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primo levi

«Non so per quale motivo, ma io sono fisiologicamente incapace di odiare»

(13 gennaio 1985, intervista a Primo Levi)

Che cosa le chiedono?

Mi chiedono otto cose, adesso non so se riesco a ricordarle tutte, la prima, che non manca mai, è perché questo libro che denuncia azioni atroci da parte di una forte percentuale del popolo tedesco contro il popolo ebreo, è privo di odio.

 

Cosa risponde a questa prima domanda?

Con imbarazzo. Non so per quale motivo, ma io sono fisiologicamente incapace di odiare, è una cosa che non conosco, come non conosco la collera, non è uno stato d’animo a cui io sia propenso. Ho provato collera pochissime volte in vita mia, odio praticamente mai, il che non vuol dire che non provi e abbia provato allora e non provi tuttora un intensissimo bisogno di giustizia. Se fossi un giudice non esiterei a condannare in modo estremamente severo, e spesso con la morte, alcune di quelle persone. Sono stato soddisfatto della condanna a morte di Eichmann, mi è sembrata giuridicamente contestabile anche se non sono giurista, però, come uomo, mi ha umanamente soddisfatto, benché non possa dire neppure di avere odiato Eichmann. Davanti al personaggio Eichmann, come a molti altri, e a tutti i condannati di Norimberga, la mia prima reazione non è odio, ma piuttosto curiosità. Questo potrà forse sorprendere, forse fa parte della mia preparazione di tecnico, di chimico, mi piacerebbe, e mi piace, andare a vedere dentro alle cose, ma anche alle persone. Da allora, un mio interesse “naturalistico”, come quello di chi studia un insetto o un uccello, è rivolto a quelli dell’altra parte. Sono molto avido, mi intossico di letture, di biografie di quelli dell’altra parte, non necessariamente nazisti. Allo stesso modo mi interessa l’itinerario mentale di un brigatista rosso. Mi interessa l’uomo e anche l’anti-uomo, cioè quello che si è pervertito o lasciato pervertire, che perverte.

 

La perversione, la mostruosità riesce a essere così totale come sembra a noi e ai suoi lettori più giovani?

No, e infatti non c’è. Direi che il risultato di questa mia ricerca, che non è sistematica ma saltuaria (avvenuta attraverso ricerche fatte da altri e tramite anche mie osservazioni, poiché – durante e dopo – ho avuto a che fare con persone così) è che il mostro non c’è. Oppure, è rarissimo, io non ne ho mai visto uno. La sorpresa di questa ricerca è che sono gente come noi, hanno però preso, sono stati incanalati su una strada che perverte, che è quella dell’abdicazione alla legge morale, ma anche alla ragione, perché perlopiù sono tutte persone che hanno fatto dei calcoli sbagliati. Oltre alla colpa, al peccato (lo dico benché non sia un religioso) c’è anche uno sbaglio, un errore di calcolo. Pensavano perlopiù di ottenere vantaggi che non hanno ottenuto.

 

Altre domande che le fanno?

Ce n’è una molto singolare, che deve pure avere un significato profondo, perché non manca mai: chi sarei io se non fossi stato in un lager o, più precisamente, se avrei scritto e cosa, se in lager non ci fossi stato. Per me è una domanda che non ha senso, perché sarebbe come chiedere l’avvenire.

 

Altre domande?

Una immancabile è “Perché questo è successo?” o, con formulazioni più ingenue (spesso a scrivermi sono domande fatte da lettori dell’edizione scolastica del libro, ragazzi di tredici, quattordici anni), “perché Hitler voleva male agli ebrei?” o “perché i tedeschi odiavano gli ebrei?”, però la domanda è tremendamente viva e pesante e difficile da spiegare. La situazione che si è determinata nella Germania di Hitler, e non solo in quella, (ne parlo non perché la ritenga un fenomeno unico della storia, ma solo perché ne sono stato coinvolto, sono un esperto di questo) è stata creata da una convergenza di molti fattori storici, in cui, a mio parere e contro quello che dicono i teorici marxisti, la personalità di Hitler, l’uomo Hitler e alcuni scelti da lui, hanno pesato in modo determinante. Tentativamente, io rispondo che se al posto di Hitler ci fosse stata un’altra persona, le cose sarebbero andate in modo sensibilmente diverso e probabilmente non si sarebbe arrivati a questi estremi. La mia impressione personale, avendo conosciuto molti tedeschi, è che veramente incarnasse – c’è qualcosa di vero in quello che mi scrivono molti lettori tedeschi – che Hitler era il diavolo. Io rifiuto la demonizzazione, credo però che qualcosa di sostanzialmente distinto dalla specie umana ci fosse in quest’uomo, e che la mia risposta di poco fa – che di mostri non ce ne sono – comporti delle eccezioni, di cui questa è una. Questo era veramente un mostro.

 

Mi è venuta in mente un’altra domanda fondamentale, è una domanda polemica: “Perché tu, Primo Levi, parli di lager nazisti e non dei lager sovietici?”. Io non ne parlo solo perché non ci sono stato. Se ci fossi stato ne parlerei e ne parlo, anzi, fa parte della mia “droga” l’occuparmi di queste cose; ho letto quanto ho potuto anche dei lager russi di allora e di adesso. Sono stato in grado di fare un confronto, ho letto un libro che spererei fosse tradotto in italiano, della Margarethe Buber Neumann, nuora di Martin Buber, comunista, che era stata scaraventata in lager da Stalin perché era un’attivista comunista al tempo delle grandi purghe, stava in Spagna col marito. È stata internata in Siberia a lungo e poi col patto Ribbentropp-Molotov ceduta ai tedeschi, che l’hanno messa ad … Credo sia una delle cinque-dieci persone che abbiano potuto fare quest’esperimento, comparare il regime carcerario, di internamento sovietico con quello hitleriano. Sarebbe stupido e ottuso dire che nei lager della Siberia si stesse bene, non si stava bene affatto, però c’è una differenza fondamentale, che non erano fatti per uccidere la gente. La gente ci moriva ugualmente, anche molto, anche con quote di mortalità terrificanti, del 10-20-25%, con tempi folli di detenzione, di dieci, vent’anni, ne parla anche Solgenitsin, in cui però la morte era in qualche modo accidentale, avveniva per il freddo, per la fame, per la fatica, ma non era l’obiettivo. Mentre la novità finora unica, perché non credo che si sia ripetuta mai, salvo forse in Cambogia …, lo scopo dello strumento lager nella Germania di Hitler era proprio quello di uccidere. Erano macchine per uccidere in cui invece si capovolgeva il lavoro servile, che era un sottoprodotto. Il prodotto principale era la morte e questo mi pare vada ripetuto, non per scagionare Stalin né i suoi successori, ma solo per segnare una differenza che ha la sua importanza.

(leggetela per intero, è tutta qui su Doppiozero)

«Neanche. Cioè, sì. Io ne ero vagamente innamorato, ma in modo estremamente casto»

È un libro da avere e da leggere Io che vi parlo. Conversazione con Giovanni Tesio

71jyiR-PM8LTorniamo ancora un poco sull’amicizia. Sentivi la differenza dell’amicizia maschile e di quella femminile?  

 «Qui tocchi un tasto molto delicato, perché io ero un timido, un timido patologico, per cui avevo delle amicizie femminili, ma si fermavano lì. La mutazione, il salto della barricata è arrivato per me estremamente tardi, dopo Auschwitz. È un argomento di cui parlo con un certo imbarazzo, una certa difficoltà. Sta di fatto che io ero un inibito, lo si vede dalle cose che ho scritto. Io ero fortemente inibito, anche per via delle campagne razziali, perché era un taglio netto. Molte ragazze, con le buone, senza offendere, si allontanavano, ma io cercavo proprio quelle con cui non potevo avere rapporti».

Cercare chi ti respinge?  

«Forse sì, ma io questo lo lascio agli altri. Di fatto ho avuto parecchie amicizie femminili, ma nessuna è sfociata in amore».

Neanche con la compagna d’università con cui – ne hai parlato sotto mentite spoglie nel Sistema periodico – vi scambiavate le letture?  

«Neanche. Cioè, sì. Io ne ero vagamente innamorato, ma in modo estremamente casto».

E ne soffrivi?  

«Sì, ne soffrivo tremendamente, soffrivo in modo pauroso perché vedevo tutti i miei amici che ci passavano da questa esperienza, avevano esperienze anche sessuali. Io no e ne ho sofferto in un modo spaventoso, fino a pensare al suicidio».

Forse anche perché avevi compagni che esibivano fin troppo i loro trofei…

«Certo. Qualcuno andava al casino, ci andava con la tessera falsa. Io non avrei mai fatto una cosa simile».

Amicizie femminili che siano durate nel tempo?  

«Oh, parecchie, sì, parecchie. C’è stata, per esempio, quella della ragazza del Fosforo nel Sistema periodico. È tuttora mia amica. Ma è proprio un periodo, questo, di due o tre anni, in cui le amicizie si sono sfaldate».

Perché?  

«Per ragioni diverse. Intanto per le mie ragioni, vicissitudini familiari, per cui mi muovo poco, e poi… chi muore, chi si ammala, chi perde interesse per la vita… È un capitolo che sta estinguendosi».

Il sentirsi invecchiare è questo?  

«Sì».

Vedersi corrodere l’ambiente che ti sta intorno?  

«Sì, questo è molto doloroso, molto doloroso e irreversibile».

Ma tu nel complesso ti giudichi una persona di natura vincente?  

«Mah! Io mi ritengo uno che ha combattuto parecchie battaglie. Che ne ha perse alcune e ne ha vinte altre. Devo avere una certa forza profonda, perché sono sopravvissuto ad Auschwitz, questa è una grossa battaglia. Anche come chimico ho sopportato sconfitte, ma ho vinto parecchie volte. Poi, come scrittore. Mi sono ritrovato a diventare uno scrittore quasi mio malgrado, ho aperto un capitolo nuovo. Mi è venuta addosso a scalini, prima in Italia e poi all’estero, questa ondata di successo che mi ha squilibrato profondamente, mi ha messo nei panni di qualcuno che non sono io».

Quello dello scrittore è il mestiere più pesante? 

«Più pesante?».

Sì, questa è la domanda.  

«Come effetti senza dubbio sì. Come fatica e durata direi di no, perché ho scritto i miei libri generalmente volentieri, in modo facile, senza sentirne il peso».

© 2016 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

Il libro lo potete comprare (qui)

Straniero

A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno inconsapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora al temine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo.

(Se questo è un uomo, Einaudi Editore)

Tutto cade e si disfa intorno a me

E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone, e l’angoscia si fa piú intensa e piú precisa. Tutto è ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. È il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, «Wstawaç».

(Primo Levi, “La tregua”)

Innamorato del suo sistema

“Tuttavia, provo personalmente una certa diffidenza per chi “sa” come migliorare il mondo; non sempre, ma spesso, è un individuo talmente innamorato del suo sistema da diventare impermeabile alla critica. C’è da augurarsi che non possegga una volontà troppo forte, altrimenti sarà tentato di migliorare il mondo nei fatti e non solo nelle parole: così ha fatto Hitler dopo aver scritto il Mein Kampf, ed ho spesso pensato che molti altri utopisti, se avessero avuto energie sufficienti, avrebbero scatenato guerre e stragi.”

(L’altrui mestiere – Primo Levi)

I lager nascono facendo finta di nulla. La lezione di Primo Levi.

Levi come ricorda la promulgazione delle leggi razziali?
Non è stata una sorpresa quello che è avvenuto nell’estate del ’38. Era luglio quando uscì Il manifesto della razza, dove era scritto che gli ebrei non appartenevano alla razza italiana. Tutto questo era già nell’aria da tempo, erano già accaduti fatti antisemiti, ma nessuno si immaginava a quali conseguenze avrebbero portato le leggi razziali. Io allora ero molto giovane, ricordo che si sperò che fosse un’eresia del fascismo, fatta per accontentare Hitler. Poi si è visto che non era così. Non ci fu sorpresa, delusione sì, con grande paura sin dall’inizio mitigata dal falso istinto di conservazione: “Qui certe cose sono impossibili”. Cioè negare il pericolo.

Che cosa cambiò per lei da quel momento?
Abbastanza poco, perché una disposizione delle leggi razziali permetteva che gli studenti ebrei, già iscritti all’università, finissero il corso. Con noi c’erano studenti polacchi, cecoslovacchi, ungheresi, perfino tedeschi che, essendo già iscritti al primo anno, hanno potuto laurearsi. È esattamente quello che è accaduto al sottoscritto.

Lei si sentiva ebreo?
Mi sentivo ebreo al venti per cento perché appartenevo a una famiglia ebrea. I miei genitori non erano praticanti, andavano in sinagoga una o due volte all’anno più per ragioni sociali che religiose, per accontentare i nonni, io mai. Quanto al resto dell’ebraismo, cioè all’appartenenza a una certa cultura, da noi non era molto sentita, in famiglia si parlava sempre l’italiano, vestivamo come gli altri italiani, avevamo lo stesso aspetto fisico, eravamo perfettamente integrati, eravamo indistinguibili.

C’era una vita delle comunità ebraiche?
Sì anche perché le comunità erano numerose, molto più di ora. Una vita religiosa, naturalmente, una vita sociale e assistenziale, per quello che era possibile, fatta da un orfanotrofio, una scuola, una casa di riposo per gli anziani e per i malati. Tutto questo aggregava gli ebrei e costituiva la comunità. Per me non era molto importante.

Quando Mussolini entrò in guerra, lei come la prese?
Con un po’ di paura, ma senza rendermi conto, come del resto molti miei coetanei. Non avevamo un’educazione politica. Il fascismo aveva funzionato soprattutto come anestetico, cioè privandoci della sensibilità. C’era la convinzione che la guerra l’Italia l’avrebbe vinta velocemente e in modo indolore. Ma quando abbiamo cominciato a vedere come erano messe le truppe che andavano al fronte occidentale, abbiamo capito che finiva male.

Sapevate quello che stava accadendo in Germania?
Abbastanza poco, anche per la stupidità, che è intrinseca nell’uomo che è in pericolo. La maggior parte delle persone quando sono in pericolo invece di provvedere, ignorano, chiudono gli occhi, come hanno fatto tanti ebrei italiani, nonostante certe notizie che arrivavano da studenti profughi, che venivano dall’Ungheria, dalla Polonia: raccontavano cose spaventose. Era uscito allora un libro bianco, fatto dagli inglesi, girava clandestinamente, su cosa stava accadendo in Germania, sulle atrocità tedesche, lo tradussi io. Avevo vent’anni e pensavo che, quando si è in guerra, si è portati a ingigantire le atrocità dell’avversario. Ci siamo costruiti intorno una falsa difesa, abbiamo chiuso gli occhi e in tanti hanno pagato per questo.

Come ha vissuto quel tempo fino alla caduta del fascismo?
Abbastanza tranquillo, studiando, andando in montagna. Avevo un vago presentimento che l’andare in montagna mi sarebbe servito. È stato un allenamento alla fatica, alla fame e al freddo.

E quando è arrivato l’8 settembre?
Io stavo a Milano, lavoravo regolarmente per una ditta svizzera, ritornai a Torino e raggiunsi i miei che erano sfollati in collina per decidere il da farsi.

La situazione con l’avvento della Repubblica sociale peggiorò?
Sì, certo, peggiorò quando il Duce, nel dicembre ’43, disse esplicitamente, attraverso un manifesto, che tutti gli ebrei dovevano presentarsi per essere internati nei campi di concentramento.

Cosa fece?
Nel dicembre ’43 ero già in montagna: da sfollato diventai partigiano in Val d’Aosta. Fui arrestato nel marzo del ’44 e poi deportato.

Lei è stato deportato perché era partigiano o perché era ebreo?
Mi hanno catturato perché ero partigiano, che fossi ebreo, stupidamente, l’ho detto io. Ma i fascisti che mi hanno catturato lo sospettavano già, perché qualcuno glielo aveva detto, nella valle ero abbastanza conosciuto. Mi hanno detto: “Se sei ebreo ti mandiamo a Carpi, nel campo di concentramento di Fossoli, se sei partigiano ti mettiamo al muro”. Decisi di dire che ero ebreo, sarebbe venuto fuori lo stesso, avevo dei documenti falsi che erano mal fatti.

Che cos’è un lager?
Lager in tedesco vuol dire almeno otto cose diverse, compreso i cuscinetti a sfera. Lager vuol dire giaciglio,vuoldireaccampamento,vuoldireluogo in cui si riposa, vuol dire magazzino, ma nella terminologia attuale lager significa solo campo di concentramento, è il campo di distruzione.

Lei ricorda il viaggio verso Auschwitz?
Lo ricordo come il momento peggiore. Ero in un vagone con cinquanta persone, c’erano anche bambini e un neonato che avrebbe dovuto prendere il latte, ma la madre non ne aveva più, perché non si poteva bere, non c’era acqua. Eravamo tutti pigiati. Fu atroce. Abbiamo percepito la volontà precisa, malvagia, maligna, che volevano farci del male. Avrebbero potuto darci un po’ d’acqua, non gli costava niente. Questo non è accaduto per tutti i cinque giorni di viaggio. Era un atto persecutorio. Volevano farci soffrire il più possibile.

Come ricorda la vita ad Auschwitz?
L’ho descritta in Se questo è un uomo. La notte, sotto i fari, era qualcosa di irreale. Era uno sbarco in un mondo imprevisto in cui tutti urlavano. I tedeschi creavano il fracasso a scopo intimidatorio. Questo l’ho capito dopo, serviva a far soffrire, a spaventare per troncare l’eventuale resistenza, anche quella passiva. Siamo stati privati di tutto, dei bagagli prima, degli abiti poi, delle famiglie subito.

Esistono lager tedeschi e russi. C’è qualche differenza?
Per mia fortuna non ho visto i lager russi, se non in condizioni molto diverse, cioè in transito durante il viaggio di ritorno, che ho raccontato nel libro La tregua. Non posso fare un confronto. Ma per quello che ho letto non si possono lodare quelli russi: hanno avuto un numero di vittime paragonabile a quelle dei lager tedeschi, ma per conto mio una differenza c’era, ed è fondamentale: in quelli tedeschi si cercava la morte, era lo scopo principale, erano stati costruiti per sterminare un popolo, quelli russi sterminavano ugualmente ma lo scopo era diverso, era quello di stroncare una resistenza politica, un avversario politico.

Che cosa l’ha aiutata a resistere nel campo di concentramento?
Principalmente la fortuna. Non c’era una regola precisa, visibile, che faceva sopravvivere il più colto o il più ignorante, il più religioso o il più incredulo. Prima di tutto la fortuna, poi a molta distanza la salute e proseguendo ancora, la mia curiosità verso il mondo intero, che mi ha permesso di non cadere nell’atrofia, nell’indifferenza. Perdere l’interesse per il mondo era mortale, voleva dire cadere, voleva dire rassegnarsi alla morte.

Come ha vissuto ad Auschwitz?
Ero nel campo centrale, quello più grande, eravamo in dieci-dodici mila prigionieri. Il campo era incorporato nell’industria chimica, per me è stato provvidenziale perché io sono laureato in Chimica. Ero non Primo Levi ma il chimico n. 4517, questo mi ha permesso di lavorare negli ultimi due mesi, quelli più freddi, dentro a un laboratorio. Questo mi ha aiutato a sopravvivere. C’erano due allarmi al giorno: quando suonava la prima sirena, dovevo portare tutta l’apparecchiatura in cantina, poi, quando suonava quella di cessato allarme, dovevo riportare di nuovo tutto su.

Lei ha scritto che sopravvivevano più facilmente quelli che avevano fede.
Sì, questa è una constatazione che ho fatto e che in molti mi hanno confermato. Qualunque fede religiosa, cattolica, ebraica o protestante, o fede politica. È il percepire se stessi non più come individui ma come membri di un gruppo: “Anche se muoio io qualcosa sopravvive e la mia sofferenza non è vana”. Io, questo fattore di sopravvivenza non lo avevo.

È vero che cadevano più facilmente i più robusti?
È vero. È anche spiegabile fisiologicamente: un uomo di quaranta-cinquanta chili mangia la metà di un uomo di novanta, ha bisogno di metà calorie, e siccome le calorie erano sempre quelle, ed erano molto poche, un uomo robusto rischiava di più la vita. Quando sono entrato nel lager pesavo 49 chili, ero molto magro, non ero malato. Molti contadini ebrei ungheresi, pur essendo dei colossi, morivano di fame in sei o sette giorni.

Che cosa mancava di più: la facoltà di decidere?
In primo luogo il cibo. Questa era l’ossessione di tutti. Quando uno aveva mangiato un pezzo di pane allora venivano a galla le altre mancanze, il freddo, la mancanza di contatti umani, la lontananza da casa…

La nostalgia, pesava di più?
Pesava soltanto quando i bisogni elementari erano soddisfatti. La nostalgia è un dolore umano, un dolore al di sopra della cintola, diciamo, che riguarda l’essere pensante, che gli animali non conoscono. La vita del lager era animalesca e le sofferenze che prevalevano erano quelle delle bestie. Poi venivamo picchiati, quasi tutti i giorni, a qualsiasi ora. Anche un asino soffre per le botte, per la fame, per il gelo e quando, nei rari momenti, in cui capitava che le sofferenze primarie, accadeva molto di rado, erano per un momento soddisfatte, allora affiorava la nostalgia della famiglia perduta. La paura della morte era relegata in secondo ordine. Ho raccontato nei miei libri la storia di un compagno di prigionia condannato alla camera gas. Sapeva che per usanza, a chi stava per morire, davano una seconda razione di zuppa, siccome avevano dimenticato di dargliela, ha protestato: “Ma signor capo baracca io vado nella camera a gas quindi devo avere un’altra porzione di minestra”.

Lei ha raccontato che nei lager si verificavano pochi suicidi: la disperazione non arrivava che raramente alla autodistruzione.
Sì, è vero, ed è stato poi studiato da sociologi, psicologi e filosofi. Il suicidio era raro nei campi, le ragioni erano molte, una per me è la più credibile: gli animali non si suicidano e noi eravamo animali intenti per la maggior parte del tempo a far passare la fame. Il calcolo che quel vivere era peggiore della morte era al di là della nostra portata.

Quando ha saputo dell’esistenza dei forni?
Per gradi, ma la parola crematorio è una delle prime che ho imparato appena arrivato nel campo, ma non gli ho dato molta importanza perché non ero lucido, eravamo tutti molto depressi. Crematorio, gas, sono parole che sono entrate subito nelle nostra testa, raccontate da chi aveva più esperienza. Sapevamo dell’esistenza degli impianti con i forni a tre o quattro chilometri da noi. Io mi sono esattamente comportato come allora quando ho saputo delle leggi razziali: credendoci e poi dimenticando. Questo per necessità, le reazioni d’ira erano impossibili, era meglio calare il sipario e non occuparsene.

Poi arrivarono i russi e fu la libertà. Come ricorda quel giorno?
Il giorno della liberazione non è stato un giorno lieto perché per noi è avvenuto in mezzo ai cadaveri. Per nostra fortuna i tedeschi erano scappati senza mitragliarci, come hanno fatto in altri lager. I sani sono stati ri-deportati. Da noi sono rimasti solo gli ammalati e io ero ammalato. Siamo stati abbandonati, per dieci giorni, a noi stessi, al gelo, abbiamo mangiato solo quelle poche patate che trovavamo in giro. Eravamo in ottocento, in quei dieci giorni seicento sono morti di fame e freddo, quindi, i russi mi hanno trovato vivo in mezzo a tanti morti.

Questa esperienza ha cambiato la sua visione del mondo?
Penso di sì, anche se non ho ben chiara quale sarebbe stata la mia visione del mondo se non fossi stato deportato, se non fossi ebreo, se non fossi italiano e così via. Questa esperienza mi ha insegnato molte cose, è stata la mia seconda università, quella vera. Il lager mi ha maturato, non durante ma dopo, pensando a tutto quello che ho vissuto. Ho capito che non esiste né la felicità, né l’infelicità perfetta. Ho imparato che non bisogna mai nascondersi per non guardare in faccia la realtà e sempre bisogna trovare la forza per pensare.

Grazie, Levi.
Biagi, grazie a lei.

Da Il Fatto Quotidiano del 26 gennaio 2014