente non erano stati accolti gli elementi indizianti raccolti dalla Distrettuale Antimafia poiché ritenuti inidonei a qualificarsi quali gravi indizi di colpevolezza, indizi che invece hanno trovato piena condivisione nell’Ordinanza di Misura Cautelare personale di oggi con cui, peraltro, sono state aggravate le posizioni di due soggetti già destinatari di fermo di indiziato di delitto, BEVILACQUA Mario e FREITAS DE SIQUEIRA Diego, per i quali il GIP ha disposto l’applicazione della custodia cautelare in carcere. Accordate infine le richieste espresse dalla Procura sul conto di due ulteriori indagati, CORDIANI Celeste e BRUZZESE Gianfranco, ritenuti rispettivamente responsabili dei reati di detenzione ai fini di spaccio di sostanze ed intestazione fittizia di beni.

L’ordinanza cautelare notificata con l’operazione corrente ha infine riattualizzato il grado verticistico di esponenti storici della cosca dei LAMARI e dei FERRENTINO, tra cui compaiono LAMARI Rocco e FERRENTINO Alessandro, già detenuti perché ritenuti colpevoli, col ruolo di “capi” delle rispettive ‘ndrine, di reati associativi di tipo mafioso. Infatti è stata conclamata ancora una volta la capacità dei vertici della locale di Laureana di Borrello di emanare ordini e direttive nei confronti dei reggenti delle cosche sul territorio, pur essendo detenuti in regime di 41 bis O.P.

I destinatari del provvedimento restrittivo sono stati i seguenti:
COSCA CHINDAMO – FERRENTINO

CUSTODIA CAUTELARE IN CARCERE

1) FERRENTINO ALESSANDRO, classe ’73 col ruolo di capo, promotore ed organizzatore dell’omonima cosca, con dote non inferiore a “vangelo”, con compiti di decisione, pianificazione ed individuazione delle azioni delittuose da compiere. In particolare, seppur detenuto, si relazionava col fratello Marco affinchè quest’ultimo portasse a termine gli obiettivi criminali della cosca, impartendo le direttive mafiose per la cura degli interessi della coscanel settore delle armi e della droga, intessendo alleanze anche con le altre articolazioni territoriali, della ‘ndrangheta nelle province calabresi;

2) FERRENTINO MARCO, classe ’80 , col ruolo “reggente” della associazione, con dote non inferiore a “padrino”, quale rappresentante sul territorio del fratello detenuto Alessandro, capo dell’omonima consorteria;

3) CHINDAMO ALBERTO, classe ’88, col ruolo di capo, promotore ed organizzatore della associazione, con compiti di decisione, pianificazione e di individuazione delle azioni delittuose da compiere e con compiti operativi nel settore delle armi e danneggiamenti, deputato tra l’altro a tenere i rapporti con le figure apicali delle altre articolazioni territoriali della ‘ndrangheta;

4) BIELOVA ALLA, classe ’89, compagna e “consigliore” del reggente durante la sua permanenza in Voghera, partecipe alla cosca Chindamo-Ferrentino, con il compito di mantenere rapporti con tutti gli affiliati alla cosca domiciliati a Voghera, per supportare l’attività economica avviata dal capo cosca;

5) FERRENTINO ALESSIO, alias “u stuccaru”, classe ‘78, partecipe alla cosca Chindamo-Ferrentino, diretto esecutore degli ordini impartiti dal capo cosca Ferrentino Marco, compiendo atti ritorsivi nei confronti di chiunque non si atteneva al rispetto delle direttive impartite e con compiti operativi nel settore dei danneggiamenti e delle estorsioni;

6) FERRENTINO FRANCESCO alias “u zassu”, classe ‘90, partecipe alla cosca Chindamo-Ferrentino, con compiti operativi nel settore delle sostanze stupefacenti e delle armi e quale esecutore degli ordini impartiti dal capo, partecipando attivamente ad atti ritorsivi e ad azioni di sangue;

7) DI MASI GIUSEPPE , classe ‘88, partecipe alla cosca Chindamo-Ferrentino, con il ruolo di gestore, nell’interesse del clan, dell’impresa denominata “Dimasi Costruzioni di Lamanna Francesco”, con sede in Voghera, intestata fittiziamente a Lamanna Francesco, nonché della ditta “Dimafer di Ferrentino Francesco”, sempre con sede a Voghera, utilizzata dalla cosca principalmente quale copertura per giustificare le entrate illecite della stessa ‘ndrina. Gestore altresì della ditta di import-export di riso “United Seed’s Keepers S.r.L.”, riconducibile alla cosca, utilizzata, anche e soprattutto, per agevolare lo spaccio di droga anche a livello internazionale;

8) PITITTO GIUSEPPE, classe ’75, partecipe alla cosca Chindamo-Ferrentino, rappresenta il “volto imprenditoriale” della cosca con il compito di gestire nell’interesse della stessa una edicola a Vibo Valentia; occupandosi altresì dell’alterazione del normale risultato delle dispute calcistiche interessanti la squadra di calcio del Polisportivo Laureanese nonché dell’esecuzione di danneggiamenti anche a mezzo incendio, accertati nel corso dell’indagine in questione;

9) SIGNORELLO JOSE’, classe ’87, anch’egli organico alla famiglia di ‘ndrangheta, con il compito di dare immediata esecuzione agli ordini impartiti dal boss Ferrentino Marco e suo “consigliore” nelle operazioni di avvio di nuove attività imprenditoriali, oltre che referente della ‘ndrina in Svizzera. Inoltre titolare del potere di mantenere rapporti e relazioni criminali con esponenti di altre articolazioni territoriali della ndrangheta, quali i Molè di Gioia Tauro, Bellocco e Pesce di Rosarno (allo stato irreperibile).

10) SIBIO GIOVANNI, classe ’89, membro effettivo della cosca Chindamo-Ferrentino, con compiti operativi nel settore delle armi essendo l’armiere della consorteria, prendeva parte a riunioni di ‘ndrangheta anche fuori provincia con esponenti di altre articolazioni territoriali della medesima associazione. Era altresì referente della coltivazione e vendita delle sostanze stupefacenti, e quindi a completa disposizione degli interessi della cosca (già arrestato per detenzione di armi nel marzo 2015);

11) MONEA SALVATORE, classe ’74, con la carica di “picciotto di giornata”ed il compito di mantenere rapporti stabili di frequentazione con la figura apicale Ferrentino Marco, eseguendo e fungendo da “portavoce” con altri affiliati e da esecutore materiale di gravi episodi delittuosi di matrice intimidatoria;

12) LAMANNA ANTONELLO, classe ’75, intestatario fittizio delle attività commerciali della ‘ndrina, organicamente inserito nel sodalizio, con il ruolo ulteriore di veicolare messaggi afferenti l’organizzazione della cosca;

13) PIROMALLI VINCENZO, classe ’69, partecipe alla cosca Chindamo-Ferrentino imperante in Laureana di Borrello e zone limitrofe, con il compito di mantenere rapporti stabili di frequentazione con la figura apicale Ferrentino Marco e altri subordinate quali quella di Lamanna Antonello e Pititto Giuseppe; con compiti operativi nel settore degli stupefacenti e dei danneggiamenti, avendo concorso nel danneggiamento a colpi d’arma da fuoco in data 24 maggio 2014 ai danni dell’attività commerciale di Muratore Alberto;

14) BEVILACQUA MARIO, classe ’72, organicamente inserito nella cosca Chindamo-Ferrentino con compiti operativi nel settore delle armi e della droga, nonché in qualità di unico soggetto deputato alla gestione degli animali del reggente della cosca Marco Ferrentino (già sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari)

15) ASCHEI FABIO, classe ’61, con compiti operativi nel settore degli stupefacenti e partecipazione attiva al disbrigo di tutte le pratiche burocratiche per la costituzione della ditta mafiosa denominata United Seed’s Keepers (nelle mani interamente del capo cosca Ferrentino Marco), fondata con la sola finalità (e comunque con la principale) di consentire all’organizzazione di stampo mafioso di importare, occultata nel riso, droga;

16) DI MASI PASQUALE, classe ’86, quale partecipe alla cosca Chindamo-Ferrentino con compiti operativi prevalenti nel settore degli stupefacenti e con quello di mantenere rapporti stabili di frequentazione con la figura apicale Ferrentino Marco e altri subordinate quali quella del fratello Giuseppe e di Ferrentino Francesco classe ’80;

17) MEZZASALMA FABIO, classe ’63, operante, in area Milanese, principalmente nel settore degli stupefacenti, partecipava attivamente al disbrigo di tutte le pratiche burocratiche per la costituzione della ditta mafiosa denominata United Seed’s Keepers al fine di consentire all’organizzazione mafioso di importare, occultata nel riso, droga;

18) MARAFIOTI ALBINO, classe ’85, sodale dei Ferrentino con compiti operativi nel settore degli stupefacenti, deputato nell’interesse dell’organizzazione criminale di appartenenza, alla vendita al dettaglio di cocaina, marijuana e haschish nel territorio di Galatro e alla movimentazione di armi, fornendo altresì appoggio con la messa a disposizione di tutti gli affiliati di un capannone sito in Voghera, formalmente intestato alla coniuge Panigo Marina, di fatto adibito a sede, sociale delle ditte mafiose Dimasi Costruzioni di Giuseppe Dimasi, Dima Costruzioni s.r.l. di Lamanna Francesco, Dimafer di Ferrentino Francesco;

19) FREITAS DE SIQUEIRA DIEGO, classe ’86, quale partecipe alla cosca Chindamo-Ferrentino, manteneva i contatti dalla Lombardia con la cosca per il tramite di Ferrentino Francesco, operando altresì nel settore degli stupefacenti quale custode della droga e garante della distribuzione nel territorio Pavese. (allo stato non “in vinculis”)

20) COMI WILLIAM, quale partecipe alla Cosca Ferrentino con compiti operativi nel settore della vendita di sostanze stupefacenti del tipo cocaina, hashish e marijuana per conto del sodalizio.

ARRESTI DOMICILIARI

1) DI GIGLIO ANTONINO alias “u liraru”, classe ‘75, organico alla cosca Chindamo, col compito di mantenere rapporti con i politici locali, soprattutto Lainà Vincenzo (Assessore ai lavori pubblici del Comune di Laureana di Borrello) e Digiglio Antonino detto “Topazio” (ex vice sindaco con delega all’assessorato all’urbanistica, territorio e viabilità rurale e, dal febbraio 2016, assessore al bilancio del Comune di Laureana) al fine di ottenere “corsie preferenziali” nell’aggiudicazione di appalti pubblici; infatti in qualità di intestatario fittizio della ditta edile DG Lavori e Costruzioni, di fatto riconducibile anche al capo cosca Ferrentino Marco, socio occulto, riusciva ad aggiudicarsi, nell’ultimo semestre dell’anno 2015, dei lavori di manutenzione della struttura sportiva di Laureana e dei lavori di riparazione delle buche lungo la strada Candidoni-Laureana di Borrello;

2) PETTÉ TIZIANA, classe ’81, moglie del “reggente” Ferrentino Marco, organicamente inserita all’interno della ‘ndrina Chindamo- Ferrentino, con il compito di gestire le attività illecite, in rappresentanza del coniuge durante i periodi di lontananza dello stesso dal territorio laureanese attraverso un controllo diretto sull’opera dei picciotti di giornata”;

COSCA LAMARI

CUSTODIA CAUTELARE IN CARCERE

1) LAMARI ROCCO, classe ’65, perché, al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione patrimoniale – attribuiva fittiziamente a Napoli Claudio e Prossomariti Andrea, la titolarità della ditta denominata “N.P. Lavori e Costruzioni s.n.c. di Napoli Claudio e Prossomariti Andrea”, sedente a Bellantone di Laureana di Borrello, in via CampoSportivo s.n.c., in realtà riconducibile allo stesso.

2) LAMARI VINCENZO alias Enzo, classe ’68, con la dote di “santista”, nel ruolo di capo, promotore ed organizzatore della associazione, con compiti di decisione, pianificazione e di individuazione delle azioni delittuose da compiere. In particolare, qualificabile come capo carismatico dell’omonima cosca, principale punto di riferimento degli altri sodali, coordinava le attività illecite distribuendone i relativi proventi ai sodali e gestendo “la cassa comune”;

3) LAMARI ANGELO, classe ’67, nel ruolo di capo, promotore ed organizzatore della associazione, con compiti di decisione e gestione, per il tramite del genero Mastroianni Fabio, di immobili di ingente valore in provincia di Varese, nonché di attività imprenditoriali in Calabria e in Lombardia, fittiziamente intestate a terzi prestanomi. Egli è peraltro reale proprietario della squadra di calcio denominata Polisportiva Laureanese, atteso l’intervento riscontrato dalle indagini sulle dirigenze delle squadre rivali per “truccare” gli esiti delle competizioni calcistiche;

4) MASTROIANNI FABIO, classe ’87, partecipe alla cosca Lamari e deputato a curare gli interessi economici del suocero Lamari Angelo, con il compito di gestire il complesso immobiliare di cui era proprietario “occulto; operativo anche nel settore degli stupefacenti, alcune partite dei quali venivano occultate nelle slot machines di esercizi commerciali ubicati in Laureana quale componente di gruppi armati per compiere spedizioni punitive; nonché con il ruolo di intestatario fittizio della società agricola denominata Demetra s.r.l. con sede Laureana di Borrello;

5) LAMANNA FRANCESCO, classe ’86, soggetto inizialmente vicino ai Chindamo Ferrentino, di cui era intestatario fittizio della ditta edile Dima Costruzioni, è poi passato con la cosca Lamari svolgendo compiti operativi anche nel settore delle armi oltre, peraltro, essere addetto al controllo del territorio, nella veste di “picciotto di giornata”, delegato a riferire al capo Lamari Enzo gli spostamenti sul territorio anche dei componenti della cosca contrapposta;

6) LAMARI MATTIA, classe ’97, figlio di Angelo, deputato a curare gli interessi economici del padre, cogestendo il supermercato “il Quadrifoglio”, con sede a Laureana e di cui Lamari Angelo era proprietario “occulto”;

7) NAPOLI CLAUDIO, classe ’76, ritenuto “volto imprenditoriale” della cosca Lamari quale intestatario fittizio dell’azienda edile denominata “NP Costruzioni di Napoli Claudio e Prossomariti Andrea”, società mafiosa di cui è proprietario di fatto Lamari Rocco ed aggiudicataria diretta e/o indiretta di numerose commesse pubbliche da parte del Comune di Laureana di Borrello. Il Napoli è risultato essere altresì trait d’union tra la cosca e la politica, curando i rapporti con amministratori locali, tra cui il vice Sindaco Trapasso Giuseppe;

8) PROSSOMARITI ANDREA, classe ’73, anch’egli altro “volto imprenditoriale” della cosca nel ruol di intestatario fittizio dell’azienda edile denominata “NP Costruzioni di Napoli Claudio e Prossomariti Andrea”, oltre che in qualità di Presidente della società calcistica denominata Polisportiva laureanese, di fatto di proprietà di Lamari Angelo;

CONCORRENTI ESTERNI DELLA LOCALE DI LAUREANA DI BORRELLO

CUSTODIA CAUTELARE IN CARCERE

1) LAINÀ VINCENZO, classe ’63, perché pur non facendo parte dell’associazione criminale, forniva un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo alla cosca Chindamo-Ferrentino, come referente politico del sodalizio;

ARRESTI DOMICILIARI

2) PANIGO MARINA, classe ’59, inserita nella cosca Chindamo-Ferrentino, con compiti operativi, in particolare nell’area Lombarda, nel settore degli stupefacenti e col ruolo di intestaria fittizia di aziende riconducibili alla cosca ed in particolare della ditta denominata United Seed’s Keepers costituita peraltro al solo scopo (e comunque con il principale) di consentire all’organizzazione di stampo mafioso di importare, occultata nel riso;

3) CHINDAMO DOMENICO, classe ’70, inserito nella cosca Chindamo-Ferrentino, nella veste di legale consigliere della ndrina circa la tipologia di società da scegliere ed offertosi di curare e svolgere, nella consapevolezza della fittizia intestazione a Panigo Marina (34%) e Tencaioli Claudia Maria (66%), tutti gli incombenti per la regolare costituzione di una società di import-export, finanche mettendo a disposizione la sede del suo studio legale quale sede legale della costituenda ditta denominata United Seed’s Keepers s.r.l, da impiegare nel trasporto di sostanza stupefacente;

SOGGETTI VICINI ALLE COSCHE LAMARI E CHINDAMO-FERRENTINO

CUSTODIA CAUTELARE IN CARCERE

1) PAPANDREA NATALE, classe ’91, con la finalità di agevolare la cosca di appartenenza e con metodo mafioso, deteneva e portava in luogo pubblico, in concorso con terze persone affiliate, armi comuni da sparo al fine di commettere il reato di danneggiamento della saracinesca della macelleria di Muratore Alberto, sita in Laureana di Borrello;

2) PETTÈ PASQUALE, classe ’67, cugino della moglie del reggente, diretto esecutore degli ordini impartiti dal capo cosca, compiva atti ritorsivi nei confronti di chiunque non si atteneva al rispetto delle direttive impartite e con compiti operativi nel settore dei danneggiamenti e delle estorsioni;

3) CIANCIO FRANCESCO ANTONIO, classe ’95, con la finalità di agevolare la cosca di appartenenza e con metodo mafioso, deteneva e portava in luogo pubblico, in concorso con terze persone affiliate, armi comuni da sparo al fine di commettere il reato di danneggiamento della saracinesca della macelleria di Muratore Alberto, sita in Laureana di Borrello;

4) OPPEDISANO MAURIZIO, classe ’81, con metodo mafioso, deteneva e portava in luogo pubblico, un’arma comune da sparo al fine di commettere il reato di danneggiamento a colpi da fuoco dell’autovettura in uso a Ganino Alfonso “reo” di non avergli consentito di avere un rapporto sessuale con la convivente;

ARRESTI DOMICILIARI

1) ZITO FELICE, classe ’91, soggetto vicino alla cosca Lamari, deteneva e portava in luogo pubblico, mostrandola prima ad un soggetto non identificato e successivamente all’amico Mandaglio Andrea, un’arma comune da sparo, con l’aggravante dell’agevolazione della cosca Lamari;

2) CORDIANI CELESTE, classe ’85, deteneva ed effettuava in concorso con correo cessioni di quantitativi imprecisati di sostanze stupefacenti a soggetti non identificati, prelevando la droga in un vano, sede del contatore dell’acqua, esterno all’abitazione del correo Marafioti, conl’aggravante dell’agevolazione dell’associazione mafiosa “Chindamo-Ferrentino” di Laureana di Borrello.

3) BRUZZESE GIANFRANCO, classe ’79, perché, al fine di agevolare la cosca Lamari di Laureana di Borrello, risultava intestatario fittizio della società agricola denominata Demetra s.r.l. con sede Laureana di Borrello.

DIVIETO DI DIMORA NEL COMUNE DI LAUREANA DI BORRELLO

1) MANDAGLIO ANDREA, classe ’95, reato di cui all’art 2 e 7 della legge 895/1967 ed art 7 della legge 203/1991 perché deteneva un’arma da fuoco. Con l’aggravante dell’agevolazione della cosca Lamari. Con l’aggravante dell’agevolazione della cosca Lamari.

2) MANDAGLIO GIOVANNI, classe ’93, soggetto vicino alla cosca Lamari deteneva una canna di fucile calibro 16 e, in concorso con Mandaglio Andrea, presso l’abitazione del nonno Larocca Giovanni classe 1929, ma nella loro disponibilità e luogo di abituale dimora, deteneva in un armadio nr. 2 pistole lanciarazzi, munizioni e materiale esplodente (circa 2kg di polvere da sparo), con l’esclusione dell’aggravante dell’art. 7 legge nr. 203/91; Al momento risulta ricercato uno degli indagati in quanto irreperibile dal 3 Novembre u.s. nel territorio italiano. Nel medesimo contesto sono stati rinnovati diversi sequestri preventivi, finalizzati alla confisca, di una serie di società e beni immobili ritenuti riconducibili direttamente o indirettamente, per il tramite di intestatari fittizi, alle Cosche Lamari e Chindamo Ferrentino.

In particolare, sono stati sottoposti a sequestro i seguenti patrimoni aziendali e beni immobili:

– Dimasi Costruzioni di Giuseppe Dimasi (Voghera);

– Dima Costruzioni S.r.l. di Lamanna Francesco(Voghera);

– Dimafer di Ferrentino Francesco(Voghera);

– Ditta di import-export “United Seed’s Keepers” s.r.l. con sede a Milano e Roma;

– Ditta Di.Gi. lavori edili di Digiglio Antonino “u liraru”;

– Ditta N.P. Lavori e Costruzini snc di Napoli Claudio e Prossomariti Andrea;

– Azienda “Demetra“ srl con sede in Laureana di Borrello;

– Attività commerciale “Il Quadrifoglio”di proprietà di Brogna Francesco nelle due sedi di Laureana di Borrello e Feroleto della Chiesa;

– Società Polisportiva Laureanese calcio;

– Edicola di Pititto Giuseppe in Vibo Valentia;

– Garage adibito alla vendita di Pesce Stocco di Ferrentino Alessio.

(fonte)

‘Ndrangheta: parla la pentita Loredana Patania, tremano in molti

(L’articolo di Giuseppe Baglivo, qui)

Quasi cinque ore di deposizione oggi per la collaboratrice di giustizia Loredana Patania, chiamata a deporre da un sito riservato nel processo nato dall’operazione antimafia denominata “Romanzo criminale” in corso dinanzi al Tribunale collegiale di Vibo Valentia. Una Loredana Patania che per buona parte della deposizione, per come sottolineato in aula anche dalla presidente del Collegio Lucia Monaco, è andata “a ruota libera”, complici i problemi di collegamento che hanno impedito un perfetto ritorno dell’audio, ma anche da un atteggiamento della stessa collaboratrice di giustizia volto a non far terminare le domande alle parti (prima al pm della Dda di Catanzaro, Andrea Mancuso, quindi agli avvocati degli imputati ed infine alla stessa presidente del Tribunale) e che ha reso più complicato del previsto l’intero esame e perte del contro-esame. Tante le cose riferite da Loredana Patania, alcune frutto di supposizioni personali per come ammesso dalla stessa nel corso del contro-esame, altre per averle vissute, a suo dire, in prima persona.

I retroscena dei fatti di sangue e gli schieramenti mafiosi in “campo”. Loredana Patania ha indicato in Cosimo Caglioti di Sant’Angelo di Gerocarne l’esecutore materiale dell’omicidio di Michele Mario Fiorillo di Piscopio avvenuto nel settembre del 2011 nella Valle del Mesima. Sui terreni di quest’ultimo, Fortunato Patania – indicato dalla collaboratrice di giustizia come persona molto “rispettata e ben voluta a Stefanaconi poichè legato al capobastone dell’epoca ovvero a Nicola Bartolotta, detto “U Pirolu” – avrebbe ripetutamente fatto pascolare le proprie pecore ed a nulla sarebbero servite le denunce. “Il mandante di tale fatto di sangue – ha dichiarato la Patania – era Salvatore Patania con l’ausilio della madre Giuseppina Iacopetta”. E’ l’inizio della faida con il clan dei Piscopisani, con Loredana Patania che ha delineato gli “schieramenti” contrapposti. Da un lato i Patania contro i Piscopisani a loro volta alleati su Vibo Valentia con Andrea Mantella e Francesco Scrugli, dall’altro lato gli stessi Patania schierati contro il clan di Stefanaconi di Emilio Bartolotta e Franco Calafati a sua volta alleato con i Bonavota di Sant’Onofrio.

I Patania avrebbero invece goduto dell’appoggio del boss Pantaleone Mancuso, detto “Scarpuni”, il quale avrebbe voluto eliminare Scrugli e Mantella per riprendere il controllo sulle estorsioni nella città di Vibo Valentia ed allo stesso tempo, a detta della collaboratrice di giustizia, uccidere Domenico Cugliari, detto “Mico i Mela”, di Sant’Onofrio, zio “dei fratelli Pasquale, Domenico, Nicola e Salvatore Bonavota”. A tale ultimo agguato si sarebbe però opposto Salvatore Patania, intenzionato a vendicare prima la morte del padre Fortunato Patania (ucciso nel settembre del 2011 dai Piscopisani per vendicare l’omicidio avvenuto due giorni prima ai danni di Michele Mario Fiorillo, zio di Rosario Fiorillo, detto “Pulcino”, ritenuto elemento di spicco del clan dei Piscopisani). Secondo Loredana Patania ci sarebbe stato anche un incontro fra Giuseppe Patania e “U Tartaru” di Piscopio, ovvero Nazzareno Fiorillo, in cui il primo avrebbe detto al secondo che i Patania non si sarebbero fermati con gli omicidi sin quando non gli avrebbero consegnato la “testa” dei mandanti e degli esecutori dell’omicidio di Fortunato Patania.

Quindi il racconto del tentato omicidio nel febbraio del 2012 ai danni di Francesco Scrugli a Vibo Valentia, sparato da un killer macedone (Vasvi Beluli) assoldato dai Patania ed appostato con una carabina di precisione in una casa popolare del quartiere S. Aloe a pochi metri dalla Questura ed anche l’intenzione da parte degli stessi Patania di attentare alla vita di Scugli in ospedale a Vibo dove era stato ricoverato una volta ferito. Francesco Scrugli è stato poi ucciso nel marzo del 2012 a Vibo Marina in un agguato in cui sono rimasti feriti pure Rosario Battaglia di Piscopio e Raffaele Moscato (oggi collaboratore di giustizia). Per tale fatto di sangue, Loredana Patania è stata condannata a 6 anni di reclusione per aver ceduto a Giuseppe Patania una delle pistole usate per l’agguato.

Giuseppina Iacopetta (madre dei fratelli Patania e moglie dell’assassinato Fortunato Patania, in foto a sinistra) appresa la notizia dell’uccisione di Scrugli, a detta di Loredana Patania, si sarebbe invece inginocchiata a terra dicendo: “Nato mio, giustizia è fatta”. Sarebbe stata proprio Giuseppina Iacopetta, secondo Loredana Patania, a volere “la guerra” con gli altri clan, tanto da “invitarmi – ha ricordato la collaboratrice di giustizia – a bussare a casa di Franco Calafati per fargli aprire la porta. Nell’abitazione sarebbero dovuti poi entrare dei sicari per ucciderlo, ma io mi sono rifiutata”.

Il ruolo di Matina, la sparizione di Penna ed i contrasti sulle estorsioni. Giuseppe Matina, alias “Gringia” (soprannome che, a detta di Loredana Patania, sarebbe stato dato al marito dall’allora maresciallo della Stazione di Sant’Onofrio, Sebastiano Cannizzaro) sarebbe stato invece un componente del clan capeggiato da Emilio Bartolotta e da Franco Calafati ed avrebbe partecipato alla sparizione per lupara bianca dell’assicuratore, nonchè all’epoca segretario cittadino dell’Udc, Michele Penna, quest’ultimo intenzionato a formare un autonomo clan. O almeno così credevano i Patania che anche per questo decretarono la morte (eseguita dal kilelr Arben Ibrahimi su mandato dei Patania) di Giuseppe Matina, con Loredana Patania che dopo l’omicidio del marito si sarebbe trasferita con i bambini prima a casa di suo cugino Giuseppe Patania e poi a casa della zia Giuseppina Icopetta.

Inganni, tradimenti e voltafaccia sarebbero stati all’ordine del giorno, con i Patania che sarebbero stati intenzionati a trovare ad ogni costo il corpo di Michele Penna (in foto a sinistra) perchè, secondo Loredana Patania, “in cambio i miei cugini ritenevano di poter ricevere favori sul piano giudiziario dal maresciallo Cannizzaro che era impegnato pure lui a ritrovare il corpo di Michele Penna per consegnarlo ai genitori e dar loro la possibilità di una degna sepoltura”. Tre gli episodi delittuosi narrati invece dalla collaboratrice di giustizia per contrasti sorti – a suo dire – sulla spartizione dei lavori di metanizzazione a Stefanaconi: l’esplosione di una bomba al fioraio Lopreiato, la bomba messa al distributore di carburanti dei Patania nella Valle del Mesima e la bomba al negozio di generi alimentari “Franzè” a Stefanaconi. Secondo Loredana Patania a non mettersi d’accordo per la spartizione dei lavori di metanizzazione sarebbero stati “i Patania, Domenico Franzè, della “Società minore”, (“alleato – secondo la Patania – a Nicola Bartolotta, alias U Pirolu”), Giovanni Franzè e i Bartolotta a loro volta alleati ai Bonavota che sarebbero rimasti senza la loro parte di tangente”.

Per la bomba alla “Valle dei Sapori”, Giuseppe Matina (marito di Loredana Patania) sarebbe stato invece pesantemente minacciato di morte da Salvatore Patania, mentre Fortunato Patania avrebbe partecipato a Sant’Onofrio ad una riunione con i Bonavota “alzando la voce per sapere da Franco Calafati chi si era permesso di danneggiargli la stazione di carburanti poichè aveva intenzione di ucciderlo in piazza davanti a tutti”.

La bomba alla “Valle dei sapori”, le estorsioni sull’A3 e l’omicidio di Nino Lopreiato. Secondo Loredana Patania a mettere la bomba alla “Valle dei Sapori” (stazione di carburanti con annesso bar, albergo e ristorante) dei Patania sarebbero stati “Nazzareno e Vittorio Loschiavo su mandato dei Bonavota”. I sospetti dei Patania sarebbero però caduti su Giuseppe Matina, marito di Loredana Patania, che sarebbe stato indicato come l’autore dell’attentato – a dire della pentita – dal “maresciallo Sebastiano Cannizzaro”. Mancati accordi fra i Patania ed i Bonavota sulle estorsioni da praticare sul tratto dell’A3 -ricompreso fra gli svincoli di Sant’Onofrio e delle Serre – avrebbero ulteriormente alimentato lo scontro. In tale contesto ed alla sparizione di Michele Penna sarebbe legato per Loredana Patania pure l’omicidio di Antonino Lopreiato, ucciso a Stefanaconi nel 2008 ed i cui mandanti sono stati indicati dalla collaboratrice di giustizia in “Domenico Cugliari, detto Mico i Mela”, Franco Calafati ed Emilio Bartolotta”. Quindi i riferimenti a: “Riccardo Cellura che da Carugo, in provincia di Como, procurò falsi distintivi delle forze dell’ordine usati anche in occasione del tentato omicidio a Piscopio da parte dei Patania-Caglioti ai danni di Rosario Fiorillo detto “Pulcino”; ad “Antonio Mazzeo residente a Carugo, che dal Nord mandava a Stefanaconi le armi ai cugini Patania”; ed a Nazzareno Fortuna, detto “Cacazza“, di Stefanaconi, “che era il prestanome dei Patania ed il vero traditore della famiglia, ovvero colui che – ha spiegato Loredana Patania – passava poi di nascosto tutte le informazioni ai Piscopisani”.

Infine i riferimenti all’allora comandante della Stazione dei carabinieri di Sant’Onofrio Sebastiano Cannizzaro e all’allora parroco di Stefanaconi Salvatore Santaguida. Secondo Loredana Patania, la zia Giuseppina Iacopetta si sarebbe recata diverse volte in Chiesa con la scusa di confessarsi con don Santaguida ma in “realtà per passare informazioni che il sacerdote trasferiva poi al maresciallo Cannizzaro. Sono stata perseguitata dal maresciallo – ha dichiarato la Patania – con il sequestro della casa, il ritiro della patente e continue microspie. Una microspia venne messa anche nell’auto di Giuseppe Patania, ma i Patania sapevano della presenza della cimice”. Accuse che la difesa di Sebastiano Cannizzaro (avvocati Aldo Ferraro e Pasqualino Patanè) e Salvatore Santaguida (avvocato Enzo Galeota) proveranno a smontare nella prossima udienza fissata per il 30 novembre. Nel corso dell’esame, in ogni caso, Loredana Patania ha ammesso di aver fatto uso di sostanze stupefacenti. “Ho fumato cocaina – ha dichiarato – mentre il mio attuale compagno Daniele Bono, pure lui inserito nel clan Patania, all’epoca faceva uso di cocaina. Ora viviamo insieme in una località protetta – ha concluso la Patania – e pure lui ha deciso di collaborare con la giustizia. Non parliamo mai però dei processi e delle dichiarazioni che dobbiamo rendere o abbiamo reso”. Parola di collaboratrice di giustizia. Se crederla o meno spetterà al Tribunale, oggi più volte costretto invano a cercare di fermarla nelle sue dichiarazioni “a ruota libera”. Il contro-esame fissato per la prossima udienza si preannuncia a dir poco interessante.

Gli imputati. Ad essere accusati del reato di associazione mafiosa sono: Giuseppina Iacopetta, ritenuta al vertice della cosca dopo l’uccisione del marito, Fortunato Patania, freddato nel settembre 2011 durante la faida con i Piscopisani; i figli Salvatore, Saverio, Giuseppe, Nazzareno e Bruno Patania; Andrea Patania; Cosimo e Caterina Caglioti; Nicola Figliuzzi; Cristian Loielo; Alessandro Bartalotta; Francesco Lo Preiato; Ilya Krastev. L’ex maresciallo dei carabinieri, già alla guida della Stazione di Sant’Onofrio, Sebastiano Cannizzaro, è invece accusato di falso e concorso esterno in associazione mafiosa. Tale ultimo reato viene contestato anche a don Salvatore Santaguida, parroco di Stefanaconi.

Intanto l’ex assessore di Scopelliti si prende 9 anni per mafia

(Lucio Musolino per Il Fatto Quotidiano)

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Nove anni di carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso e 2.100 euro di multa. L’ex consigliere e assessore comunale all’Ambiente Pino Plutino è stato condannato anche dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria al termine del processo “Alta tensione 2“. Adesso manca solo il sigillo della Cassazione per confermare quanto sostiene la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria e cioè che l’uomo di fiducia dell’ex sindaco e governatore Giuseppe Scopelliti è un componente della famiglia mafiosa Caridi federata con la potente cosca Libri.

La sentenza è arrivata intorno alle 19 dopo una lunga camera di consiglio. In sostanza, i giudici della Corte d’Appello hanno confermato l’impianto accusatorio del pm Stefano Musolino che, in primo grado, aveva ottenuto la condanna di Plutino a 12 anni di carcere.

Arrestato nel 2012, l’ex assessore comunale sarebbe stato il referente politico dei Caridi al Comune di Reggio. Su di lui, il clan avrebbe fatto confluire i voti non solo degli affiliati, alterando la libera competizione elettorale per le comunali del 2011. Plutino, infatti, è il cugino di Domenico Condemi, considerato il boss del quartiere San Giorgio Extra e condannato a 20 anni di carcere.

Secondo gli inquirenti, l’ex assessore condannato era “il referente della cosca Caridi-Borghetto-Zindato e cresciuto politicamente attraverso queste dinamiche”. Secondo la Procura, da questa inchiesta, è venuta fuori quella che definiscono la ‘ndrangheta “fluida” capace di infiltrarsi nelle istituzioni e che chiede di essere riconosciuta come “sistema di potere“.

La Corte d’Appello ha assolto il fratello del boss, Filippo Condemi, “per non aver commesso il fatto”. Cadono le accuse anche per il poliziotto Bruno Doldo processato per rivelazione del segreto d’ufficio. Al termine del processo, così come era avvenuto in primo grado, i giudici hanno ritenuto che Doldo (all’epoca anche arrestato) fosse innocente e, soprattutto, non fosse quell’”agente della Digos” di cui si parla nelle intercettazioni effettuate durante le indagini.

‘Ndrangheta in salsa brianzola: arrestato “l’invisibile” Paolo De Luca

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Alla fine è diventato visibile: i carabinieri di Monza hanno arrestato Paolo De Luca, 46 anni, detto ‘il boss invisibile’, uomo della ‘ndrangheta in Brianza legato alla cosca degli Stagno. De Luca, residente a Seregno, è stato arrestato con le accuse di associazione mafiosa, detenzione di armi, detenzione di stupefacenti e calunnia aggravata, insieme a Alessandro Colacitti, un pregiudicato di 34 anni, e alla madre di quest’ultimo, una settantenne originaria di Catanzaro, entrambi residenti a Seregno.

I carabinieri hanno agito in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal tribunale di Milano, su richiesta del pm della Dda Paolo Storari. De Luca amava definirsi ‘il boss invisibile’ perché, sebbene sfiorato da almeno tre indagini per mafia, era riuscito a uscirne sempre pulito. La prima volta era stato durante le indagini di ‘Infinito’, quando alcuni collaboratori di giustizia avevano fatto il suo nome agli inquirenti. Inoltre, aveva precedenti per detenzione di stupefacenti: l’anno scorso nel suo furgone sono stati ritrovati 15 chili di marijuana.

Le indagini dei carabinieri erano partite nel marzo scorso, a seguito di un sequestro di armi effettuato a casa della donna. In quell’occasione, erano stati sequestrati tre fucili da guerra, una mitraglietta dotata di silenziatore e due pistole automatiche, di cui una Beretta con matricola abrasa. In un primo momento madre e figlio si erano intestati la paternità delle armi, poi hanno ritrattato, accusando una persona del posto estranea ai fatti. I due erano stati denunciati per calunnia, con l’aggravante di aver mentito per difendere De Luca.

Gli inquirenti hanno accertato i suoi legami con il clan Stagno di Monza, cui si era affiliato nel 2005 facendo da padrino a Nazzareno, figlio di Antonio Stagno. Inoltre aveva contatti con la potente famiglia Mancuso di Limbadi (Vibo Valentia), e con i Gallace di Guardavalle (Catanzaro). De Luca era diventato l’uomo di fiducia dei vibonesi, cui aveva riferito di violazioni del codice mafioso da parte del clan Cristello, rivale agli Stagno. Da quel momento aveva smesso di lavorare, e dal 2008 il suo compito era di curare la security di alcuni locali notturni della zona, controllando i traffici di droga nella zona e garantendo ai mafiosi il controllo del territorio. Secondo gli investigatori, De Luca si preoccupava anche di far arrivare in Calabria le “ambasciate” quando qualcuna delle famiglie rivali tentava di prendere il sopravvento.

(fonte)

Intanto la ‘ndrangheta spara a Sydney: ucciso il boss Barbaro

Ancora un’esecuzione di puro stile mafioso in Australia, nella guerra fra bande per il controllo del mercato della droga, che vede fra i protagonisti una consolidata ramificazione della ‘ndrangheta calabrese. Pasquale Barbaro di 35 anni è stato ucciso la scorsa notte a Sydney con numerosi colpi mentre usciva dalla casa di un suo associato, da due uomini incappucciati subito fuggiti. Il giorno dopo, in un processo per omicidio, in un tribunale di Sydney sarebbe stata ascoltata un’intercettazione di Barbaro che parlava con il boss della temibile banda libanese Brothers for Life.

La famiglia Barbaro. Pasquale Barbaro (nella foto) era in libertà su cauzione in attesa del processo in dicembre davanti alla Corte Distrettuale di Sydney, per produzione e traffico della droga ice, dove rischiava una condanna a 20 anni. Pasquale Barbaro, che un anno fa era sopravvissuto a un simile agguato, porta lo stesso nome del nonno, ucciso in una simile esecuzione nel 1990. Suo zio, anche Pasquale Barbaro, sta scontando 30 anni di carcere per l’importazione nel 2009 della quantità record di 4,4 tonnellate di ecstasy, 15 milioni di pasticche nascoste i 3000 barattoli di pomodori pelati provenienti dal porto di Napoli. E il cugino, anch’egli Pasquale Barbaro, è stato assassinato a Melbourne nel 2003 insieme al noto boss criminale Jason Moran.

Le ipotesi. Secondo il giornalista giudiziario Keith Moor vi sono sospetti che Barbaro fosse diventato un informatore della polizia. “Il sospetto è che sia stato ucciso per aver violato il codice di omertà, come è successo con suo nonno nel 1990”, ha detto alla radio nazionale Abc. L’uccisione potrebbe anche essere legata a qualcosa di diverso dalla guerra fra bande. “Era coinvolto in diversi reati fra cui la droga. E’ ovvio che si sia fatti dei nemici e vi sono stati tentativi di eliminarlo nel passato”, ha aggiunto.

(fonte)

Il vescovo di Locri rifiuta l’offerta: “soldi che puzzano di ‘ndrangheta”

L’indicazione del vescovo di Locri Francesco Oliva è stata chiara: le offerte che puzzano di ‘ndrangheta non si accettano. E così il parroco di Bovalino, paese della provincia di Reggio Calabria colpito dall’alluvione del 2015, è andato in banca e ha emesso due bonifici, indirizzati ad altrettante ditte che avevano inviato cinquemila euro ciascuna per contribuire a ricostruire il tetto della chiesa matrice sfondato dalla pioggia.

“Con il denaro sporco non si costruiscono chiese, a costo di rinunciare ai lavori”, dice il presule a Repubblica. E i soldi rispediti al mittente in effetti avevano una provenienza quantomeno sospetta. Si tratta di fondi inviati da ditte collegate a Domenico Gallo, arrestato a fine ottobre nell’inchiesta condotta dalla procura di Roma sui grandi appalti, dalla Tav alla Salerno-Reggio Calabria. Nell’ordinanza che ha portato in carcere l’imprenditore calabrese, il giudice ha messo in evidenza “i suoi contatti con soggetti legati alla criminalità organizzata”. E davanti alle carte giudiziarie, il vescovo non ha esitato. “Per me è stata una scelta scontata, ordinaria”, dice. E infatti non sarebbe emersa se non fosse stata accennata durante un dibattito locale e rilanciata dal Quotidiano del Sud.

“Questa vicenda – spiega il presule – è una piccola cosa ma fa parte di uno stile che deve essere chiaro: non si può rischiare di essere conniventi con le mafie e se c’è il sospetto che le offerte siano frutto di affari mafiosi, bisogna rifiutarle in modo fermo”. Oliva lo aveva già affermato nel marzo scorso, quando un pentito aveva rivelato che una chiesa di Gioiosa Jonica era stata costruita con i soldi delle cosche: “Diciamo con chiarezza che non ne abbiamo bisogno”, aveva scritto ai fedeli e sacerdoti del paese.

Anche Giancarlo Bregantini, suo predecessore nella diocesi di Locri, aveva messo in guardia dal meccanismo perverso delle connivenze economiche tra cosche e comunità ecclesiali: “La mafia – diceva – tende insidie ai sacerdoti: se c’è un campanile da aggiustare, è facile che ti arrivi un generoso contributo. Ed è chiaro che ciò sarà ampiamente messo in risalto da chi lo ha dato, anche se non sarà annunciato dal pulpito: è per questo che la scelta di povertà del prete è una forza di opposizione e di resistenza incredibile”.

Ora monsignor Oliva ribadisce: “Non c’è nulla di bello che si possa costruire con i soldi macchiati dal sangue della gente”. E cita due grandi figure della Chiesa che si chiamano Francesco, come lui. Uno è il santo originario di Paola, patrono della Calabria: “Secondo la tradizione – racconta il presule – quando il re di Napoli gli offrì monete d’oro per costruire un convento lui le spezzò e ne uscì proprio del sangue: quello della gente vessata dal monarca”. L’altro Francesco è il Papa, che il 21 giugno 2014 sempre in Calabria, a Sibari, pronunciò la scomunica per i mafiosi: la ‘ndrangheta, disse, è “un male” che “va combattuto, va allontanato”. E aggiunse: “Quando all’adorazione del Signore si sostituisce l’adorazione del denaro, si apre la strada al peccato”.

Oliva quel giorno era sull’altare alla sinistra di Bergoglio, che lo aveva appena nominato vescovo e inviato a Locri: “Le parole del Papa non lasciano spazio all’ambiguità e devono dare coraggio alla Chiesa”, dice. Coraggio che non è mancato al vescovo, ma è stato condiviso anche dal consiglio affari economici della parrocchia di Bovalino, compatto nel sottoscrivere la decisione. E alla fine l’onestà è stata premiata perché i soldi necessari per ricostruire il tetto sono arrivati lo stesso, grazie al contributo dell’otto per mille e alla generosità dei fedeli.

(da Repubblica, fonte)

Così a Voghera la ‘ndrangheta affilava affari e vendette

(l’articolo di Nicoletta Pisanu, fonte)

Marco Ferrentino
Marco Ferrentino

Quel pugno dato alla sua ragazza andava vendicato. E per questo, il rivale è stato accoltellato in pieno centro a Voghera. Ferocia e violenza traspaiono dalle quasi tremila pagine del provvedimento di fermo spiccato dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria che ha portato a bloccare quarantuno persone in tutta Italia con l’accusa di affiliazione alla ’ndrangheta. Pagine che raccontano il perché del coinvolgimento nella vicenda giudiziaria degli otto vogheresi arrestati. Marco Ferrentino, 36 anni, è considerato dagli inquirenti «il reggente e capo carismatico dell’omonima cosca», si legge nelle carte giudiziarie, «distribuendone i relativi proventi ai sodali e gestendo ‘la cassa comune’». Il cugino Francesco, 26 anni, secondo le accuse «nella vicenda afferente l’accoltellamento compiuto da Giuseppe Dimasi ai danni di M.F. (estraneo all’inchiesta, ndr) in data 4 dicembre 2014, pur rimasto estraneo al fatto, diventerà il punto di riferimento per gli spostamenti di Pasquale Dimasi, fratello di Giuseppe, assicurando il mutuo soccorso tra i sodali in caso di controffensive da parte di gruppi criminali avversi». La vicenda si riferisce all’accoltellamento successo in viale Montebello. La natura delle cause che hanno portato all’atto violento, sono spiegate dalle intercettazioni. M.F. aveva aggredito la compagna di Pasquale Dimasi, sua ex moglie, scatenando la vendetta: «L’ha stroppiata sì, si è fatta male ed è scappato, gli faccio dove scappi?», racconta al fratello. Poi aggiunge: «Chiama chi devi chiamare e digli di arrangiarsela lui!», secondo gli inquirenti riferendosi alla necessità di avvertire Marco Ferrentino di quanto accaduto.

A Voghera sono state sequestrate tre imprese edili che secondo le accuse servivano per coprire affari illeciti e per questo gli indagati si erano affidati a un prestanome. Parlando di problemi relativi alle firme di alcuni assegni in virtù di questa pratica, Giuseppe Dimasi intercettato spiega a Marco Ferrentino: «Quando vieni quassù devi farti subito la delega e deve salire anche ‘chidu pecuruni’», riferendosi secondo gli inquirenti al prestanome. La costituzione di una società di import di riso, di cui risulta agli inquirenti socio il vogherese Fabio Aschei, indagato, era legata al business della droga. Aschei viene intercettato mentre un indagato calabrese spiega che per formare la società è necessario l’aiuto economico dei Ferrentino: «Il bambinello Gesù (Marco, ndr) deve portare i doni anche se non è ancora Natale». Droga che circolava anche a Voghera. Le intercettazioni riportano il consiglio di Francesco Ferrentino a Diego Freitas De Siqueira, 30enne, indagato, che secondo le accuse stava movimentando gli stupefacenti. Ferrentino gli suggerisce di non passare dal ‘carro armato’ in via Gramsci, per la presenza della polizia: «Non passare di là, cambia strada, non vorrei che ni mungianu». Usa il termine mungere, in dialetto, secondo l’interpretazione degli inquirenti, per indicare il tocco degli agenti durante l’attività di perquisizione.