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Ma la soddisfazione del repulisti è breve

Siamo ancora in quel momento in cui l’eliminazione delle pedine precedenti viene considerata una vittoria, dove ad esempio le dimissioni forzate di Domenico Arcuri bastano per fare esultare elettori e per infervorare capi di partito che si appuntano la medaglia il merito della cacciata (su Arcuri sono Renzi e Salvini, curioso nevvero?) e dove “basta non vedere più certe facce” per sentirsi già meglio, secondo alcuni. Il governo Draghi è all’inizio della sua opera, sentimentalmente è ancora acerbo e il profumo della vendetta continua a spirare. Però alcuni fatti incontestabili si scorgono.

Innanzitutto in meno di una settimana Mario Draghi ha cambiato le persone apicali a cui è affidata la missione contro la pandemia. Non è una scelta di poco conto, soprattutto in un Paese che piuttosto avrebbe mediato, spacchettato e mischiato le competenze per tenere in bilico assetti nuovi e quelli passati. Di questo gli va dato atto: si è preso la responsabilità di imprimere una svolta (per ora almeno sui nomi e poi naturalmente anche sulle dinamiche) della distribuzione del vaccino e della gestione dell’emergenza. Ieri ha preteso le dimissioni del commissario straordinario all’emergenza Domenico Arcuri, prima aveva sostituito il capo della Protezione civile Angelo Borrelli richiamando Francesco Curcio e al coordinamento dei servizi segreti ha messo il capo della polizia Franco Gabrielli, al posto del diplomatico Piero Benassi.

Qualcuno in queste ore ci dice che la dipartita di Arcuri (che per ora cade perfettamente in piedi visto che è e rimane a capo di Invitalia) sarebbe “una vittoria della destra”: falso. Arcuri è, forse sì, uomo molto stretto a Giuseppe Conte ma le osservazioni sul suo operato sono arrivate da più parti. È l’Arcuri che ha fallito su tutta la linea con l’app Immuni, è l’Arcuri dei banchi a rotelle tra l’altro arrivati persino troppo tardi, è l’Arcuri delle costose e inutili primule come centri vaccinali, è l’Arcuri sempre tronfio in conferenza stampa che non rispondeva ai giornalisti o se rispondeva lo faceva con una querela, è l’Arcuri soprattutto che c’entra con l’inchiesta della procura di Roma per traffico di influenze illecito nell’acquisto di 1,25 miliardi di euro in mascherine cinesi intermediato da un giornalista Rai in aspettativa, Mauro Benotti, che ha ottenuto 12 milioni di euro per la mediazione che ha avuto 1282 contatti con Arcuri tra gennaio e maggio 2020. Insomma Arcuri ha molto da spiegare e molto da farsi perdonare e anche su queste pagine ne abbiamo scritto spesso.

Ieri sui social girava una card di pessimo gusto di PiùEuropa (quelli che dovrebbero essere seri) che diceva “ciao #Arcuri” con la scritta “Liberisti da divano te salutant”. Salviniani e renziani hanno esultato sbracciandosi. Siamo ancora nel tempo del rancore. E intanto ci ritroviamo pezzi di esercito a gestire la pandemia, con l’aria di un’idea militarizzante che ricorda tanto ciò che fa Bolsonaro in Brasile. E a nessuno viene il dubbio che per quel compito ci sarebbe, proprio per sua natura, ad esempio anche la Protezione civile. Ma quando finirà la voglia di rottamazione, finalmente, osserveremo e giudicheremo i risultati.

Buon martedì.

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L’arabo fenice

Prostrato al regime saudita in Arabia, alla disperata ricerca di visibilità in Italia. Ci sono due Renzi diversi, entrambi inopportuni, che meritano di essere osservati per avere contezza dello stato attuale di crisi

Dunque ieri abbiamo avuto l’occasione di assistere in differita al doppio Matteo Renzi, quello in versione zerbino di fronte al principe saudita Bin Salman e quello che fa la voce grossa nella crisi politica che lui stesso ha provocato in piena pandemia. Sono due Mattei così lontani tra di loro, probabilmente anche molto inopportuni nei tempi, che meritano di essere osservati per avere contezza dello stato attuale di crisi che non è solo politica ma forse e soprattuto di credibilità.

Il Renzi prostrato ai sauditi (per la modica cifra di 80mila euro l’anno) è quello che da senatore della Repubblica, da membro della commissione Difesa, quello stesso che da mesi vorrebbe avere in mano la delega ai Servizi segreti, riesce a fare la velina per il principe Bin Salman con il suo inglese alla Alberto Sordi celebrando l’Arabia Saudita (terra di principesca violenza e di diritti negati) come “terra di un nuovo Rinascimento” insozzando un po’ della sua Firenze di cui si sente padrone, è lo stesso Renzi che riesce a dirgli «non mi parli del costo del lavoro a Ryad, come italiano io sono geloso» dimenticando che da quelle parti siano vietati i sindacati (e quindi i diritti) e le manifestazioni (chissà cosa ne pensa l’ex ministra Bellanova), quello che si fa chiamare ripetutamente “Primo ministro” per celebrare e per autocelebrarsi. Una scena imbarazzante nei modi e nei contenuti da cui i renziani si difendono nel modo più bambinesco e cretino ripetendo all’infinito “e allora gli altri?” come avviene tra bambini dell’asilo.

Il Renzi italiano invece è quello che dopo il colloquio con Mattarella si ferma per un’ora davanti ai giornalisti scambiando come al solito una conferenza stampa per un comizio e raccontando ancora una volta un’impressionante serie di balle infilate una dopo l’altra, riducendo ancora tutta la crisi di governo alla difesa del suo partitino politico (indignato perché c’è qualcuno che non vuole più trattare con lui) e spiegando ai giornalisti di non avere posto veti su Conte al Presidente della Repubblica per poi smentirsi pochi minuti dopo con un suo stesso comunicato che invece chiede che l’incarico venga dato a un’altra personalità. «Oggi non si tratta di allargare la maggioranza ma di verificare se c’è una maggioranza: se vi fosse stata una maggioranza, non saremmo stati qui ma al Senato per votare la fiducia a Bonafede», ha detto ieri Renzi nel tentativo di fermare il tempo in questa fase che gli regala un po’ di visibilità e temendo tremendamente lo spettro delle elezioni che lo farebbero scomparire. Poi, sempre in nome della sua coerenza, è riuscito a stigmatizzare la nascita di un nuovo gruppo in Parlamento dimenticandosi che la sua stessa Italia viva sia frutto dello stesso trucco parlamentare. Ma si sa: per Renzi le stesse identiche azioni hanno dignità differente se è lui a compierle o se sono gli altri.

E così tra liti e tentativi di riconciliazioni si trascina una crisi politica che diventa ogni giorno di più una barzelletta, sfiancante per i toni e la bassezza dei protagonisti, sfiancante perché avviene in un momento di piena pandemia.

E viene voglia di dirsi che finisca tutto presto, il prima possibile.

Buon venerdì.

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Il calendario dell’avvento (di Renzi)

Cronologia di una “crisi di governo” aperta da Matteo Renzi il 9 dicembre. Tra dichiarazioni, penultimatum e interviste, siamo arrivati al giorno cruciale

Era il 9 dicembre quando Matteo Renzi aprì la “crisi di governo” che ancora oggi si stiracchia sulle pagine di tutti i giornali. “È il momento di dirci le cose in faccia” tuonò con uno di quegli interventi che risulta perfetto per essere confezionato e diventare una clip già pronta per i social e take away per tutti i telegiornali. Disse: “Per giocare pulito e trasparente, noi diciamo: se c’è un provvedimento che tiene dentro la governance del Next Generation Eu, noi votiamo contro. Siamo pronti a discutere, ma non a usare la manovra come veicolo di quello che abbiamo letto sui giornali, compresi i servizi segreti. Se c’è una norma che mette la governance con i servizi votiamo no”. Minacciò di ritirare immediatamente i suoi ministri. Non accadde.

Il giorno successivo, il 10 dicembre, il segretario del Pd Zingaretti e alcuni membri provarono a placare gli animi. Da quel giorno ovviamente la cosiddetta “crisi” si è spostata sui giornali e in televisione, il campo preferito da Renzi. Pochissimi i passaggi istituzionali. Renzi rilascia due interviste, a Il Messaggero e a El Pais, in cui dice: “Se Conte non fa marcia indietro siamo pronti a far cadere il governo”. Conte intanto era a Bruxelles per chiudere l’accordo. Alla grande, direi.

Il 12 dicembre interviene il presidente della Camera Roberto Fico che dice che se cade il governo si va a elezioni. A nome di Renzi interviene Anzaldi che dice che le elezioni le decide il Presidente della Repubblica. E via già con la via d’uscita di un accordicchio, quindi.

A quel punto Conte convoca i partiti a Palazzo Chigi per discuterne. Ve lo ricordate? Renzi dice: “noi abbiamo detto ‘Presidente, se vogliamo andare avanti noi ci siamo con lealtà, se ritieni che quello che proponiamo non va bene, con rispetto per le istituzioni, noi ci alziamo e ci dimettiamo”. E via di nuovo con l’ennesimo penultimatum. Ovviamente continuano le interviste dappertutto.

Il 28 dicembre Renzi presenta il suo piano (che chiama simpaticamente “Ciao”, che simpaticone). 13 righe di proposte in tutto. “Se c’è accordo su questo bene. Altrimenti è evidente che faranno senza di noi e le ministre si dimetteranno”, dice Renzi. Sempre per dare un’idea di come si svolge la trattativa.

A fine anno c’è il discorso di Mattarella. Renzi ovviamente pensa a se stesso quando il Presidente della Repubblica dice che “servono costruttori”. Figurati. Però non coglie il monito di Mattarella a non perdersi in polemiche. Passano 48 ore dal discorso del Presidente e Renzi dice, a Il Messaggero: “Se Conte ha scelto di andare a contarsi in aula accettiamo la sfida”.

Il 5 gennaio è un giorno da fantascienza. Renzi è ospite di Nicola Porro su Rete 4 e dice che bisognerebbe trovare un accordo preliminare sui temi. Sembra un’apertura. E invece poi serafico aggiunge: “Poi vedremo se il premier sarà Conte o un altro“.

Arriviamo agli ultimi giorni. Conte ringrazia i partiti di maggioranza per i contributi portati (quindi anche Renzi) e Renzi gli risponde “se Conte è in grado di lavorare lo faccia, altrimenti toccherà ad altri. Ha detto che è pronto a venire in Aula, lo aspettiamo lì”. L’8 gennaio si incontrano per discutere e i renziani Boschi, Faraone e Bellanova protestano: “Il documento sul Recovery Plan non c’è: c’è una sintesi di 13 pagine e una tabella. Il Paese ha bisogno di serietà e ciò comporta leggere e studiare un testo completo“.

Ieri Renzi ha detto sì al Recovery però minaccia di ritirare le sue ministre dopo il Consiglio dei Ministri. E siamo a oggi. Gli scenari sono o un corposo rimpasto (con quelle poltrone che a Renzi non interessano, segnatevelo), o un Conte ter o un governo tecnico. Le elezioni? figurarsi. Se ci fosse davvero il pericolo delle elezioni non avremmo visto nulla di tutto questo.

Buon martedì.

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Tutti a restituire la Legion d’Onore. Bene, ma l’Italia è ben peggio di Macron se non ferma la vendita delle armi all’Egitto

Benissimo, Corrado Augias ha lasciato il segno restituendo la Legion d’Onore alla Francia dopo che l’Eliseo ha conferito il più alto riconoscimento del Paese al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Augias ha spiegato ieri di averlo fatto per rispetto di Giulio Regeni e per sottolineare la mancata collaborazione del governo egiziano alla ricerca della verità sull’omicidio, oltre alle continue violazioni dei diritti umani.

A ruota anche l’ex sindaco di Bologna Sergio Cofferati, l’ex ministra Giovanna Melandri e la giornalista Luciana Castellina hanno preso la stessa decisione per contestare Macron, che tra l’altro, da parte sua, ha tentato vanamente di tenere sotto traccia il conferimento facendo sparire foto e video della cerimonia in onore di al-Sisi.

Ha ragione Luciana Castellina quando scrive che la vicenda “costituisce un dolore per chi come me, e tanti italiani, si sente così legato alla Francia. È una brutta pagina della storia di questo Paese. Un gesto, aggiungo, stupefacente, che nessuno si sarebbe aspettato dalla Repubblica francese”.

Ora però forse sarebbe il caso di allargare lo sguardo e tornare dalle nostre parti, qui dove la procura di Roma ha svolto un enorme lavoro con quattro ufficiali dei servizi segreti egiziani verso il processo ma dove anche la politica non sembra ancora in grado di prendere posizioni forti.

Insomma, il problema non è Macron. “Conte, Di Maio, cosa state facendo per avere la verità?”, ha chiesto qualche giorno fa Paola Deffendi, madre di Giulio Regeni, che su ciò che si potrebbe fare per esercitare le giuste pressioni sul governo egiziano ha tracciato una strada netta: richiamare il nostro ambasciatore al Cairo, dichiarare l’Egitto paese non sicuro e fermare subito l’export di armi e i rapporti commerciali.

“La priorità è stata normalizzare i rapporti con il regime e curare gli interessi economici, militari e turistici”, ha detto in conferenza stampa il padre di Giulio, Claudio Regeni. La famiglia pretende “un sussulto di dignità da parte delle istituzioni, oltre le parole e le buone intenzioni”.

Il ministro Di Maio nell’ottobre 2019 aveva parlato di “conseguenze”, se non avesse ottenuto collaborazione alle indagini da parte dell’Egitto. Di collaborazione non ce n’è stata (lo scrive anche la procura): quali sono le “conseguenze”?

Lo scorso 30 novembre la procura della Repubblica egiziana ha annunciato di avere “temporaneamente” chiuso le indagini. Una fonte del governo egiziano che ha parlato al quotidiano Mada Masr ha detto lo scorso 11 dicembre: “L’Italia farà ciò che vuole, l’Egitto farà ciò che vuole, e intanto i due paesi rimarranno amici”. Forse il problema non è solo Macron, no?

Leggi anche: 1. La verità su Giulio Regeni è un diritto: l’Italia smetta subito di vendere armi all’Egitto (di Alessandro Di Battista) / 2. Armi, gas, diritti umani: il prezzo dell’indulgenza della Francia verso l’Egitto di al-Sisi

L’articolo proviene da TPI.it qui

Ancora su Ilaria Alpi

Noi ne avevamo parlato qui. Ora ne parla anche Greenpeace:

Tra pochi giorni ricorrono i 20 anni dall’omicidio di Ilaria Alpi e Mikhail Hrovatin, che rappresenta uno dei “misteri” su cui mai è stata fatta piena luce. Lo scorso novembre Greenpeace, tra gli altri, ha inviato ai Presidenti di Camera e Senato una lettera per la desecretazione della voluminosa quantità di documenti citati nelle diverse commissioni d’inchiesta sui rifiuti e i traffici illegali.

La lettera seguiva la decisione di desecretare le dichiarazioni del pentito di camorra Schiavonesulla vicenda della “terra dei fuochi”. A dicembre la decisione della Presidente Boldrini di avviare le procedure della desecretazione, una decisione che se effettivamente applicata sarebbe storica.

Più recentemente i giornalisti de il manifesto Andrea Palladino e Andrea Tormago hanno sollevato la questione dei criteri adottati dai funzionari della Camera per rispondere positivamente alle richieste di Greenpeace; dalle fonti intervistate sembrerebbe che i documenti identificati sarebbero un numero ridotto rispetto alle attese.

La Presidenza della Camera ha risposto ai giornalisti (al titolo del loro blog sui “documenti spariti”) che non ci sono documenti “spariti” e che i documenti identificati sarebbero 152. A quanto è dato sapere, questa lista è quella estratta dagli archivi delle commissioni parlamentari inserendo alcune parole chiave (come, ad esempio, “navi a perdere”).

Rimane dunque la perplessità dei criteri di scelta che non appaiono molto logici, su cui siamo già intervenuti.

Pubblichiamo qui in allegato un estratto degli archivi parlamentari – datato al settembre 2012 – che riporta l’elenco dei documenti . Quelli riservati sono circa 750 e forse non sono tutti (a questo link un nostro elenco dei soli documenti classificati e riservati). Guardando i titoli, oltre un centinaio di documenti riguardano esplicitamente il ruolo del faccendiere Giorgio Comerio e dell’ODM (Oceanic Disposal Mangment), una settantina più generalmente i traffici di rifiuti tossici e radioattivi, oltre un centinaio le cosiddette “navi a perdere” e una sessantina riguardano laSomalia. Forse andrebbero valutati con criteri legati alla maggiore rilevanza, più che con semplici parole chiave.

P.S. Uno dei documenti secretati è di provenienza Greenpeace e riguarda il tema del caso delle ricerche a mare relative alla nave affondata al largo di Cetraro (2009) che, secondo il pentitoFonti, sarebbe stata la Cunski, una delle navi sospettate di traffici di rifiuti, mentre, secondo le ricerche condotte per conto del Ministero dell’Ambiente, sarebbe la nave “Catania” affondata nella prima guerra mondiale. Su questa ipotesi sia Greenpeace che altre associazioni hanno espresso i loro dubbi.

Nel rapporto di Greenpeace “The toxic ships” si riporta che per effettuare le ricerche a mare il Ministero della Difesa inglese aveva presentato al governo italiano una offerta di valore più basso di quella poi concessa alla Mare Oceano di proprietà dell’armatore Attanasio (vedi pag. 10 del rapporto). Greenpeace, nel corso di un’audizione parlamentare sul tema, ha chiesto di mantenere il segreto su questo documento esclusivamente per la tutela delle proprie fonti.

Ma l’informazione che tali fonti citano è chiaramente riportata nel rapporto citato: e cioè che un’offerta del Ministero della Difesa inglese (sembrerebbe fatta a supporto dell’offerta di collaborazione della Nato riportata da Repubblica il 26-9-2009) sia stata respinta pur essendo, a parere della stessa fonte, economicamente vantaggiosa rispetto a quella poi assegnata alla Mare Oceano. Proteggere le fonti a volte è necessario, ma non i contenuti delle informazioni.

Giuseppe Onufrio – Direttore Esecutivo di Greenpeace Italia

Caro Renzi, desecreta i faldoni delle commissioni rifiuti. Onora Ilaria Alpi.

Foto_desecretazione1-672x372Mentre la presidenza della Camera dei Deputati sta analizzando i faldoni delle commissioni rifiuti e Alpi-Hrovatin per avviare la procedura di desecretazione, Aisi e Aise (ex Sisde e Sismi) hanno già detto no alla rimozione del segreto su decine di dossier. Lo hanno fatto lo scorso anno, tra il 18 aprile e il 15 maggio, rispondendo – sempre negativamente – alle richieste della “Commissione stralcio” di Montecitorio.

Dopo la chiusura della XVI legislatura e la fine dei lavori dell’ultima Commissione bicamerale d’inchiesta sui rifiuti – presieduta dall’onorevole Gaetano Pecorella – i parlamentari si erano espressi per una declassificazione di gran parte dei documenti sotto segreto, provenienti dai Servizi d’informazione e sicurezza (in gran parte dall’Aise, che si occupa di intelligence estera). La Camera si è però trovata di fronte ad un secco rifiuto da parte dei direttori delle agenzie, come hanno spiegato fonti autorevoli a toxicleaks.org .

Nei prossimi giorni Aisi e Aise riceveranno di nuovo la richiesta dall’ufficio di presidenza della Camera dei Deputati. Greenpeace – sostenuta dal quotidiano il manifesto – nei mesi scorsi aveva inviato una lettera alla presidente Laura Boldrini chiedendo l’apertura e la desecretazione di tutti i fascicoli sui traffici di rifiuti internazionali, sulle “navi a perdere” e sul caso Alpi-Hrovatin.

Sull’omicidio di Borsellino intanto segnatevi un nome: Angelo “Ninni” Sinesio

Per chi bazzica le carte processuali non è nome sconosciuto ma sicuramente per i più è una sorpresa. E la sua carriera sorprendente. Ne scrive Malitalia:

Uno di quelli che frequentava di più Paolo Borsellino sarebbe stato un funzionario dell’allora alto commissariato per la lotta alla mafia, tale Angelo “Ninni” Sinesio. I magistrati che lavoravano con Borsellino spesso lo vedevano presente nell’ufficio del procuratore già quando questi guidava la Procura di Marsala. Una presenza diventata “familiare”, non stonava perché il procuratore Borsellino sarebbe stato solito metterlo a suo agio. Sinesio oggi ha fatto carriera, è diventato prefetto, è stato prefetto vicario a Catania quando prefetto era l’attuale ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, che lo ha voluto fino a febbraio scorso al Viminale a capo della sua segreteria tecnica ed che oggi è commissario straordinario per l’emergenza edilizia delle carceri. Carriera, quella di Sinesio, che non è stata fermata nemmeno dal fatto che sarebbe stato sospettato addirittura di essere stato la “gola profonda” che avrebbe avvisato Bruno Contrada, il numero due del Sisde, delle indagini sul suo conto. Sinesio è stato sentito nel processo contro Contrada, ha detto che il “segreto” sul super agente dei servizi lo aveva confidato ad un suo superiore, il dott. De Luca, e che semmai era stato questo a passare l’informazione a Contrada che così seppe che lo stavano andando ad arrestare. Nella sentenza che ha condannato Bruno Contrada la vicenda è bene raccontata, Sinesio aveva avuto l’informazione parlando con uno dei magistrati più vicini a Paolo Borsellino, la dott. Alessandra Camassa, nei giorni seguenti la strage di via D’Amelio. Il pm Camassa conosceva Sinesio per averlo visto spesso con Borsellino, dunque era una persona della quale era indotta a fidarsi, ma quel giorno in cui parlarono di Contrada la reazione di Sinesio sarebbe stata anomala, avrebbe avuto come una reazione nervosa, un conato di vomito, si allontanò dalla stanza del magistrato per andare in bagno, per poi tornare subito dopo. Di Sinesio scrive anche Contrada nel suo memoriale, l’ex dirigente dei servizi, condannato per mafia, lo indica come la persona che gli disse delle indagini sul suo conto.

Oggi emergono altri particolari, che vengono letti sotto diversa luce proprio per il “marciume” che va emergendo attorno alle strategie stragiste mafiose. E ancora una volta si sente parlare di  Sinesio.Questi avrebbe cercato in tutti i modi di sapere a cosa si stava interessando Borsellino nei giorni in cui la mafia, e forse non solo la mafia, decidevano di eliminarlo per sempre. Incontrava i magistrati più vicini a Borsellino presentandosi addolorato, sconfortato, per quello che era successo a via D’Amelio, e chiedeva, chiedeva se Borsellino si occupava di politici, di politici e imprenditori agrigentini, sembra che i suoi interessi erano puntati a conoscere se Borsellino indagava sul ministro Mannino e sull’imprenditore Salamone, uno degli imprenditori che saltava fuori dalle indagini sulla tangentopoli siciliana. Interessi pressanti, costanti, tanto insistenti che alla fine hanno suscitato qualche perplessità nei suoi interlocutori, alla fine è uscito di scena.

Riinafobia

“Nel processo Falcone c’è un aereo nel cielo che vola mentre scoppia la bomba: questo aereo non si può trovare di chi è, e così si condanna Riina perché fa comodo. E il processo Borsellino? Lì sul monte Pellegrino c’è l’hotel con i servizi segreti, quando scoppia la bomba i servizi scompaiono, però non vengono mai citati perché si condanna Riina, perché l’Italia è combinata così”.

Le parole sono di Salvatore Riina durante il processo di Firenze, pronunciate il 10 marzo 2009, quattro anni fa che sembrano un’era geologica tenendo conto degli sviluppi giudiziari sui rapporti tra Cosa Nostra e Stato.
Sarà forse che in questi ultimi anni (ancora prima di quel 2007 e quella deposizione) abbiamo girato l’Italia per svestire Riina dal patetico vestito del boss come principe nero per mostrarlo in tutte le sue miserevoli nudità (intellettuali, prima che pelose) ma il prurito curioso che in questi giorni si leva per qualche bisbiglio del boss rinchiuso ad Opera è patetico almeno quanto lui.
Riina in questi anni ha parlato a chi doveva parlare, ha dichiarato più volte di essere stato un ingranaggio di un meccanismo molto più grande che comprendeva alte sfere dello Stato (“l’ammazzarono loro” disse riferendosi a Paolo Borsellino), agli uomini di Stato disse “guardatevi dentro anche voi” e fece intendere di essere stato “tradito” e “venduto” in occasione del suo arresto. Riina dunque è loquace da tempo, molto più di quanto torni utile a chi vorrebbe sensazionalizzare qualche sua parola per alimentarne la lontananza e il mito: gli ingredienti perfetti per mantenerlo senza luogo e senza tempo nella teca dei cattivi. Vorrebbero farci dimenticare che Riina è lo stesso che a colloquio con il figlio in carcere ebbe a dire che “Schifani era una mente” o che i comunisti erano “un problema contro lo Stato”.
Il problema non è il piccolo Totò che ciclicamente parla ma tutto intorno il Paese che non lo ascolta o, peggio ancora, che lo alleva nel pascolo dei cattivi per un buon editoriale all’anno.
Eppure senza riinafobia lo spartito sarebbe più chiaro e più popolare, facendo a meno della poesia, e Riina apparirebbe più contemporaneo e lucido di quelli che vorrebbero analizzarlo.

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Baldoni: “un colpo in testa al giornalista che cercava brividi in Iraq”

Conosco personalmente Guido Baldoni (il figlio di Enzo) con cui ho condiviso momenti di tourné che mi rimarranno indimenticabili. Per questo non saprei contenere la rabbia per il trattamento indegnamente infimo che certa stampa gli ha riservato. Ma Sergio è riuscito a raccontare senza scrivere come io non avrei mai potuto fare.

Enzo Baldoni: per non dimenticare l’altra memoria.

di Sergio Nazzaro

baldoniLe giornate della memoria muovono le emozioni, fanno riflettere, per un attimo c’è la voglia di scrivere. E invece no. Questa volta si celebra l’anniversario leggendo, facendo esercizio della memoria.

Studiando e approfondendo. Quasi un guardare per credere. E domandarsi come è possibile che chi disprezzi con tanto cinismo la vita umana, possa essere proprio un giornalista, un direttore di giornale. Nessuna dietrologia o ideologia: semplice sconcerto in nome di una normale convivenza civile. La memoria è anche questo difficile esercizio: doversi ricordare di persone come il sig. Renato Farina e il sig.Vittorio Feltri. (Grazie a Mauro Biani, al suo prezioso archivio e alla memoria che ricorda)

libero_1-1251360971VACANZE INTELLIGENTI di RENATO FARINA (da Libero, 24/08/2004)
Prima di cominciare a leggere è bene ricordarsi chi è Renato Farina, da wikipedia “(Desio, 10 novembre 1954) è un deputato e scrittore italiano. È stato radiato dall’Ordine dei Giornalisti il 29 marzo 2007, dopo avere ammesso di aver collaborato, da vicedirettore di Libero, con i Servizi segreti italiani fornendo informazioni e pubblicando notizie false in cambio di denaro. Un mese prima, il 16 febbraio 2007, si era dichiarato colpevole del reato di favoreggiamento[2] nell’ambito dell’inchiesta sul rapimento dell’ex imam di Milano, Abu Omar, patteggiando la pena di sei mesi di reclusione (commutata in una multa di 6.800 euro)”.

Alle 16 di ieri, come quarta notizia di Al Jazeera, è stata mostrata la faccia barbuta di un uomo. In inglese ha detto: «Sono Enzo Baldoni». Aveva una polo grigia e l’aria tranquilla. Forse un po’ troppo. Pareva un turista per caso. Il comunicato dell’”Esercito islamico in Iraq” (Al-Jeish Al- Islami-si-Iraq) ha posto un ultimatum a Berlusconi: o ritira entro 48 ore le sue truppe, e lo fa in modo chiaro, con un decreto firmato, o «non garantiamo la sicurezza di Baldoni ». Vuol dire che lo ammazzano. Il gruppo ha un simbolo molto simile a quello di Al Zarqawi, il decapitatore professionista per conto di Osama Bin Laden. Si deve a questo simpatico esercito l’uccisione di un ingegnere e di un autista pachistani il 28 luglio scorso in Iraq. Al Jazeera non ha trasmesso le immagini dei pachistani perché «sconvolgenti”. Abbiamo capito cosa gli hanno fatto. Eppure Baldoni appare straordinariamente rilassato. Come se avesse un asso nella manica. Lo sappiamo su che cosa conta: sulle proprie idee. In fondo, è un loro simpatizzante. Perché dovrebbero fargli del male? È un giocherellone della rivoluzione. Repubblica ha pubblicato un suo decisivo reportage: «Le mie vacanze col brivido». Dopo le ferie intelligenti, proviamo a fare quelle sconvolgenti. Ecco il ritratto che dedica su “Linus” al Chapas: «Marcos: culo e carisma». E questo sarebbe giornalismo di sinistra? Vogliamo dirlo: è un simpatico pirlacchione. Lo scriviamo tremando. Sappiamo che ci sono moglie, genitori e fratelli in lacrime. Desideriamo gli sia restituito vivo e vegeto. Evitiamoci le tirate patetiche però. Signori di Al Qaeda, proprio dal vostro punto di vista, non vale la pena di ammazzarlo. Restituitecelo, farà in futuro altri danni all’Occidente come testimonial della crudeltà capitalistica. Vedendo com’era attrezzato, i rapitori hanno dubitato fosse davvero un giornalista. Sarà uno 007 finito fuori pista – hanno pensato. Imad El Atrache ha provato a salvargli la vita parlando un’ora dopo allo stesso tg. Mi ha chiesto notizie e ho confermato: ha scritto diari di viaggio dal Chapas, dovunque senta odore di Che Guevara corre in soccorso e poi manda articoli a giornali di sinistra che glieli pubblicano. Enrico Deaglio de Il Diario ha confermato: scrive per noi ed è pacifista. Il governo italiano in fondo è sulla stessa linea. In una nota fa sapere: «Siamo impegnati a ottenere il risultato di far tornare in libertà il signor Baldoni, che si trova in Iraq per la sua attività privata di giornalista e quindi assolutamente non collegato al nostro governo ». Ovvio che dichiari di non cedere al ricatto, è scontato, ma intanto con quelle tre paroline – “signor”, “privata”, “assolutamente” – marca una distanza da Baldoni idonea a salvargli la pelle. Come dire: quest’uomo è italiano, ma è più roba vostra che nostra, si è messo nei guai per le sue privatissime cose, perché rompete le scatole a noi? Garantiamo, nel nostro piccolo, ai suoi rapitori islamici: tifa per voi, per la resistenza irachena. Non è musulmano, è milanese; non aderisce ad Al Qaeda, per carità, ma in fondo giustifica chi spara ai marines. Li conosciamo i documenti antimperialisti dove si solidarizza con «le ragioni economiche, politiche, morali che spingono gli oppressi del mondo a combattere con le armi contro l’America e i suoi servi sciocchi, ad esempio Berlusconi». Baldoni era di tale fatta. Lo ribadiamo volentieri, Signori dai lunghi coltelli: è del tipo di occidentale che piace a voi: antiamericano. Confidiamo basti. Abbiamo molti dubbi, ma c’è un precedente positivo. Nei giorni scorsi un reporter statunitense, Micah Garen, è stato liberato dalle milizie di Al Sadr. Ma, appunto, erano sciiti. Non sono del giro di Al Qaeda, non sono come Al Zarqawi. Gli sciiti di Najaf si lasciano commuovere dalla opinione politica, dai sentimenti personali. Garen ha stramaledetto Bush e si è salvato. Al Zarqawi invece ha decapitato Nick Berg anche se aveva un pedigree pacifista d’alto rango e di provata affidabilità. Era però ebreo e americano. Per questo abbiamo paura non sia sufficiente a Baldoni dire quanto pensa del Cavaliere. Una speranziella. Gli esperti dell’intelligence atlantica hanno molti dubbi su tutta la vicenda. Il volto del prigioniero non rivela contrazioni inevitabili per chi si trovi sull’orlo dell’abisso. Non appaiono intorno all’italiano uomini armati e mascherati. Potrebbe essere una recita. Anche se il precedente di Nick Berg, il quale pareva sereno, ci inquieta. È necessaria un’operazione di verità. Nei giorni scorsi si è registrato un curioso fenomeno. Basta leggere l’Unità per capirlo. Siccome a sinistra, sotto sotto, credono che i tagliatori di teste siano persone perbene, hanno ritenuto impossibile che ad essere rapito fosse un giornalista del genere terzomondista. Per cui all’unisono si è accreditata l’ipotesi dei “predoni”. Nulla che fare con la resistenza. Banditi di strada. Ma il quotidiano di Furio Colombo e Antonio Padellaro è andato oltre. Secondo il foglio rosso la morte dell’interprete e il rapimento di Baldoni erano probabilmente opera di «forze governative». Hanno scritto proprio questo. Per loro il legittimo governo di Allawi (nomina Onu) è fatto di predoni assassini. Inutile aspettarsi autocritiche. Martelleranno noi perché non ci caschiamo a questa storia di reporter dediti ai poveri. Andiamo anche noi a soccorrere Baldoni. Per solidarietà umana confermiamo: ha sempre scritto cronache dall’Iraq contro gli americani. E prima in Colombia, in Messico, ovunque. Salvatelo. Ma per favore, una volta sano e salvo qualcuno dovrebbe spiegare ai vacanzieri del brivido che non si gioca con le cose serie per scrivere pagine palpitanti. Dalle parti di Bagdad non c’è un Rotary islamico, o la confraternita frati benedettini musulmani che porgono la minestra e l’altra guancia. Lì si spara, e chi non è attrezzato fa danni a se stesso ma soprattutto agli altri. Ammazzano gente di destra e di sinistra, li rapiscono per ricavarne favori. In passato ho scritto la stessa cosa a proposito di turisti che giravano con il cammello in Yemen e in Somalia, salvo poi far spendere miliardi al governo per portarli a casa. Quando sono tornati, mi sono arrivate maledizioni. Mi auguro che Baldoni mi aspetti presto sotto casa. Basta che lui, e la gente come lui, con tutto il rispetto, faccia il proprio mestiere di creatore di spot. Gli venivano meglio. Non si va alla ventura come facili prede. Poi il prezzo lo pagano persone che non contano niente (l’interprete autista), la propria famiglia, e il governo. Torna Baldoni, e lìmitati agli aperitivi in piazza san Babila. E in vacanza cogli le pesche dell’agriturismo di famiglia.

libero_3-1251361042IL PACIFISTA COL KALASHNIKOV di VITTORIO FELTRI (da Libero, 27/08/2004)
Se esaminata cinicamente, cioè con lucidità, la disavventura di Enzo Baldoni sconfina nella commedia all’Italiana. Già ieri abbiamo scritto: un uomo della sua età, moglie e due figli a carico, avrebbe fatto meglio a farsi consigliare da Alpitour, anziché dal Diario, la località dove trascorrere vacanze sia pure estreme (si dice così?). Evidentemente, da buon giornalista della domenica egli ha preferito cedere all’impulso delle proprie passioni insane per l’Iraq piuttosto che adattarsi al senso comune. Ciascuno fa come gli garba. E se a lui garbava di mettere a repentaglio la ghirba allo scopo di essere la caricatura dell’inviato speciale, forse sognando di diventare un Oriano Fallaci o un Ettore Mo, c’è poco da obiettare. Molto da obiettare invece c’è sul fatto che adesso tocchi allo Stato italiano di toglierlo dalle pettole (dal milanese: peste). Vabbè. Non facciamoci guardar dietro spendiamo quanto c’è da spendere per riportarlo a casa, questo bauscia simile a certi tizi i quali, durante il week end, indossano la tuta mimetica e giocano ai soldatini nelle brughiere del Varesotto. D’altronde, come documenta la nostra inchiesta Stipendiopoli, gli enti pubblici sprecano molto denaro e non saranno alcuni miliardi in più, investiti al fine di liberare il semigiornalista, a mandarci in rovina. Chiudiamo un occhio sull’aspetto finanziario e apriamo l’altro sul paradosso cui assistiamo. Lui, Baldoni, è qui ritratto in prima pagina con in mano un mitra o una mitraglietta (non essendo pacifisti c’intendiamo poco di armi) fra due beduini o similari. Sorride felice perché è corso in aiuto dei più deboli in lotta contro i cattivi americani. Ecco, ai “poveri” iracheni sono rivolti gli appelli in favore del pubblicitario- pubblicista lanciati dai suoi famigliari. I quali implorano i sequestratori: «Lasciate libero nostro padre, è un pacifista». E ancora: «Noi ci rivolgiamo al popolo iracheno martoriato dalla guerra e agli uomini che detengono Enzo; lui è in Iraq come uomo di pace oltre che come giornalista. Egli cercava di salvare vite umane a Najaf quale volontario della Croce rossa. Lo spirito di solidarietà ha sempre caratterizzato le sue azioni». Penso a un grosso equivoco. Si servizi alle pagine 2, 3 e 4 considerano deboli e martoriati dalla guerra terroristi talmente deboli da prendersela con un loro amico, Baldoni appunto, tenerlo in ostaggio per ricattare l’Italia e minacciare di decapitarlo; insomma talmente deboli e bisognosi di carezze consolatorie da poter decidere della sua vita e della sua morte. Ammazza che debolezza. (…) E che gentiluomini, quanta solidarietà manifestano nei confronti di chi gliene ha data in buona o cattiva fede. Siamo al delirio. Baldoni stesso è inebetito dalle ideologie nate dalle ceneri delle ideologie: legge davanti alla telecamera il comunicato dei suoi aguzzini, in cui si dà del criminale a Berlusconi, e ne gode, glielo leggi in faccia che gode; e il video non inganna. Ma come si fa a schierarsi con i tagliatori di teste, come si fa a schierarsi con chi è stato con Saddam, come si fa ad affiancare banditi islamici che per tutto ringraziamento ti rapiscono e magari spezzano l’osso del collo? Fuori da ogni logica. Il paradosso ingigantisce se si tiene conto che il filoiracheno Baldoni candidato alla decapitazione è un pubblicitario (mestiere più capitalistico non esiste) il quale ha sempre lavorato per aziende americane: Mc Donald’s, Coca-Cola, Ibm, Shell, solo per citare alcuni nomi. Scusate cari lettori, più pirla di così è inimmaginabile. Ti guadagni la pagnotta (e non solo quella) ideando e realizzando spottini consumistici per le multinazionali odiate a sangue; le odii al punto da farti fotografare armato con un paio di beduini; poi arriva agosto, le schifose multinazionali (che ti strapagano) ti garantiscono (contrattualmente) lunghe ferie e tu, pistola, vai a trascorrerle in Iraq nei panni del samaritano islamico e complice di chi vuole decollarti. Enzo, hai qualche filo staccato. E come te ce l’hanno staccato i tuoi amici, gente sicuramente perbene che però non capisce un’acca, neanche dell’evidenza. Non fraintendete, spero che il detestato governo Berlusconi sia in grado di rimpatriare questo sbronzo di idiozie pacifiste e antiamericane. Il quale, rientrato nel nostro Paese di minchioni tolleranti, se proprio vorrà sfogare le sue pulsioni giornalistiche venga pure a Libero, qui al massimo sarà costretto a battersi contro Franco Abruzzo e Maurizio Belpietro che parlerà male di suo figlio, ma non dovrà sfidare a collo nudo la lama dei decapitatori. Dai Berlusconi, datti una mossa, restituisci alla famiglia e alla Coca-Cola questo spottaro strappato a via Montenapoleone e a Piazza San Babila.

libero_2-1251360995COLPO IN TESTA A BALDONI di RENATO FARINA (da Libero, 28/08/2004)
Non c’è rimedio. Non sono serviti i sorrisi suoi e quelli dei suoi cari. Quella è gente che mantiene le promesse: ammazzato. Una consolazione all’orrore: non gli hanno tagliato la testa. E’ stato assassinato come Fabrizio Quattrocchi, con proiettili di piombo in testa. Enzo Baldoni è morto alla stessa maniera del suo nemico ideologico. Quattrocchi, nel momento in cui aveva compreso la sua sorte, ha cercato di togliersi la benda nera. E poi, con un’aria di sfida tranquilla, ha detto all’uomo che parlava italiano: «Ti faccio vedere come muore un italiano ». I no globan avevano scritto proprio sul sito di Baldoni il loro schifo per una morte da mercenario. Negli ambienti no global e del Diario si era sussurrato: «Ha detto: “Vi faccio vedere come muore un camerata”». Una menzogna. Ed ora è toccato ad un altro nostro fratello italiano, battezzato. Le idee politiche erano diverse da quelle dei primi sequestrati. Ai terroristi islamici non importa delle nostre opinioni politiche, dei nostri sentimenti sul mondo. (…)

Poi ci fu Mauro Biani che rimise tutto nel giusto ordine

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