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Con l’Egitto non servono “progressi”: serve la verità

Vendereste armi a qualcuno che vi ha massacrato un giovane studente e che si è inventato di tutto prima di ammettere a mezza bocca solo che tutto quello che aveva cercato di dire per depistare è falso? Pensateci bene. Vendereste armi a un Paese che ha poi ripetuto lo stesso schema con uno studente, questa volta non italiano ma praticamente adottato dalla città di Bologna dove studiava all’università, arrestato lo scorso 7 febbraio e tutt’ora in attesa di un giusto processo e sottoposto a una detenzione che solleva più di qualche dubbio?

Il Paese in questione è l’Egitto e i due studenti sono Giulio Regeni e Patrick Zaky. A Regeni, come sappiamo tutti, è andata molto peggio e non è un caso che i suoi genitori giusto pochi giorni fa abbiano ribadito di essere molto delusi dalle istituzioni italiane.

Con l’Egitto l’Italia sta trattando per un affare militare del valore di 9-11 miliardi di euro e il presidente del Consiglio Conte qualche giorno fa ha dato il via libera per la vendita di due fregate Fremm. Vendere armi a un regime è già qualcosa di orrendo, venderle a un Paese che insiste a prenderci in giro sulla morte di Regeni è qualcosa di insulso.

Ieri Liberi e Uguali ha presentato un’interrogazione al ministro Di Maio (se vi chiedete se governino insieme la risposta è sì, torniamo al #buongiorno di ieri della simbologia che annoia) in cui chiedeva conto di questa torbida situazione con Al-Sisi e il ministro Di Maio ha risposto precisando che «resta ferma la nostra incessante richiesta di progressi significativi nelle indagini sul caso del barbaro omicidio di Giulio Regeni. Il governo e le istituzioni italiane continuano ad esigere la verità dalle autorità egiziane attraverso una reale, fattiva ed efficace cooperazione».

Ed è una frase che non vuol dire nulla. Non c’è nessuna cooperazione tra Egitto e Italia sulla questione Regeni: l’hanno detto in molti, tra cui quelli che indagano. Esigere la verità stringendo accordi è quantomeno curioso. Di Maio ha anche aggiunto: «l’Egitto resta uno degli interlocutori fondamentali nel quadrante Mediterraneo, nell’ambito di importanti dossier, come il conflitto in Libia, la lotta al terrorismo e ai traffici illeciti, nonché la gestione dei flussi migratori e la cooperazione in campo energetico».

Ecco, no, non ci siamo proprio. Qui non servono “progressi”, non ci si avvicina ad annusare la verità. La verità è una, limpida e manca.

Grazie.

Buon giovedì.

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Appalto a sua insaputa

Una nuova fiammante storia arriva dalla Lombardia del duo Fontana & Gallera e questa volta si impiglia tra le pieghe dei parenti del presidente, più precisamente nelle pieghe di bilancio della Dama spa che appartiene – tramite Divadue srl – per il 10% a Roberta Dini (moglie di Attilio Fontana) e per il resto delle quote – tramite una fiduciaria svizzera – a suo fratello Andrea Dini.

Il 16 aprile Regione Lombardia tramite l’agenzia regionale pubblica degli acquisti Aria spa acquista dalla moglie e dal cognato di Fontana camici per un valore di 513mila euro. I bravi giornalisti di Report (la puntata andrà in onda stasera) chiedono spiegazioni al cognato di Fontana: quello prima risponde che «non è un appalto, è una donazione. Chieda pure ad Aria, ci sono tutti i documenti» e poi si corregge aggiungendo che «effettivamente, i miei, quando io non ero in azienda durante il Covid, chi se ne è occupato ha male interpretato, ma poi me ne sono accorto e ho subito rettificato tutto perché avevo detto ai miei che doveva essere una donazione».

Dal canto suo il presidente Fontana, ha annunciato, tramite un comunicato, una querela nei confronti del Fatto quotidiano che ha anticipato il contenuto dell’inchiesta di Report, e ha diffidato la trasmissione di RaiTre «dal trasmettere un servizio che non chiarisca in maniera inequivocabile come si sono svolti i fatti». Nella nota Fontana ha ribadito la sua «totale estraneità alla vicenda» e ha precisato di aver «già spiegato per iscritto» agli inviati di Report di non sapere «nulla della procedura attivata da Aria spa» e di non essere «mai intervenuto in alcun modo». Ed ecco la replica di Ranucci (Report): «Non vedo proprio perché non dovremmo andare in onda. In fondo raccontiamo un bel gesto. Senza di noi e senza il Fatto Quotidiano nessuno avrebbe infatti saputo che l’azienda del cognato del presidente della Lombardia ha donato ai suoi cittadini materiale sanitario. E dal momento che Fontana dice di essere all’oscuro possiamo dire che tutto sia avvenuto a sua insaputa, sia in Regione che in casa. Insomma credo debba ringraziarci. Se non ce ne fossimo occupati noi avrebbe continuato a non sapere nulla».

In effetti a fine maggio risultano stornati i soldi con una nota d’accredito ma risulta piuttosto significativa la risposta di un appalto a sua insaputa che aggiunge un nuovo capitolo all’insaputismo dei nostri politici – alcuni dei quali negli anni hanno ricevuto appartamenti, favori, scambi e ogni volta ci hanno spiegato che non possono controllare tutto.

L’insaputismo del resto è lo stesso male che attanaglia quelli che continuano a concedere le piazze ai fascisti stupendosi poi che si comportino da fascisti oppure quelli che soffiano sulla violenza e poi si stupiscono della violenza oppure quelli che a sua insaputa hanno messo i malati in mezzo agli anziani delle Rsa.

Bisognerebbe scrivere una nuova legge morale: se qualcuno a sua insaputa è stato gravemente inopportuno allora è troppo superficiale per ricoprire un incarico pubblico. Solo così, forse, si potrebbe sconfiggere il virus dell’insaputismo che infesta la storia politica d’Italia.

Buon lunedì.

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La giustizia sociale non è un tic

Il trucco è sempre lo stesso: qualcuno chiede giustizia sociale (soprattutto chi di ingiustizia sociale ci muore e si marcisce) e quegli altri rispondono che è un tic. Una volta sono gli antifascisti, una volta sono i giovani mai contenti, una volta sono le femministe nevrotiche, una volta sono i neri che vorrebbero essere bianchi, una volta sono gli stranieri che vogliono solo diritti, una volta sono i comunisti che vogliono dignità salariale, una volta sono i poveri che pretendono di essere ricchi, una volta sono i lavoratori che pretendono una giusta paga, una volta sono gli omosessuali che vorrebbero essere come gli altri, una volta sono i laici che pretendono troppo di essere laici, una volta sono i garanti che pretendono garanzie anche per gli assassini. È tutto così: chiedi un diritto e vieni etichettato come fronda, vieni messo nello scaffale di qualche associazione di idee e di persone e la richiesta di giustizia sociale viene trattata come il solito refrain da tralasciare com’è sempre stato tralasciato.

Il trucco è sempre lo stesso: normalizzare la mancanza di diritti come una situazione a cui non si può porre rimedio e come una conseguenza naturale di un modello che è l’unico possibile. Così mentre accade che negli Usa gli stranieri siano stanchi di un razzismo che oggi si è trasformato in profanazione socio economica qui da noi i subappaltatori dei rider di UberEats hanno l’impunità di dirci che i loro lavoratori  «sono africani perché gli italiani vogliono 2 mila euro al mese. Basta retorica del ‘poverini». Retorica dei poverini, eccolo il tic. E lo stesso vale per quelli che raccolgono la frutta nei campi.

La giustizia sociale non è un tic, no. E non è qualcosa che può essere coperta ogni volta invocando una guerra o una ribellione pericolosa. Quando negli Usa hanno ucciso George Floyd i bianchi vedendo le immagini hanno sospirato “oh, no” mentre i neri hanno pensato “è successo ancora”. Se avete la sensazione che su alcuni diritti “si continui a parlare sempre delle solite cose” è perché le solite cose non si sono mai risolte e sono ancora lì, a gridare vendetta.

Reclamate il diritto di essere perseveranti, giorno dopo giorno, goccia dopo goccia. Qualcuno vi additerà come noiosi e invece siete solo fedeli a voi stessi.

Buon giovedì.

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Metti che un giorno l’Italia sia guerrafondaia e filonucleare: giocare d’anticipo, stavolta

Lo scorso ottobre durante una riunione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che trattava di disarmo e questioni di sicurezza internazionale, 123 nazioni hanno votato a favore della Risoluzione L.41,  mentre 38 (compresa l’Italia) hanno votato contro e ci sono stati 16 Paesi astenuti. La risoluzione votata (la trovate qui) si proponeva di fissare una conferenza programmatica di tutti gli Stati membri per individuare uno “strumento giuridicamente vincolante per vietare le armi nucleari, che porti verso la loro eliminazione totale”.

Il voto contrario dell’Italia (a braccetto con gli USA) scatenò nei mesi scorsi un folto coro di polemiche indignate. Brevi e postume, come al solito. Ovviamente. Fu piuttosto triste assistere anche al malcelato silenzio (o al massimo qualche editorialino sdraiato) da parte di una certa stampa che di quei tempi (era ottobre ma sembra un secolo fa) aveva la preoccupazione di non disturbare il manovratore Renzi.

E non fu un errore o una decisione presa d’improvviso: quel voto è avvenuto dopo una chiara risoluzione del Parlamento Europeo che invitava tutti gli Stati membri Ue a partecipare in modo costruttivo ai negoziati ma nemmeno questo era bastato.

(continua su Left)

Se la Rai ci consiglia la razza della nostra prossima donna

1) Sono tutte mamme, ma dopo aver partorito recuperano un fisico marmoreo. 2) Sono sempre sexy, niente tute né pigiamoni. 3) Perdonano il tradimento. 4) Sono disposte a far comandare il loro uomo. 5) Sono casalinghe perfette e fin da piccole imparano i lavori di casa. 6) Non frignano, non si appiccicano e non mettono il broncio.

Sembra uno scherzo di cattivo gusto, una pagina facebook dei soliti machi da tastiera è invece il servizio pubblico: ne ha parlato (credendo davvero di fare televisione, povera lei) Paola Perego, conduttrice di Parliamone sabato, rubrica di La vita in diretta su RaiUno. E in studio tra l’altro si sono sprecate le perle di quei quattro stracci di ospiti che arrancavano per prendere sul serio il tema della trasmissione (Titolo: “La minaccia arriva dall’est. Gli uomini preferiscono le straniere”. Sottotitolo: “Sono rubamariti o mogli perfette”?): Fabio Testi portato testimonianze intense di vita reale (“lo ha portato in Russia, sono andati insieme in un bordello, gli ha fatto scegliere un’altra ragazza e si sono divertiti tutta la notte insieme: come fai – si chiede l’attore – a non innamorarti di una donna così, giustamente?”), Marta Flavi ci ha deliziato con le su brillanti osservazioni (“sono tutte curatissime. Anche chi vende i pomodori al mercato ha le unghie curate”) e così via. Fino ai fatidici 6 punti.

(continua su Left)

Povera Rai, cameriera del sì

Roberto Fico (Presidente del Comitato di Vigilanza Rai) dà un po’ di numeri:

«Sono stati appena pubblicati dall’Agcom i dati della settimana 14-20 novembre. Sono vergognosi.
Nei tg Rai il Sì ha goduto di 1 ora e 8 minuti in più rispetto al No (54,6% contro 42,7%). Ma questo non è nulla rispetto alla presenza del premier e del Governo: 47% del tempo di parola al Tg1, 36% al Tg2, 44% su Rainews. Tempo di notizia? 42% Tg1, 45% Tg2, 46% Rainews. Il grosso è tempo del premier, ovviamente. Ricordo ancora una volta che l’informazione dei membri del Governo in una campagna elettorale deve limitarsi, per legge, alle funzioni istituzionali, e non è ammessa la propaganda.»

In questo Paese il servilismo è immutabile: cambiano i fattori ma il risultato non cambia mai.

Povera Rai

Francesca Fornario conduce un programma su Radio Due, oltre a tutto il resto. Ed è un’amica.

Scrive sul suo profilo fb:

“Ricapitolando: niente battute su Matteo Renzi, niente politica, niente satira, niente personaggi, niente imitazioni, niente copioni, niente “scenette” qualunque cosa siano, niente comicità e che altro… ah, niente battute sul fatto che non si può dire “comunista”. Quel che resta – il mio imbarazzo e bene che ci vogliamo io e Federica Cifola – va in onda ogni sabato e domenica in diretta su radio2, dalle 18 alle 19.30″.

Si apre un discussione in rete in cui in interviene anche un fido renziano come Tommaso Ederoclite che domanda:

Avevo già letto Pasquale, se fosse così è gravissimo, ma nello stesso tempo mi pongo una domanda, come mai Francesca nonostante certe “censure” ha continuato a lavorarci lo stesso?

E Francesca risponde:

Perché questo è il mio lavoro, vivo di questo facendolo con il massimo scrupolo, vivrò di questo fino a quando mi consentiranno di farlo dandogli comunque un senso di servizio – servizio pubblico! – e restando libera di spiegare perché prima il programma era fatto in un modo e ora in un altro. Quindi, cerco comunque di fare meglio che posso il programma – un nuovo programma, a questo punto, completamente diverso dalla prima stagione di due anni fa, che aveva avuto molto successo – seguendo le nuova linea editoriale, parlando agli ascoltatori di cose che penso possano sollevare la condizione di ciascuno tipo – come ho fatto ieri – raccomandando libri per bambini che cambiano di poco in meglio la vita. Ad esempio, “La guerra del burro”. Resto convinta che il servizio pubblico lo facessi meglio facendo quello che so fare meglio, e non serve, immagino – spero! – spiegare perché la satira SERVA, vero? Che preferisco farlo spiegare a Groucho Marx: Groucho Marx diceva che la prima cosa a sparire in un paese quando si trasforma in uno stato totalitario sono i comici e la commedia: «Poiché ridono di noi, non si accorgono di quanto siamo importanti davvero per la loro salute mentale». Ovvio che se invece di dirmi cosa non posso più fare mi dicessero anche cosa devo fare, e se fosse qualcosa inconciliabile con i miei principi tipo fare propaganda a favore del sì al referendum o peggio ancora elogiare i dischi di Nek, saluterei senza pensarci un secondo, essendo io una privilegiata che pensa di poter fare tanti altri lavori al posto di questo. Buona giornata!

Povera Rai. Poveri noi.

Viva la Rai

Anche per la Rai il futuro sarà per la prossima volta, quindi. E sarebbe fin troppo facile andare a ripescare le promesse non mantenute: anche su questo ritorniamo al vento freddo della delusione. «Fuori i partiti dalla Rai!» è l’urlo con cui ciclicamente il salvatore di turno ammaestra il popolino con la stessa retorica di cho invece vorrebbe chiuderla, la Rai. Frasi fatte, propaganda fritta, come questa:

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Oppure i soliti proclami, roba così:

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Quello che sappiamo oggi della Rai è che Bianca Berlinguer (non certo renziana) sia stata rimossa per lasciare il posto a quello stesso Luca Mazzà che sbatté la porta a Ballarò non concordando con la linea “troppo antirenziana” del programma. In tempi di servitù l’autonomia di pensiero è un pericolo, del resto. Da sempre. Servono analisi? E allora oggi vale la pena riprendere le parole di Enrico Mentana che dice:

«Questa storia del cambio di direttori nei tg Rai è tristissima e pacchiana insieme. È chiaro che l’obiettivo era rimuovere Bianca Berlinguer dal tg3. Ed è chiaro che i top manager Rai questo obiettivo proprio non se lo erano prefisso, tanto è vero che poche settimane fa sono stati presentati i palinsesti della nuova stagione, senza tenere conto di un possibile spazio “risarcitorio” per lei. Insomma, l’ordine è venuto improvviso e da fuori. In vista del referendum? Direi proprio di… sì. Ma per non farla troppo evidente si è pensato di non sostituire solo lei. Quindi via anche Masi dal tg2, così, per compagnia, per dimostrare alla Commissione di Vigilanza che non è un fatto personale, e politico. Una foglia di Fico, insomma. Quelli dell’opposizione strepiteranno per il colpo contro i sostenitori del no referendario, quelli della maggioranza diranno che la Berlinguer era lì da 7 anni e cambiarla non è un delitto, e nessuno si filerà il povero Masi, danno collaterale di una guerra politica, che conferma al di là di ogni sarcasmo che tutti noi paghiamo la Rai nella bolletta della luce, ma le mani sull’interruttore sono sempre le stesse.»

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Referendum: la Rai dedica 7 ore al Sì e 1 minuto al No. Non è uno scherzo.

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Ne ha scritto Marco Palombi:

Sette ore contro un minuto e 19 secondi contando tutti i programmi gestiti dai telegiornali Rai (Tg1, Tg2, Tg3 e Rainews) nei 47 giorni che corrono dal 20 aprile al 6 giugno scorso. Le sette ore sono quelle in cui Matteo Renziha parlato del referendum costituzionale di ottobre o è stata riportata la sua posizione sul tema, mentre il minuto e 19 secondi è il tempo che la tv pubblica ha dedicato per lo stesso motivo ad Alessandro Pace, uno dei più importanti costituzionalisti italiani e presidente del Comitato per il No.

Questi due dati sono contenuti nelle tabelle (grezze) su cui l’Autorità per le comunicazioni (Agcom) effettua poi le sue rilevazioni e danno l’idea dell’aria che tira nella tv di Stato rispetto alla “madre di tutte le sfide”, come la chiama il premier, ovvero il voto che tra qualche mese gli italianisaranno chiamati a dare sulla riforma Boschi. I dati, come detto, sono grezzi: riguardano solo il minutaggio riferito al referendum costituzionale. In gergo viene rilevato il “tempo di parola” (quello in cui il soggetto parla) e il “tempo di notizia” (quello in cui si parla di ciò che ha detto o fatto il soggetto): la somma dei due è il cosiddetto “tempo di antenna”, quello che Renzi ha avuto per 7 ore e Pace per 79 secondi.

Martedì le opposizioni avevano chiesto un’audizione del direttore generale Rai, Alessandro Campo Dall’Orto, per chiedergli conto dell’occupazione di governo e sostenitori del Sì delle reti Rai (con annesso bavaglio al No); ieri le tabelle dell’Agcom – che Il Fatto ha potuto visionare – hanno dimostrato che non si trattava di un vaneggiamento. Ovviamente, i dati sono grezzi: il tempo di notizia, in particolare, andrebbe analizzato secondo criteri oggettivi, ma la “preferenza” accordata al Sì è patente. Restando al tempo di antenna, oltre alle 7 ore di Renzi, va segnalata l’ora e 25 minuti appannaggio di Maria Elena Boschi e i 36 minuti di Giorgio Napolitano.

Il costituzionalista Pace, come detto, ha avuto un minuto e 19 secondi, mentre il capofila del fronte del No (finché non cambia idea) è Silvio Berlusconi con 55 minuti di presenza in Rai, più del doppio dei venti minuti di Luigi Di Maio del direttorio 5 Stelle, a sua volta imparagonabilmente più seguito dell’ex vicepresidente della Consulta Valerio Onida.

Più affidabili, quanto a significato politico ed editoriale, sono i dati del “tempo di parola”, cioè quanto effettivamente i vari protagonisti hanno parlato del referendum. La classifica per il periodo 20 aprile-6 giugno è questa: primo Renzi con 1 ora e 40 minuti; segue Boschi con 33 minuti; poi Berlusconi con 27 minuti, Napolitano con 19 e Gianni Cuperlo(minoranza Pd, schierato per il Sì) con 16 minuti, Di Maio con 13, Brunetta con 10. Il primo “tecnico”, per così dire, è Onida (7 minuti e 50 secondi). Carlo Smuraglia, partigiano e presidente dell’Anpi, più volte insolentito dalla ministra Boschi, ha avuto tre minuti e mezzo per replicare.

Il conteggio supera di parecchio i cento nomi e sigle, fino alle minuzie tipo i 18 secondi a testa strappati dai renziani Alessia Rotta e Ernesto Carbone o i 13 della grillina Carla Ruocco. Le tabelle dell’Agcom, però, forniscono pure l’interessante dato percentuale del “tempo di parola” nei programmi giornalistici della Rai. Qui il dominio del governo e dei sostenitori del Sì si fa più evidente del puro minutaggio: il solo presidente del Consiglio, infatti, ha accumulato il 26,3% di tutte le dichiarazioni in merito al referendum costituzionale nei 47 giorni presi in considerazione.

Tradotto: per oltre un minuto ogni quattro, se qualcuno stava parlando di referendum in Rai, si chiamava era Matteo Renzi. Buona seconda Maria Elena Boschi, che ha collezionato il 9% del tempo di parola nella tv di Stato. La trimurti delle riforme si completa con Giorgio Napolitano, quarto classificato, col 5% del microfono di viale Mazzini: i tre assieme fanno oltre il 40% del “tempo di parola” in Rai sulle riforme. Se si tiene conto di tutti i personaggi apertamente schierati per il Sì si arriva ail 54% del totale, a cui va aggiunto un 10% circa dedicato alle cariche istituzionali (Boldrini e Grasso) e alla sinistra Pd (schierata per il Sì, ma tiepidamente).

Il conto del No – in cui domina Forza Italia (Berlusconi ha il 7,3% del tempo di parola, Brunetta il 2,8%) – arriva al 33% contando però tutta una serie di mini-dichiarazioni di pochi secondi. I “professori” del No, cioè quelli che stanno raccogliendo le firme per chiedere il referendum, in questo calderone sono praticamente annullati: tutti insieme non arrivano al quarto d’ora. Se non è un bavaglio, gli somiglia.

(fonte)

E intanto il No scompare dalla Rai

RIFORMA-COSTITUZIONALE

(l’intervista a Alessandro Pace di Carlo Tecce per Il Fatto Quotidiano)

Alessandro Pace ha un’agenda satura d’impegni: “Mi spiace, il tempo è scarso”. Il professore emerito di Diritto costituzionale presiede il Comitato per il No che intende bloccare la riforma della Carta. A ottobre ci sarà il referendum confermativo, ma la campagna elettorale è adesso. In piazza e sui media.

Professore, la presenza sui canali Rai del comitato la soddisfa?

Mi fa una domanda ingenua, è retorica?

Anche retorica.

Per la Rai siamo inesistenti. Io non mi sorprendo, non mi aspettavo trattamenti degni di un servizio pubblico aperto al dibattito. Ma la realtà supera le mie più fosche previsioni. Ho contato i secondi.

I secondi?

Con i minuti facciamo troppo presto. Ascolti, le fornisco i dettagli. Il Tg3 mi ha intervistato per circa tre minuti, ma in onda sarà andato un pezzetto. Il programma Bianco e Nero su Radio1 mi ha interpellato per un paio di minuti o 120 secondi, scelga lei.

E il resto?

A memoria ricordo Gaetano Azzariti a La7 da Lilli Gruber, e poi sempre a Otto e Mezzo nei prossimi giorni ci saranno altri esponenti. Ma noi parliamo di Rai, le nostre statistiche riguardano la Rai, esatto?

Sì, professore.

Perché abbiamo capito che il tallone di Matteo Renzi è La7, l’unica rete che ospita le idee di chi non è schierato con il governo sul referendum. La7 fa servizio pubblico.

E che fa Viale Mazzini?

Quello che fa da sempre: tutela gli interessi del governo. In questa circostanza – e mi stupisco ancora – con maggiore attenzione. Con Berlusconi c’era addirittura più spazio per le opposizioni. Oggi la situazione è peggiorata.

A chi vi appellate, come reag i te?

Abbiamo scritto e riscritto al professore Angelo Cardani, il presidente dell’Autorità garante per le Comunicazioni.

Co s ’è accaduto?

Niente.

Per voi il confronto pubblico fra le ragioni del sì e del no è impari?

Ammetto che da un punto di vista oggettivo è una battaglia persa.

Perché, professore?

In tv non compariamo e non abbiamo quattrini. Ho chiesto due pareri agli avvocati e sono riuscito a ricavare 30 mila euro dall’associazione “Salviamo la Costituzione”.

Allora è rassegnato?

No, per carità. I ragazzi che incontriamo ai convegni ci trasmettono un’energia preziosa, proseguiamo con vigore, andiamo avanti. Abbiamo 285 comitati locali, l’11 e il 12 giugno lanceremo una manifestazione in cento e più città con la speranza di accelerare la raccolta delle firme. A Milano abbiamo riempito tre sale di Palazzo Marino, a Bergamo c’era gente in piedi, così pure alla Sapienza di Roma.

Ma chi se n’è accorto?

Osservazione corretta: non c’era una telecamera.

E sui giornali va meglio?

C’è chi ospita dei nostri interventi e chi osteggia il comitato per il no. Un cronista di un quotidiano nazionale ci ha definito “forza antisistema”. È una etichetta assurda, tremenda e, soprattutto, di una falsità eclatante. Noi difendiamo la Carta con passione, difendiamo i principi dell’articolo 138. Non possiamo tollerare degli insulti gratuiti.