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Strage in mare: 130 naufragi in difficoltà da giorni, ma con le Ong lontane gli Stati hanno fatto finta di niente…

Il fatto è che ormai questi morti non pesano più, sono battute, qualche centinaio di battute che finiscono sulle pagine dei giornali, quando va bene in una notizia che è poco di più una semplice “breve”, oppure farciscono un lancio di agenzia. Perfino quelli che (giustamente) ogni giorno provano a sottolineare i quintali di carne morta per Covid non riescono ad avere la stessa attenzione per i morti nel Canale di Sicilia. Lì abbiamo deciso che “devono” morire, che “possono” morire, come se davvero nel 2021 potesse esistere una parte di mondo che preveda ineluttabile l’annegamento, va così, ci si dà di gomito, ci si intristisce di quel lutto passeggero che si dedica alle notizie di cronaca nera e quelli non esistono più, non erano nemmeno vivi prima di essere morti, quelli che attraversano il Mediterraneo esistono perfino di più quando sono cadaveri che galleggiano nel mare.

130 migranti morti, 3 barconi messi in mare dai trafficanti libici e tre navi commerciali (lì dove ci dovrebbero essere le autorità coordinate dall’Europa) a deviare dalle loro rotte per provare ad evitare il disastro che non è stato evitabile. “Gli Stati si sono opposti e si sono rifiutati di agire per salvare la vita di oltre 100 persone. Hanno supplicato e inviato richieste di soccorso per due giorni prima di annegare nel cimitero del Mediterraneo. È questa l’eredità dell’Europa?”, dice la portavoce dell’iim, l’organizzazione dell’Onu per i migranti, Safa Mshli ma anche le parole dell’Onu ormai pesano niente, sono una litania che si ripete regolarmente e che non scalfisce quest’Europa che riesce a passarla sempre liscia. Anche dal punto di vista giudiziario sorge qualche dubbio, pensateci bene: le Procure che rinviano a giudizio Salvini non si accorgono (o non si vogliono accorgere?) Delle responsabilità dell’Europa?

Perché questi non rimangono nemmeno sequestrati, questi muoiono, annegano, galleggiano sul mare e vengono recuperati senza nemmeno uno straccio di qualche fotografia di cronaca. Sopra a quei tre gommoni di gente viva che poi è morta sono perfino transitati perfino velivoli di Frontex eppure non è scappato nemmeno un messaggio di allerta alla cosiddetta Guardia costiera libica che ha pensato bene di non inviare nemmeno una delle motovedette (che le abbiamo regalato noi). Troppa fatica. Quando i morti cominciano a non valere più niente allora ci si può permettere di lasciare morire e forse un giorno ci interrogheremo sulla differenza tra lasciare morire e uccidere, forse un giorno decideremo, avremo il coraggio di riconoscere, che questa strage ha dei precisi mandanti e dei precisi esecutori.

“Quando sarà abbastanza? Povere persone. Quante speranze, quante paure. Destinate a schiantarsi contro tanta indifferenza”, dice Carlotta Sami, portavoce dell’alto commissariato per i rifugiati e il dubbio è che ormai non sarà più abbastanza perché quando si diventa impermeabili ai morti allora quelli aumenteranno, continueranno a morire ancora di più, continueranno a cadere e intorno non se ne accorgerà nessuno. Centotrenta persone annegate. Le autorità dell’Ue e Frontex sapevano della situazione di emergenza, ma hanno negato il soccorso. La Ocean Viking è arrivata sul posto solo per trovare dieci cadaveri: è un’epigrafe che fa spavento ma che non smuove niente.

Sono passate due settimane da quando il presidente del Consiglio Mario Draghi ha ringraziato la guardia costiera per i “salvataggi” e quando qualcuno si è permesso di ricordare che in Libia e in quel tratto di mare mancano completamente tutti i diritti fondamentali i sostenitori del governo si sono perfino risentiti. E la storia di questo annegamento, badate bene, non è nemmeno un incidente: comincia mercoledì alle ore 14.11 con il primo allarme e si è conclusa il giorno successivo alle 17.08 con una mail di Ocean Viking che comunicava di avere trovato “i resti di un naufragio e diversi corsi, senza alcun segno di sopravvissuti”. Nessuna motovedetta libica all’orizzonte. Lì sono annegati loro ma in fondo continuiamo ad annegare anche noi e la cosa mostruosa è che ci siamo abituati.

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Rifugiati, dove è la crisi? L’Italia ultima nell’accoglienza tra i big d’Europa

Sono piccoli dettagli ma torneranno presto a essere argomenti. Mario Draghi ha parlato poco, pochissimo, quasi niente di immigrazione se non in una sua replica al Senato lo scorso 17 febbraio e di sfuggita in qualche suo discorso con la solita retorica di un sovraccarico di rifugiati che pesa sull’Italia, eppure appena si placherà la discussione sulla pandemia la politica nostrana si incaglierà ancora lì, c’è da scommetterci. Matteo Salvini, parlando del suo rinvio a giudizio a Palermo per il caso della nave Open Arms, ha già messo il tema sul tavolo annunciando la sua intenzione di confrontarsi con la ministra Lamorgese per “cambiare registro”.

Draghi per formazione professionale e per forma mentis dovrebbe essere un uomo che ragiona sulla base dei numeri e allora conviene ripassarle le cifre di una crisi che non esiste: in Italia ci sono 3,4 rifugiati ogni 1000 abitanti, in Svezia sono 25 ogni 1000, 134 in Germania e 6 in Francia. Queste sono le proporzioni, tanto per capire di cosa stiamo parlando. I dati sono contenuti in una ricerca pubblicata da Eurostat che si riferisce alle richieste di asilo nei Paesi europei nel 2020 e il risultato piuttosto sorprendente rispetto alla retorica da cui siamo circondati dice che l’Italia, con 26.535 domande, sia addirittura all’ultimo posto nell’accoglienza di migranti tra gli Stati più grandi, perfino dietro alla Grecia che, nonostante abbia una popolazione pari a un sesto dell’Italia (e un Pil pari a un decimo del nostro) ha ricevuto 40.560 domande nell’anno appena passato.

La Germania, ad esempio, che viene indicata spesso in Europa come la nazione che “scarica” i rifugiati sugli altri Paesi mettendoli in difficoltà, è la meta privilegiata dei migranti in Europa avendo ricevuto il 20% delle richieste totali. Seguono Francia e Spagna, rispettivamente con 93.475 e 88.525 rifugiati, mentre il Regno Unito con 31.410 domande si pone alle spalle della Grecia e precede l’Italia. Se teniamo conto delle dimensioni dei Paesi risultano sorprendenti anche i dati di Belgio, Svezia e Olanda che hanno circa 15.000 domande ciascuno, sono 13.640 per l’Austria e 11.540 per la Svizzera. Cipro, con una popolazione totale che non raggiunge i 900 mila abitanti ha ricevuto 7.000 richieste di asilo.

Ma se rapportiamo il numero di richieste al numero di abitanti la situazione diventa ancora più lampante: per l’Italia siamo allo 0,04% rispetto allo 0,14% di Svizzera e Francia, lo 0,15% di Germania, Belgio, Austria e Svezia, lo 0,19% della Spagna, lo 0,37% della Grecia e addirittura lo 0,79% di Cipro. L’Italia insomma è uno dei Paesi europei che nel 2020 ha accolto meno richiedenti asilo. Sono numeri da tenere portata di mano, appuntarsi su un foglio da tenere in tasca, almeno per evitare le intossicazioni di un tema che non riesce mai ad essere discusso senza diventare bieca propaganda. E di sicuro il presidente del Consiglio, che da sempre usa i numeri per costruire la sua visione di mondo, non cadrà nella tentazione di valutare un’emergenza in base al volume degli strilli. Speriamo.

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Dal Conte 1 al 2 la criminalizzazione della solidarietà delle Ong continua a gonfie vele…

Ci sono molti modi per boicottare i salvataggi in mare. Si può fare smargiassando e usandolo come tema di propaganda politica, come fece a suo tempo il ministro dell’interno Salvini che ancora continua sulla stessa lunghezza d’onda ma si può fare anche sotto traccia, in un modo perfino più subdolo, agitando la clava della burocrazia al posto della clava della paura ma ottenendo il medesimo effetto. Nel secondo caso si deve avere anche un bel pezzo del mondo dell’informazione che accetti di farti passare per il buono, perfino per l’avversario politico delle politiche di Salvini e bisogna contare su una buona dosa di indifferenza cosicché i fatti vengano taciuti, tenuti sotto traccia, sminuiti.

Siamo al governo Conte bis, quello che aveva promesso discontinuità con il governo giallo verde proprio sul tema dei diritti umani dell’immigrazione e siamo ancora qui, più di un anno dopo, a osservare un governo che mantiene le stesse politiche (la mancata abolizione dei decreti sicurezza di Salvini di fatto non ha spostato di una virgola le regole, nonostante le tante belle parole) e negli ultimi giorni stiamo assistendo a un’inquietante ascesa di casi di navi che vengono fermate. Badate bene: non ci sono urlati e minacce, no, no. Qui si tratta di carte bollate. Ma il risultato è lo stesso.

Ieri a rimanere bloccata è stata la Mare Jonio, la nave dell’Ong Mediterranea che ha ricevuto un diniego all’imbarco a bordo di due membri: un paramedico soccorritore e un esperto di ricerca e soccorso in mare del Rescue Team di Mediterranea Saving Humans. Secondo Donato Zito, comandante della Capitaneria, «i loro profili non hanno alcuna attinenza con la tipologia di servizio svolto dalla Mare Jonio». È un furbo escamotage di scartoffie: la Mare Jonio (come praticamente tutte le navi umanitarie) è registrata come mercantile con funzioni di cargo, monitoraggio e sorveglianza e il registro navale italiano le ha riconosciuto una notazione in classe come nave attrezzata per la ricerca e il soccorso. Tutto bene, quindi? No, perché la Guardia Costiera invece non riconosce quello status e ecco che la Capitaneria trova il ganglo per bloccare l’imbarco dei due tecnici. «Inoltre – si legge ancora nel provvedimento – l’imbarco dei soggetti sopra menzionati risulta in netto contrasto anche con le precedenti diffide notificate». Sì, perché dal 9 giugno a oggi sono ben quattro le diffide notificate. La Ong Mediterranea non ha dubbi: «Si tratta, evidentemente, di una mirata persecuzione amministrativa e giudiziaria che nasce da una precisa volontà politica del Governo…».

Qualche giorno fa la Capitaneria di Porto di Palermo ha deciso il fermo amministrativo della nave Sea Watch dopo ben 11 ore di accuratissima ispezione a bordo e uno dei motivi avanzati sarebbe stato «l’eccessivo numero di giubbotti di salvataggio a bordo». Anche allora le parole del responsabile affari umanitari di Medici Senza Frontiere Marco Bertotto fu chiaro: «Le autorità italiane – dichiarò – provano a fermare le organizzazioni umanitarie – che cercano solo di salvare vite in mare come richiesto dal diritto marittimo internazionale – mentre disattendono i loro stessi obblighi di soccorso, con l’assenso se non il pieno appoggio degli stati Europei».

Il fermo della Mare Jonio di ieri è il sesto fermo amministrativo negli ultimi cinque mesi da parte delle autorità italiane. Tutto questo mentre dall’inizio del 2020 quasi 8mila rifugiati e migranti sono stati intercettati in mare e riposatamente nelle prigioni libiche dalla Guardia costiera libica, quella che profumatamente paghiamo per fare il lavoro sporco. Ad agosto sono state dichiarate morte e disperse 111 persone, quasi 400 da inizio anno. In tutto questo la ministra Lamorgese nei giorni scorsi ha dichiarato che le sanzioni alle Ong potrebbero “diventare penali”. Tutto questo mentre l’Europa si arrabatta per costruire una solidarietà tra Stati, dimenticandosi delle persone, con il Migration Pact.

Intanto quei torturatori che si fanno chiamare Guardia costiera libica continuano indisturbati il loro lavoro e i lager libici mietono vittime. E allora viene da chiedersi: ma siamo sicuri che il problema fosse solo Salvini? O semplicemente bisognava semplicemente imparare a fare il lavoro sporco in modo pulito, sottovoce, senza social? Una cosa è certa: la criminalizzazione della solidarietà continua a gonfie vele.

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Lo scrive anche Le Monde: “Accordo tra l’Italia e i trafficanti libici per fermare i flussi”

“Fra i trafficanti libici e l’Italia sono stati stipulati piccoli accordi contro i migranti”. Dopo i reportage di Reuters e Associated Press, anche Le Monde accende i riflettori sui motivi che starebbero dietro allo stop delle partenze di migranti dalle coste libiche. Il quotidiano francese dedica all’argomento il titolo di apertura dell’edizione di questo pomeriggio, 14 settembre, e le prime due pagine interne.

Le Monde spiega di aver parlato al telefono con una personalità di Sabratha, la città costiera della Tripolitania da cui fino a poche settimane fa partivano quasi tutti i migranti diretti in Italia. “C’è un accordo tra gli italiani e la milizia di Ahmed Al-Dabbashi. L’ex trafficante oggi fa la guerra contro il traffico di esseri umani”, scrive il giornalista citando la fonte, che vuole rimanere anonima. L’articolo spiega che “Al-Dabbashi, soprannominato Al-Ammu (lo zio), è il capo della brigata dei martiri Anas al-Dabbashi, che fino a luglio dominava il traffico di migranti da Sabratha”. Le informazioni coincidono con quelle contenute nel reportage di Associated Press e anche del Corriere della Sera. Una fonte di Ap aveva definito Al-Dabbashi e il fratello “i re del traffico” di migranti.

 

“Roma è sospettata di aver pagato i servizi delle milizie libiche per fermare l’afflusso di migranti sulle sue coste. Il governo smentisce. Le imbarcazioni vengono intercettate in mare. Conseguenza: il numero di traversate del Mediterraneo verso Lampedusa è crollato ad agosto”, continua Le Monde. “Alcune associazioni umanitarie denunciano trattamenti crudeli e accusano l’Unione europea di lasciar prosperare un ‘sistema predatorio’. Di fronte a questa situazione, chi aspira all’Europa cerca altri punti di ingresso, in particolare attraverso la Romania“. È proprio di ieri, 13 settembre, la notizia che un barcone con a bordo 153 migranti, tra cui 53 bambini, è stato intercettato e bloccato nel Mar Nero dalla guardia costiera romena. Il battello, fatiscente, è stato condotto nel porto di Costanza, dove i profughi sono stati identificati.

Nelle ultime settimane si sono intensificati i casi di imbarcazioni cariche di migranti fermate nel Mar Nero e partite dalla Turchia. Tra il 9 e il 10 settembre sarebbero arrivate in Romania più di 200 persone a bordo di due barconi. Chiusa la rotta balcanica, che dalla Turchia proseguiva via terra o via mare verso la Grecia e nei Paesi della ex Jugoslavia, e bloccate, almeno per ora, le partenze dalla Libia, sarebbe il Mar Nero la nuova via battuta dai migranti.

 

“I Paesi dell’Unione europea non fanno che mantenere quest’organizzazione criminale”, continua Le Monde citando la presidente di Medici senza frontiere, Joanne Liu. Una nuova smentita su questo punto, dopo quella del governo italiano che ha sempre rigettato l’ipotesi di accordi con le milizie libiche, è arrivata dal commissario Ue per le migrazioni Dimitris Avramopoulos: “Il calo dei flussi sulla rotta del Mediterraneo centrale è frutto di una cooperazione ben coordinata con i Paesi della regione e del ruolo di pioniere dell’Italia, col ministro Minniti. Tutto è stato fatto nella chiarezza e nella trasparenza, non ci sono stati canali nascosti o negoziati dietro le quinte”.

Le Monde traccia anche un ritratto del ministro dell’Interno italiano Marco Minniti in cui lo definisce un “apparatchik dell’ombra diventato Mister Anti-migranti” e in cui dice che “ha negoziato il blocco del traffico in Libia in condizioni di opacità”. Accuse che il titolare del Viminale ha sempre negato, rivendicando gli accordi stretti con i sindaci libici.

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I nostri “alleati” libici frustano i migranti. Bene così.

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“L’Unione europea aumenterà gli aiuti per sostenere la stessa entità ripresa nel video”. La denuncia pesante e drammatica arriva da Msf, la Ong umanitaria che, insieme ad altre associazioni, punta il dito e critica fortemente il recente accordo europeo con la Libia per ridurre i flussi di migranti nel Mediterraneo e contrastare scafisti e trafficanti. Questi gli obiettivi, a fronte dei quali Bruxelles e l’Italia si impegnano a versare fondi e a dare sostegno tecnico e tecnologico alla Guardia costiera libica. L’entità chiamata a mettere in sicurezza le vite dei migranti che fuggono dalla guerra e, in più, ad accompagnarli nei rimpatri.

La realtà però, come mostrano le immagini del video (di cui pubblichiamo solo un frame) ritweettato da Msf e pubblicato dal quotidiano inglese Times è ben altro. Nel video si vedono alcuni miliziani della Guardia costiera libica che frustano uomini a bordo di un gommone, presumibilmente appena intercettato in mare, a poche miglia da Sabratha. La spiaggia libica, quartier generale degli scafisti e da cui partono gommoni e barconi stracarichi di migranti.

Le immagini mostrano miliziani senza scrupoli, uomini impauriti e donne. Tante donne e anche bambini. E’ solo uno spezzone del reportage realizzato da Ross Kemp, “Libya’s migrant hell” che andrà in onda su Sky1 Uk martedì prossimo.

“L’Ue aumenterà il proprio sostegno a questa stessa entità. Ripensiamoci” denuncia Msf Sea, invitando a rivedere l’accordo.

Di questa estate resterà l’inversione morale

Ezio Mauro da leggere, oggi.

CHE cosa resterà dell’estate italiana che stiamo vivendo, e che ha trasformato la crisi dei migranti nel suo problema principale, ben prima del lavoro che non c’è, della crescita che arranca, del precariato permanente di un’intera generazione? Non certo un cambiamento nel flusso di disperazione che porta i senza terra a cercare libertà e futuro lungo il Mediterraneo, o nel riflusso di gelosia nazionale dei Paesi che ci circondano, dove si sta frantumando ogni giorno l’idea comune di Europa. Ciò che resta — e che peserà in futuro — è una svolta nel senso comune dominante, dove per la prima volta il sentimento umanitario è finito in minoranza, affondato dal realismo politico, dal sovranismo militante, da una declinazione egoista dell’interesse nazionale. Naturalmente il senso comune è qualcosa di diverso dall’opinione pubblica, soggetto attivo di qualsiasi democrazia funzionante, autonomo e distinto dal potere, dunque capace di giudicarlo. Si tratta di una deformazione del buon senso, costruita su sentimenti e risentimenti, nutrita di pregiudizi più che di giudizi, che opera come ha scritto Roberto Saviano con la logica della folla indagata da Le Bon, pronta a gonfiarsi e sgonfiarsi come le foglie al vento, e spesso il vento è quello del potere: capace, soprattutto in un’età segnata dal cortocircuito emotivo del populismo, di interpretare il senso comune, ma anche e soprattutto di crearlo e nutrirlo traendone profitto politico ed elettorale.

Ora il governo può certo esercitarsi a svuotare il mare col cucchiaino di un codice per le organizzazioni umanitarie che operano nel Mediterraneo, e le procure possono trarre teoremi giudiziari dagli errori o anche dalle complicità e dai reati di qualche singola ong. Ciò che interessa va ben al di là, perché la proiezione fantasmatica di tutto questo sta producendo sotto i nostri occhi un effetto spettacolare: l’inversione morale, per cui non potendo fermare le vittime prima che partano dai loro Paesi, e non riuscendo a colpire i carnefici, cioè gli scafisti, si criminalizzano i soccorritori, che salvano chi sta morendo in mare.

Per arrivare a questo bisogna necessariamente spogliare l’intervento umanitario, la neutralità del soccorso, l’azione dei volontari di ogni valenza etica e di qualsiasi spinta valoriale, riducendoli a pura “tecnica” strumentale, fuori dalla logica della responsabilità, dalla sfera della coscienza e dall’imperativo morale dei doveri. La destra e i grillini (basta leggere i loro giornali: identici) parlano delle ong come un attore tra i tanti nel Mediterraneo, liquidando il salvataggio dei naufraghi in una riga di circostanza, come se gli scopi per cui si va in mare non contassero nulla, come se non avessero rilevanza le bandiere morali che quelle navi battono.
Diciamolo: come se il problema politico che i migranti creano fosse più importante delle loro vite salvate.

Delle ong in quanto tali, della loro azione di supplenza di cui hanno parlato qui Mario Calabresi e Massimo Giannini ovviamente alle diverse destre italiane non importa nulla. A loro interessa ciò che rappresentano, la loro ragione sociale, la persistenza di un dovere gratuito e universale che nel loro piccolo testimoniano. Quel sentimento umanitario che fa parte della civiltà italiana, anche per il peso che qui ha avuto la predicazione della Chiesa, e che fino a ieri consideravamo prevalente perché “naturale”, prodotto di una tradizione e di una cultura.

Laicamente, si potrebbe tradurre nella coscienza della responsabilità, quella stessa cui si richiamava Giuliano Ferrara parlando della spoliazione civile dei Paesi da cui si emigra in massa. Solo che la responsabilità, a mio parere, vale sotto qualsiasi latitudine, dunque anche a casa nostra, ma non soltanto nei confronti di noi stessi, i “cittadini”, garantiti dalla costituzione e dalle leggi. Qui si sta decidendo se i ricchi del mondo (ricchi di diritti, di benessere) possono ritenersi definitivamente sciolti dai poveri del pianeta, visto che non ne hanno più bisogno, oppure se in qualche misura anche dopo la crisi permane quel vincolo politico e non solo umano che nella differenza di destino tiene insieme i sommersi e i salvati della mondializzazione, cercando un futuro comune.

Se la sinistra non capisce che la posta in gioco è addirittura questa, oggi, subito, significa che è giunta al suo grado zero e qualcun altro riscriverà il contratto sociale. Si deve dare sicurezza alle nostre popolazioni impaurite, soprattutto alle fasce più deboli e più esposte. Ma si può farlo ricordando insieme i nostri doveri e la nostra responsabilità, che derivano proprio dalla cultura e dalla civiltà che diciamo di voler difendere. Questo è lo spazio politico della sinistra oggi, invece di inseguire posture mimetiche a destra. Uno spazio utile per tutto il Paese: perché l’interesse nazionale non si difende privatizzandolo, magari con decreto di Grillo e Salvini.

(fonte)

Il virus che contagia la sinistra

Un grido d’indignazione di Tonino Pena per la cecità di chi, anche a “sinistra”, dimentica che chi fugge oggi  lo fa perché, per raggiungere il nostro benessere, abbiamo razziato le loro risorse, creando i deserti dove vogliamo respingerli. il manifesto, 29 luglio 2017
«Aiutiamoli a casa loro». E dopo averli “aiutati» per secoli a casa loro, in Africa, schiavizzandoli e depredando le loro risorse, una generazione “ingrata” vuole venire a casa nostra. Deportiamoli, si dice anche a sinistra»
Adesso sono tutti d’accordo, compreso il segretario del Pd che ha sposato in pieno questo slogan che coniò per primo Salvini. Per la verità, la prima volta che ho sentito dire con convinzione «aiutiamoli a casa loro» è stato nel giugno del 2001.

Durante una conversazione con il presidente del Parco delle Cinque Terre, allora attivista del Pds e poi europarlamentare. Un presidente di Parco molto capace che ha trovato un modo intelligente per recuperare i vigneti ed i terrazzamenti nelle stupende colline delle Cinque Terre, cercando di promuovere un turismo sostenibile in un ambiente molto fragile.

Un uomo innamorato della sua terra e convinto oppositore della globalizzazione capitalistica. Ad un certo punto della discussione venne fuori la questione dell’immigrazione e lui mi raccontò di cinque albanesi che avevano accolto con entusiasmo alle Cinque Terre ed erano stati ricambiati con furti e violenze varie. Da qui la sua profonda avversione al fenomeno migratorio e il suo profondo convincimento: «Aiutiamoli a casa loro».

Poco tempo fa mentre attraversavo lo Stretto ho incontrato un amico magistrato, un democratico convinto e conseguente, cattolico socialmente impegnato, da sempre persona sensibile ai temi sociali.

Mentre l’aliscafo saltellava sulle onde, in una giornata da montagne russe, sono sbalzato via dalla poltrona, non per il mal di mare ma quando gli ho sentito dire: «Aiutiamoli a casa loro…qui non possiamo continuare ad accoglierli…anzi dovremmo far star male quelli che ci sono in modo tale che quando telefonano a casa sconsiglino altri a partire…» .

Me lo diceva con sofferenza, vera, con rammarico ma anche con la convinzione che se non vogliamo far vincere Salvini dobbiamo porre un argine a questi flussi migratori. Se li lasciamo a bighellonare tutto il giorno, ospiti di buoni alberghi- sosteneva- questi giovanissimi africani che hanno tutti un telefonino manderanno a casa delle belle immagini e il flusso diventerà una valanga e saremo sommersi.

Come ha lucidamente ribadito ribadito Guido Viale su questo giornale con 180mila profughi o 200mila non si dovrebbe parlare di invasione in un paese con 60 milioni di abitanti.

Cosa avrebbe dovuto dire il popolo libanese quando sono arrivati un milione e mezzo di siriani in un paese di cinque milioni di abitanti? Inoltre, e spesso lo dimentichiamo, abbiamo un saldo demografico negativo di circa 50mila unità l’anno e un saldo migratorio nazionale negativo per oltre 100 mila unità (soprattutto dovuto a giovani italiani studenti e laureati che emigrano in vari paesi del mondo).

Inoltre, negli ultimi anni per via della crisi economica del nostro paese gli stranieri che ritornano nel loro paese sono superiori a quelli che arrivano, in particolare gli albanesi, i marocchini, rumeni, filippini, ecc.

Quindi non c’è nessuna esplosione demografica e non c’è nessun pericolo di invasione se gli immigrati sono ancora oggi l’8,5% della popolazione a fronte di percentuali ben maggiori in diversi paesi europei, dall’Austria all’Irlanda per non parlare della Svizzera.

Malgrado queste evidenze statistiche è entrato nella pelle italica questo virus dell’invasione che porta ogni giorno persone insospettabili a chiedere di respingere i barconi e magari affondarli. Uno degli ultimi casi riguarda un noto intellettuale siciliano, Antonio Presti, l’ideatore di «Fiumara d’arte» famosa a livello internazionale, organizzatore di eventi artistici di assoluto rilievo.

Ebbene proprio lui, in una conferenza stampa che annunciava a Taormina il progetto di riqualificazione del Villaggio Le Rocce di Mazzarò, ad un certo punto denuncia l’arrivo nel paese di una trentina di migranti dicendo testualmente : «Meno italiani più immigrati, è iniziata la sostituzione di popolo»». Ed aggiungendo che «« non è razzismo, ci opponiamo all’invasione di altre culture e alla perdita della nostra identità».

Ho voluto citare questi casi concreti di intellettuali, di persone che hanno operato bene in diversi campi, non di operai disoccupati che temono la concorrenza di chi è costretto a lavorare a salari da fame – come avviene nell’edilizia e in agricoltura – né di persone ideologicamente di destra.

Ho voluto citarli perché dovremmo prendere atto che viviamo in un paese che sta diventando profondamente razzista nella sua stragrande maggioranza. A differenza degli anni ’30 del secolo scorso, oggi nessuno si dichiara apertamente razzista, o parla di razze superiori, ma di diritto a difendersi da una invasione distruttiva, sia sul piano culturale che su quello economico (i soldi ai migranti anziché ai nostri poveri!!).

E sono tutti convinti che «non possiamo accoglierli tutti» e quindi dobbiamo fermarli con ogni mezzo. E, siccome siamo buoni, l’unica cosa che possiamo fare è di «aiutarli a casa loro»». Come? Semplice: con lo sviluppo economico. Se i popoli dell’Africa subsahariana si svilupperanno come abbiamo fatto noi si fermerà l’emigrazione.

Peccato che abbiamo dimenticato o non vogliamo fare i conti con la storia. Le prime grandi ondate migratorie dall’Europa verso altri continenti sono iniziate nei paesi in cui avveniva la rivoluzione industriale, a cominciare dall’Inghilterra, ovvero iniziava quello che chiamiamo sviluppo economico capitalista.

Anche in Italia, nell’ultimo quarto del XIX secolo, le prime ondate migratorie hanno interessato il Piemonte, la Liguria e la Lombardia, cioè le regioni dove è nata la prima rivoluzione industriale italiana. Prima che lo sviluppo economico porti ad un blocco dell’emigrazione possono passare decenni o secoli, come dimostra, tra l’altro il caso emblematico del nostro Mezzogiorno.

E noi italiani che non siamo riusciti in centocinquanta anni a risolvere la questione meridionale, che abbiamo milioni di giovani meridionali precari e/o disoccupati malgrado le politiche di sviluppo adottate nel corso di decenni, gli investimenti a valanga, i poli di sviluppo industriale, il sostegno alle start-up, vorremmo risolvere la «questione africana» esportando il nostro modello di sviluppo?!

E quale aiuto a casa loro vorremmo portare dopo che abbiamo tagliato le poche risorse che c’erano per la cooperazione popolare, quelle delle ong, che in qualche caso aveva dato buoni frutti quando non era caduta nella logica dell’economicismo o dello sviluppismo esasperato.

La cooperazione per garantire un minimo di welfare come scuole, sanità, case, questo sì che serve. Ma, se volessimo veramente «aiutarli a casa loro» ci sarebbe un mezzo immediato: un reddito minimo vitale per tutte le famiglie povere africane.

Si potrebbe cominciare dai paesi dove in questo momento partono il maggior numero di migranti come la Nigeria, Niger, Etiopia, Eritrea, ecc. Ipotizziamo che si riuscisse a dare a tutti i giovani tra i 16 ed i 32 anni un minimo vitale di 200 euro al mese, che mediamente in Africa consentono ad una famiglia di sopravvivere. E ipotizziamo sempre che un primo bacino di utenza sia di circa 100 milioni di giovani.

Il costo mensile sarebbe di 20 miliardi di euro al mese, un terzo di quello che Draghi ha elargito mensilmente al sistema creditizio europeo oberato da titoli spazzatura e crediti inesigibili. Immaginiamo che a Bruxelles passi una decisione del genere, quale sarebbe la reazione? Scandalo! Aiutiamo i giovani africani mentre i nostri sono precari, disoccupati e impoveriti? Morale della favola: quando diciamo «aiutiamoli a casa loro» vogliamo dire ben altro.

Basa un breve excursus storico per rendercene conto. Sono secoli che come europei ««aiutiamo a casa loro»» i popoli africani , latino-americani ed asiatici. Soprattutto gli africani sono stati oggetto delle nostre attenzioni, premure, affetto. Prima di tutto portandogli la civiltà e facendoli uscire da una condizione di uomini semiselvaggi, animisti e antropofagi, trasportandoli a nostre spese nel mondo civile (quello che i comunisti un tempo chiamavano «tratta degli schiavi»).

Poi con l’installazione delle nostre tecniche agricole, delle monoculture più moderne che hanno prodotto un notevole flusso di esportazioni, nonché la valorizzazione delle loro miniere che erano state ignorate per secoli come fonte di ricchezza. Ed ancora gli abbiamo insegnato l’uso delle moderne tecniche militari, li abbiamo fatti passare dall’arco e le lance ai carri armati e agli aerei, li abbiamo aiutati a combattersi nel modo più moderno ed avanzato possibile offrendogli consiglieri militari e le armi più sofisticate.

Infine gli abbiamo insegnato l’uso del denaro e come sia facile prenderlo in prestito e poi doverlo restituire con buoni tassi di interesse, ovvero quella che è la nostra libertà più grande e bella: la libertà di indebitarsi fino al collo.

E dopo aver operato per secoli a casa loro, per il loro benessere, adesso questa generazione ingrata vuole venire a casa nostra con tutti i problemi che già abbiamo… Non è possibile…riportiamoli a casa loro , anzi deportiamoli.

Natura morta

Ne scrive bene il Post:

Martedì scorso un gommone con a bordo 181 migranti è stato raggiunto da un’imbarcazione della ong spagnola Proactiva Open Arms al largo delle coste libiche, a circa 15 miglia a nord della città di Sabrata. La chiamata di emergenza è arrivata verso le 11 di mattina, e insieme al personale della ong ha assistito ai soccorsi anche il fotogiornalista freelance Santi Palacios, che lavora per l’agenzia Associated Press. Palacios ha scattato delle foto molto forti di quello che stava succedendo e ha poi raccontato la sua esperienza a TIME: «Si capiva che c’era qualcosa che non andava, qualcosa che non era normale». Dopo avere cercato di tranquillizzare i migranti a bordo del gommone, i soccorritori hanno cominciato a distribuire i giubbotti di salvataggio, prima di iniziare a spostare i migranti dal gommone alla barca di Proactiva Open Arms: «È stato solo quando abbiamo caricato quei quattro bambini sulla nostra barca – e una donna che si prendeva cura di loro – che abbiamo cominciato a capire che c’erano dei cadaveri a bordo». I soccorritori hanno contato 13 morti, 5 uomini e 8 donne, tra cui due incinte.

Una fotografia dei corpi dei migranti sul gommone scattata da Santi Palacios è stata condivisa moltissime volte sui social network nei giorni scorsi, ed è stata ripresa da giornali e siti di news. Secondo Riccardo Gatti, il capo della missione Proactiva Open Arms, alcuni migranti potrebbero essersi piegati fino a stendersi a causa del mal di mare, e poi potrebbero avere inalato i vapori del carburante insieme all’acqua salata: «Non sono morti affogando fuori dalla barca, ma affogando dentro la barca». Palacios ha pubblicato la foto dei morti su Facebook, poi il post è stato rimosso e poi rimesso, ma con alcune limitazioni nella visualizzazione. Palacios ha pubblicato la foto anche sul suo account Twitter.

I soccorsi sono proseguiti per almeno due ore, e poi è stato necessario altro tempo per trasportare sulla barca della ong i corpi dei morti. I migranti a bordo del gommone provenivano per lo più dalla Nigeria, dal Sudan e dal Ghana. Alcune donne hanno poi raccontato di essere state stuprate in Libia. Almeno due di loro hanno confermato le violenze ai medici a bordo. «Guardandole negli occhi», ha raccontato Palacio, «le parole che mi sono venute in mente sono state: “questo è l’inferno in Terra”». Ai migranti sono stati dati cibo e coperte e il giorno dopo sono stati trasferiti su un’altra imbarcazione diretta verso l’Italia.

Se aprissimo tutte le frontiere del mondo?

Un articolo che sembrerebbe una provocazione ma non lo è. Da The Economist.

 

Per terra c’è un biglietto da cento dollari. Un economista cammina e non se ne cura. Un amico gli chiede: “Non hai visto i soldi?”. L’economista risponde: “Mi è sembrato di aver visto qualcosa, ma ho pensato di averlo immaginato. Se ci fosse stato un biglietto da cento dollari per terra qualcuno lo avrebbe raccolto”.

Se una cosa sembra troppo bella per essere vera, probabilmente non è vera. A volte, però, lo è. Michael Clemens, economista del Centre for global development, un centro studi sulla povertà di Washington, è convinto che ci siano “banconote da mille miliardi di dollari per terra” e che una politica apparentemente molto semplice potrebbe raddoppiare la ricchezza del mondo: aprire i confini delle nazioni.

I lavoratori sono molto più produttivi quando si spostano da un paese povero a uno ricco. Improvvisamente possono entrare in un mercato del lavoro con un grande capitale, aziende efficienti e un sistema legale non arbitrario. Le persone abituate a guadagnarsi da vivere zappando la terra cominciano a guidare i trattori. Quelli che fabbricavano mattoni di fango a mano cominciano a lavorare con gru e scavatrici. Quelli che sanno tagliare i capelli trovano clienti più ricchi che pagano meglio.

Esaminare l’ipotesi dell’apertura
“La manodopera è la risorsa più preziosa del mondo, eppure a causa delle regole sull’immigrazione gran parte di questa risorsa viene sprecata”, spiegano Bryan Caplan e Vipul Naik in A radical case for open borders (Una tesi radicale in favore dei confini aperti). I lavoratori messicani che emigrano negli Stati Uniti guadagnano in media il 150 per cento in più. I nigeriani non qualificati guadagnano il 1.000 per cento in più. “Costringere i nigeriani a restare in Nigeria è una scelta economicamente insensata come lo sarebbe costringere gli agricoltori a coltivare l’Antartide”, scrivono Caplan e Naik. Anche i benefici non economici sono evidenti. Negli Stati Uniti un nigeriano non può essere schiavizzato dagli islamisti di Boko haram.

I potenziali vantaggi dei confini aperti fanno impallidire quelli di un mercato libero e naturalmente anche quelli degli aiuti internazionali. Eppure l’idea viene generalmente considerata irrealizzabile. Nella maggior parte dei paesi del mondo la percentuale delle persone favorevoli non supera il 10 per cento. Nell’epoca della Brexit e di Donald Trump, proporla sarebbe un suicidio politico. Ciononostante vale la pena chiedersi cosa potrebbe accadere se i confini venissero effettivamente aperti.

Per chiarire, “confini aperti” significa che le persone sarebbero libere di spostarsi per cercare lavoro. Non significa “abolire i confini” o “abolire lo stato-nazione”. Al contrario, il motivo per cui la migrazione è così allettante è proprio che alcuni paesi sono gestiti nettamente meglio di altri.

Per abbandonare il proprio paese servono coraggio e resistenza

I lavoratori dei paesi ricchi guadagnano più di quelli dei paesi poveri perché sono più istruiti, ma soprattutto perché vivono all’interno di società che nel corso degli anni hanno sviluppato istituzioni che favoriscono la prosperità e la pace. È difficile replicare le istituzioni canadesi in Cambogia, ma è molto facile per una famiglia cambogiana trasferirsi in Canada. Il modo più rapido per eliminare la povertà assoluta sarebbe permettere alle persone di lasciare i luoghi dove questa povertà sopravvive. La loro povertà diventerebbe più visibile per i cittadini del mondo ricco – che vedrebbero molti più liberiani o bengalesi servire ai tavoli delle loro città – ma anche molto meno grave.

Quante persone deciderebbero di partire se i confini fossero aperti? L’istituto di sondaggi Gallup ha rilevato che 700 milioni di persone – il 14 per cento della popolazione mondiale – sceglierebbero l’emigrazione permanente se potessero, e un numero ancora maggiore sceglierebbe l’emigrazione temporanea. Circa 147 milioni di persone sceglierebbero di trasferirsi negli Stati Uniti, 35 milioni nel Regno Unito e 25 milioni in Arabia Saudita.

In realtà i numeri di Gallup potrebbero essere sovrastimati. Non sempre le persone fanno quello che dicono di voler fare. Per abbandonare il proprio paese servono coraggio e resistenza. I migranti devono dire addio ad amici e parenti, alle tradizioni familiari e alla cucina della nonna. Molti preferirebbero non fare questo sacrificio, anche rinunciando a una grossa ricompensa materiale.

In Germania gli stipendi sono il doppio rispetto alla Grecia e in base alle regole dell’Unione europea i greci sono liberi di trasferirsi in Germania, ma solo in 150mila lo hanno fatto dall’inizio della crisi economica, su una popolazione di undici milioni di persone. A Francoforte il clima è orribile e nessuno parla greco. Disparità ancora maggiori, abbinate alla libertà di varcare i confini, non hanno portato ad alcun esodo. Dal 1986 i cittadini della Micronesia possono vivere e lavorare senza un visto negli Stati Uniti, dove il reddito pro capite è venti volte più alto rispetto al loro paese. Due terzi scelgono di restare in Micronesia.

Dipende dai percorsi
Nonostante queste precisazioni, però, è molto probabile che i confini aperti alimenterebbero un forte flusso di migranti. La differenza tra i paesi ricchi e quelli poveri al livello globale è molto più grande rispetto a quella tra i paesi ricchi e quelli poveri in Europa, e i paradisi nel Pacifico come la Micronesia non abbondano. Molti paesi poveri sono anche violenti o caratterizzati da governi oppressivi.

Inoltre la migrazione è, in linguaggio tecnico, “dipendente dai percorsi”. Comincia sempre al rallentatore: di solito la prima persona a spostarsi dal paese A al paese B arriva in un luogo dove nessuno parla la sua lingua o sa cucinare i noodles come si deve. Ma il secondo migrante – magari fratello o cugino del primo – avrà qualcuno che potrà fargli fare un giro e farlo ambientare un po’. Mentre si sparge la voce che il paese B è un bel posto in cui vivere, un numero sempre maggiore di persone parte dal paese A. Quando arriva, il millesimo migrante trova un intero quartiere di compatrioti.

In questo senso le cifre di Gallup potrebbero anche essere sottostimate. Oggi al mondo vivono 1,4 miliardi di persone nei paesi ricchi e sei miliardi nei paesi non ricchi. Non è difficile immaginare che nel giro di qualche decennio, un miliardo (almeno) di queste persone possa emigrare se non ci saranno ostacoli legali al movimento. Evidentemente una migrazione di questa portata trasformerebbe i paesi ricchi in un modo imprevedibile.

Una fiera del lavoro per rifugiati a Berlino, l’8 giugno 2017.  - Sean Gallup, Getty Images

Una fiera del lavoro per rifugiati a Berlino, l’8 giugno 2017. (Sean Gallup, Getty Images)

Di solito gli elettori dei paesi di destinazione non si preoccupano troppo per un po’ di immigrazione, ma temono che l’apertura dei confini porterebbe “un’invasione di stranieri” che peggiorerebbe la loro vita e magari minaccerebbe il sistema politico che ha reso appetibile il loro paese. Hanno paura che la migrazione di massa porti un aumento dei crimini e del terrorismo, stipendi più bassi per i locali, un peso insostenibile per lo stato sociale, uno sconvolgente sovraffollamento ed effetti culturali nefasti.

Se un numero enorme di persone migra dalla Siria sconvolta dalla guerra, dal Guatemala in mano ai criminali o dall’instabile Congo, porta il caos nei paesi di destinazione? È un timore comprensibile (e naturalmente sfruttato dai politici contrari all’immigrazione) ma a sostenerlo ci sono soltanto congetture e prove aneddotiche. Certo, alcuni immigrati commettono reati e sconvolgenti atti di terrorismo. Ma negli Stati Uniti i figli degli stranieri hanno un quinto delle possibilità di essere incarcerati rispetto agli altri. In alcuni paesi europei come la Svezia, i migranti hanno più probabilità dei locali di finire nei guai, ma solo perché è più probabile che siano giovani e maschi. Uno studio dei flussi migratori condotto tra il 1970 e il 2000 su 145 paesi dai ricercatori dell’università di Warwick ha stabilito che l’immigrazione tende più a ridurre il terrorismo che ad aumentarlo, soprattutto perché la migrazione incoraggia la crescita economica.

L’immigrazione su larga scala peggiorerebbe la situazione economica dei paesi di arrivo? Finora non è successo. Rispetto agli autoctoni, gli immigrati portano più spesso idee nuove e avviano un’attività commerciale, in molti casi assumendo anche personale del posto. In generale i migranti hanno meno possibilità di attingere alle finanze pubbliche, a meno che le leggi locali non gli impediscano di lavorare, come accade ai profughi che chiedono asilo nel Regno Unito. Un forte afflusso di lavoratori stranieri potrebbe ridurre leggermente gli stipendi locali con qualifiche simili, ma la maggior parte degli immigrati presenta capacità diverse. I medici e gli ingegneri stranieri risolvono il problema della carenza di alcune qualifiche. I migranti non qualificati si occupano dei bambini e degli anziani, permettendo agli abitanti del luogo di svolgere mansioni più redditizie.

L’apertura dei confini provocherebbe un sovraffollamento? In città come Londra, probabilmente sì. Ma la maggior parte delle città occidentali potrebbe costruire più in verticale di quanto faccia adesso, creando più spazio. Inoltre la migrazione di massa renderebbe il mondo meno affollato in generale, dato che il tasso di natalità dei migranti si riduce rapidamente avvicinandosi molto più alla media del paese ospite che a quella del paese di origine.

L’immigrazione di massa cambierebbe la cultura e la politica dei paesi ricchi? Senza dubbio. Pensate a come gli Stati Uniti sono cambiati (in meglio) passando dai cinque milioni di abitanti in prevalenza bianchi del 1800 ai 320 milioni di oggi, con etnie e culture diverse. Questo, però, non dimostra che le future ondate migratorie sarebbero sicuramente benigne. I nuovi arrivati provenienti da paesi illiberali potrebbero portare con sé tradizioni indesiderate, come la corruzione politica o l’intolleranza verso i gay. Se arrivassero in numero consistente, potrebbero votare un governo islamista o uno che aumenti le tasse per gli abitanti del posto favorendo i nuovi arrivati.

Un pensiero creativo
È innegabile che esistono rischi concreti se l’apertura dei confini fosse immediata e non accompagnata dalle politiche necessarie per assorbire il flusso. Ma un po’ di pensiero creativo potrebbe mitigare quasi tutti i rischi e superare le obiezioni più comuni.

Se la preoccupazione è che gli immigrati possano sfruttare la possibilità di votare per imporre un governo non gradito agli abitanti locali, si potrebbe impedire agli immigrati di votare per cinque anni (o dieci, o addirittura per sempre). Potrebbe sembrare una presa di posizione dura, ma è comunque meglio che non lasciarli entrare. Se la preoccupazione è che i migranti del futuro non possano contribuire economicamente, perché non aumentare il prezzo del visto, o far pagare una tassa extra, o limitarne l’accesso allo stato sociale? Questi strumenti potrebbero essere usati per regolare il flusso di migranti, evitando ondate improvvise e sproporzionate.

Sembrano concetti terribilmente discriminatori, e lo sono. Ma per i migranti uno scenario simile sarebbe comunque meglio dello status quo in cui sono esclusi dal mercato del lavoro dei paesi ricchi a meno di pagare decine di migliaia di dollari ai trafficanti, per poi lavorare in nero e rischiare la deportazione. Oggi milioni di migranti lavorano nei paesi del golfo Persico, dove non hanno alcun diritto politico. Ciononostante continuano ad arrivare, nessuno li costringe.

“I confini aperti renderebbero gli stranieri molto più ricchi, di miliardi di dollari”, scrive Caplan. Un elettore consapevole, anche se disinteressato al benessere degli stranieri, non dovrebbe dire “e allora?”, ma “sul tavolo ci sono miliardi di dollari, cerchiamo di fare in modo che i miei concittadini possano accaparrarsene una fetta. I governi usano continuamente tasse e trasferimenti per ridistribuire le risorse dai giovani agli anziani e dai ricchi ai poveri. Perché non usare gli stessi strumenti politici per ridistribuirle dagli stranieri ai locali?”. Se un mondo caratterizzato dal libero movimento sarebbe più ricco di miliardi di dollari, i liberali dovrebbero essere pronti ad accettare grandi compromessi politici pur di realizzarlo.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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