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«Se mi torcono un capello, questa volta c’è la prova»: parla Nino Di Matteo

MAFIA: DI MATTEO A SIT-IN, GRAZIE PER VOSTRA PASSIONE CIVILESe l’aspettava un’esistenza difficile. Solleva lo sguardo dalle carte, esita un attimo: «Sapevo a cosa andavo incontro quando ho cominciato a fare il magistrato, il lavoro che volevo fare: il pm, non il giudice. A Palermo avevano già ucciso molti colleghi, c’era già stato Capaci, via D’Amelio, ma non credevo che si potessero ripresentare momenti così».

Mai era accaduto – neanche ai tempi del maxi processo a Cosa Nostra – che un pm non potesse andare in udienza «per motivi di sicurezza», come è capitato la settimana scorsa. Volevano portarcelo con un blindato a Milano, tipo quelli che il nostro esercito usa in scenari di guerra come l’Afghanistan e l’Irak. Troppo pericoloso spostarsi. Troppo pericoloso restare anche a Palermo per Di Matteo.

Non va più a nuotare alle 7 del mattino. Non va più alla “Favorita”, alle partite. Ogni tanto i suoi «angeli custodi» lo trascinano in qualche caserma – sempre diversa – dove si fa mezz’ora di jogging. Ha sempre dietro uomini armati.

Un confidente ha appena svelato «che è arrivato l’esplosivo » anche per lui. Era accaduto
nell’estate del 1992, quando qualcun altro aveva annunciato il tritolo per Paolo Borsellino. Tutto come vent’anni fa? «No, c’è una differenza importante: allora c’era solo il silenzio intorno a Paolo, oggi ci sono tantissimi italiani che stanno dalla nostra parte, semmai stridono certi silenzi istituzionali se confrontati alla solidarietà dei cittadini, delle persone senza nome che mi scrivono».

I silenzi dei Palazzi. Tanti. Il capo dei capi della mafia vuole ucciderlo e, al di là dei comunicati ufficiali e di circostanza – a parte il comitato di ordine pubblico e sicurezza convocato dal ministro Alfano a Palermo e le sue dichiarazioni di ieri – Roma sembra lontana, indifferente alla sorte di un magistrato stretto in una morsa, fra il delirio del capo dei Corleonesi e invisibili personaggi scivolati fra le pieghe delle indagini della trattativa.

Perfino la ministra di Grazia e Giustizia Cancellieri, l’amica dei Ligresti, ha mostrato un certo distacco. Prima ha detto che la sua amministrazione era all’oscuro di ogni piano omicida di Riina (eppure gli operativi del Dap, di solito sono anche troppo informati), poi ha «espresso vicinanza ai magistrati» mentre qualcuno in giro per l’Italia già metteva in giro le solite voci infami. Non è vero niente, quali minacce ha avuto mai Di Matteo? L’avevano fatto con Falcone, all’Addaura.

Colpiscono le parole di Nino Di Matteo nella sua intervista con Attilio Bolzoni di Repubblica. E, mi viene da dire, c’è la prova anche di chi continua a stare zitto o ad essere delatore fiancheggiatore.

In un Paese normale

Ci sarebbero tutte le orecchie appoggiate alla porta dell’Aula dove si svolgono le udienze del processo sulla “trattativa” Stato-mafia almeno per produrre un rumore tale da non costringere gli interessati politici (diretti e indiretti) a prendere una posizione o che ne so, abbozzare una smentita.

Le parole di Brusca, ad esempio:

“All’inizio degli anni ’90 –  spiega il pentito – è venuto meno il riferimento di Andreotti, l’intento di Pino Lipari era di dare vita a un movimento politico di imprenditori, un progetto che condividevo completamente. L’obiettivo era acquisire il potere politico, prima in Sicilia e poi a livello nazionale”. Di fatto si trattava di un progetto che avrebbe dovuto alzare il livello politico di Cosa Nostra, anche attraverso l’aggressione violenta nei confronti degli esponenti degli altri partiti. “A questo fine avevamo progettato di indebolire la sinistra e avevamo individuato in Carlo De Benedetti il sostenitore della sinistra. Parlando con Riina, c’era il progetto, mai concretizzato, di eliminare questo ostacolo per indebolire quella parte politica e concretizzare il progetto politico”. “Nel 1991 – specifica Brusca – c’era l’interesse a contattare Dell’Utri e Berlusconi per poter arrivare a Bettino Craxi, che ancora non era stato colpito da Mani Pulite, perché intervenisse sulla Cassazione per la sentenza del maxiprocesso”.

La sinistra sapeva
“La sinistra, a cominciare da Mancino, ma tutto il governo, in quel momento storico, sapeva quello che era avvenuto in Sicilia: gli attentati del ’93, il contatto con Riina. Sapevano tutto. Che la sinistra sapeva lo dissi a Vittorio Mangano quando lo incontrai. Gli dissi anche: ‘i servizi segreti sanno tutto ma non c’entrano niente’. Mangano comprese e con questo bagaglio di conoscenze andò da Dell’Utri”. Non è la prima volta che lo stesso Brusca nomina “la sinistra che sapeva”. Al termine della requisitoria del pm Nino Di Matteo all’udienza preliminare del processo sulla trattativa (tenutasi lo scorso 9 gennaio davanti al gup Piergiorgio Morosini,ndr) l’ex boss aveva reso dichiarazioni spontanee ben precise. “Non sono stato io il primo a dire che la Sinistra sapeva della trattativa – aveva sottolineato Brusca –, l’aveva detto già Riina in un processo e in quella sede aveva incluso nella Sinistra i comunisti”.

Quell’incontro di Natale
Nel suo racconto Brusca ricorda l’incontro di Natale del ‘92 insieme a Totò Riina e ad altri boss di primaria grandezza. In quella occasione Salvatore Biondino aveva preso una cartellina di plastica che conteneva un verbale di interrogatorio del pentito Gaspare Mutolo per poi commentare con sarcasmo le sue dichiarazioni: “Ma guarda un po’, quando un bugiardo dice la verità non gli credono”. Di fatto Mutolo aveva parlato di Nicola Mancino, con particolare riferimento all’incontro di quest’ultimo con Paolo Borsellino, successivamente sempre negato dallo stesso Mancino. In quella stessa riunione di Natale Totò Riina aveva definito Mancino il “terminale” del papello.

Perché ha parlato Totò Riina

Un’opinione e un suggerimento arriva dalla bella intervista di Andrea Purgatori a Sergio Lari, procuratore capo di Caltanissetta su HP:

Secondo voi le esternazioni di Riina sono solo uno sfogo nel chiuso di un carcere di massima sicurezza o sono state raccolte come una precisa indicazione anche all’esterno, da Cosa Nostra?
“Mah, il paradosso è stato proprio rendere pubbliche quelle frasi che Riina ha rivolto a un detenuto pugliese con cui stava passeggiando nel cortile del carcere, con una terminologia e una modalità che ci fanno chiaramente pensare che non sapesse di essere intercettato. Infatti, nei colloqui coi familiari è completamente un’altra persona e si guarda bene dal fare dichiarazioni confessorie come quelle registrate in quell’ora d’aria in cui si accredita la responsabilità delle stragi del ’92, dice come le ha fatte e si vanta di essere il numero uno in quanto a stragi commesse. Averle pubblicate ha reso noto anche al popolo di Cosa Nostra quello che pensa e farebbe Totò Riina”.

Lei che conosce bene la sua psicologia, crede davvero che mentre diceva quelle cose si sentisse al riparo da una possibile intercettazione?
“Guardi, io l’ho interrogato due volte e credo di essermi fatto un’idea molto chiara della sua personalità. Riina ha un’alta considerazione di se stesso. Ma le frasi che ha pronunciato, le sue vanterie, soprattutto con un detenuto che non fa parte dell’organizzazione, sinceramente devo dire che non rientrano nei canoni comportamentali di un Capo dei capi di Cosa Nostra”.

Quindi, è lecito porsi qualunque domanda sul perché le abbia dette.
“Esattamente. E’ lecito porsi qualunque domanda. Ma bisogna anche considerare che da vent’anni è rinchiuso in regime di carcere duro e ci risulta che consideri quel detenuto come una persona di cui si può fidare. Ci sta che dopo vent’anni anche uno come lui abbia avuto un cedimento e si sia lasciato andare come mai avrebbe fatto prima”.

Riina ordina che Di Matteo deve morire

“Di Matteo deve morire. E con lui tutti i pm della trattativa, mi stanno facendo impazzire”. Totò Riina era furibondo qualche giorno fa, dopo l’ultima udienza del processo che sta scandagliando i segreti del dialogo fra Stato e mafia. “Quelli lì devono morire, fosse l’ultima cosa che faccio”, ha urlato il capo di Cosa nostra a un compagno di carcere, e le minacce non sono sfuggite a un agente della polizia penitenziaria.

110109484-bde21fd0-1293-4c0f-82e6-ee95a0a61fcfNino Di Matteo è ancora sotto minaccia, in continuazione, mentre il processo sulla trattativa si svolge con ali politiche starnazzanti e i magistrati coinvolti rischiano di rimanere soli. Qualcuno dice che Di Matteo dovrebbe forse essere trasferito in località protetta insieme alla famiglia senza pensare che sarebbe un segnale desolante e triste per lo Stato. La solitudine istituzionale è il miglior modo per uccidere e non voglio nemmeno pensare che gli ordini di Riina ‘U Curtu possano ancora valere qualcosa e andare a segno. Forse qualcuno non se ne rende conto ma su Di Matteo si gioca la credibilità lasciata in eredità da Falcone e Borsellino. A Nino e alla sua famiglia va il mio abbraccio più largo e stretto che sia mai riuscito a fare.

Riinafobia

“Nel processo Falcone c’è un aereo nel cielo che vola mentre scoppia la bomba: questo aereo non si può trovare di chi è, e così si condanna Riina perché fa comodo. E il processo Borsellino? Lì sul monte Pellegrino c’è l’hotel con i servizi segreti, quando scoppia la bomba i servizi scompaiono, però non vengono mai citati perché si condanna Riina, perché l’Italia è combinata così”.

Le parole sono di Salvatore Riina durante il processo di Firenze, pronunciate il 10 marzo 2009, quattro anni fa che sembrano un’era geologica tenendo conto degli sviluppi giudiziari sui rapporti tra Cosa Nostra e Stato.
Sarà forse che in questi ultimi anni (ancora prima di quel 2007 e quella deposizione) abbiamo girato l’Italia per svestire Riina dal patetico vestito del boss come principe nero per mostrarlo in tutte le sue miserevoli nudità (intellettuali, prima che pelose) ma il prurito curioso che in questi giorni si leva per qualche bisbiglio del boss rinchiuso ad Opera è patetico almeno quanto lui.
Riina in questi anni ha parlato a chi doveva parlare, ha dichiarato più volte di essere stato un ingranaggio di un meccanismo molto più grande che comprendeva alte sfere dello Stato (“l’ammazzarono loro” disse riferendosi a Paolo Borsellino), agli uomini di Stato disse “guardatevi dentro anche voi” e fece intendere di essere stato “tradito” e “venduto” in occasione del suo arresto. Riina dunque è loquace da tempo, molto più di quanto torni utile a chi vorrebbe sensazionalizzare qualche sua parola per alimentarne la lontananza e il mito: gli ingredienti perfetti per mantenerlo senza luogo e senza tempo nella teca dei cattivi. Vorrebbero farci dimenticare che Riina è lo stesso che a colloquio con il figlio in carcere ebbe a dire che “Schifani era una mente” o che i comunisti erano “un problema contro lo Stato”.
Il problema non è il piccolo Totò che ciclicamente parla ma tutto intorno il Paese che non lo ascolta o, peggio ancora, che lo alleva nel pascolo dei cattivi per un buon editoriale all’anno.
Eppure senza riinafobia lo spartito sarebbe più chiaro e più popolare, facendo a meno della poesia, e Riina apparirebbe più contemporaneo e lucido di quelli che vorrebbero analizzarlo.

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Stato Mancino

Giovanni Brusca in aula accusa l’ex ministro Nicola Mancino: “Era lui il destinatario finale del papello”, il documento con le richieste di Cosa Nostra allo Stato per fermare le stragi. L’ex pentito ha deposto nell’aula bunker romana di Rebibbia davanti al gup di Palermo Piergiorgio Morosini, nell’ambito dell’udienza preliminare per la trattativa Stato-mafia, in cui è tra gli imputati. Il “papello”, che conteneva le condizioni del boss corleonese Totò Riina, sarebbe stato affidato dai vertici di Cosa nostra all’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, nell’estate del 1992 in contatto con due ufficiali del Ros, il generale Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno. Dice Brusca: “Fra le stragi Falcone e Borsellino, Riina mi disse che le nostre condizioni non erano state accettate, e che era necessario dare un altro colpetto. In questo contesto, Riina fece il nome di Mancino”. Da Repubblica

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Il compito di chi si dedica a una professione intellettuale è d’essere, per l’appunto, un vero, consapevole e intransigente ingenuo

Qui, vorrei essere il più chiaro possibile: la linea di condotta cui mi sono ispirato non è dei falsi, ma dei veri ingenui. Il compito di chi si dedica a una professione intellettuale è d’essere, per l’appunto, un vero, consapevole e intransigente ingenuo (con l’unica riserva che dirò). Non è sempre facile. Talora lo è di più tacere, tergiversare, adeguarsi. È una questione d’integrità professionale, almeno così come la vedo. Vogliamo forse che “per opportunità” si sostengano, con parole o con silenzio, cose diverse da quelle che si p ensan o vere, opportune, giuste? Dove andrebbe a finire la fiducia?

Gustavo Zagrebelsky interviene con un editoriale in prima pagina su Repubblica di oggi sulla trattativa Stato-mafia rispondendo a Scalfari e entra (finalmente, viene da dire, in questo momento così populista anche e soprattutto nello sfrenato anti populismo) su attività intellettuale e politica: Forse che l’attività intellettuale non deve anch’essa essere responsabile? Certo che sì. Ma responsabile verso chi o che cosa? Verso la sua natura: una natura diversa da quella politica. Forse che l’attività intellettuale non ha anch’essa una propria valenza politica? Certo che sì, ed elevatissima, ma non nel senso di chi opera nella politica, intesa come la sfera dei partiti, della competizione per il potere, della conquista del consenso: da noi, c’è difficoltà ad ammettere che non tutto è politica in questo senso. Esiste invece una funzione diversa, “ingenua”, non legata al potere e al consenso – la cui esistenza è essenziale alla vita libera della pólis. Sarebbe una deviazione, se l’attività intellettuale non tenesse fede a questa sua caratteristica, anzi non ne facesse il suo vanto. Solo così, c’è la sua utilità, la sua funzione civile. Chi ragiona diversamente, che idea ha del rapporto politica-cultura?

La banalità politica sta in questa ostinazione nel credere che ci sia sempre un recondito motivo per cui venga presa una posizione. Come se, per una distorsione storica, sia impossibile credere che possa bastare per una decisione o una posizione (e ancora di più una contrapposizione) il bisogno di essere onesti con il proprio pensiero e il proprio sentire.

Leggevo i miei scritti politici (fa un po’ ridere di questi tempi chiamarli così) di questo ultimo anno e sono rimasto infastidito dalle innumerevoli volte in cui ho usato l’aggettivo intellettualmente onesto come una difesa compulsiva, un mantra nella descrizione del proprio modo.

E dopo avere letto Zagrebelsky oggi verrebbe voglia di ascoltare politici che abbiano l’ardire di dire: intellettuale e onesto. Come quei tempi in cui ci si credeva in tanti, con opinioni diverse, alla politica.

 

Tiro Mancino: sfasciare Palermo

«A settembre a Palermo saranno azzerati anche tutti i vertici investigativi dei carabinieri. Verranno trasferiti in 4 e sostituiti con ufficiali senza alcuna esperienza in fatto di mafia. Perderemo le memorie storiche dell’Arma e questo contribuirà a renderci ancora più soli. In 34 anni di magistratura non ho mai visto una cosa del genere». Lo dice Vittorio Teresi, procuratore aggiunto a Palermo.

Lo spread dell’antimafia più preoccupante degli ultimi anni. Si direbbe.

Quello strano imbarazzo di Monti sulle intercettazioni

Lo scrive Andrea Fabozzi su Il Manifesto. Con parole centrate e misurate:

Mettendosi al fianco del Quirinale, invece, Monti annulla anche formalmente quella sana distanza tra il Colle e palazzo Chigi che non è un fatto formale ma di sostanziale garanzia. Il presidente della Repubblica, com’è noto, è irresponsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni: lo prevede la Costituzione per consolidarlo nella funzione di garanzia. Tant’è vero che gli atti del presidente per essere validi devono essere controfirmati dal governo, il che comporta che palazzo Chigi non sia una dependance del Quirinale ma debba mantenere la sua autonomia di giudizio e una certa distanza. Anche nel caso di questo governo «del presidente».
Particolarmente imprudente, poi, è la decisione di schierare l’esecutivo in pendenza del giudizio sul conflitto di attribuzione che Giorgio Napolitano ha proposto alla Consulta contro i magistrati di Palermo. Giudizio assai delicato, come ha spiegato ieri l’ex presidente della Corte Gustavo Zagrebelsky che ha invitato il capo dello stato a ritirare il suo ricorso. Zagrebelsky lo ha scritto su Repubblica con tutta la prudenza del caso, dicendosi certo che il «discredito, l’isolamento morale e l’intimidazione dei magistrati» che indagano sulla trattativa stato-mafia è una conseguenza lontana dalle intenzioni del capo dello stato. E tuttavia l’ha scritto, sul quotidiano che in questi mesi è stato il più vicino al presidente Napolitano, grazie soprattutto agli articoli del fondatore Eugenio Scalfari. Monti invece non ha avuto nessuna prudenza.