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ROMA

Ora è ufficiale: a Roma il “Café de Paris” era in mano alla ‘ndrangheta

Dopo la notizia chissà che anche i più timidi trovino un po’ di voce in gola per provare a ripeterlo con noi. (Grazie al Gruppo Antimafia Pio La Torre di Rimini per la velocissima segnalazione).

Un altro colpo alle mafie che si infiltrano a Roma, comprano locali d’oro del Centro, penetrano lentamente nei nervi dell’economia della città. A portarlo è la Procura, che da tempo, con la guida del procuratore generale Giuseppe Pignatone, ha iniziato una guerra di trincea contro gli interessi delle cosche. E questa volta il simbolo dell’operazione è il Café de Paris, un tempo tempio della Dolce Vita e oggi finito in mano a organizzazioni criminali.

Si è concluso con quattordici condanne per oltre 40 anni di carcere il processo che vedeva imputati ventiquattro esponenti del gruppo calabrese degli Alvaro. La sentenza è stata pronunciata dai giudici della VII sezione del Tribunale davanti alla quale ventiquattro persone erano imputate di essere entrate in possesso di numerose attività commerciali come bar e ristoranti. E tra questi anche il famoso locale che negli anni Cinquanta e Sessanta vedeva spesso i flash dei paparazzi.

In particolare le condanne più pesanti sono state inflitte a Vincenzo Alvaro, 7 anni, a sua moglie Grazia Palamara, 4 anni, a Damiano Villari (4 anni e 6 mesi). Per gli altri pene varie, dai 2 anni e 6 mesi ai 3 anni. Il pubblico ministero Francesco Minisci a conclusione della requisitoria aveva chiesto ventiquattro condanne.
La vicenda culminò il 14 giugno 2011, nell’arresto, da parte dei carabinieri del Ros, di due persone in diciassette perquisizioni nei confronti di altrettanti indagati, tutti ritenuti affiliati alla cosca ‘ndranghetista degli Alvaro, originaria di Sinopoli e Cosoleto, due Comuni non lontani da Reggio Calabria, con il compito di reinvestire i capitali illeciti acquistando attività commerciali preferibilmente in Centro.

A Roma (ancora) il caffè corretto ‘ndrangheta

E’ stato chiesto dalla Procura di Roma il processo per 9 persone, alcune delle quali ritenute vicine alla ‘ndrina dei Gallico di Palmi, in provincia di Reggio Calabria, che aveva investito nella capitale i denari illeciti in società, beni mobili e immobili, tra cui l’Antico Caffè Chigi, a piazza Colonna, punto di riferimento di ministri e sottosegretari.

Trasferimenti fraudolento di beni aggravato dal metodo mafioso è l’ipotesi di reato che la procura ha contestato a Francesco Frisina, Carmine Saccà, Alessandro Mazzullo e poi a Maria Antonia Saccà, Claudio Palmisano, Andrea Porreca, Grazia Rugolo, Giuseppe Vincenzo Distilo e Carla Voluttà.

Il prossimo 12 giugno sarà il gup Riccardo Amoroso a pronunciarsi sulla richiesta della procura, ma due imputati (Distilo e Voluttà) hanno già chiesto di essere giudicati con rito abbreviato. Per questa vicenda, Frisina, Saccà e Mazzullo finirono in manette lo scorso anno nell’ambito di un’operazione della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma che, indagando su prestanome (familiari e non) in qualche modo legati alla cosca calabrese, portò alla luce l’esistenza di un progetto di infiltrazione nella realtà economico-finanziaria della capitale tramite il reinvestimento di cospicue somme di denaro di provenienza illecita. All’attenzione degli investigatori finì la titolarità delle quote della ‘Macc4 slr’, proprietaria del bar ‘Antiche Murà, quella della ‘Sapac srl’, che gestisce numerosi discount e supermercati, e poi della ‘Lasara 98 srl’, cui è riconducibile il ristorante ‘Platinum’, oltre all’Antico Caffè Chigi, le cui quote appartenevano alla ‘Colonna Antonina 2004 srl’.

Il saccheggio di Roma

Ancora sequestri di esercizi commerciali nel centro di Roma riconducibili alla ‘ndrangheta. Gli uomini della Dia hanno messo i sigilli a diversi beni immobili e società operanti nell’edilizia sia nel Lazio che in Calabria. Colpiti anche esercizi commerciali nel cuore della Capitale come il Caffè Fiume, famoso bar nei pressi di via Veneto. L’antimafia ha inoltre sequestrato autovetture di lusso e una concessionaria di auto a Vibo Valentia, oltre a terreni per un valore complessivo di oltre 7 milioni di euro.

Le indagini si sono concentrate su Saverio Razionale, considerato dagli investigatori “elemento di vertice della cosca Fiarè-Razionale, alleata a quella dei Mancuso di Limbadi, nel territorio di Vibo Valentia”. Razionale, 53enne di San Gregorio d’Ippona, è salito al vertice della cosca negli anni 80 dopo l’attentato in cui perse la vita a Pizzo (Vv) il precedente capo cosca Giuseppe Gasparro detto “Pino u gatto”. Dopo l’agguato Razionale era divenuto un punto di riferimento per tutte le attività dell’organizzazione: dalle estorsioni, all’usura, al riciclaggio, “oltre a essere coinvolto in alcuni gravi fatti di sangue accaduti nel territorio”. Trasferitosi a Roma nel 2005, dopo il suo arresto e la successiva scarcerazione, era riuscito a dar vita, nella Capitale, a una rete criminale specializzata nel reinvestimento di capitali illeciti in beni immobili e attività commerciali. Inoltre – secondo gli investigatori – la rete di razionale “è riuscita a infiltrarsi negli appalti tramite società di comodo”.

Mentre nella provincia di Reggio Calabria i finanzieri del Comando provinciale e dello Scico di Roma hanno sequestrato beni per 420 milioni di euro riconducibili a 40 esponenti delle cosche radicate nel reggino. Le indagini, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia, hanno portato alla luce il forte squilibrio tra i redditi dichiarati e l’incremento patrimoniale registrato, negli ultimi 15 anni, dalle 40 persone coinvolte nella maxi operazione.

(via)

A Ostia ancora arresti per il clan Fasciani

Sedici nuovi ordini di custodia cautelare che colpiscono a Ostia il clan dei Fasciani e un gruppo di loro presunti affiliati, nonché il sequestro preventivo di una decina
di imprese commerciali compreso il pacchetto di una parte delle quote sociali della societa’ ‘Porticciolo Srl’. Con questi provvedimenti si e’ aperto il secondo capitolo della lotta avviata dalla Procura della Repubblica di Roma per debellare quella che e’ conosciuta come la ‘mafia di Ostia’. Una lotta che nel luglio scorso porto’ in carcere 51 appartenenti alle famiglie malavitose dei Triassi e dei Fasciani indicati come responsabili dei traffici illeciti che si sono sviluppati e si sviluppano lungo l’intero litorale del Lazio.

All’alba di questa mattina i finanzieri del Gico hanno notificato i provvedimenti firmati dal gip Simonetta D’Alessandro su richiesta del procuratore Giuseppe Pignatone, dell’aggiunto Michele Prestipino e del sostituto Ilaria Calo’. A finire in carcere, oltre al capo del clan Carmine Fasciani, a sua moglie Silvia Franca Bartoli e alle sue figlie Sabrina e Azzurra, tutti già coinvolti nel blitz all’inizio dell’estate scorsa (Azzurra ha ottenuto gli arresti domiciliari) in carcere sono finiti anche Nicola Di Mauro, Davide e Fabio Talamoni, Fabrizio Sinceri, Daniele Mazzini, Valerio e Mirko Mazziotti, Francesco Palazzi, Gabriella Romani, Marzia Salvi, Marco D’Agostino e Kirill Luchkin.

Tutti sono coloro che hanno fatto da testa di legno risultando titolari delle imprese commerciali sequestrate sempre su ordine del gip D’Alessandro. I sigilli sono stati posti alle societa’ Settesei, Rapanui, Yogusto, Mpm, Dafa, Sand, Kars e le ditte individuali di Mirko Mazziotti e Gabriella Romani. Oltre all’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso il giudice D’Alessandro ha contestatola violazione della legge del ’92 al quale punisce chi ”al fine di eludere le disposizioni in materia di misure di prevenzione patrimoniali nella gestione operativa affida in maniera fittizia la titolarità dell’impresa commerciale a persone appositamente scelte” e consapevoli del ruolo assunto.

(clic)

Ha parlato Spatuzza: quando Ostia era Cosa Nostra

Ne parlavamo ieri. E oggi stiamo sul pezzo:

L’uomo che ha demolito le sentenze sulla strage di via d’Amelio torna a parlare della mafia a Roma. Gaspare Spatuzza racconta di quando a Ostia, sul litorale, comandavano i clan Triassi e Fasciani, che “avevano il paese nelle loro mani”. Boss locali legati alle potenti famiglie mafiose siciliane Cuntrera-Caruana. Vicende degli anni ’90 ma per gli inquirenti ancora attuali, raccontate dal pentito al processo scaturito da decine di arresti compiuti a luglio dello scorso anno. Una clamorosa operazione di polizia contro la mafia nella capitale. Spatuzza, ‘u tignusu’ (il pelato), che ha riscritto con le sue rivelazioni la storia dell’eccidio di Paolo Borsellino e della sua scorta, parla di un periodo in cui era ancora libero (è in carcere dal ’97). L’ex mafioso risponde in video conferenza al pm della procura di Roma Ilaria Calò e dice che “sul litorale romano comandavano loro, avevano il paese di Ostia nelle loro mani”. “Dalla Sicilia, nel 1995, in qualità di reggente e capo del mandamento di Brancaccio, mi mandarono per una missione di morte al fine di scovare e uccidere pentiti di mafia – racconta Spatuzza, tra i massimi responsabili degli attentati del ’93 a Firenze, Roma e Milano -. Arrivato a Roma incontrai un corleonese trapiantato nella capitale che mi confermò che i Triassi ad Ostia erano i padroni e che andavano eliminati. Chiesi consiglio ad un’altra persona e decisi di non fare nulla perché capii che il clan Caruana-Cuntrera, cui erano legati i Triassi, era troppo potente”. Un potere che secondo gli investigatori si sarebbe conservato fino ad oggi, tra usura, gioco d’azzardo, traffico di droga e di armi. Secondo la Procura, tra i Triassi e il clan Fasciani venne siglato, anni dopo, un accordo di non belligeranza per la spartizione degli affari nella zona del litorale. Un accordo che sarebbe durato due decenni. L’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia (Dda) capitolina ha portato all’arresto, nel luglio scorso, di 51 persone tra le quali i capi famiglia Carmine Fasciani e Vincenzo Triassi. Nel processo sono 52 gli imputati, accusati di numerosi reati tra cui l’associazione mafiosa. Tra loro l’intera famiglia-holding dei Fasciani, il capo del clan Carmine, i fratelli Nazzareno, Giuseppe e Terenzio, nonchè Vincenzo e Vito Triassi e Francesco D’Agati, esponente dell’omonimo clan.
Vincenzo Triassi é stato arrestato in Spagna ed estradato ad agosto dell’anno scorso. Per i pm e la squadra mobile c’era una ‘cupola’ mafiosa a controllare il territorio, a Ostia ma non solo. E le parole di Spatuzza sembrano oggi avvalorarne quanto meno la genesi, 20 anni fa.

(ANSA)

Morire a Roma con sei colpi addosso

Si sono avvicinati in moto e con sei colpi di pistola lo hanno freddato. Un’esecuzione in piena regola quella che è andata in scena a Roma, in via Torresina, quartiere Tor Vergata, poco prima delle 21. La vittima è un giovane di 22 anni, Edoardo Di Ruzza, con precedenti per droga e già arrestato tre anni fa dai Carabinieri per porto abusivo di armi. La prima ricostruzione dei fatti parla di due killer, su una moto, che si sono avvicinati e hanno iniziato a sparare. Indaga la polizia.

A proposito di quello che si scriveva giusto qui.

La mia prefazione per “Grande Raccordo Criminale”

romadi Giulio Cavalli – 6 febbraio 2014
C’è qualcosa di peggio dell’ignoranza sulle mafie: l’indifferenza. L’abbiamo letto e sentito mille volte nei libri, nelle campagne elettorali, nei convegni e, se siamo fortunati, nelle cerchie di amici anche tra i discorsi da aperitivo. Eppure l’indifferenza che sta sopra Roma e il Lazio in generale è un’indifferenza come la trovi solo qui: ostile, arrabbiata, confusa, infastidita. Proprio mentre al Nord gli arresti e la società civile aprono finalmente una lucida discussione sulle mafie senza fermarsi alle negazioni e agli allarmi, mentre nel Sud sono centinaia i focolai di rivoluzione e bellezza, Roma cova silenziosamente le proprie braci mafiose come se fosse stata saltata a piè pari dalla scossa della consapevolezza nazionale.
Ecco perché questo libro di Floriana Bulfon e di Pietro Orsatti abbiamo il dovere (noi, cittadini di questo centro d’Italia) di farlo diventare essenziale: non c’è bisogno di previsioni o di sospetti poiché le mafie della Capitale sono già tutte nelle cronache quotidiane, tra gli articoli che nessuno vuole prendersi la briga di mettere in fila o tra le storie che troppo in fretta abbiamo deciso che sono terminate.

Grande Raccordo Criminale collaziona finalmente le famiglie facendo i nomi e i cognomi, andando a riprendere i protagonisti della banda della Magliana che si sono riciclati in anelli di raccordo con la criminalità organizzata, reinserisce i Casamonica in un contesto più ampio e smette (finalmente) di considerare Ostia un’enclave criminale apolide così come le confische del centro città romano come piccoli “avvertimenti” da sbattere in prima pagina per un paio di giorni. Serve tirare le fila, serve mettersi con dovizia, intelligenza e amore (perché c’è tutto l’amore che si potrebbe trovare in un romanzo sulla difesa della propria terra, in questo libro) a studiare, scriverne e farne parlare. Quando le mafie si attorcigliano tra politica, estremismi e pezzi di istituzioni diventano qualcosa difficile da raccontare e descrivere, cominciano a contare su un’impunità culturale oltre che troppo spesso giudiziaria: così le sparatorie in giro per la città, la condanna di Carmine Fasciani posto al 41bis oppure la colonizzazione dei bagni al lido di Ostia (senza dimenticare l’emblematico caso Fondi) non riescono a scuotere le coscienze soprattutto grazie ad una mancata coesione sociale sul tema (quella politica facciamo che per ora non ce l’aspettiamo nemmeno). Roma e il Lazio hanno bisogno di un’evoluzione consapevole e veloce, devono tirare le fila di un’antimafia sociale, politica e culturale che decida per davvero di mettersi in gioco per strutturare un presidio antimafioso di studio e di racconto che spalanchi gli occhi su una città sommersa tra le slot machine, i compro oro pubblicizzati finanche all’interno degli ospedali, le discariche come percolato della legalità, i bingo e il gioco d’azzardo che tengono lati interi di strade al limite del raccordo, di ipermercati che non hanno giustificazione di mercato e un’edilizia selvaggia com’è selvaggia l’edilizia al soldo del riciclaggio; poi c’è la droga (e finalmente se ne parla) che per chissà quali strani percorsi dell’informazione sembra diventa roba calabrese e lombarda dimenticando quanto la capitale sia snodo fondamentale per i commerci: droga finalmente riportata anche qui, dove l’attività giudiziaria la racconta sempre in transito; poi le minacce: negozi bruciati, uomini gambizzati, usurai fuori dai bar come nei sottofondi di qualche città sudamericana e invece si è appena di qualche chilometro in periferia. Questo libro è un primo fondamentale avviso: le mafie ci sono, stanno bene, godono di ottima salute e continuano a saccheggiare Roma per riciclare soldi, fare soldi e costruire alleanza. Se le mafie in un territorio stanno bene quindi significa che lo Stato (in tutte le sue forme da quelle politiche a quelle civilissime e sociali) non le combatte abbastanza o addirittura ha trovato l’accordo.
Per questo la speranza di questo libro è che si accenda qualcosa dopo, appena sfogliata l’ultima pagina, per riappropriarsi della propria terra e tirarla fuori finalmente da questo alone di incompetente nebbia che è scesa (o salita) fino a qui.

Tratto da: granderaccordocriminale.wordpress.com

* La prefazione di Giulio Cavalli al libro “Grande Raccordo Criminale” di Floriana Bulfon e Pietro Orsatti per Imprimatur editore (marchio Aliberti Editore) in uscita nella seconda metà di febbraio

E intanto a Roma si spara

A Casalotti sparano al pregiudicato Roberto Musci, 34 anni e agli arresti domiciliari. Nell’ambiente della malavita era soprannominato “Sgambone” e ora è morto ammazzato all’altezza di via Lazzati 1.

Musci, originario del Trullo era ai domiciliari in quanto stava scontando una condanna per una serie di rapine commesse nel 2009 in alcuni autogrill. Venne arrestato dalla polizia stradale che indagava sulla banda di feroci rapinatori che assaltava le stazioni di servizio. Il fratello Marco, detto “Sgambuccio”, venne ucciso in strada a via Monte delle Capre, nel quartiere del Trullo, con otto colpi di pistola a giugno del 2009 da Giorgio Stassi padre di una ex fidanzata di Musci, stanco delle prepotenze subite dalla figlia.

Roberto Musci venne indagato nel 2011 per l’agguato di Casal Bruciato dove venne ferito a colpi di pistola il pregiudicato agli arresti domiciliari Giulio Saltalippi. Quest’ultimo era ai domiciliari perché doveva scontare una condanna per aver picchiato Musci dopo una lite per motivi di viabilità sul Gra. Vennero entrambi arrestati.

Il numero di omicidi legati alla criminalità (più o meno organizzata) qui passa come una brezza dal lido.

Il tempo delle seghe

Mi piacerebbe sapere quanto tempo ancora decideremo di concedere alla masturbazione collettiva che sui quotidiani si sta scaldando sotto lo scandalo delle baby prostitute del Parioli. Mi chiedo (come sottolineano anche su DonneViola) se forse sarebbe anche il caso di spendere una parola che sia una sui facoltosi clienti che probabilmente si concedevano un pompino di mezzo pomeriggio prima di andare a prendere le proprie figlie a scuola, se non ci interessano anche loro, i fruitori, che sono tutta l’onta di chi è forte del bisogno degli altri per soddisfarsi. Mi chiedo se non sarebbe il caso di essere, almeno noi e quelli che ne scrivono, meno pruriginosi parapedofili di quei clienti poiché questo spaccio di intercettazioni e mezze foto ha la stessa natura perversa. Mi chiedo quanti di quelli che leggono queste notizie non siano sani portatori di sdegno che sotto mentite spoglie possono sfamare gli istinti più bassi con la libertà di chi “legge le cronache”, trovando un po’ di solletico da youporn senza aprire youporn: bastano i quotidiani.

Lo smercio di un prodotto viene legittimato dalla cura e dai modi che ne determinano la diffusione. E con queste ragazzine la pedofilia non è mai stata così à la page.