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La questione morale. Corrotta.

Sessantanovesimo posto, a pari demerito con Ghana e Macedonia.

E’ la posizione occupata dall’Italia – con “un aggravamento progressivo” negli ultimi anni – nella classifica della corruzione percepita stilata da “Transparency International”.

E’ uno dei dati contenuti nel Rapporto sulla corruzione realizzato dalla Commissione sulla prevenzione del fenomeno corruttivo presieduta dal consigliere Roberto Garofoli. Il “Corruption Perception Index” (CPI) del nostro Paese “si è attestato a 3.9 contro il 6.9 della media Ocse, su una scala da 1 a 10, dove 10 individua l’assenza di corruzione”.

In particolare, per il biennio 2010-2011 i cittadini italiani ritengono che il “primato” spetti alla corruzione politica, seguita da quella del settore privato e della pubblica amministrazione.

Un altro parametro, l'”Excess Perceived Corruption Index” (EPCI), formulato nell’ambito del Progetto integrità della Scuola superiore della pubblica amministrazione, misura quanto un Paese si discosta dai valori di corruzione attesi: l’Italia figura al penultimo posto nella classifica formata dai Paesi considerati da Transparency International, “battuta” solo dalla Grecia.
Anche il “Rating of control of corruption” della banca mondiale colloca il nostro Paese agli ultimi posti in Europa, con un trend decisamente negativo negli ultimi anni. L’indice RCC va da 0 a 100, dove 100 indica l’assenza di corruzione: l’Italia è passata dal valore 82, rilevato nel 2000, ad un indice pari a 59 per il 2009.

(da HP)

Un sistema corruttibile governato da corrotti e corruttori. Se dobbiamo ripensare la Lombardia (e l’Italia intera) non possiamo scavalcare la questione dello spessore morale e etico della classe dirigente e non possiamo non pensare al fallimento politico di questi anni. Servono buone leggi, certo, ma serve soprattutto la “candidabilità” degli atteggiamenti, altrimenti non usciamo da questo pantano.

Se il mezzo è lo scopo

In altre parole, non si va da nessuna parte se non si rovescia da subito e con intransigenza il rapporto  tra i mezzi e gli scopi: le forze politiche – e le loro possibili vittorie elettorali – sono esclusivamente dei mezzi; le proposte politiche da realizzare sono lo scopo.

Alessandro, oggi.

Fanno audience e lo chiamano politica

Su Repubblica, oggi:

Nel­la de­mo­cra­zia con­tem­po­ra­nea (quel­la ita­lia­na in mo­do mol­to vi­si­bi­le) i par­ti­ti po­li­ti­ci, es­sen­zia­li at­to­ri del si­ste­ma rap­pre­sen­ta­ti­vo fin dal­la sua ap­pa­ri­zio­ne nel­l’In­ghil­ter­ra dei Sei­cen­to, han­no mu­ta­to la lo­ro fun­zio­ne­ma non so­no fi­ni­ti co­me spes­so si so­stie­ne; a que­sta lo­ro mu­ta­zio­ne è cor­ri­spo­sta una tra­sfor­ma­zio­ne del­la de­mo­cra­zia da rap­pre­sen­ta­ti­va a ple­bi­sci­ta­ria. Il nuo­vo ple­bi­sci­ta­ri­smo non è quel­lo del­le mas­se mo­bi­li­ta­te da lea­der ca­ri­sma­ti­ci ma quel­lo del­l’au­dien­ce, l’ag­glo­me­ra­to in­di­stin­to di in­di­vi­dui che com­pon­go­no il pub­bli­co, un at­to­re non col­let­ti­vo che vi­ve nel pri­va­to del­la do­me­sti­ci­tà e quan­do è agen­te son­da­to di opi­nio­ne ope­ra co­me spet­ta­to­re di uno spet­ta­co­lo mes­so in sce­na da tec­ni­ci del­la co­mu­ni­ca­zio­ne me­dia­ti­ca e re­ci­ta­to da per­so­nag­gi po­li­ti­ci. La per­so­na­liz­za­zio­ne­del po­te­re e del­la po­li­ti­ca è un sin­to­mo e un se­gno di que­sta mu­ta­zio­ne. Cir­ca la tra­sfor­ma­zio­ne dei par­ti­ti, es­sa ri­guar­da il lo­ro di­ma­gri­men­to de­mo­cra­ti­co al qua­le cor­ri­spon­de un’o­be­si­tà di po­te­re ma­te­ria­le ef­fet­ti­vo nel­le isti­tu­zio­ni del­lo sta­to, co­me ha mo­stra­to Mau­ro Ca­li­se. Non è per que­sto con­vin­cen­te pre­sen­ta­re la de­mo­cra­zia dei par­ti­ti co­me una fa­se, or­mai tra­mon­ta­ta, del­la sto­ria del go­ver­no rap­pre­sen­ta­ti­vo (que­sta è la te­si so­ste­nu­ta da Ber­nard Ma­nin). Ve­ro è che es­sa è di­ven­ta­ta a tut­ti gli ef­fet­ti una de­mo­cra­zia “dei” par­ti­ti in­ve­ce che “per mez­zo dei” par­ti­ti.
Il de­cli­no del par­ti­to-or­ga­niz­za­zio­ne ha cor­ri­spo­sto al­la cre­sci­ta del par­ti­to-spu­gna che se­gue gli umo­ri po­po­la­ri e li ali­men­ta ad ar­te per me­glio gua­da­gna­re con­sen­so. Il par­ti­to co­sid­det­to li­qui­do è di dif­fi­ci­le con­trol­lo da par­te di sim­pa­tiz­zan­ti e iscrit­ti (i qua­li non di­spon­go­no del re­sto di strut­tu­re e re­go­le per l’ar­ti­co­la­zio­ne in­ter­na del dis­sen­so e del con­trol­lo) e fun­zio­na­le al­l’e­sal­ta­zio­ne del­la per­so­na del lea­der; può far­si isti­ga­to­re di po­li­ti­che po­pu­li­sti­che, se tro­va ciò con­ve­nien­te, in­ve­ce di es­se­re una di­ga che le ar­gi­na co­me era il par­ti­to-or­ga­niz­za­zio­ne. Que­sto slit­ta­men­to a li­qui­di­tà e pro­fes­sio­na­liz­za­zio­ne son­dag­gi­sti­ca fa sì che la de­mo­cra­zia “dei” par­ti­ti sia una de­mo­cra­zia pro­te­sa ver­so for­me po­li­ti­che ple­bi­sci­ta­rie. E’ que­sto l’a­spet­to che fa da re­tro­ter­ra al­la tra­sfor­ma­zio­ne dal­la de­mo­cra­zia del par­ti­ti al ple­bi­sci­to del­l’au­dien­ce.
La de­mo­cra­zia del pub­bli­co o ple­bi­sci­ta­ri­smo del­l’au­dien­ce fa le­va sul mu­ta­men­to di si­gni­fi­ca­to del “pub­bli­co” da ca­te­go­ria giu­ri­di­co- nor­ma­ti­vo (ciò che per­tie­ne al­lo sta­to ci­vi­le) a ca­te­go­ria este­ti­ca, co­me di ciò che è espo­sto al­la vi­sta e esi­sten­te in sen­so tea­tra­le. Al­la cen­tra­li­tà del­la vo­ce (par­te­ci­pa­zio­ne co­me ri­ven­di­ca­zio­ne e au­to­no­mia) fa se­gui­to la cen­tra­li­tà del giu­di­zio spet­ta­to­ria­le, una for­ma di po­li­ti­ca che si mo­del­la sul fo­ro ro­ma­no in­ve­ce che sul­l’a­go­rà ate­nie­se. La ri­na­sci­ta di in­te­res­se per le idee che pi­lo­ta­ro­no la cri­si del par­la­men­ta­ri­smo nei pri­mi de­cen­ni del ven­te­si­mo se­co­lo — quan­do la con­ce­zio­ne ple­bi­sci­ta­ria pre­se una con­fi­gu­ra­zio­ne al­ter­na­ti­va al­la de­mo­cra­zia rap­pre­sen­ta­ti­va — è un’in­di­ca­zio­ne pre­oc­cu­pan­te del nuo­vo fi­lo­ne di ri­cer­ca teo­ri­ca e ap­pli­ca­zio­ne pra­ti­ca in­ter­no al­la de­mo­cra­zia con­tem­po­ra­nea, un fi­lo­ne an­co­ra una vol­ta cri­ti­co nei con­fron­ti del­la strut­tu­ra par­la­men­ta­re e del­la fun­zio­ne me­dia­tri­ce dei par­ti­ti po­li­ti­ci. Il de­cli­no del­la de­mo­cra­zia del par­ti­to po­li­ti­co e la cre­sci­ta del­la de­mo­cra­zia del pub­bli­co
cor­ri­spon­de a una evi­den­te per­so­na­liz­za­zio­ne del­la lea­der­ship edel­lo stes­so di­scor­so de­mo­cra­ti­co a cui fa eco una con­ce­zio­ne del­la po­li­ti­ca co­me mac­chi­na per la crea­zio­ne del­la fi­du­cia nel lea­der. La cre­scen­te at­ten­zio­ne per le eli­te e per un in­cre­men­to del po­te­re ese­cu­ti­vo ri­spet­to a quel­lo par­la­men­ta­re è in sin­to­nia con que­sto mu­ta­men­to in­ter­no al­la de­mo­cra­zia. Un aspet­to non an­co­ra stu­dia­to sta nel de­cli­no del­la po­li­ti­ca co­me eser­ci­zio di au­to­no­mia a fa­vo­re del­la po­li­ti­ca co­me azio­ne giu­di­can­te. Nel pri­mo ca­so la “vo­ce” era l’or­ga­no di un’a­zio­ne col­let­ti­va che vo­le­va es­se­re di com­pren­sio­ne, di­scus­sio­ne, con­te­sta­zio­ne e pro­po­sta; nel se­con­do ca­so, l’or­ga­no ege­mo­ne è l’“oc­chio”, con la ri­chie­sta di tra­spa­ren­za (del met­te­re in pub­bli­co).
Il ple­bi­sci­ta­ri­smo del­l’au­dien­ce ri­sul­ta in un di­vor­zio in­ter­no al­la so­vra­ni­tà tra il po­po­lo co­me in­sie­me di cit­ta­di­ni par­te­ci­pan­ti (con ideo­lo­gie, in­te­res­si e l’in­ten­zio­ne di com­pe­te­re per con­qui­sta­re la mag­gio­ran­za) e il po­po­lo co­me un’u­ni­tà im­per­so­na­le e scor­po­ra­ta che ispe­zio­na e giu­di­ca il gio­co po­li­ti­co gio­ca­to da al­cu­ni e ge­sti­to da par­ti­ti elet­to­ra­li­sti­ci. La par­ti­gia­ne­ria non è espul­sa dal do­mi­nio del­la de­ci­sio­ne; è espul­sa dal fo­rum, nel qua­le il po­po­lo sta co­me una mas­sa in­di­stin­ta e ano­ni­ma di os­ser­va­to­ri che guar­da­no sol­tan­to e non chie­do­no più par­te­ci­pa­zio­ne. La de-co­sti­tu­zio­na­liz­za­zio­ne che que­sto nuo­vo ple­bi­sci­ta­ri­smo com­por­ta ri­po­sa sul­l’as­sun­to che il ve­ro con­trol­lo de­mo­cra­ti­co sia l’oc­chio po­po­la­re in­ve­ce che le nor­me e gli isti­tu­ti giu­ri­di­ci. Ep­pu­re, co­me ha di­mo­stra­to l’I­ta­lia nel­l’e­ra Ber­lu­sco­ni, non sem­pre que­sto ba­sta.
Il pa­ra­dos­so di in­si­ste­re sul fat­to­re este­ti­co del­l’o­pi­nio­ne pub­bli­ca a spe­se di quel­lo co­gni­ti­vo e po­li­ti­co-par­te­ci­pa­ti­vo — sul­l’oc­chio in­ve­ce che sul­la vo­ce — è di non te­ner con­to del fat­to che le im­ma­gi­ni so­no la sor­gen­te di un ti­po di giu­di­zio che va­lu­ta gu­sti più che fat­ti po­li­ti­ci, ed è quin­di ir­ri­me­dia­bil­men­te sog­get­ti­vo e po­li­ti­ca­men­te inet­to. Il pas­sag­gio dal di­scu­te­re e di­bat­te­re (e vo­ta­re sui pro­gram­mi e quin­di per mez­zo di par­ti­ti-or­ga­niz­za­zio­ne) al guar­da­re e giu­di­ca­re stan­do in una po­si­zio­ne spet­ta­to­ria­le (rea­gi­re agli sti­mo­li pro­dot­ti dal lea­der e da­gli esper­ti di co­mu­ni­ca­zio­ne del par­ti­to li­qui­do) cor­ri­spon­de a un se­gno di ma­les­se­re del­la de­mo­cra­zia rap­pre­sen­ta­ti­va più che a una sua mag­gio­re de­mo­cra­tiz­za­zio­ne.
(Il te­sto è una sin­te­si del sag­gio “Dal­la de­mo­cra­zia dei par­ti­ti al ple­bi­sci­to del­l’au­dien­ce” che usci­rà su “Pa­ro­le­chia­ve” a cu­ra di Ma­riuc­cia Sal­va­ti, de­di­ca­to a “Po­li­ti­ca e par­ti­ti”)

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Il bilancio di SEL e l’odore dei soldi

Un pezzo di Alberto Crepaldi, che di bilanci se ne intende. Così, per dire che sono tutti uguali, eccolo qua:

Negli scorsi giorni mi sono così messo al lavoro. Con ancora ben viva la memoria del tronfio atteggiamento di superiorità morale con cui il tesoriere Boccadutri ha presentato pubblicamente i dati di bilancio. Mi sono studiato tutte le carte, le ho radiografate più volte. Alla ricerca di qualcosa che potesse permettermi di sputtanare SEL. Una volta per tutte. 

Perché è davvero fastidioso che questi post-comunisti vogliano dimostrare di avere una marcia etica in più rispetto agli altri e di essere la parte sana della politica. Anche arrivando decisamente prima degli altri all’appuntamento della divulgazione dei propri bilanci, allegando ad essi tutto l’allegabile, finanche una serie di tabelle e grafici da veri sboroni! 

Già assaporavo la notizia con cui mostrare agli italiani le prove della malagestione delle risorse da parte di SEL. Sul relativo pezzo sarebbero certamente fioccate decine di migliaia di “mi piaci”. Espressi anche da parte di altrettanti militanti di altre forze politiche, che così avrebbero liberato una volta per tutte la frustrazione di non aver visto anche gli odiosi comunisti di SEL messi alla berlina per via dei propri bilanci opachi e sballati. Senza considerare che tutto ciò avrebbe giovato alla mia carriera di investigatore dei conti dei partiti

Dopo giorni di studio notturno, ahimè, mi sono dovuto arrendere. Più che una resa, è stata una disfatta. 

Lo ammetto pubblicamente: non ho trovato una virgola fuori posto in quei cazzo di conti di SEL! Tutto è perfetto, rigoroso ed equilibrato. I rimborsi elettorali non assorbono la quasi totalità delle entrate – come speravo – ma ne rappresentano poco più del 50%. La restante parte (48%) è ascritta invece alle quote associative, che invece mi attendevo fossero irrisorie. Vendola è troppo onesto per i miei gusti, visto che dei 97 mila euro di contribuzioni da persone fisiche, ben 58 mila provengano da lui stesso. Nel bilancio, poi,  non ho purtroppo trovato spese folli per attività di comunicazione politica, visto che i post-comunisti hanno imparato in fretta a usare a fini promozionali la leva della rete! Non ho potuto nemmeno giocare la carta delle operazione finanziarie opache, degli investimenti immobiliari inutili, nonché dei contributi da società legate al malaffare o guidate da noti tangentisti: di tutto ciò non c’è uno straccio di traccia! 

Qui il resto: http://www.linkiesta.it/blogs/cazza-la-randa/il-rigore-dei-conti-del-partito-di-vendola-e-la-mia-disfatta#ixzz214BpFxnO

Il piglio dei saputelli. E vorrebbero essere classe dirigente.

Non se ne esce. Ogni tanto si ha la sensazione di stare in un imbuto dove il restringimento è il sentiero stretto di chi non è più abituato a discutere e mettersi in discussione. Il problema non è del PD, il problema è culturale in uno scollegamento che sembra una lacerazione definitiva. La politica che non si mette in discussione è la politica che agisce senza discutere. Delle scelte da adottare a testa bassa e pancia a terra. Quella che non porta buoni risultati nemmeno allo stand delle salamelle. Ma la forma mentis che impera è quella del piglio da saputelli di una classe dirigente che pretende di avere il diritto di non esprimere una direzione. Una freccia spuntata che non vuole ingorghi. E nemmeno immaginazione. Lo scrive bene oggi Irene Tagli su La Stampa:

Non importa se poi Berlusconi cambierà di nuovo idea o se il Pd farà davvero le primarie aperte dentro al partito: quello che colpisce di queste dichiarazioni è il tono e il messaggio che lanciano. E’ il modo con cui questa classe dirigente, che ci accompagna da decenni e che ci ha portato sull’orlo del disastro economico e sociale, si ripresenta di fronte ai cittadini col piglio di chi è il padrone assoluto della vita politica del Paese, e che quindi si riserva il diritto di decidere se, quando e come un rinnovamento sarà concesso.

Una spocchia che denuncia non solo una visione della politica ma anche del rapporto intergenerazionale e dei processi di rinnovamento completamente distorta. Una mentalità perfettamente sintetizzata dal segretario del Pd Pierluigi Bersani quando qualche mese fa, replicando a distanza al sindaco di Firenze Matteo Renzi, dichiarò che il partito era apertissimo ai giovani, purché si mettessero «a servizio». Un’immagine terribile, che evoca i giovani come materiale ad uso e consumo dei dirigenti e delle logiche di partito. Berlusconi, che ama definirsi uomo di fatti più che di parole, non ha fatto dichiarazioni del genere ma ha semplicemente agito seguendo questa stessa logica quando ha indicato Alfano come suo successore, per poi buttarlo in un angolo pochi mesi dopo e riproporsi egli stesso in prima linea. E non danno esempi migliori le alte dirigenze di partiti più piccoli come la Lega Nord o l’IdV.

Al di là delle ripercussioni che questa situazione politica ha sulla nostra immagine e credibilità internazionale, non va sottovalutato l’effetto che esso ha al nostro interno. Atteggiamenti e dichiarazioni di questo genere, infatti, non solo mortificano i cittadini e la loro voglia di cambiamento, ma anche tutte le migliaia di persone giovani e meno giovani che da anni si battono con passione all’interno dei partiti per un loro rinnovamento, per un ricambio di idee e di persone vero e profondo.

Fino a un paio di anni fa si diceva che la colpa era delle giovani leve, che non erano abbastanza critiche, indipendenti, che non avevano il coraggio di sfidare i propri leader, di discutere, di proporre, di lanciare messaggi chiari. Ma negli ultimi anni di giovani indipendenti e determinati abbiamo cominciato a vederne, in entrambi gli schieramenti. Le elezioni amministrative, per esempio, sono state occasioni in cui alcune di queste figure «rinnovatrici», più o meno giovani, hanno saputo mettersi in gioco ed affermarsi con successo. Ciascuno di questi successi avrebbe dovuto lanciare un segnale chiarissimo ai vertici nazionali dei partiti. E invece niente.

E non è cambiato niente mai, e la disperazione ha preso il cuore di mi­lioni di cittadini, e io questo posso scriverlo onestamente perché la di­sperazione ancora non mi ha vinto.

Per non avere la memoria a corrente alternata ma una resistenza elettrica e continua, oggi ho ritrovato un pezzo di Pippo Fava. Era il 1975. Dovevo nascere due anni dopo. E può tornare utile rileggerlo per uscire dalla stucchevole polemica su alleati e alleanze di questi giorni:

Mi volete spiegare perché un uomo, un cittadino che da anni vede gli enti pubblici gonfiarsi di racco­mandati, le­noni della politica, imbro­glioni, gabel­loti dei partiti, e vede l’amministrazio­ne onesta paralizzata dalla faida di po­tere a tutti i livelli, e vede le opere pubbliche boicottate e annientate dalla paura che ogni uomo politico nutre ch’essa opera pubblica possa servire al concorrente, e vede i quartieri della città trasformati in lan­de di scorreria per teppisti d’ogni età; perché quest’uomo cittadino che pos­sibilmente è anche povero e galantuo­mo e non riesce a trovare lavoro one­sto, e vede i raccomandati, i lacché, i vassalli poli­tici scavalcarlo continua­mente negli esami, nei concorsi, nel diritto civile alla vita; quest ‘uomo che magari è stato ricoverato una vol­ta in ospedale o vi ha condotto un fi­glio o un padre, e ha visto i topi cam­minare sotto i let­ti, e gli esseri umani agonizzare per­ché mancava un litro di sangue, men­tre duemila, tremila impiegati politici divorano ogni mese miliardi di pubbli­co denaro, quest’uomo povero, fiducioso, perseguitato, che per anni e anni ha votato per la democrazia acca­nendosi a sperare che da una settima­na all’altra, da un anno all’altro, tutto potesse cambiare, e infine ha fanatica­mente votato fascista per esprimere la sua disperazione e nemmeno allora è successo niente, nessuno ha raccolto il monito drammatico.

Perché quest’uomo così ridotto e fe­rito come essere vivente e come cit­tadino ora, in questa occasione eletto­rale, non do­vrebbe votare comunista?

E così per anni e decenni, per mesi e per giorni, e per infinite occasioni, in­finite illusioni e speranze, gli italia­ni (e i catanesi) hanno perdonato e re­stituito la fiducia, e nutrita la speran­za che tutto stesse veramente per cambia­re.

E non è cambiato niente mai, e la disperazione ha preso il cuore di mi­lioni di cittadini, e io questo posso scriverlo onestamente perché la di­sperazione ancora non mi ha vinto.

(21 giugno 1975)

Tesserati senza tessere

Vi racconto una piccola atroce storia per capire quale possa essere talvolta la posizione del potere politico dentro una vicenda mafiosa, una storia vecchia di alcuni anni fa e che oggi non avrebbe senso e che tuttavia in un certo modo interpreta tutt’oggi il senso politico della mafia. Nel paese di Camporeale, provincia di Palermo, nel cuore della Sicilia, assediato da tutta la mafia della provincia palermitana, c’era un sindaco democristiano, un democristiano onesto, di nome Pasquale Almerico, il quale essendo anche segretario comunale della DC, rifiutò la tessera di iscrizione al partito ad un patriarca mafioso, chiamato Vanni Sacco ed a tutti i suoi amici, clienti, alleati e complici. Quattrocento persone. Quattrocento tessere. Sarebbe stato un trionfo politico del partito, in una zona fino allora feudo di liberali e monarchici, ma il sindaco Almerico sapeva che quei quattrocento nuovi tesserati si sarebbero impadroniti della maggioranza ed avrebbero saccheggiato il Comune. Con un gesto di temeraria dignità, rifiutò le tessere.
Respinti dal sindaco, i mafiosi ripresentarono allora la domanda alla segreteria provinciale della DC, retta in quel tempo dall’ancora giovane Giovanni Gioia, il quale impose al sindaco Almerico di accogliere quelle quattrocento richieste di iscrizione, ma il sindaco Almerico, che era medico di paese, un galantuomo che credeva nella DC come ideale di governo politico, ed era infine anche un uomo con i coglioni, rispose ancora di no. Allora i postulanti gli fecero semplicemente sapere che, se non avesse ceduto, lo avrebbero ucciso, e il sindaco Almerico, medico galantuomo, sempre convinto che la Dc fosse soprattutto un ideale, rifiutò ancora. La segreteria provinciale s’incazzò, sospese dal partito il sindaco Almerico e concesse quelle quattrocento tessere. Il sindaco Pasquale Almerico cominciò a vivere in attesa della morte. Scrisse un memoriale indirizzato alla segreteria provinciale e nazionale del partito denunciando quello che accadeva e indicando persino i nomi dei suoi probabili assassini. E continuò a vivere nell’attesa della morte. Solo, abbandonato da tutti. Nessuno gli dette retta, lo ritennero un pazzo visionario che voleva continuare a comandare da solo la città emarginando forze politiche nuove e moderne.
Talvolta lo accompagnavano per strada alcuni amici armati per proteggerlo. Poi anche gli amici scomparvero. Una sera di ottobre mentre Pasquale Almerico usciva dal municipio, si spensero tutte le luci di Camporeale e da tre punti opposti della piazza si cominciò a sparare contro quella povera ombra solitaria. Cinquantadue proiettili di mitra, due scariche di lupara. Il sindaco Pasquale Almerico venne divelto, sfigurato, ucciso e i mafiosi divennero i padroni di Camporeale. Pasquale Almerico, per anni, anche negli ambienti ufficiali del partito venne considerato un pazzo alla memoria. (Pippo Fava da I Siciliani, gennaio 1983)

L’ultimo anno del secolo

È troppo presto (e l’ora troppo tarda) per analizzare la manovra. Che, c’era da starne certi, non tocca le banche e il mondo dei soldi che si fanno sui soldi. Ma oggi finisce un’epoca. Su capitalismo, concezione di crescita, sviluppo e liberismo si sta di qua o di là. Sono i due fronti per disegnare i prossimi anni. Non ce ne siamo ancora accorti per bene ma adesso non si può più fare politica galleggiando. E sarà il TFR di qualche leader e di qualche partito.

I partiti che non sono mai partiti

Quale rimane dunque la funzione, certamente insostituibile, dei partiti e della “politica” nel momento in cui si dà voce a elementi non professionalmente politici? Non solo quella di interrogare e comprendere le pulsioni, le idee, le aspirazioni che animano la società civile, ma di garantire la continuità di queste espressioni, perché certamente la società civile può aggregarsi e disgregarsi a seconda della situazione di un paese, può mobilitarsi in casi di estrema urgenza (come è avvenuto) ma disperdersi o impigrirsi nel momento successivo. Ed ecco che i partiti devono sentire non solo il dovere di rispondere alle sollecitazioni della società civile, ma anche quello di sollecitare queste sollecitazioni. Per poi ovviamente incanalarle nelle forme parlamentari e governative l´accesso alle quali non può che avvenire tramite i partiti. Umberto Eco lo spiega qui senza troppi giri di parole.