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Paragone: “Non illudetevi, Grillo e Di Battista hanno visioni diverse per M5S. Io ora mi faccio un partito”

Gianluigi Paragone: “Grillo e Di Battista hanno visioni diverse per il M5S”

Gianluigi Paragone è stato eletto senatore con il Movimento 5 Stelle ma il 1 gennaio di quest’anno è stato espulso dal collegio dei probiviri per avere votato contro la legge di bilancio. L’abbiamo intervistato per TPI sull’attuale momento del M5S.

Paragone, partiamo dallo scontro Grillo-Di Battista: che succede?
Facile: Alessandro (Di Battista nda) ha ancora dentro il dna del movimento antisistema, Grillo invece ha completamente maturato la scelta di portare il Movimento dentro al sistema. Uno scontro tra due visioni: una forse onirica e l’altra più politicante.

Appare chiaro però che il famoso “uno vale uno” ormai valga poco…
Grillo è sempre stato il padre padrone del Movimento. C’è stato un momento in cui, forse più per esigenza personale, ha fatto un passo di lato però nel momento in cui il Movimento doveva andare là dove aveva deciso che andasse ha esercitato quello che esercitava prima, il diritto divino, il diritto del signore feudale. È un partito che nasce grillino.

Alcune voci dentro il Movimento 5 Stelle dicono che Di Battista vorrebbe vincere il congresso con i voti di quelli che ormai sono tutti fuori…
Se “quelli fuori” sono quelli che sono stati espulsi, quelli che se ne sono andati e quelli che non votano più il Movimento stiamo parlando di circa la metà del patrimonio elettorale del Movimento, questo la dice lunga sulle capacità di analisi di alcuni dentro il M5S. Queste non sono malelingue, sono lingue che ormai parlano il linguaggio del palazzo.

Ma secondo lei c’è lo spazio perché il M5S recuperi lo spirito originario oppure ormai la strada verso la maturità politica è segnata?
A me non fa paura una grammatica politica-partitica. Mi fa paura la tesi che sfugge. Cosa succederà non lo so e onestamente non me ne frega più nulla, non sono qui a sfogliare l’album dei ricordi. Qualcuno ha visto nascere il Movimento e quindi è mosso da un afflato di questo tipo però a me interessa dare una soluzione a dei problemi reali, poi ognuno la questione sociale la poggia sulla propria tesi politica. A me interessa lo spaccato sociale.

Secondo lei la rovina del M5S è stato l’accordo con il PD?
La rovina è non avere avuto una struttura politica in grado di fare maturare delle sensazioni, vale per l’economia e per la giustizia. Siccome non avevano una tesi politica hanno sfruttato delle figure che erano figurine ma il Movimento viveva di suggestione, che non è per forza negativo, ma quelle suggestioni dovevano trasformarsi in tesi politiche. Questo passaggio non è stato compiuto, e forse avevano paura di compierlo, si sono poggiati su figurine che dessero sostanza alla suggestione e le hanno prese dalla società civile, come il sottoscritto, Freccero, Di Matteo.

Però poi quando ognuno di costoro ha continuato a dire le cose che ha sempre detto allora è diventato un problema: io ho sempre detto che non ero europeista e ho rivendicato questa scelta anche successivamente e nel programma elettorale del Movimento il karma era antieuropeista. A Nino Di Matteo non puoi chiedere di stare zitto quando vede cose che configgono con l’azione antimafia.

Il suo futuro politico?
Il mio futuro è teso a costruire una forza totalmente antisistema e antieuropeista.

Il Movimento 5 Stelle si spaccherà?
Io non lavoro per fare del male al Movimento, anche perché è un esercizio che gli riesce benissimo. Io lavoro per dare concretezza politica a chi pensa che quello che io ho raccontato e ho scritto debba avere un riscontro nell’azione politica. Per questo mi voglio impegnare questa volta costruendo un soggetto mio così nessuno può sbattermi fuori.

Leggi anche: 1. Paragone a TPI: “I dirigenti M5S cadono a ogni mia provocazione, me li sto bevendo. Mi espellano, il Movimento è morto” / 2. Paragone a TPI: “Mi cacciano dal M5S? Vediamo, ma io non faccio nessuna scissione. Di Maio non deluda le aspettative” / 3. Il M5S è un fantasma che cammina sulle sue gambe

4. Grillo: “Assemblea M5S? Senso del tempo come nel film Il giorno della marmotta” / 5. Conte leader del M5S? È scontro tra il fondatore Beppe Grillo e “il ribelle” Alessandro Di Battista / 6. Il quotidiano spagnolo Abc: “Nel 2010 il Venezuela di Chavez finanziò il M5S con 3,5 milioni di dollari”. Caracas smentisce

L’articolo proviene da TPI.it qui

Preparatevi: Salvini e Meloni per il 2 giugno faranno qualcosa di grosso per farsi notare a tutti i costi

Preparatevi perché domani il duo Salvini-Meloni proverà a fare più schizzi possibile per farsi notare e per ricordarci che esistono ancora. Scomparsi dal radar dell’agenda politica, infilati nella guerra al’Europa che invece ha dimostrato di esistere nel sostegno economico all’Italia, rinchiusi nella guerra agli Stati che non vogliono italiani in vacanza dimenticandosi del loro rincorrere chiusure e frontiere e ora balbettanti di fronte a una Festa della Repubblica che vorrebbero usare per racimolare qualche minuto di attenzione. Forti Meloni e Salvini, festeggiano il 2 giugno senza sapere che non ci sarebbe stato nessun 2 giugno senza il 25 aprile. E per farsi notare un centimetro in più avevano deciso di farsi un bel video deponendo una corona d’alloro ai piedi del Milite Ignoto, sostituendosi al Presidente della Repubblica per fare una foto spalmare sui social.

Simpatica la Meloni che si dichiara inorridita per non avere ricevuto l’autorizzazione di fare la controfigura, la brutta copia, del Presidente Mattarella. Ora dovrà inventarsi in tempi brevi qualche altra sceneggiata. E forte anche Salvini che al 2 giugno non si è mai fatto vedere (l’anno scorso lo festeggiava in Polonia camuffandosi da provincialissimo uomo internazionale) e che ora si dimostra fieramente innamorato di quella stessa bandiera italiana su cui ha sputato per anni. Visti da lontano i due sono un indecente spettacolo di quello che diventa la politica quando ha bisogno di trasformarsi in recita pur di farsi notare: spettacoli che durano solo il tempo di qualche articolo su qualche giornale mentre si consuma una guerra fratricida. Eh sì, perché nel centrodestra italiano tira anche una brutta arietta mica male con gli uomini di Forza Italia europeisti che stonano con gli altri due, con Salvini terrorizzato da Giorgia Meloni lanciata nei sondaggi e pronta a oscurarlo e Fratelli d’Italia che si sforza di essere di destra senza farsi superare a destra dai partitini di destra ma che deve essere moderata per andarsi a prendere i voti dei moderati. Sullo sfondo, come sempre, i fascisti in piazza rinchiusi nelle loro piccole sigle da prefisso telefonico per risultati elettorali.

Preparatevi perché la pandemia e la politica europea richiedono ai due commedianti di fare qualcosa di grosso, di dire qualcosa di forte per rubare qualche inquadratura: sarà il solito indecente spettacolo. Sarà l’ennesima festa nazionale usata per scopi di propaganda. Pronti a tutto e al contrario di tutto.

Qui gli altri articoli di Giulio Cavalli

L’articolo proviene da TPI.it qui

Buongiornissimo, Di Maio: ora i Cinque Stelle sono come tutti gli altri partiti (forse pure peggio)

Costi record alla presidenza del consiglio, liste civiche alle amministrative, revoca del limite ai due mandati, persino Grillo che si lamenta dell’inesperienza dei suoi. Dovevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno. Sono diventati il tonno.

Il mio editoriale per Linkiesta

https://www.linkiesta.it/it/article/2019/02/27/buongiornissimo-di-maio-ora-i-cinque-stelle-sono-come-tutti-gli-altri-/41235/

Dalla “legge che tutti avrebbero dovuto copiare” a quella copiata male (apposta)

Ci avevano promesso di far tornare “il voto ai cittadini”. Destri, sinistri, cinquestelle, tutti d’accordo. Dopo avere scritto una legge incostituzionale (olè) hanno capito che il segreto stava semplicemente nel trovare un nome che sembrasse affidabile. Devono avere pensato a “Mercedes” o “Bmw” ma poi per problemi di marchio registrato si sono accontentati di “tedesco”.

Hanno scritto una legge elettorale che ci viene proposto come modello di rappresentatività e governabilità e invece non lo è. Rubo la spiegazione che mi ha dato, in una ricca conversazione ieri sera, il professore Andrea Pertici:

Saranno i partiti a scegliere gli eletti. Tutti i seggi sono attribuiti con sistema proporzionale sulla base sostanzialmente di una doppia lista bloccata: quella della circoscrizione (che al Senato è la Regione) e quella data dall’insieme dei candidati nei collegi uninominali della stessa circoscrizione (al Senato, Regione). Collegi uninominali dove non vince il candidato più votato ma semmai quello del partito più votato. E per non rischiare proprio nulla comunque il primo che passerà è il capolista del partito nella circoscrizione, dopo il quale si pescheranno i candidati nei collegi arrivati primi, poi gli altri candidati di lista e infine gli altri candidati dei collegi uninominali che hanno perso. Insomma, quello che conta è il partito. Quello che conta assai meno il nostro voto. Si parte da un modello europeo (questa volta il tedesco, si diceva) ma si finisce sempre con un sistema molto italico.

In pratica io voto il candidato che stimo nel mio collegio ma il mio voto premia prima il capolista bloccato.

 

(continua su Left)

Ma i 180 milioni di euro che la Lega ha preso (e speso indebitamente) da Roma ladrona?

(Un pezzo di Francesco Giurato e Antonio Pitoni per Il Fatto Quotidiano)

Dalla Lega Lombarda alla Lega Nord, transitando dalla prima alla seconda repubblica a suon di miliardi (di lire) prima e milioni (di euro) poi generosamente elargiti dallo Stato. Dal 1988 al 2013sono finiti nelle casse del partito fondato da Umberto Bossi e oggi guidato da Matteo Salvini, dopo la parentesi di Roberto Maroni, 179 milioni 961 mila. L’equivalente di 348 miliardi 453 milioni 826 mila lire. Una cuccagna, sotto forma di finanziamento pubblico e rimborsi elettorali, durata oltre un quarto di secolo. Ma nonostante l’ingente flusso di denaro versato nei conti della Lega oggi il piatto piange. Ne sanno qualcosa i 71 dipendenti messi solo qualche mese fa gentilmente alla porta dal Carroccio. Sorte condivisa anche dai giornalisti de “La Padania”, storico organo ufficiale del partito, che ha chiuso i battenti a novembre dell’anno scorso non prima, però, di aver incassato oltre 60 milioni di euro in 17 anni. Insomma, almeno per ora, la crisi la pagano soprattutto i dipendenti. In attesa che la magistratura faccia piena luce anche su altre responsabilità. A cominciare da quelle relative allo scandalo della distrazione dei rimborsi elettorali, che l’ex amministratore della Lega Francesco Belsito avrebbe utilizzato in parte per acquistare diamanti, finanziare investimenti tra Cipro e la Tanzania  e per comprare, secondo l’accusa, perfino una laurea in Albania al figlio prediletto del Senatùr, Renzo Bossi, detto il Trota. Vicenda sulla quale pendono due procedimenti penali, uno a Milano e l’altro a Genova.

MANNA LOMBARDA Fondata nel 1982 da Umberto Bossi, è alle politiche del 1987 che la Lega Lombarda, precursore della Lega Nord, conquista i primi due seggi in Parlamento. E nel 1988, anno per altro di elezioni amministrative, inizia a beneficiare del finanziamento pubblico: 128 milioni di lire (66 mila euro). Un inizio soft prima del balzo oltre la soglia del miliardo già nel 1989, quando riesce a spedire anche due eurodeputati a Strasburgo: 1,03 miliardi del vecchio conio (536 mila euro) di cui 906 milioni proprio come rimborso per le spese elettorali sostenute per le elezioni europee. Somma che sale a 1,8 miliardi lire (962 mila euro) nel 1990, per poi scendere a 162 milioni (83 mila euro) nel 1991 alla vigilia di Mani Pulite. Nel 1992 la Lega Lombarda, diventata proprio in quell’anno Lega Nord, piazza in Parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori. E il finanziamento pubblico lievita a 2,7 miliardi di lire (1,4 milioni di euro) prima di schizzare, l’anno successivo, a 7,1 miliardi (3,7 milioni di euro). Siamo nel 1993: sulla scia degli scandali di tangentopoli, con un referendum plebiscitario (il 90,3% dei consensi) gli italiani abrogano il finanziamento pubblico ai partiti. Che si adoperano immediatamente per aggirare il verdetto popolare, introducendo il nuovo meccanismo del fondo per le spese elettorale (1.600 lire per ogni cittadino italiano) da spartirsi in base ai voti ottenuti. Un sistema che resterà in vigore fino al 1997 e che consentirà alla Lega di incassare 11,8 miliardi di lire (6,1 milioni di euro) nel 1994, anno di elezioni politiche che fruttano al Carroccio, grazie all’alleanza con Forza Italia, una pattuglia parlamentare di 117 deputati e 60 senatori. Nel 1995 entrano in cassa 3,7 miliardi (1,9 milioni di euro) e altri 10 miliardi (5,2 milioni di euro) nel 1996.

RIMBORSI D’ORO L’anno successivo, nuovo maquillage per il sistema di calcolo dei finanziamenti elettorali. Arriva «la contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici», che lascia ai contribuenti la possibilità di destinare il 4 per mille dell’Irpef(Imposta sul reddito delle persone fisiche) al finanziamento di partiti e movimenti politici fino ad un massimo di 110 miliardi di lire (56,8 milioni di euro). Non solo, per il 1997, una norma transitoria ingrossa forfetariamente a 160 miliardi di lire (82,6 milioni di euro) la torta per l’anno in corso. E, proprio per il ’97, per la Lega arrivano 14,8 miliardi di lire (7,6 milioni di euro) che scendono però a 10,6 (5,5 milioni di euro) iscritti a bilancio nel 1998. Un campanello d’allarme che suggerisce ai partiti l’ennesimoblitz normativo che, puntualmente, arriva nel 1999: via il 4 per mille, arrivano i rimborsi elettorali (che entreranno in vigore dal 2001). In pratica, il totale ripristino del vecchio finanziamento pubblico abolito dal referendum del 1993 sotto mentite spoglie: contributo fisso di 4.000 lire per abitante e ben 5 diversi fondi (per le elezioni della Camera, del Senato, del Parlamento Europeo, dei Consigli regionali, e per i referendum) ai quali i partiti potranno attingere. Con un paletto: l’erogazione si interrompe in caso di fine anticipata della legislatura.

ELEZIONI, CHE CUCCAGNA Intanto, sempre nel 1999, per la Lega arriva un assegno da 7,6 miliardi di lire (3,9 milioni di euro), cui se ne aggiungono altri due da 8,7 miliardi (4,5 milioni di euro) nel 2000 e nel 2001. E’ l’ultimo anno della lira che, dal 2002, lascia il posto all’euro. E, come per effetto dell’inflazione, il contributo pubblico si adegua alla nuova valuta: da 4.000 lire a 5 euro, un euro per ogni voto ottenuto per ogni anno di legislatura, da corrispondere in 5 rate annuali. E per la Lega, tornata di nuovo al governo nel 2001, è un’escalation senza sosta: 3,6 milioni di euro nel 2002, 4,2 nel 2003, 6,5 nel 2004 e 8,9 nel 2005. Una corsa che non si arresta nemmeno nel 2006, quando il centrodestra viene battuto alle politiche per la seconda volta dal centrosinistra guidato da Romano Prodi: nonostante la sconfitta, il Carroccio incassa 9,5 milioni e altri 9,6 nel 2007. Niente a confronto della cuccagna che inizierà nel 2008, quando nelle casse delle camicie verdi finiscono la bellezza di 17,1 milioni di euro.

CARROCCIO AL VERDE E’ l’effetto moltiplicatore di un decreto voluto dal governo Berlusconi in base al quale l’erogazione dei rimborsi elettorali è dovuta per tutti i 5 anni di legislatura, anche in caso discioglimento anticipato delle Camere. Proprio a partire dal 2008, quindi, i partiti iniziano a percepire un doppio rimborso, incassando contemporaneamente i ratei annuali della XV e della XVI legislatura. Nel 2009 il partito di Bossi sale così a 18,4 milioni per toccare il record storico con i 22,5 milioni del 2010. Anno in cui, sempre il governo Berlusconi, abrogherà il precedente decreto ponendo fine allo scandalo del doppio rimborso. E anche i conti della Lega ne risentiranno: 17,6 milioni nel 2011. La cuccagna finisce nel 2012 quando il governo Monti taglia il fondo per i rimborsi elettorali del 50%. Poi la spallata finale inferta dall’esecutivo di Enrico Letta che fissa al 2017 l’ultimo anno di erogazione dei rimborsi elettorali prima della definitiva scomparsa. Per il Carroccio c’è ancora tempo per incassare 8,8 milioni nel 2012 e 6,5 nel 2013. Mentre “La Padania” chiude i battenti e i dipendenti finiscono in cassa integrazione.

FINANZIAMENTI E RIMBORSI ELETTORALI ALLA LEGA NORD

(1988-2013)

1988 € 66.249,25 (128.276.429 lire)
1989 € 536.646,25 (1.039.092.041 lire)
1990 € 962.919,55 (1.864.472.246 lire)
1991 € 83.903,87 (162.460.547 lire)
1992 € 1.416.991,83 (2.743.678.776 lire)
1993 € 3.707.939,87 (7.179.572.723 lire)
1994 € 6.125.180,49 (11.860.003.225 lire)
1995 € 1.915.697,39 (3.709.307.393 lire)
1996 € 5.207.659,00 (10.083.433.932 lire)
1997 € 7.648.834,36 (14.810.208.519 lire)
1998 € 5.518.448,11 (10.685.205.533 lire)
1999 € 3.947.619,62 (7.643.657.442 lire)
2000 € 4.539.118,41 (8.788.958.807 lire)
2001 € 4.511.422,19 (8.735.332.610)
2002 € 3.693.849,60
2003 € 4.284.061,62
2004 € 6.515.891,41
2005 € 8.918.628,37
2006 € 9.533.054,95
2007 € 9.605.470,43
2008 € 17.184.833,91
2009 € 18.498.092,86
2010 € 22.506.486.93
2011 € 17.613.520,09
2012 € 8.884.218,85
2013 € 6.534.643,57

TOTALE 179.961.382,78

Il partito della fiducia

Massimo Bray (uno dei Ministri di cui avremmo bisogno) riprende sul suo sito il tema della (s)fiducia nella politica. Il partito della fiducia è una minoranza ben più piccola del computo totale dei votanti. già misero, in cui stanno anche i professionisti delle prebende e dei personalissimi stretti ritorni economici. Raramente ci capita e ci succede di sentire in ambito politico una fiducia “etimologica”, cioè qualcuno che speri che si realizzino i progetti in cui crede, in un momento dove anche il meno peggio può raggiungere percentuali a due cifre. Per questo la ricostruzione di un’area politica che “faccia” la sinistra non può che passare attraverso la ricostruzione di un modello di cittadinanza profondamente diverso nel curare le proprie speranze senza svenderle a nessuno, senza nomi, senza salvatori ma semplicemente (e non è per niente semplice) aderenti ad un progetto. Come scrive Bray:

La fiducia si basa principalmente – e naturalmente – sulla percezione di una possibile realizzazione delle aspettative: l’unico genere di società in grado di rendere felici i suoi cittadini è la repubblica virtuosa, la res pubblica ciceroniana, nella quale tutte le leggi sono rivolte al bene pubblico e i governanti agiscono nell’interesse del popolo. La repubblica ‘virtuosa’ è tale in quanto edificata su una serie di valori condivisi e rispettati. Il rischio insito in una perdita di fiducia, dunque, è quello di rendere difficile, o anche impossibile, come accennavo prima, quei processi di identificazione dei rappresentati con i rappresentanti che sono stati da loro direttamente o indirettamente delegati a gestire la cosa pubblica; di rendere difficile o impossibile che le forze positive che vengono, per così dire, dal basso, vale a dire dall’impegno individuale e collettivo dei singoli e dei gruppi, possano incontrarsi con le responsabilità di chi ha il compito istituzionale di gestire l’ambito pubblico nell’interesse della comunità.

Ho avuto già occasione di riflettere, in altre occasioni, su quello che è forse il dato che più mi ha colpito durante i dieci mesi nei quali ho ricoperto la carica di Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo: nei moltissimi incontri, nelle moltissime occasioni di dialogo e di ascolto, nelle numerose esperienze di conoscenza con tante realtà del nostro Paese che mi sono state offerte dal mio ruolo, mi sembra di aver colto soprattutto un forte bisogno di cambiamento, una forte richiesta di attenzione: quell’energia positiva che attraversa l’Italia alla quale accennavo prima, un’energia che rappresenta la parte migliore del Paese, un’energia che chiede un futuro differente, un’energia sulla quale siamo chiamati a costruire il nostro futuro. Perché questo sia possibile, tuttavia, è necessario ricostruire la fiducia; e per far questo occorre che cambi il modo di fare politica, occorre ripensare i modi, le forme, i contenuti dell’impegno della politica e delle istituzioni.

In questo senso, vale la pena tornare a riflettere su quella che può apparire, e indubbiamente è, una nozione ben nota, che tuttavia vorrei recuperare in chiave non soltanto critica, ma anche propositiva. La nozione è quella per la quale l’epoca in cui ci troviamo a vivere è caratterizzata dal predominio dell’apparire sull’essere: un fenomeno che pervade ogni aspetto della comunicazione e della vita associata, e che può essere sintetizzato, con riferimento più diretto alla vita politica, nel semplice assunto per il quale, mentre in passato un esponente politico ‘compariva’ perché si era guadagnato la notorietà con le proprie azioni rivolte alla difesa del bene pubblico, oggi viceversa si è famosi perché si compare, a prescindere da qualsiasi merito personale o da qualsiasi altra considerazione. Quando invece occorrerebbe forse sovvertire questo paradigma, rinunciando preventivamente ad apparire e concentrandosi esclusviamente sul ‘fare’. Non si tratta, si faccia attenzione, di un’istanza etica, o – in ogni caso – esclusivamente etica: la rinuncia all’apparire si lega anche, infatti, a un più diretto impegno per il bene comune, a una concezione dell’agire politico come servizio alla comunità, contrapposto ad ogni forma di sterile protagonismo. Mi piace ricordare a tale proposito come nello scrivere, nelle Origines, la storia di Roma dalla fondazione all’epoca a lui contemporanea, Catone sceglieva di non chiamare per nome i singoli condottieri, vale a dire i massimi protagonisti delle vicende da lui narrate: una scelta che potrà apparire oggi certamente estrema, ma con la quale egli intendeva opporsi al culto carismatico dei membri delle famiglie nobili, elaborando una concezione della storia di Roma come opera collettiva del suo popolo, e contrapponendo in tal modo al prestigio delle gentes quello della res publica. E mi piace ricordare anche, recuperando – con qualche cautela in più – un esempio a noi più distante dal punto di vista sia geografico che cronologico, quelle società primitive dell’America Meridionale descritte da Pierre Clastres, l’antropologo considerato da molti l’erede di Claude Lévi-Strauss, nel libro intitolato, significativamente, La società contro lo Stato: le società cosiddette ‘senza potere’, nelle quali il capo è al servizio della comunità, e non viceversa.

 

Dove sono i voti degli italiani

Come saranno le campagne elettorali del futuro, nel lavoro di Dino Amenduni:

In questa analisi proviamo a fare un passo ulteriore e a provare a immaginare le campagne elettorali del futuro prossimo alla luce di alcuni dati che emergono dalla ricerca e che ridefiniscono alcune regole della comunicazione politica.

In particolare:

– i quotidiani hanno perso due milioni di copie vendute a livello nazionale negli ultimi 12 anni (-34.3%);
– Facebook è usato dal 41.3% della popolazione italiana, Twitter dal 5.4%;
– il 70% degli italiani pensa che “gli apparati dell’informazione” manipolino le notizie;
– quasi un italiano su due sceglie di votare non sulla base di ciò che ha appreso dai media (vecchi e nuovi), ma da ciò che ha ascoltato da amici, parenti e conoscenti (il 43.9% degli elettori, +25% in soli quattro anni);
–  il 35.3% degli italiani pensa che le tecnologie digitali abbiano peggiorato (e non migliorato) l’organizzazione dei movimenti politici.

In questa presentazione proviamo ad analizzare questi dati e a immaginare cinque idee operative per “aggiornare i partiti”, in modo che rispondano efficacemente a questo profondissimo cambiamento delle dinamiche di orientamento al voto degli italiani.

Quel che più spaventa

Quel che più spaventa nei partiti non è quello che dicono, è quello che trascurano o si rifiutano di dire.

(Louis Blanc, Organizzazione del lavoro, 1839)

#primarieparlamentari

NQstWPVeEYDzKFK-556x313-noPadForse ce la facciamo. Il dado sembra essere tratto (nel PD voci molto interne lo danno per vicinissimo) e viene da immaginare che SEL non sia da meno. Si moltiplicano gli appelli che raccontano perfettamente perché non ci si può permettere di non farle, tra cui la petizione di Pippo e Vassallo che vi invito a sottoscrivere. Per democrazia, mica per niente.

A: 
Anna Maria Cancellieri, Pierluigi Bersani, Nichi Vendola 
La repentina crisi del Governo Monti ha già messo a repentaglio la stabilità finanziaria e la credibilità internazionale che l’Italia aveva faticosamente ricostruito negli ultimi mesi. Ma il rapido ricorso alle elezioni, senza che sia stato rimosso il vulnus delle liste dei nominati, rischia di produrre un ulteriore disastro: di mortificare ancora la legittimità del Parlamento e con esso di chi sarà chiamato a governare nella prossima legislatura. Non possiamo permetterlo!

1. Qualora la data delle elezioni sia fissata per il 17/18 febbraio, chiediamo al Presidente della Consiglio e al Ministro dell’Interno di stabilire con decreto che la presentazione delle liste possa avvenire, anziché fino al 34°, fino al 31° giorno antecedente alla data delle elezioni, anche al fine di rendere più agevole lo svolgimento di elezioni primarie per la scelta dei candidati. 

2. Chiediamo al segretario Bersani e alla Direzione Nazionale del PD di convocare in ogni caso primarie per i parlamentari, aperte a tutti i nostri elettori, per il 13 gennaio o, qualora non sia emanato il decreto di cui sopra, per il 12 gennaio, e di adottare il regolamento già presentato alla Assemblea Nazionale all’inizio di quest’anno, qui di seguito riproposto con pochi adattamenti che lo rendono immediatamente applicabile.

3. Auspichiamo che Nichi Vendola e i leader delle altre forze politiche della coalizione “Italia Bene Comune” che intendano presentare proprie liste decidano di convocare, per la stessa data, elezioni primarie per la scelta dei loro candidati, in modo che tutti gli elettori di centrosinistra, ciascuno per le liste del proprio partito, possano partecipare in un’unica giornata e negli stessi luoghi a questa necessaria e fondamentale prova di democrazia, che completa il percorso avviato insieme con le primarie per il candidato comune a Presidente del Consiglio.

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Regolamento per le primarie dei candidati PD al Parlamento

1. fatta eccezione per la candidatura del Segretario Nazionale, i candidati al Parlamento del PD per la XVII legislatura vengono selezionati per mezzo di elezioni primarie convocate per il giorno 13 gennaio 2013;

2. a tal fine, ogni provincia costituisce un collegio; su proposta della Direzione provinciale e delibera della Direzione regionale, nelle province con più di 1.000.000 abitanti possono essere costituiti collegi sub-provinciali eventualmente corrispondenti ad unioni territoriali del PD, quelle con popolazione inferiore a 500.000 abitanti possono essere aggregate a collegi territorialmente contigui;

3. al fine di assicurare un leale e corretto rapporto dei candidati con il partito, la presentazione delle candidature è accompagnata dalla sottoscrizione di almeno il 5% dei componenti della Direzione provinciale ovvero di almeno il 3% degli iscritti al partito nel medesimo ambito territoriale;

4. i candidati si impegnano a rispettare lo Statuto, il Codice etico, il Regolamento per le primarie ed a presentare un rendiconto dettagliato dei contributi e delle spese sostenute per la propaganda elettorale delle primarie, i quali non potranno comunque superare il limite di 20.000 euro; è fatto in ogni caso divieto ai dirigenti e ai quadri del PD di utilizzare risorse finanziarie e organizzative, mezzi di comunicazione interna o personale dipendente del partito per promuovere specifiche candidature; il mancato rispetto di tali norme comporta l’esclusione dalla candidatura al Parlamento nelle liste del Partito Democratico;

5. le candidature sono presentate in maniera indistinta per la Camera e per il Senato;

6. possono votare tutti i cittadini che il giorno delle primarie si recano al seggio del territorio in cui risiedono, esibiscono il loro certificato elettorale ed un valido documento di identificazione, sottoscrivono un documento in cui dichiarano di essere “Elettori del Partito Democratico”, autorizzano l’inclusione dei loro dati anagrafici nel relativo “Albo degli elettori”, versano la somma minima di un euro come contributo alle spese delle primarie e della campagna elettorale del PD;

7. ciascun elettore può esprimere fino ad un massimo di due voti, purché siano espressi per candidati di genere diverso;

8. per stabilire l’ordine in cui, nell’ambito di ciascuna regione, i candidati alle primarie hanno diritto ad essere inseriti in lista, si suddivide innanzitutto il totale dei voti validamente espressi in ciascun collegio a favore del PD in occasione delle elezioni per la Camera dei Deputati del 2008 per 1, 3, 5, 7 e così via ottenendo una serie di quozienti di entità decrescente; la prima candidatura viene assegnata al collegio che dispone del primo quoziente più alto e, nell’ambito del collegio, al candidato alle primarie che ha ricevuto il maggior numero di voti; le successive candidature sono assegnate al collegio con il quoziente non ancora utilizzato più alto e, all’interno del collegio, al candidato alle primarie non ancora selezionato che ha ottenuto il maggior numero di voti;

9. i candidati esercitano l’opzione per la Camera o per il Senato nell’ordine in cui sono stati selezionati e vengono quindi collocati nella lista prescelta immediatamente dopo il candidato che aveva esercitato prima di loro l’opzione per la medesima lista.

Pippo Civati – Salvatore Vassallo
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