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spettacolo

Parte la “produzione sociale” e mi scrive Paola

La campagna di “produzione sociale” per “L’amico degli eroi” (un libro e lo spettacolo) è partita. Qui trovate tutte le informazioni. Domani vedrò di scrivere nel dettaglio (intanto abbiamo bisogno che cominciate a fare girare la notizia e, se potete, contribuite) ma prima che si faccia sera voglio pubblicare le parole bellissime che mi ha scritto Paola Periti perché colgono il senso di quello che vorremmo fare e della forza che dobbiamo onorare:

Con questa mia mail volevo esprimere la mia soddisfazione per la tua scelta. Stampa, televisione non so il teatro oggi non sono indipendenti, non in Italia. E ti fa onore, sapendo che certamente non ti mancano le occasioni per pubblicare libri o testi o realizzare spettacoli, scegliere di non legarti ad alcuno.
Credo sia oggi più che mai arrivato il momento dell’intransigenza, nessun compromesso. Non sono mai stata rigida nei miei comportamenti ma lo sono diventata osservando questo paese che piano piano, con la connivenza di tutti noi cittadini, ha lasciato che il fango ci sommergesse tutti.
Ho due figlie adolescenti. Lascio loro un paese allo sfascio e nessun futuro degno di persone civili.
Cerco di rimediare, almeno con il mio comportamento privato.
Grazie per il tuo impegno.

 

Perché Giulio Cavalli a Milazzo?

L’articolo di Pietro Orsatti:

Giulio Cavalli locandina web DEFINITIVAPiccolo, solo, rompiballe, testardo. Giullare per attitudine, feroce per necessità, brigante per gusto, poetico perché gli viene così. Siamo amici, da nni. Intermittenti nella vita, solidali senza porsi il problema se convenga o meno.
Giulio Cavalli lo conosco da prima che gli piovessero sul suo “crapone” norditsta le mattonate del potere. Quel potere lì che ha mille facce e sembra buono per ogni italica stagione. Collaborammo su alcune cose, innamorati del gusto di raccontare. Mi ricordo quando poteva girare senza avere un paio di agenti di scorta. Prima che la mafia (le mafie) trovasse intollerabile che un giullare ne mostrasse il volto grottesco e osceno. Non si può mica tollerare, quando si è mafiosi, il ghigno sbilenco di un teatrante che porta alla risata. Una risata vi seppellirà. E la mafia non ha nessuna propensione a essere messa in ridicolo. Brava gente i mafiosi, di sani e sanguinari principi, dove i piccioli sono serissimi, gli affari santi e il crimine una vocazione.  Una notte di quell’estate in cui qualche mafiosazzo prese la decisione di minacciare un attore di Tavazzano (quasi ridente paesotto a uno sputo da Lodi) ci prendemmo una sbronza colossale. Girammo fino all’alba  per Palermo con altri tre quattro disgraziati a ridere di quello che stava succedendo. Sudati, spaventati (era un’estate in cui saltavano per aria macchine, arrivavano  pizzini e proiettili, qualche burlone disegnava bare sui muri, giravano voci, ci si cagava sotto) ma soprattutto stupefatti. E’mai possibili che la mafia minacci di morte un attore? Anzi, di più, un giullare? In Italia si.
Giulio è scomodo, è un non allineato, è un rompiballe seriale. Ha fatto – sia ringraziato il cielo – una montagna di cazzate e incasellato  piccoli gioielli di teatro e narrazione. Non solo sulle mafie ma anche su di loro. In questi anni ha affinato arte e mestiere. E la solitudine di un passaggio in politica e della vita misurata da un paio di angeli custodi che lo accompagnano passo passo giorno dopo giorno da troppo tempo.
E allora questa idea di portarlo a Milazzo a fare parte di questo atto di brigantaggio culturale che è The Red Whale, dove gli artisti chiamati a partecipare non vengono solo a fare uno spettacolo e poi tanti saluti e via. Ma come l’abbiamo pensata noi artisti, testimoni, giornalisti per partecipare devono per forza di cose lasciare una traccia mischiandosi. E quindi: uno spettacolo, due giorni di seminario sulla scrittura civile e teatrale, una serata di chiacchiere, musica, cibo e quello che viene viene e poi un dibattito in riva al mare. Misturar, si dice in Brasile quando si raggiunge una buona e fruttuosa parceria (accordo) fra diversi. E con Giulio è obbligatorio e possibile.
Quindi il 27/28/29 Giugno apriamo il calendario di The Red Whale a Milazzo (ME) con lo spettacolo “Nomi, Cognomi e Infami”, con un seminario di due giorni sulla scrittura civile e la presentazione del libro “L’innocenza di Giulio” e altre robe che metteremo in piedi briganteggiando fra cielo e mare.

 

Nomi, cognomi e infami: la recensione di Persinsala

Di Fabio Di Todaro, qui:

Al Teatro della Cooperativa di Milano è andato nuovamente in scena Nomi, cognomi e infami, lo spettacolo di Giulio Cavalli che fa riflettere in modo ironico sul delicato tema delle criminalità organizzate.

Parla senza peli sulla lingua: e fin qui nulla di nuovo. Ma di Nomi, cognomi e infami, opera di Giulio Cavalli riproposta nei giorni scorsi al Teatro della Cooperativa di Milano, stupisce la stringente attualità, nonostante lo spettacolo sia stato prodotto quattro anni fa. Non un’epoca a teatro, ma il segno dell’immobilismo di un Paese che, sebbene la morsa della crisi sia sempre più stringente, ha finora lasciato scorrere invano giorni preziosi.

È un monologo intelligente quello dell’attore lodigiano, abile a coinvolgere con ritmo costante il pubblico e a farlo finanche sorridere, nonostante l’amarezza dei temi trattati. Uomini veri e altrettanti taroccati. Sul palco è tutto un susseguirsi di persone che, per il loro spiccato senso civile, sono oggi riconosciute come eroi: dai giornalisti Peppino Impastato e Roberto Saviano ai magistrati Bruno Caccia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ma Cavalli, pur non citandoli, fa riferimento anche a tanti altri esponenti dell’antimafia meno noti: la giornalista Rosaria Capacchione, i rappresentanti dell’associazione Libera, il magistrato palermitano Nino Di Matteo.

A frapporsi a loro, nello spettacolo come nella vita, una serie di personaggi balzati agli onori della cronaca per pavidità, povertà culturale e interessi illeciti. Vengono così fuori dei ritratti di boss autentici, ma difficili da riconoscere. Costanti anche i riferimenti alla Lombardia, divenuta terreno di coltura prima di Cosa Nostra e più recentemente della ‘Nrangheta. «Se l’eroina era un business per le organizzazioni criminali e i suoi morti sono riconducibili ad attività illecite, la Lombardia è la regione che conta il più alto numero di morti di mafia». Giulio Cavalli, nei panni del giullare medioevale, punta a stimolare «il muscolo della curiosità, perché non ha senso commemorare ogni anno le vittime di mafia e vivere tutti gli altri giorni dimenticandosi di loro e fingendo di non vedere ciò che accade attorno a noi». Chiaro il riferimento alle recenti celebrazioni in memoria di Lea Garofalo: «Quanti di voi sanno che Lea è morta per colpa dello Stato che le ha tolto il programma di protezione riservato ai testimoni di giustizia?». Pochi, sicuramente, sebbene il 14 ottobre scorso le lacrime abbiano rigato il volto di molti italiani, nel giorno del funerale in cui Milano ha reso omaggio alla donna di Petilia Policastro uccisa dalla mafia calabrese all’ombra della Madonnina nel 2009.

Cronaca e analisi si intrecciano, portando in copertina storie meno note anche al pubblico più sensibile alla tematica. Lo spettacolo – tratto dall’omonimo libro scritto da Cavalli e pubblicato da Edizioni Ambiente – riesce nell’intento di svegliare le menti ed esorcizzare il tema delle minacce, mai direttamente affrontato dall’attore nel corso della rappresentazione.

Parola antimafia: ‘nomi, cognomi e infami’ secondo Omnimilano Libri

La recensione di Omnimilano Libri dello spettacolo NOMI, COGNOMI E INFAMI:

fotoLa parola funziona contro le mafie. E’ questa la buona notizia con cui un Giulio Cavalli tra sedia Ikea e leggio esordisce nello spettacolo “Nomi cognomi e infami” in scena fino a domenica 16 marzo al Teatro Cooperativa di via Hermada. Quartiere Niguarda. La parola funziona? Allora insistiamo. Ecco quindi riproposta un’ora e mezza tra storie di persone “normali” diventate eroiche per contrasto con l’ambiente in cui si sono dipanate. Ecco un monologo che ha più della chiacchierata con amici e conoscenti uniti da interessi comuni. Uno certamente c’è: quello della denuncia, fatta con ironia ed intelligenza, con autoironia ed intelligenza, quelle che caratterizzano tutti gli spettacoli di Cavalli e che molti nel pubblico hanno esplicitamente cercato acquistando il biglietto per la serata. Cavalli è qualche metro sopra il pubblico, grazie al palco, ma è nel pubblico perché non c’è vestito di scena, non c’è scena, c’è un uomo che parla e vi guarda in faccia, vestito normale, un po’ illuminato dai fari, ma senza esagerare. Parla, gesticola, cammina avanti e indietro e racconta. Scava in quella che ormai è quasi storia, con incursioni di cronaca anche dell’ultimo minuto, giudiziaria e politica. Riesce difficile chiamarlo spettacolo, quello a cui si assiste in questi giorni al teatro della Cooperativa. Non è uno spettacolo e non vi si assiste, si ascolta e si partecipa, in primis per volontà di Cavalli stesso, si assorbe e si diventa, se già non lo si è, parte attiva, dialogante, anche solo annuendo, e coinvolta. Inutile cercare di assumere uno sguardo “da studioso del fenomeno” ascoltando Cavalli che “pigia” quasi solo sul tasto emotivo, solleticando indignazione e consapevolezza. Il tono dell’attore con la scorta, come lui stesso si “autodefinisce-autoironicamente”, non è quello cattedratico, è quello dell’amico o del conoscente. Complice l’ambiente ristretto e l’assenza di ghingheri. Nomi cognomi e infami, ha un titolo che non permetterà mai, purtroppo , di andare in scena senza argomenti, e Milano e dintorni sono generosi nell’offrirne, Cavalli non perde l’occasione per coglierli e rimbalzarli subito verso il pubblico impossibilitato ad illudersi che “qui la mafia non esiste”. Però, “noi in scena proviamo a ridere e disarticolare la nostra paura”.

Tutti gli infami per nomi e cognomi

La recensione dello spettacolo NOMI COGNOMI E INFAMI di Serafina Ignoto per ilcarrettinodelleidee.com:

“Nomi, cognomi e infami”, lo spettacolo (che è anche un libro) di Giulio Cavalli,  ripercorre i troppi anni bui della nostra Repubblica. La parola fa paura, sia essa una narrazione o un testo teatrale, una canzone o un articolo giornalistico: è un’arma bianca più potente di cento pallottole, colpisce  senza spargere sangue, destinata a restare e a farsi Memoria collettiva.  E’ in grado di mettere assieme fatti, persone e situazioni ma, soprattutto, fa pensare. Un peccato imperdonabile per la mafia che, infatti, ha costretto Cavalli a condurre una vita sotto scorta. La conoscono bene i prepotenti di tutto il mondo l’insidia che si annida nella potenza evocativa della parola, anche se poi peccano di ingenuità. Ingenuità si, perché la parola sopravvive alla morte. E se poi questa morte è pure violentemente provocata si ottiene un effetto contrario a quello che tutte le mafie vorrebbero per se stesse: l’invisibilità.

Si vive di segnali, la mafia ne ha sempre fatto largo uso, Falcone docet. Lo stato avrebbe dovuto mandarne uno e uno solo, forte e chiaro: si sarebbe dovuto alzare un urlo istituzionale che facesse da scudo alle vite di Di Matteo e di tutti i magistrati impegnati nel processo sulla trattativa. Si è invece sentito, ahimè, solo un silenzio imbarazzato e imbarazzante la cui logica rimanda al sospetto di complicità preoccupanti fra la mafia e pezzi grossi delle istituzioni. Perché anche i silenzi sono segnali.

E allora c’è da chiedersi qual è il senso di quel messaggio inviato alla Corte d’Assise di Palermo dal Capo dello Stato.  Nel nostro Stato-di-diritto-ancora-per-poco chiunque venga chiamato a testimoniare lascia alle valutazioni della magistratura se le sue conoscenze sono utili e conducenti  a chi indaga. E lo si fa dentro il processo, non fuori cercando escamotage per nascondersi dietro un dito. Ma dev’essere contagiosa questa malattia di credersi al di sopra delle leggi. Siamo un paese con troppi re e reucci, molti dei quali appaiono nudi.

Ma i silenzi parlano. Parlano e fanno pensare amaro, amarissimo le passerelle del Csm venuti a portare la loro solidarietà ai magistrati di Palermo. Un modo davvero singolare di agire non incontrando proprio chi ha subito minacce pesantissime di morte. Come leggere, allora, questo segnale visto che il capo del Csm è anche il capo di quello Stato che i giudici di Palermo  tentano di processare?

Giulio Cavalli ha saputo raccogliere il testimone idealmente lasciato da Peppino Impastato con la sua trasmissione Onda Pazza a Mafiopoli. “L’arma” è la stessa, la parola ironica è precisa e tagliente, fa sorridere facendoci riflettere. E’ bravo Cavalli nel ricostruire non solo le vicende di Cosa Nostra, ma anche di ‘‘ndrangheta e camorra, di legami occulti solo per chi non vuole vedere.

Tocca le corde, pur mantenendo un tocco lieve, quando parla di Lea Garofalo, uccisa e fatta sparire nel cuore della Brianza, patria di un’entità geografica inventata come la Padania. Tremano i polsi quando racconta della figlia, Denise Garofalo, che si toglie di dosso anche il nome paterno per essere la pelle, la carne e la lotta di sua madre; Denise e la sua giovinezza uccisa, costretta a nascondersi per salvarsi la vita, il bene più prezioso. Commuove ancora Cavalli, quando si rivolge al figlio, in una fiaba ideale, per spiegargli tutta l’umanità di un sentimento naturale come la paura per la propria incolumità e, ciononostante, resistere. Caparbiamente continuare a denunciare e a informare. Senza sconti. Anche quando si arriva all’ardire di piazzare una rivoltella carica sotto la finestra della sua abitazione e della sua vita scortata. Segnali davanti a cui non indietreggia, nonostante la paura.

E’ un lucchetto  di carne quella stretta di mano con Di Matteo alla fine dello spettacolo, il senso e il segno di una solidarietà vera e agita, un segnale tangibile che ci sono ancora “Uomini d’onore”. Onore vero, Giulio! Non quello annacquato e mistificato che ci vorrebbero propinare i mafiosi, sia quelli che mangiano cicoria, che quelli in colletto bianco  che manovrano soldi e leggi dai luoghi istituzionali più alti. Hai ragione, ci hanno derubato anche delle parole: riprendiamocele! Loro sono solo Disonorevoli. Siamo noi i veri “uomini d’onore”, quelli che lavorano con “professionalità”, cioè declinando l’etica e il sistema di valori nella propria occupazione. E’ il messaggio della nostra Costituzione e tu ce lo hai ricordato: grazie, di questo.

Abbiamo ancora bisogno di giullari per ricordarci che abbiamo la Costituzione più bella del mondo!

Serafina Ignoto

 

Puttana la cultura

E’ la vera prostituta del Parlamento. E non solo. Nei Consigli Regionali e in centinaia di Comuni grandi o piccoli. La Cultura è la puttana che tutti usano per garantirsi un aplomb responsabile e intellettuale in campagna elettorale o mentre si sta all’opposizione e che viene poi lasciata appena ci si ritrova a governare in un posto qualunque. A parole la scopano tutti ma poi in fondo non la vuole nessuno. Perché la Cultura richiede sacrificio, chiede che ci venga messa sopra una testa pensante prima di qualsiasi decisione e la Cultura ha bisogno di avere lo spessore politico di sapere giudicare al di fuori delle tonnellate, dei trend, dei risultati finanziari e del “ce lo chiede l’Europa”.

E così anche Enrico Letta (quello che prometteva che si sarebbe dimesso se avesse tagliato la Cultura) alla fine cade nella tentazione di tagliare nel campo della Cultura, dello spettacolo e del cinema. Perché sì, caro Letta, nella “cultura” le larghe intese contano meno di un chiodo storto sul palcoscenico (che almeno porta fortuna) e alla fine c’è bisogno di progettazione e coraggio. Il coraggio che continuano ad avere in questo stramaledetto Paese, i tanti giovani che escono dalle Accademie convinti che la bellezza in tutte le sue forme non può rimanere solo un aperitivo mentale da sfoggiare nei salotti buoni ma, attraverso la bellezza, c’è da guardare dove vogliamo portare il futuro.

Ma bellezza, speranza, cultura e futuro non sono parole da grosse coalizioni e responsabilissimi rimandatàri, no; stanno nella categoria che voi non pagate perché lo vorreste ammaestrato e con la giusta disperazione. E invece sta tutto nel suo essere pensante e poco condizionabile per natura.

La rinocentite e la casta

In tempo di facilonerie e pancismi un articolo equilibrato, finalmente, di Alessandro Campi per Il Messaggero:

basta-castaPersino Maurizio Crozza – che è un grande professionista, ma rimane pur sempre un comico – alla fine ha riconosciuto che «forse stiamo esagerando». Sentire i presidenti delle Camere che all’unisono, appena eletti, annunciano in diretta televisiva di essersi ridotti lo stipendio (ma perché solo del 30%? perché non rinunciarvi del tutto?), leggere di un parlamentare grillino messo sotto accusa dai suoi colleghi per aver mangiato al ristorante di Montecitorio invece che alla mensa, tutto ciò dà il segno – ha sostenuto Crozza – di «una escalation assurda».

Se continua così, ha concluso fra le risate del pubblico, fra qualche tempo qualcuno si inventerà in televisione un’inchiesta-denuncia su un onorevole sorpreso a mangiare una brioche con crema all’autogrill di Roma Sud. Uno scandalo, ovviamente, visto che i parlamentari degli altri Paesi europei le brioche le mangiano vuote. E chi la paga la crema se non i poveri contribuenti italiani?

La verità, messa in luce da uno spettacolo satirico ma che si ha evidentemente paura di sollevare a livello di dibattito pubblico, è che la campagna mediatica contro la casta e gli sprechi della politica è sfuggita di mano a coloro che, nel corso dell’ultimo decennio, l’hanno meritoriamente promossa. Ma il loro obiettivo, apprezzabile dal punto di vista dell’impegno civile, era la riforma del sistema dei partiti, non la sua paralisi o peggio la sua distruzione.

Una riforma peraltro sostenuta da argomenti che ormai oscillano sempre più tra la demagogia e l’invettiva vera e propria. Nata per denunciare i costi oggettivamente esorbitanti delle assemblee rappresentative (centrali e periferiche) e in genere della macchina burocratico-istituzionale italiana, per mettere a nudo la corruzione dei singoli e i molti privilegi, diretti e indiretti, connessi allo svolgimento di ruoli e incarichi politici, tale campagna ha tuttavia finito per gettare una sorta di discredito generalizzato, un’ombra di sospetto permanente, su chiunque occupi uno scranno o svolga una funzione di governo, avallando implicitamente l’idea che la politica sia in sé un affare sporco.

Il trionfale ingresso di Grillo e dei suoi seguaci nelle aule parlamentari è in gran parte da attribuire proprio a questo sentimento collettivo, che da anni è largamente ostile alla politica e ai suoi attori tradizionali. Sentimento che Grillo – un Savonarola nell’epoca dei social network – ha capitalizzato, accomunando destra e sinistra in una condanna senza appello.

La sua vittoria ha spinto tutte le altre forze politiche, frastornate e impaurite, ad assecondarlo a costo di sfondare il limite del grottesco. Tutto, ivi comprese le trattative politiche più riservate e delicate, deve essere reso trasparente e accessibile. Ogni atto o parola deve essere ripreso in video e sottoposto al giudizio del pubblico. Ogni spesa, ivi comprese caramelle e penne a sfera, deve essere documentata scontrino alla mano.

Non c’è competenza o carriera professionale, non c’è funzione o incarico, per quanto delicato e prestigioso, che possa giustificare uno stipendio o una pensione che offenda l’amor proprio (o stimoli l’invidia sociale) di un pensionato, una casalinga o uno studente fuori corso. Tutti – purché cittadini – possono occuparsi di tutto e svolgere qualunque mansione, in omaggio all’idea che le istituzioni funzionano in virtù della volontà e dei desideri di chi momentaneamente se ne appropria, non delle conoscenze tecniche di chi opera stabilmente al loro interno.

Ma non basta. Ogni esperienza politica pregressa, aver già ricoperto un incarico pubblico o un mandato politico, è da considerarsi con sospetto, in una versione aggiornata e un tantino ridicola del delirio rivoluzionario che nella Cambogia degli anni Ottanta spingeva i seguaci di Pol Pot a deportare nelle campagne o eliminare chi indossava un paio di occhiali o possedeva un titolo di studio, e a consegnare il potere ai fanciulli.

E guai naturalmente a farsi vedere in un ristorante del centro, meglio recarsi a piedi in Parlamento, tutti a chiedere di tagliare: stipendi, province, rimborsi, numero dei deputati e dei senatori, auto blu, scorte, appannaggi, pensioni, in una gara nella quale il qualunquismo travestito da morigeratezza sembra superato solo da un’ipocrita insipienza.

Per chi si ricorda di Ionesco e del teatro dell’assurdo, sulla scena politica di queste settimane sembra essersi realizzata la trasformazione di milioni di italiani – ivi compresi opinionisti eccellenti e politici di lungo corso – in rinoceronti impazziti che caricano senza risparmiare nulla, mossi dallo spirito di rivalsa e dal desiderio di fare tabula rasa.

La “rinocerontite”, come la chiamava il drammaturgo romeno, sembra aver colpito la maggioranza e si va diffondendo come un virus. E l’unico che abbia sin qui avuto l’ardire (e il buon senso) di opporsi a questo delirio febbrile sembra essere stato Crozza, un uomo di spettacolo ma per sua fortuna ancora politicamente pensante.

Io non voglio morire d’intenti

Schermata 2013-01-01 alle 16.53.17Non ho mai ben capito se gli intenti vadano scritti la sera dell’ultima sera dell’ultimo giorno dell’anno o la mattina del primo dell’anno successivo. Confesso che non sono mai stato bravo con i bilanci e i consuntivi: mi immalinconiscono come le anziane nel letto d’ospedale che non ricevono mai visite e fingono di farsi compagnia con i parenti degli altri, promettendosi che gli basti così. Peggio ancora con gli esami di coscienza: ho un incalcolabile difficoltà con i sensi di colpa che mi rende clinicamente ossessivo e compulsivo verso le mie mancanze.

Potrei anche sognare intanto un anno che mi liberi le spalle da blindature e scorte. Non ci avevo mai pensato in questi ultimi anni, era un desiderio nella cesta dei desideri indesiderabili e invece mi si è acceso giusto giusto ieri notte mentre i botti diventavano un soffio rauco di polvere da sparo incollacciata sul marciapiede. E’ stato un desiderio che mi ha sorpreso: un ardimento spericolato dove ho pensato a me stesso con la cura che non pensavo di riuscire più ad usare. Perché se c’è un alone che mi ha unto in questi ultimi anni è proprio questa sensazione di eterna solitudine sorvegliata a vista che mi fa sentire di troppo in un mare di troppo poco e che non sono mai riuscito a spiegare. Rileggo il pezzo di Marco di due anni fa e mi sembra che ci sia la stessa musica di sottofondo. Non so se mi spiego: anni come un recinto che disegna i cerchi del mio tronco con le cicatrici al posto delle linee della crescita. Una cosa così. Pensavo che la mia vita fosse in una parentesi di controffensiva difensiva e invece è l’imboccatura di una strada di cui non se ne vede l’orizzonte. Niente panico o letteratissimi tormenti, per carità, ma una noia usurante che ha l’abitudine come unica lenizione possibile.

C’è il lavoro: il mio lavoro con la parola e la scena. In un anno di ricerca di nettare e nido tornare in scena con Duomo d’onore è stato un dito che ha toccato corde che temevamo non suonassero più. Ho bisogno di stare sul palcoscenico per parlare con me. Semplicemente. E non dovere rendere conto a nient’altro che i fatti e la bellezza: due compagni che litigano spesso. Ho ritrovato la mia quotidianità nel freddo e il disordine dei camerini, nei “due minuti” dati prima di cominciare bussando piano alla porta, nei vestiti di scena stropicciati come le donne bellissime con le loro rughe, negli amici che ti danno il cenno che è andata bene e nelle cene mangiate troppo tardi con la fame che corre contro il sonno. Se dovessi augurare un lavoro ai miei figli gli augurerei la fortuna di lavorare con la soddisfazione che va a dormire dopo di te, come capita a me. C’è la scrittura: questo 2012 è stato un anno di scrittura a singhiozzo tra la quotidianità delle cose quotidiane che lasciano sabbia nei reni e negli ingranaggi della penna. Mi ero promesso un romanzo per provare a volare e mi hanno lasciato a terra le informative, le sentenze e le scelte: questo mio nuovo anno ha quel romanzo da recuperare tra i bagagli smarriti.

C’è la politica: che è cambiata come un figlio che si fa grande nel tempo del tuo ultimo viaggio e lo ritrovi con la sensazione di avere perso proprio quel minuto in cui ti chiedeva di essere un padre presente. Ho amici sparsi in questa confusa tela di colori diffusi eppure distanti mentre l’occasione ci chiede di essere preparati alla raccolta. Qualcuno mi chiede perché non abbia partecipato alle primarie per il parlamento, qualcuno ancora insiste nel rinfacciarmi un “ritiro” per la presidenza lombarda, qualcuno mi chiede di Luigi De Magistris e gli arancioni (dimenticando Leoluca Orlando e quel pezzo di IDV che ci sta dentro e ci ha sempre voluto fuori), qualcuno mi dice che dovrei seguire Pippo Civati e gli altri (come se fosse un trenino dopo pranzo quando si è tutti un po’ brilli intorno ai tavoli con la cravatta slacciata) e qualcuno dice che Cavalli ha un assessorato promesso da Ambrosoli: continuiamo il nostro lavoro in Lombardia, semplicemente, con la serietà dei progetti iniziati e degli impegni presi con un Formigoni in meno. Non sembra difficile capire che la politica diffusa non è confusione nello spazio ma allargamento di persone e di idee. Fare rete piuttosto che preoccuparsi di stare in un buon posto nella rete.

Poi c’è la vita: e quest’anno la vita mi ha aperto stanze meravigliose e fresche, mi ha sbattuto in faccia porte che mi hanno fatto male e insegnato l’impegno e l’etica degli affetti. Vorrei imparare ad essere coraggioso senza bisogno di baldanza, vorrei fare pace con i dolori che non ho mai voluto guardare negli occhi, vorrei essere capace di sorridere di avere un fratello trentaquattro anni dopo che lo siamo stati prima di non saperlo fino ad oggi, vorrei togliermi l’alibi della solitudine per nascondere la cura che non mi voglio prendere, vorrei trovare le parole per spiegare ai miei figli che le scelte sono i mattoni necessari per i muri portanti della dignità, vorrei ascoltare chi ho deluso, ascoltarli per ore senza avere la debolezza di interromperli per giustificarmi, vorrei convincere più gente possibile che restare umani paga, e vorrei convincermene anch’io, vorrei avere l’intelligenza di perdonare con durezza e difendermi senza la macchia della vendetta, vorrei riconoscermi e farmi riconoscere in quello che faccio, quello che dico e quello che scrivo senza lasciare spifferi per dietrologie e isterismi.

Vorrei anche avere usato il “voglio” e non il condizionale ma non voglio tornare indietro a correggere le ultime righe. Le tengo così, come un impegno più che non un intento. Per non morire d’intenti. Con intenzioni serie.

Che sia un buon 2013.

 

 

E se il teatro incassasse quanto il calcio?

Ormai sono anni che lo dico e lo scrivo: il teatro italiano non soffre di nessuna crisi di produttività ma sconta un generale disinteresse (e ignoranza, pure) da parte della politica. Per carità, la politica può permettersi di non muoversi anche perché di fronte ha un’opinione pubblica che s’indigna per il prezzo del caffè alla buvette del Parlamento e non coglie la cultura nel significato più largo: alfabetizzazione dei diritti, coltivazione della memoria, lavoratori coinvolti, indotto turistico e produttività.

Oggi su Pubblico (che ammetto mi piace ogni giorno di più) esce la notizia che il teatro italiano incassa quanto il calcio per presenze e Andrea Porcheddu puntualmente rileva la disattenzione generale:

Però, di fatto, il teatro esiste, e addirittura resiste. Per la crisi, si è registrata nel 2011 una naturale flessione ma, se pure l’offerta di spettacoli segna un -3,1%, gli ingressi hanno toccato i 22,3 milioni. Sono dati Siae per il 2011, e sembrano indicativi. Tanto per intenderci, il blasonato e sponsorizzato calcio ha avuto 22,6 milioni di ingressi.

Calcio e teatro hanno lo stesso pubblico: l’avreste mai detto? Hanno lo stesso spazio in tv e sui giornali?
E anche per quel che riguarda il settore va notato come la crisi abbia avuto effetti minimi: da un attento studio degli oltre 4 milioni di spettacoli censiti dalla Siae, si evidenzia che sono diminuite la spesa al botteghino (- 0,98%) e la spesa del pubblico (- 1,90%), ma è aumentato il volume d’affari (+2,08).

Dunque gli italiani non hanno rinunciato al teatro, al cinema, ai concerti, al ballo. Non hanno rinunciato alla cultura, portando – per quel che riguarda la prosa – almeno 185 milioni di euro al botteghino dei 17 teatri stabili pubblici e dei 14 privati, in un settore che vede più di 100 compagnie finanziate e oltre 100mila soggetti che producono atti- vità. Ma non solo: nel settore spettacolo dal vivo lavorano oltre 200mila persone (più quelli che studiano nei conservatori, nei dams, nelle accademie, che saranno gli artisti di domani), molte più che alla Fiat o Alitalia.

Purtroppo, però, di tutto questo mondo, i politici non si sono mai accorti. E, com’è noto, l’Italia – che esporta artisti, gruppi, spettacoli in tutto il mondo – finanzia con appena lo 0,1% del Pil la cultura, quando la media europea è almeno dell’1%.

El’sa K arriva da noi, a Tavazzano (LO)

Annaviva e LattOria presentano la nuova edizione di El’sa K, in scena a Tavazzano, in provincia di Lodi, venerdì 7 dicembre alle ore 21 al teatro Nebiolo.

Lo spettacolo El’sa K di Andrea Riscassi, regia di Alessia Gennari, con Sara Urban e Paola Vincenzi, è collegato all’iniziativa “Un seme di libertà” a cura dell’Associazione Amici del Nebiolo, Commissione Cultura e Annaviva.

Per info e prenotazioni scrivere a info@teatronebiolo.org oppure telefonate al numero 0371 761268 o al 331 9287538

Per scaricare la locandina di El’sa K e inviarla ai propri amici basta cliccare qui:ElsaK_Nebiolo_LOCANDINA annaviva teatro

Ci vediamo al Teatro Nebiolo di Tavazzano venerdì 7 dicembre.