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ONU

Berlusconi ha già cominciato la campagna acquisti. Il prossimo centrodestra è già putrido

“Non si dice mai di no a chi dice ‘Sottoscrivo il vostro programma’. Noi saremmo molto convenienti per loro perché potrebbero incassare interamente l’indennità parlamentare”: la frase è stata pronunciata da Silvio Berlusconi durante un’intervista al Corriere della Sera e i “loro” di cui parla sono i transfughi del Movimento 5 Stelle che, nonostante siano stati “espulsi” dal Movimento, saranno eletti (per merito di una pessima legge elettorale, giova ricordarlo) e andranno a rimpinguare un Gruppo misto che si preannuncia già folto fin dall’inizio della legislatura.

Stiamo parlando (per ora) di sei persone coinvolte nel cosiddetto caso “rimborsopoli”: Maurizio Buccarella, in lista al secondo posto per il Senato nel collegio Puglia 2; Carlo Martelli, al primo posto per il Senato nel collegio Piemonte 2; Elisa Bulgarelli, al terzo posto nel collegio Emilia Romagna 1 per il Senato; Andrea Cecconi, al primo posto per il collegio Marche 2 per la Camera; Silvia Benedetti, al primo posto in un collegio veneto per la Camera; Emanuele Cozzolino, al terzo posto in un altro collegio veneto sempre per Montecitorio; dei quattro candidati “massoni” (Piero Landi, candidato a Lucca; Catello Vitiello a Castellammare di Stabia, David Zanforlin a Ravenna e Bruno Azzerboni a Reggio Calabria), di Emanuele Dessì (amico del clan Spada e in affitto in una casa popolare a 7 euro al mese e candidato al Senato nel collegio Lazio 3, al secondo posto).

Ma non è questione solo di candidature sbagliate: qui si tratta di un recidivo (Berlusconi) che sfrontatamente dichiara di avere aperto la campagna acquisti per ambire a un gruppo parlamentare già dopato indipendentemente dal risultato elettorale. È il solito Berlusconi, quello pessimo a cui la storia ci ha abituato, quello che la Lorenzin e la Bonino da sinistra dichiarano come prossimo alleato naturale in nome della responsabilità. È lo stesso disco. Rotto. Vecchio. E quasi nessuno si indigna.

Buon mercoledì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/02/21/berlusconi-ha-gia-cominciato-la-campagna-acquisti-il-prossimo-centrodestra-e-gia-putrido/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui.

«Il più grande furto della storia»: l’ONU sulla parità salariale

È il “più grande furto della storia”. Parola dell’Onu, che giudica così la differenza salariale di genere. Secondo i dati raccolti dalle Nazioni Unite, “nel mondo le donne guadagnano in media il 23% in meno degli uomini”, senza distinzioni di aree, comparti, età o qualifiche. “Non esiste un solo paese, né un solo settore in cui le donne abbiano gli stessi stipendi degli uomini”, ha detto la consigliera economica del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Undp), Anuradha Seth, come riporta l’Agi. Il divario salariale è dovuto all’accumulo di numerosi fattori che includono la sottovalutazione del lavoro delle donne, la mancata remunerazione del lavoro domestico, la minore partecipazioneal mercato del lavoro, il livello di qualifiche assunte e la discriminazione.

L’allarme lanciato da Anuradha Seth non è il primo di questo tenore sul tema della disuguaglianza salariale. Già l’8 marzo scorso, in occasione della Giornata internazionale della donna, un report di Oxfam aveva indicato proprio nel 23% dello stipendio la differenza nella retribuzione tra generi. E aveva avvertito: serviranno ancora 170 anni per colmare il gap retributivo a livello globale, 52 anni di più di un anno fa. L’allargamento della forbice a cui si è assistito negli ultimi anni incide sempre di più sulla vita di milioni di donne soprattutto nei Paesi poveri. Molti dei diritti acquisiti dalle donne infatti sono messi in discussione e le disparità sono in crescitala quota di lavoro non retribuito, soprattutto di cura delle persone, viene svolto da 2 a 10 volte in più dalle donne rispetto agli uomini.

La situazione in Italia – Il problema del lavoro domesticoriguarda anche l’Italia. Secondo il rapporto presentato a ottobre dall’Ocse sulle competenze dei lavoratori italiani, nonostante i piccoli progressi degli ultimi mesi, il nostro Paese resta al quartultimo posto tra i 35 Paesi sviluppati per percentuale di donne occupate. Il motivo? Sono percepite come “assistenti familiari“. “L’accesso limitato ad asili nido a prezzi accessibili” e a “posti di lavoro flessibili che potrebbero aiutarle a gestire lavoro e famiglia” e un sistema che “continua a favorire le madri – invece che i padri – a prendere il congedo familiare”, spiegano perché il tasso di occupazione non arriva nemmeno al 50%. A luglio ha toccato il 48,8%: un record storico per l’Italia, ma la media Ue è più alta di circa 17 punti.

(fonte)

Colloquio per Ryanair: racconto semiserio di una giornata di ordinaria precarietà

(Sandro Gianni racconta la sua esperienza per Clap, qui)

A giudicare dagli annunci nei portali per la ricerca di lavoro, sembra che sul mercato esistano solo tre tipi di occupazioni disponibili: sistemista Java, dialogatore e operatore call-center. Se non conosci Java e hai zero voglia di vendere il tuo tempo per delle chiacchiere con degli sconosciuti, al telefono o dal vivo, la ricerca pare senza possibili sbocchi. Aggiungi che la percentuale di risposta ai curriculum inviati rasenta lo zero e che la laurea e/o i master di cui sei in possesso non sono particolarmente quotati nella borsa degli skills… il quadro si complica parecchio.

Perciò, quando qualcuno ha finalmente risposto alla mia “iscrizione a un’offerta di lavoro” ho provato una strana sensazione, di affetto quasi. Ho pensato di dover ricambiare, presentandomi al colloquio. Ho detto “qualcuno”, ma in realtà avrei dovuto dire “qualcosa”: un algoritmo, un dispositivo automatico di risposta alle mail, un bot del portale. Non posso saperlo, ma l’invito a comparire in un hotel nella zona di Tor Vergata è arrivato pochi millesimi di secondo dopo l’invio della mia iscrizione. Ciò esclude la mediazione umana e, dunque, una seppur minima selezione del curriculum, che avrebbe potuto equivalere a qualche decimale in più nella stima probabilistica di un’assunzione .

Il lavoro non era proprio quello dei miei sogni, ma provavo a vederci delle sfumature positive: la possibilità di viaggiare, avere un contratto decente, ricevere uno stipendio non troppo basso. Ovviamente, mi sbagliavo.

Nell’atrio dell’hotel di lusso, nella periferia sud-est di Roma, una quarantina di ragazzi e ragazze tirati a lucido, con la barba fatta, il vestito e la cravatta siedono in silenzio. Tra loro, io. Alcuni si muovono sicuri nei completi eleganti, camminano come se nulla fosse, bevono il caffé senza bisogno di sistemarsi di continuo la giacca, muovono le mani sullo smartphone senza domandarsi perché la camicia faccia capolino solo da una delle due maniche. Altri sono impacciati, si toccano insistentemente la cravatta temendo che il nodo si sciolga, cercano delle tasche in cui infilare le mani senza trovarle, provano a controllare la continua fuoriuscita della camicia dalla giacca senza alcun successo. Evidentemente, non sono abituati a conciarsi così. Tra loro, sempre io. C’è anche un ragazzo che deve aver letto male le istruzioni per l’uso: si è presentato in jeans e camicia a quadrettoni, rossi e blu. È imbarazzato, ma resta. Sembra simpatico.

In sala nessuno fiata. Quasi che taller e vestiti abbiano trasmesso per metonimìa un certo dovere di contegno, di formalità. «Dicono che l’abito non fa il monaco, ma non è vero» – argomenta il Totò ladro vestito da carabiniere, nei Due marescialli – «Io a furia di indossare indegnamente questa divisa, marescia’… mi sento un po’ carabiniere».

Ci chiamano e andiamo tutti insieme nel seminterrato dell’albergo, in una sala conferenze. Eliminata la prima decina di candidati con un test di inglese da seconda media, la selezione entra nel vivo. O meglio, nel video. Proiettano una presentazione del lavoro, divisa per sezioni: informazioni tecniche sulle diverse mansioni; procedure di inizio; questioni retributive e contrattuali; possibilità di carriera; criteri di premialità; caratteristiche dell’azienda che offre il lavoro e dell’agenzia di recruitment che assume (due cose diverse: una è Ryan; l’altra una fusione tra Crewlink e Workforce International… sì, si chiama proprio così!). In questa seconda fase, si rivolgono a noi come fossimo già assunti. L’uomo sulla cinquantina, inglese o irlandese, responsabile del reclutamento, allude più volte a quanto staremmo bene con indosso le nuove divise da hostess e steward.

Dalle immagini del video e dagli interventi del selezionatore si capisce che ci sono soprattutto tre caratteristiche importanti per fare questo lavoro: essere disponibili alla relocation immediata; parlare inglese; essere flessibili-e-sorridenti (insieme). Le immagini mostrano giovani di tutti i colori, che sembrano felici e raccontano la loro esperienza con Ryan di fronte a un bastone per i selfie. In particolare, insistono su quanto sia utile e divertente il corso di formazione per diventare personale di bordo. Si nuota, si spengono incendi, si salvano bambolotti, si incontrano persone. «You grow up like a man, not just cabin crew».

Ma è più avanti che le orecchie dei candidati si aguzzano: quando si inizia a entrare nel dettaglio del salario e dei tempi di lavoro. La retribuzione è organizzata secondo una serie di premi e possibili punizioni, un incrocio tra un videogioco e una raccolta punti del supermercato. «Your performance is continually monitored and assessed». Monitorare e valutare. Punire solo come ultima ratio. Soprattutto premiare: per far rispettare le regole, per aumentare la produttività, per migliorare le prestazioni. I like dei clienti danno diritto a delle ricompense: monetarie, ma soprattutto relazionali. Ad esempio, la penna nel taschino è indice di un certo numero di apprezzamenti. Costituisce dunque, tra i colleghi e nell’azienda, l’indicatore di uno status particolare.

Si viene pagati un po’ in base all’orario e un po’ a cottimo. Nel senso: un fisso non esiste; sono retribuite solo le ore di volo; si percepisce il 10% su ogni prodotto venduto (…adesso lo capite il perchè di tanto rumore?). Il contratto è registrato in Irlanda o UK. Si hanno delle agevolazioni sui viaggi in aereo.

Il salario mensile dovrebbe oscillare tra 900 e 1.400 euro lordi, in base al luogo di ricollocamento. «We try to keep the wages homogeneous among our workers». Bella l’uguaglianza, quando non schiaccia tutti verso il basso… penso io. Viene poi fatto cenno a un periodo annuale in cui non si lavora e non si ricevono soldi: da uno a tre mesi. Ma il selezionatore ci assicura che questa pausa non supera (quasi) mai i 30 giorni.

Fino a qui, niente di eccezionale. Ma il rapporto premi-punizioni è più complesso e configura per intero il sistema di retribuzione. Ovviamente, se i diritti diventano premi e i doveri debiti, tutto cambia. Non si parla di tredicesima e/o quattordcesima, ma di bonus, che si ricevono solo il primo anno. 300 euro il primo mese di lavoro, altrettanti il secondo, il doppio il sesto. Chi va via prima della conclusione dei primi 12 mesi, però, deve restituire questi bonus. Inoltre, la divisa (quella bella di cui sopra) costituisce un costo esternalizzato al lavoratore: il primo anno sono 30 euro al mese scalati direttamente dalla busta paga; successivamente pare si ricevano dei soldi, ma non si capisce bene per cosa, se per lavarla o non perderla. Per ultimo, il famoso corso di formazione per diventare hostess o steward si rivela qualcosa di più di un parco giochi in cui fare festini con altri esponenti multikulti della generazione Erasmus. Principalmente, si rivela un’enorme spesa. Se all’inizio era stato comunicato che, in via eccezionale, le registration fees del corso erano dimezzate a 250 euro, è alla fine che viene fuori il vero prezzo da pagare. Ci sono due modalità differenti: 2.649 euro se paghi prima dell’inizio e tutto in un colpo; 3.249 se decidi di farti scalare il costo dallo stipendio del primo anno (299 euro dal secondo al decimo mese, 250 gli ultimi due).

Si aprono le domande. Dopo alcune irrilevanti su sciocchezze burocratiche, alzo la mano. «Ci avete parlato di un massimo di ore di volo a settimana, ma mai delle ore totali di lavoro. Quante sono?», chiedo. «Voi siete pagati in base alle block hours, cioé le ore calcolate dalla chiusura delle porte prima del decollo, all’apertura dopo l’atterraggio. I tempi di preparazione dell’aereo, prima e dopo il volo, possono variare». Varieranno pure, ma di sicuro non vengono pagati, nonostante siano tempi di lavoro.

Alza la mano quello dietro di me. «Scusi la domanda, ma ho bisogno di fare dei conti. Diciamo che uno stipendio per una destinazione non troppo cara è di 1.000 euro. Ve ne devo restituire 330 al mese tra corso e divisa. Ne rimangono 670. Dovrò prendere una stanza in affitto, diciamo 300 euro. Ne rimangono 370. In più avrò bisogno di pagare un abbonamento ai mezzi per raggiungere l’aeroporto e coprire almeno le spese della casa anche nella pausa annuale in cui non si lavora. Diciamo che, se va bene, rimangono 300 euro. E non ho scalato le tasse, perché non so come si calcolano in Irlando o UK. Secondo lei, con questi soldi si può vivere?». Sbem.

Il selezionatore della società di recruitment, fino a quel momento cordiale e spiritoso, accusa il colpo. Deglutisce. Tossisce. Arrosisce. Si butta sulla fascia, prova un diversivo. «With this work you don’t get rich, but it’s in accordance with your capacity and affords your lifestyle». Alla fine, anche qui le nostre capacità valgono poco più di un pacchetto di sigarette al giorno. Chissà, invece, come ha calcolato il nostro stile di vita!

Finito il video, io e gli altri candidati usciamo e andiamo a mangiare insieme. Da come siamo vestiti, sembriamo un gruppo di giovani businessmen in carriera, lanciati alla conquista del mercato e pronti a scalare colossi finanziari. Invece siamo lì per un colloquio che, se va bene, ci farà guadagnare meno della persona che ci serve la pizza.

Comunque, i calcoli veloci del ragazzo che ha fatto la domanda dopo di me hanno sciolto l’iniziale freddezza tra i candidati. In molti hanno perso interesse per questo lavoro. Anche per questo, si scherza e si chiacchiera. Alcuni hanno appena finito la scuola superiore, altri l’università. Altri ancora hanno già diversi anni di precarietà e i capelli brizzolati. Tra loro…

Rimango fino all’intervista, per sport. Mi capita la collaboratrice del selezionatore. Legge il mio curriculum. Niente di eccezionale, però insomma… neanche da buttare. Tutti i titoli di studio con il massimo dei voti, laurea e due master, cinque lingue, numerose esperienze di lavoro materiale e immateriale, in Italia e all’estero. «Are you sure you want to do this work?», mi chiede. Bleffo: «Eeeeeh. Why not?». «Do you know people working for us?». «No». «So, what do you know about this work?». «What you told me today», rispondo. Lei arriccia il labbro inferiore e muove la testa dal basso verso l’alto e poi in senso inverso, fissandomi con gli occhi corrucciati. Ho l’impressione che stia pensando sardonicamente “devi essere proprio una volpe, tu!”.

Saluto, me ne vado. Sulla vespa faccio i conti: due caffé al bar dell’albergo = 3 euro; un pezzo di pizza e una bottiglia d’acqua = 4 e 50; giri vari alla ricerca di vestito, cravatta e scarpe e poi fino al colloquio = almeno 5 euro; stirare la camicia = 2 euro; stampare 7 fogli di curriculum dal cristiano-copto su via di Torpignattara, che sembra sapere quando non puoi dirgli di no = 2,10 euro. Barba e capelli costo zero, taglio autoprodotto in casa. Alla fine, non mi è andata nemmeno tanto male. Qualcuno è arrivato in treno da lontano, spendendo molto di più. Per l’ennesima offerta di lavoro precario e sottopagato.

Almeno una cosa l’ho capita: nella compagnia aerea, quel low che precede il cost non è riferito soltanto ai prezzi dei biglietti, ma anche al costo del lavoro.

“Caschi blu legati giro prostituzione minori”: lo dice un rapporto segreto dell’Onu.

Dall’Ansa:

Un rapporto segreto delle Nazioni Unite rivela che 134 caschi blu dello Sri Lanka erano coinvolti in un giro di prostituzione minorile ad Haiti. Nessun arresto e’ stato fatto nonostante le “prove schiaccianti” del caso. E’ quanto emerge da un’inchiesta dell’agenzia di stampa americana Ap.

Il rapporto interno dell’Onu, scrive l’agenzia di stampa, parla di abusi sessuali da parte dei caschi blu dello Sri Lanka ad Haiti su bimbi anche di 12 anni e cita l’intervista ad una ragazza – conosciuta come ‘V01’, ovvero ‘Vittima n. 1’ – che dai 12 ai 15 anni, quando il suo seno non era ancora sviluppato, ha detto di avere fatto sesso con circa 50 caschi blu incluso un “comandante” che le ha dato 75 centesimi. Ma questa sembra essere solo la punta dell’iceberg. Dall’inchiesta dell’Ap, che ha riguardato le missioni Onu negli ultimi 12 anni, sono emersi infatti circa 2.000 presunti casi di abusi sessuali da parte dei caschi blu ed altro personale Onu nel mondo. E oltre 300 di questi casi vedono come protagonisti i bambini.

È che ci vuole il fisico, per sapere non fare la guerra

Angelino Alfano, ministro agli Esteri: «L’Italia comprende le ragioni di un’azione militare USA proporzionata nei tempi e nei modi, quale risposta a un inaccettabile senso di impunità nonché quale segnale di deterrenza verso i rischi di ulteriori impieghi di armi chimiche da parte di Assad, oltre a quelli già accertati dall’ONU».

Paolo Gentiloni, Presidente del Consiglio: «L’azione ordinata dal presidente Trump. È una risposta motivata a un crimine di guerra. L’uso di armi chimiche non può essere circondato da indifferenza e chi ne fa uso non può contare su attenuanti o mistificazioni».

Nicola La Torre, senatore del PD, presidente della Commissione Difesa al Senato: «L’azione USA è un’opportunità. Obama con Mosca sbagliava strategia. Ogni sforzo diplomatico era azzerato. L’attacco ha fermato la china criminale e può riaprire il negoziato».

Queste le dichiarazioni. E il commento, alla fine, non c’è nemmeno bisogno di scriverlo perché l’ha già detto come meglio non si poteva dire George Orwell nel 1938:

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Siria chimica: Erode si è fermato Idlib

«È stato Assad!» gridano tutti. Come se il mondo (e ancora di più la Siria) potesse essere il tavolo banale su cui giocano i buoni contro i cattivi, come se poi non ci fossero anche i morti di Mosul, come se lo Yemen invece fosse solo la cloaca dei morti di serie b oppure come se la fabbricazione di armi non sia un ricco banchetto tutto occidentale.

Nell’ordine di qualche ora la colpa dei bambini gasati è stata affibiata a Assad, ai ribelli, a Obama (da Trump), all’ONU, a Putin, più qualche manciata di scenari apocalittici dei complottisti rossobruni più affilati. Tutti alla ricerca di un nemico unico che sia riconoscibile, facile e banalmente tranquillizzante.

Molti con le risposte, pochi con le domande. Francesco Vignarca, ad esempio, scrive: «La parte preponderante di colpa per i terribili attacchi chimici avvenuti in Siria è in chi ha lanciato tali ordigni. Ma non è secondaria nemmeno la colpa di chi ha fabbricato, trasportato, autorizzato tali armi. E vale per qualsiasi armamento, in ogni guerra. Troppo facile pensare che i “cattivi” siano solo quelli dell’ultimo pezzettino del viaggio tra l’ideatore di un’arma e la vittima finale…». Già, chi ha ” fabbricato, trasportato, autorizzato tali armi”? Tornando indietro nel tempo, chi ha appoggiato festante le “primavere arabe”?

 

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Metti che un giorno l’Italia sia guerrafondaia e filonucleare: giocare d’anticipo, stavolta

Lo scorso ottobre durante una riunione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che trattava di disarmo e questioni di sicurezza internazionale, 123 nazioni hanno votato a favore della Risoluzione L.41,  mentre 38 (compresa l’Italia) hanno votato contro e ci sono stati 16 Paesi astenuti. La risoluzione votata (la trovate qui) si proponeva di fissare una conferenza programmatica di tutti gli Stati membri per individuare uno “strumento giuridicamente vincolante per vietare le armi nucleari, che porti verso la loro eliminazione totale”.

Il voto contrario dell’Italia (a braccetto con gli USA) scatenò nei mesi scorsi un folto coro di polemiche indignate. Brevi e postume, come al solito. Ovviamente. Fu piuttosto triste assistere anche al malcelato silenzio (o al massimo qualche editorialino sdraiato) da parte di una certa stampa che di quei tempi (era ottobre ma sembra un secolo fa) aveva la preoccupazione di non disturbare il manovratore Renzi.

E non fu un errore o una decisione presa d’improvviso: quel voto è avvenuto dopo una chiara risoluzione del Parlamento Europeo che invitava tutti gli Stati membri Ue a partecipare in modo costruttivo ai negoziati ma nemmeno questo era bastato.

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Siria, ad Aleppo crollano gli ospedali

Violenti bombardamenti hanno colpito due ospedali nella giornata di sabato ad Aleppo, in Siria. Oltre cento i morti tra i civili, compresi 17 bambini.
Due ospedali della città di Aleppo, in Siria – uno dei quali specializzato in medicina pediatrica – sono stati bombardati nella giornata di sabato dalle forze filo-governative di Bashar al-Assad. Secondo l’Osservatorio siriano per i Diritti dell’uomo i raid hanno provocato la morte di almeno 107 civili, compresi 17 bambini. Le strutture colpite sono state distrutte: “Non ci sono più ospedali in piedi” nei quartieri controllati dai ribelli, ha dichiarato al settimanale francese l’Express Joël Weiler, dirigente della Ong Médicins du Monde. Un’informazione confermata anche dall’Organizzazione mondiale della sanità.

“A partire dal mese di gennaio – ha aggiunto l’attivista – abbiamo contato 126 attacchi contro strutture ospedaliere, nonostante la Convenzione di Ginevra protegga i combattenti feriti. Non abbiamo più personale, né materiali. Le ultime razioni alimentari sono state distribuite giovedì: la volontà è ormai di affamare la gente. Sono mesi che denunciamo questo scandalo, non so più quali parole utilizzare per definirlo”.

Dal punto di vista umanitario, infatti, Aleppo è ormai sull’orlo del baratro: “Entro Natale, in ragione dell’intensificazione delle operazioni militari, potremmo assistere alla fuga verso la Turchia di 200mila persone, il che rappresenterebbe una catastrofe”, ha dichiarato l’emissario Onu per la Siria, Staffan de Mistura.

Le stesse Nazioni Unite hanno inoltre ricordato di aver “condiviso con tutte le parti in conflitto e con tutti gli stati coinvolti un piano umanitario dettagliato per fornire aiuto agli abitanti di Aleppo-Est, necessario anche per evacuare i malati e i feriti. Occorre che questo piano sia adottato e che ci venga garantito un accesso immediato e sicuro all’area in questione”.

È stata anche avanzata l’ipotesi di instaurare un’amministrazione autonoma da parte degli insorti a Aleppo-Est. Idea che però è stata immediatamente rispedita al mittente dal ministro degli Affari esteri siriano, Walid Mouallem: “Quale governo al mondo – ha dichiarato – accetterebbe una soluzione del genere?”.

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(fonte)

L’Onu denuncia violazioni dei diritti umani in Crimea

(di Marco Perduca, fonte)

Dopo un acceso dibattito che ha portato a un numero record si astensioni, la commissione diritti umani dell’Assemblea generale dell’Onu ha adottato una risoluzione che condanna la “occupazione temporanea” della Crimea da parte della Federazione russa accusandola di molteplici violazioni dei diritti umani nella regione.

Il testo, la cui adozione definitiva avverrà a dicembre, denuncia gli abusi e le discriminazioni “contro i residenti della temporaneamente occupata Crimea, compresi i gruppi di tatari”, un gruppo etnico di origine turchica che abita da secoli la penisola. Seppur in maniera diplomatica l’Onu ha quindi condannato l’annessione della Crimea e tutto ciò che ne è seguito.

Nel silenzio immobile della comunità internazionale, e con risibili motivazioni di difesa delle popolazioni russofone in Ucraina, nel marzo del 2014 la Russia si annetté la Crimea dopo che una serie di manifestazioni popolari cacciarono il presidente filo-russo Viktor Yanukovich. Tanto sui sommovimenti di piazza quanto sull’invasione russa della penisola ucraina, ci son state vendute le più varie e dietrologiche leggende a favore e contro, ma da allora non si è tornati indietro.

Poco dopo ultimata l’occupazione della Crimea Mosca formalizzò l’annessione con un referendum farsa che ottenne una maggioranza schiacciante di voti a favore. Negli stessi giorni in cui la marina russa solcava le acque del Mar Nero, nell’Ucraina orientale iniziava una vera e propria guerra di secessione – ancora in corso – che vede la Russia direttamente e indirettamente coinvolta nel tentativo di destabilizzare ampie regioni dell’Ucraina con l’utilizzo di mercenari (anche stranieri).

L’annessione della Crimea da parte di Mosca ha portato all’adozione di sofferte sanzioni internazionali, ma ha anche messo in evidenza quale sia il potere di attrazione che un regime anti-liberale come quello di Putin possa esercitare nei confronti di paesi democratici dove si ritiene che la “legge e l’ordine” siano da preferire allo Stato di Diritto. A più riprese gli europei si son spaccati sull’atteggiamento da tenere nei confronti di Mosca e non pochi movimenti politici europei hanno condonato la reazione russa, a volte anche con motivazioni anti-naziste!

Il progetto di risoluzione presentato al Palazzo di Vetro dall’Ucraina è stato approvato con 73 voti
a favore, 23 contrari e 76 astensioni. Gli europei col Regno Unito e gli Stati Uniti sono tra i paesi che hanno votato a favore della risoluzione mentre Russia, Armenia, Bielorussia, Venezuela, Siria, Iran e la Cina son tra quelli che si sono opposti. Gli astenuti fanno principalmente capo al gruppo dei cosiddetti non-allineati.

Il testo esorta la Russia a porre fine immediata a “detenzioni arbitrarie, tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti, e di revocare tutte le leggi discriminatorie”. Inoltre s’invita Mosca a liberare gli ucraini che son detenuti illegalmente, e di consentire agli enti culturali e religiose per riaprire e a revocare la decisione del 29 settembre scorso della Corte Suprema che ha dichiarato la Mejlis dei tartari di Crimea (l’istituzione di auto-governo locale) un’organizzazione estremista.

Pur senza difficoltà con Kiev, negli ultimi 20 anni la minoranza tatara era riuscita a dotarsi delle istituzioni democratiche che hanno consentito a quella comunità di proteggere e promuovere la cultura e tradizione che la caratterizza nonché la possibilità di professare la propria religione. I tatari sono stati uno dei gruppi etnici che in Russia hanno subito angherie per secoli con deportazioni di massa verso l’Uzbekistan durante gli anni di Stalin. Da due anni son tornati a vivere l’incubo del passato.

Il “deterioramento” dei diritti umani in Crimea dall’inizio della annessione illegale della Federazione Russa è stato ampiamente documentato dall’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani che ha dettagliato “arresti, maltrattamenti, torture e intimidazioni perpetrate contro gli oppositori politici e le minoranze, così come la negazione dei diritti umani fondamentali a coloro che non accettano l’imposizione forzata di legislazione e lingua, oltre che della cittadinanza, russa nella penisola.”

Nel 2015, il parlamento ucraino ha adottato una risoluzione che riconosceva la competenza della Corte Penale Internazionale sui fatti accaduti durante le manifestazioni di piazza per portare Yanukovich davanti a un giudice terzo per i crimini commessi nella repressione delle proteste del febbraio 2014.

Il 16 novembre scorso, capita la malaparata alle Nazioni unite, il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato che Mosca ritirerà la firma dallo Statuto di Roma della CPI, che comunque non aveva mai ratificato, anche perché il procutatore dell’Aia nel frattempo aveva aperto un dossier sul conflitto ucraino e, pare, sugli attacchi aerei russi in Siria.

La risoluzione dell’Assemblea generale non ha potere vincolante né prevede il rafforzamento di sanzioni internazionali ma rappresenta un documento di chiara denuncia politica nei confronti di un regime, quello russo, che viene lasciato agire senza censura o critica ferma e che sistematicamente si presenta al mondo come la vittima di un complotto internazionale – vedi le recenti rimostranze di Mosca a seguito dell’annuncio dell’invio di contingenti Nato a rafforzare la presenza militare nei paesi baltici.

All’inizio dell’anno, nel bel mezzo della guerra all’Isis, un documento del Pentagono affermava che per gli Usa, e quindi il mondo Occidentale, la maggiore minaccia fosse la Russia e non il terrorismo islamico; con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca i toni nei confronti di Mosca saranno sicuramente meno belligeranti, ciò non toglie che il problema dell’impunità della azioni militari russe fuori dai propri confini e del silenziamento violento del dissenso interno restano una ferita aperta, e sanguinante, nei confronti dello Stato di Diritto.

L’Assemblea generale è stata chiara nelle sue denunce, ma adesso cosa succederà?

L’Egitto alla guida dei diritti umani dell’Onu. Alla faccia di Giulio Regeni.

Va bene che la politica ha le sue regole. Ci diranno, ancora una volta, che la cortesia internazionale prevede che si accettino le decisioni degli altri. Ma c’è un limite di decenza, un limite di dignità e soprattutto una misura minima del rispetto a Giulio. Se qualcuno pensava che questo silenzio intorno a Giulio fosse insopportabile ora si deve ricredere. L’Egitto che ha maciullato Giulio è nel Consiglio Onu per i Diritti Umani. Leggere per credere:

2016110134509111