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“Trattativa? Ma quale Trattativa? Io ho visto solo la convivenza tra politica, Stato e mafia”: parla il pentito Francesco Onorato.

(ne scrive Giuseppe Pipitone per Il Fatto Quotidiano)

L’omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa? “Lo hanno fatto i signori Craxi e Andreotti, che si sentivano il fiato addosso”. Claudio Martelli? “Cosa Nostra lo finanziò con 200 milioni per farlo diventare Guardasigilli”. Salvo Lima? “Il primo nome nella lista dei politici da eliminare, insieme a Giulio Andreotti, Calogero Mannino e Carlo Vizzini”. Il gruppo di fuoco della commissione di Cosa Nostra? “Farne parte era come giocare nella Nazionale di calcio”.

È un fiume in piena Francesco Onorato, collaboratore di giustizia e oggi testimone del processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, in corso a Palermo all’aula bunker del carcere Ucciardone. Il boss aveva cercato di rinviare la sua testimonianza “perché – ha spiegato – non mi sento pronto moralmente e psicologicamente. A causa di un infortunio a mia moglie”. Pochi attimi dopo, però, ci ha ripensato aprendo a giudici e avvocati il libro dei ricordi tra morti ammazzati e rapporti a cavallo tra mafia e istituzioni. Una trentina di omicidi sul groppone, un passato da killer micidiale agli ordini di Saro Riccobono prima, e di Totò Riina poi, Onorato ha spiegato che “fare parte del gruppo di fuoco della Commissione di Cosa nostra era come fare parte della Nazionale di calcio: ci entravano persone con capacità particolari”.

Il 12 marzo del 1992 è suo l’indice che a Mondello preme il grilletto in via Danae: nel mirino c’è la chioma bianca dell’europarlamentare democristiano Salvo Lima, primo politico da eliminare dopo le promesse fatte a Cosa Nostra, e poi non mantenute, sull’annullamento delle sentenze del Maxi processo, divenuto definitivo poche settimane prima. “Non ho fatto l’omicidio Lima perché era nel mio territorio – ha raccontato il pentito collegato in videoconferenza – ma era fuori dal mio territorio, dovevo partecipare anche all’attentato poi fallito del commissario di Polizia Rino Germanà, ma poi ci andò Leoluca Bagarella”.

L’omicidio di Salvo Lima è il primo atto di guerra che Riina rivolge allo Stato, primo pezzo della lunga catena che poi porterà le istituzioni a trattare con la piovra. “I primi politici da eliminare – ha raccontato Onorato – erano Salvo Lima e Giulio Andreotti. Ma c’erano anche Calogero Mannino, Vizzini, i cugini Salvo, Claudio Martelli, Ferruzzi e Gardini”. Secondo il collaboratore di giustizia lo stesso Martelli in passato avrebbe avuto contatti con le cosche. “Io da reggente della famiglia di Partanna Mondello, tra il 1987 e il 1988 presi 200 milioni per finanziare Claudio Martelli perché si diceva che faceva uscire i mafiosi dal carcere: l’abbiamo fatto diventare ministro della Giustizia”. Ed è proprio sui rapporti tra Cosa Nostra e lo Stato in tempi di stragi che Onorato ha concentrato la sua testimonianza. “Perché Riina accusa sempre lo Stato? – ha spiegato il collaboratore – Perché è l’unico che sta pagando il conto, mentre lo Stato non sta pagando niente, per questo motivo Riina tira in ballo sempre lo Stato. Ha ragione ad accusare lo Stato, da Violante ad altri. È lo Stato che manovra, prima ci hanno fatto ammazzare Dalla Chiesa i signori Craxi e Andreotti che si sentivano il fiato addosso. Perché Dalla Chiesa non dava fastidio a Cosa Nostra Poi nel momento in cui l’opinione pubblica è scesa in piazza i politici si sono andati a nascondere. Per questo Riina ha ragione ad accusare lo Stato”. Paradigmatica anche la considerazione che l’ex killer dei corleonesi ha fatto sull’oggetto principale del processo. “Trattativa? Ma quale Trattativa? Io ho visto solo la convivenza tra politica, Stato e mafia”.

Il giudice demolisce la credibilità di Ciancimino

L’articolo di Aaron Pettinari (qui):

“Nei confronti di Mannino gli elementi indiziari per affermare che vi fu da parte sua il genere di interferenza di cui è accusato risultano non adeguati”. E’ così che il gup Marina Petruzzella, nelle motivazioni della sentenza con cui, il 4 novembre del 2015, ha assolto dall’accusa di minaccia a Corpo politico dello Stato l’ex ministro Dc Calogero Mannino. Quest’ultimo, a differenza degli altri coimputati, aveva scelto il rito abbreviato e nel documento di oltre 500 pagine, depositato quest’oggi, il giudice parla di “prove inadeguate”, di “suggestiva circolarità probatoria”, di “interpretazioni indimostrate”.
Manca dunque la prova che il politico sarebbe stato il motore della cosiddetta trattativa tra lo Stato e la mafia.
I magistrati (il procuratore aggiunto Vittorio Teresi ed i sostituti Nino Di MatteoRoberto Tartaglia e Francesco Del Beneavevano chiesto una condanna a 9 anni. Ma le prove portate nei suoi confronti non sono sufficienti.
“Non c’è qualcosa, come delle fonti orali o documentali che dimostrino – scrive il giudice – il collegamento tra l’iniziativa dei Ros di interloquire con Vito Ciancimino e l’evento ipotizzato dall’accusa di un accordo tra Mannino e Cosa nostra, per salvarsi e attuare un programma politico favorevole a una trattativa, volta a condizionare, partecipando alla volontà ricattatoria stagista della mafia, le scelte del Governo”. Dunque, se una Trattativa tra pezzi dello Stato e la mafia siciliana venne aperta nel biennio stragista, l’ex ministro Dc non ne è colpevole per il giudice di primo grado.

Duri giudizi su Ciancimino
Durissime le parole della Petruzzella nei confronti di Massimo Ciancimino. “L’analisi integrale delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino ne ha rivelato l’assenza di coerenza e – scrive il giudice – ha reso palese la strumentalità del comportamento processuale, la gravità degli artifici adoperati per rendere credibili le sue sensazionali rivelazioni e giustificare le sue molteplici contraddizioni e per tenere sulla corda i pubblici ministeri col postergare la promessa di consegnar loro il papello, carpirne così la considerazione e mantenere sempre alta su di sé l’attenzione generale, accompagnato nel suo luminoso cammino dalla stampa e dal potente mezzo televisivo, stuzzicati con altrettanta astuzia”.
Secondo il Gup il papello, ovvero l’elenco con le richieste che Totò Riina avrebbe fatto allo Stato per fare cessare le stragi mafiose, è “frutto di una grossolana manipolazione” del figlio di don Vito.
Ciancimino jr “lo ha fornito solo in fotocopia senza dare di ciò alcuna motivazione plausibile, posto che la circostanza che si trovasse in cassaforte all’estero non avrebbe impedito la consegna dell’originale; – scrive il gup – ed è evidente che le fotocopie, con l’uso di carte e inchiostri datati, impediscano l’accertamento delle epoche degli originali, oggetto della copiatura; non ha voluto rivelare chi gli avesse spedito il papello dall’estero, come da lui sostenuto, né perché non potesse dirlo ai pm e ha detto di non conoscerne l’autore”. E poi ancora: “Non si può non sottolineare come il castello accusatorio si sia fondato su documenti prodotti da Massimo Ciancimino in semplice fotocopia e non in originale”.

“In particolare – prosegue il gup – sul finire del 2008 creava abilmente nei pm, che lo interrogavano sulla trattativa tra il padre e i due carabinieri del Ros, l’aspettativa del papello, che forniva solo in fotocopia sul finire del 2009, dopo averli riempiti di documenti del padre, selezionati a sua scelta e consegnati nei tempi da lui decisi, e di informazioni modulate a seconda delle evoluzioni del suo racconto e delle contraddizioni in cui andava incespicando. Non può mancarsi di notare ancora una volta: che l’autore del papello consegnato dal Ciancimino in copia ai Pm non è stato identificato”.

Inoltre la Petruzzella evidenzia anche punti critici come le dichiarazioni sul misterioso signor Franco, l’agente dei Servizi che avrebbe avuto un ruolo determinante nelle vicende della trattativa, e non solo. Secondo il giudice Ciancimino è “reo” di non aver fornito “alcun dato autentico e utile ad identificarlo”.Quindi definisce “defatiganti, dispendiose e del tutto inutili” le ricerche investigative per identificare lo 007.
Tra i documenti che vengono ricordati vi è anche quello “falso” predisposto da Ciancimino “ai danni di Gianni De Gennaro, all’epoca capo della polizia, ed anche la vicenda dei candelotti di dinamite, fatti rinvenire ai Pm nel giardino della sua abitazione a Palermo, nell’aprile del 2011, “per la cui detenzione ha già ricevuto una condanna”.

Scrive ancora il giudice che “allo stato degli atti appare improbabile, da un punto di vista processuale, che applica i canoni della gravità e della precisione indiziaria degli elementi di fatto su cui fondare un ragionamento probatorio, collegare il fatto che Mannino si raccomandasse con i Ros alla interlocuzione tra i Ros e Vito Ciancimino e alla scelta di sostituire Scotti col manniniano Nicola Mancino e con le dimissioni successive di Martelli“. Tuttavia “è ragionevole ritenere che i descritti comportanti di Manninocon Guazzelli e con i Ros siano stati determinati dalla volontà di trovare una protezione speciale, approfittando certamente della sua pregressa conoscenza con Subranni e dei privilegi che gli derivavano dal suo ruolo di potente politico”. Nelle sue conclusioni il giudice parla di “elementi  di sospetto, che non hanno quindi una grave e autonoma natura indiziaria” e che “se considerati come se possedessero tali connotati possono prestarsi ad interpretazioni facilmente ribaltabili e tutte analogamente plausibili e in fin dei conti prive di specifico valore dimostrativo processuale”.
Subito dopo il verdetto del processo, nel novembre 2015, i pm di Palermo avevano fatto sapere che avrebbero valutato i motivi del giudice per decidere se impugnare la sentenza.
Valutazioni che sono già iniziate.

E’ arrivato il tritolo

Schermata 2014-11-12 alle 23.28.55Ancora allarmi per il magistrato Nino Di Matteo, pubblico ministero del processo trattativa Stato-mafia. Secondo quanto scrive Repubblica, una fonte considerata “molto attendibile” dagli inquirenti ha rivelato che il tritolo per organizzare un attentato a Di Matteo si troverebbe già a Palermo, situato in diversi punti. Raccolto da diversi mesi, ormai, dalle famiglie mafiose palermitane. Le dichiarazioni della fonte in questione sono però poste sotto un rigido segreto investigativo.
È stato Leonardo Agueci, procuratore facente funzioni a Palermo, a comunicare l’emergenza sicurezza al Viminale. Nella mattinata di ieri ha avuto luogo un vertice con la presenza dei magistrati, delle forze dell’ordine, dei Gis dei carabinieri e dei Nocs della polizia, per potenziare le condizioni di sicurezza del pubblico ministero di Palermo.

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La pavidità a sinistra rivenduta come garantismo

Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza pubblicano un articolo per L’Ora Quotidiano che coglie in pieno il vento del “neogarantismo” del PD che, a partire dal processo sulla trattativa, sembra passare troppo inosservato. Da leggere tutto, prima di giudicare:

Galeotto fu il pamphlet scritto dal giurista Giovanni Fiandaca, e pubblicato sul Foglio di Giuliano Ferrara l’1 giugno dell’anno scorso con il titolo “Il processo sulla trattativa Stato-mafia è una boiata pazzesca”, che sostiene una tesi machiavellica e contorta: non solo la trattativa tra boss e istituzioni ci fu (e fin qui siamo tutti d’accordo), ma fu un’iniziativa legittima e addirittura doverosa, trattandosi dello strumento attraverso il quale lo Stato cercò di assolvere al suo obbligo fondamentale, cioè preservare la vita dei cittadini. Se davanti ai cadaveri ancora caldi di Falcone e Borsellino, lo Stato trattò con la mafia – è la tesi del libello – ebbe ragione di farlo allo scopo di salvaguardare l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale. “Basta con l’antimafia gridata – implora Fiandaca – oggi la lotta alla mafia va affrontata su basi legislative innovative, serie, che chiudano una volta e per tutte la stagione degli eccessi di contrapposizione”.

Da allora, nulla è più come prima. Le parole del giurista hanno avuto l’effetto di uno squillo di tromba che ha chiamato a raccolta quanti, in Sicilia ma soprattutto nelle alte sfere istituzionali, vedono il processo palermitano sulla trattativa Stato-mafia come il fumo negli occhi. Primo fra tutti Giorgio Napolitano. E difatti a Palermo, per discutere il pamphlet giustificazionista, si catapulta il suo più fido luogotenente, Emanuele Macaluso, totem vivente dell’area migliorista siciliana, ma soprattutto l’uomo che il generale Mario Redditi (ex capo di gabinetto al Sisde) intercettato al telefono con Mario Mori definì “il ventriloquo” del capo dello Stato. Non è passato che un mese dall’articolo del Foglio. Sotto le capriate di Palazzo Steri, sede della storica Inquisizione siciliana, Nenè Macaluso, il vecchio senatore comunista, battezza il trattato anti-pm di Fiandaca come la bibbia del nuovo garantismo di sinistra, infrangendo pubblicamente un tabù che da oltre vent’anni gravava sulle spalle del Pd, o almeno di quel pezzo di partito che ancora in qualche modo si sentiva erede del Pci di Pio La Torre: l’impossibilità di criticare le scelte della magistratura antimafia, senza incorrere nel rischio di essere immediatamente assimilati alla destra e alle tesi del berlusconismo. Dopo lo scontro scatenato da Napolitano con il conflitto di attribuzione nei confronti dei pm di Palermo, un’autentica manna per chi ha a cuore l’estraneità del capo dello Stato all’affaire che mette sotto accusa lo Stato.

L’alibi giuridico allo scontro politico

A sinistra, immediatamente, lo squillo è diventato fanfara. Allo Steri di Palermo si raccoglie un pezzo della cosiddetta intellighenzia siciliana: oltre all’autore del saggio sponsorizzato da Giuliano Ferrara, sul tavolo dei relatori c’è l’ex pm di Palermo Giuseppe Di Lello, componente dello “storico” pool antimafia di Giovanni Falcone, il segretario del Circolo socialista Alessio Campione (ex aderente alla sinistra del Psi di Lombardi e Signorile) e, nei panni del “portatore di dissenso” (ma non troppo) il giovane ordinario di diritto privato Luca Nivarra, che si professa orgogliosamente “comunista” e “marxista”. In platea, un occhiuto melting pot di accademici, studiosi, pezzi del fu Psi, metastasi del fu Pci, giornalisti, ex miglioristi migrati in fondazioni, ex socialisti riciclati in associazioni, circoli ed ex ideologi di professione ormai disoccupati. Risultato? In un festival di dotte citazioni filosofico-giuridiche, tra scrosci di applausi e urla di approvazione, il parterre dello Steri in tre ore fa a pezzi il processo di Palermo. Macaluso non perde occasione per attaccare i pm: “La questione è nel protagonismo: un processo a Mori pone chi lo affronta in una certa posizione particolare, quella di magistrato integerrimo. E una parte dei media concorre alla promozione di un eroe che osa sfidare i poteri. Penso che Mori è vittima di questa questione”. Persino Di Lello, ex senatore di Rc, icona della sinistra colta, fa sfoggio di scetticismo: “Quale sarebbe il filo che tiene insieme stragi e trattativa, il 41 bis, stabilizzato dopo pochi mesi dalla sua sospensione per i detenuti minori? Sarebbero Conso e Mancino i terminali della trattativa?”. E giù applausi.

Perchè questa voglia di dire addio, e per sempre, alla stagione del rigore antimafia, tacciato di “giustizialismo”, proprio mentre nell’aula bunker lo Stato tenta di processare se stesso? Si può parlare di un “laboratorio Palermo” dove l’accademia costruisce un alibi giuridico alla guerra (tutta politica) contro i pm di Palermo? E si può ipotizzare che Macaluso, che trascorre le vacanze con il capo dello Stato, sia il motore di questa operazione che passa per i media? E l’ambizioso Fiandacacosa c’entra? E l’insospettabile Di Lello?

Macaluso come D’Ambrosio e Mancino

Domande retoriche, ovviamente. Macaluso giura e spergiura che il suo garantismo è genuino e che le sue critiche alla procura di Palermo non hanno nulla a che vedere con Napolitano e con lo scontro presidenziale con i pm della trattativa. Anche se, sfogliando gli archivi, si scopre che il “ventriloquo” del Quirinale sostiene le stesse cose del trio Napolitano-Mancino-D’Ambrosio, proprio nei giorni delle telefonate top secret dell’ex ministro dell’Interno al centralino del Colle. Le date parlano chiaro: il 25 febbraio, il 5 marzo e il 7 marzo 2012, Mancino chiama D’Ambrosio. Si cerca il modo di “scippare” l’indagine ai pm di Palermo con la scusa di affidarne il coordinamento al Procuratore nazionale antimafia. D’Ambrosio: “Intervenire su Grasso”, con cui Mancino vorrebbe un incontro “in maniera riservatissima, che nessuno sappia niente”. D’Ambrosio: “Lo vedo domani”. L’8 marzo, mentre il Quirinale ipotizza questa exit strategy per Mancino, Macaluso sul defunto Riformista critica il “processo a Palermo che vede imputati il generale Mori e il colonnello De Donno” (ma gli imputati sono Mori e Obinu) e suggerisce: “Con l’aiuto della Procura nazionale antimafia occorre arrivare rapidamente a una conclusione”. Lo stesso giorno, dichiara al Corriere: “C’è una guerriglia tra poteri dello Stato, apparati investigativi e pezzi di magistratura. Guerriglia che continua e che fa delle vittime tra le quali non ho alcuna difficoltà a inserire Mori. La procura nazionale antimafia, guidata da un magistrato di valore come Grasso, dovrebbe prendere in mano questa situazione. Qui si chiamano in causa Scalfaro, Amato, Martelli, Mancino e ora anche Mannino, mentre a Palermo sono sotto processo Mori e De Donno (sono sempre Mori e Obinu)… Ci vorrebbe un punto di chiarezza e solo la procura nazionale può farlo”. Non pago di tanto zelo, il 15 marzo Macaluso si fa intervistare pure dalla rivistina ciellina Tempi: “Non è possibile che un paese viva chiedendosi per anni se c’è stata o no una trattativa, se Borsellino è morto per questo o no… Chiederei che si mettesse un punto. La procura nazionale antimafia, che ha tutti gli strumenti necessari per approfondire, perché non interviene per fare un po’ di chiarezza?… Mancino ha ribadito… che lui non sapeva nulla su una trattativa…”. Sono più o meno le stesse parole che D’Ambrosio, per conto di Napolitano, spendeva al telefono con Mancino, cercando di rassicurarlo. Solo un caso?

Ma questo è solo il prologo. Il successo del pamphlet negli ambienti della sinistra che conta ha gonfiato le vele di Fiandaca che, nella primavera di quest’anno, ci riprova. E pubblica, per i tipi di Laterza, un volume scritto a quattro mani con lo storico Salvatore Lupo, dal titolo: “La mafia non ha vinto”. È la conferma, stavolta arricchita da una prospettiva storica, della sua critica radicale al processo sulla trattativa Stato-mafia. Anche stavolta la presentazione a Palermo viene allestita a Palazzo Steri: a organizzarla è l’ex dirigente del Pci Vito Lo Monaco, presidente del centro Pio La Torre e parte civile nel processo sulla trattativa. Fiandaca ha ormai acquisito i toni del predicatore che non tollera dissensi. A Lo Monaco che, dopo aver auspicato un “dibattito sereno”, aveva osato: “Il libro ha grandi pregi, ma io credo che la discussione non possa partire soltanto dalla memoria dei pm, una quindicina di pagine in tutto, quando il processo è composto da decine di faldoni e migliaia di pagine”, il giurista replica furioso davanti a una sala attonita: “Lo Monaco, ma che obiezione è? Che senso ha? Non c’è bisogno di leggere migliaia di pagine di tanti faldoni, perchè nei faldoni ci sono tantissimi particolari e fatterelli che non assumono alcun rilievo ai fini della trattazione critica dei nodi di fondo posti dal processo sulla trattativa”. Poi si scaglia apertamente contro chi lo definisce un “giustificazionista”: “Siamo davanti a termini di tipo stalinista e fascista, perchè servono solo a screditare l’avversario”. Così predicando, il professore salta di presentazione in presentazione, vestendo ormai i panni dell’arguto polemista. Si avvicinano, intanto, le elezioni Europee.

Il crollo di un tabù

All’inizio di aprile, Macaluso torna a Palermo per festeggiare i suoi 90 anni e Massimo Accolla, ex giovane dell’area migliorista, raccoglie alla Gam (Galleria d’arte moderna) un plotone di vecchi amici ed esponenti della sinistra siciliana per rendere omaggio al grande vecchio della destra Pci. Anche stavolta il pubblico è d’eccezione: da Luigi Colajanni, europarlamentare all’inizio degli anni ’90, all’ex leader di Rc Francesco Forgione, presidente della fondazione Federico II, dal cuperliano Antonello Cracolici al deputato regionale Fabrizio Ferrandelli, dall’ex governatore della Regione Angelo Capodicasa al renziano Davide Faraone, dal sindacalista della Cgil Italo Tripi, fino al segretario dei democratici siciliani, Fausto Raciti. Non è una corrente, né un’area politica. Non è uno scampolo dell’ala migliorista del Pci. Non si può neppure definire una sorta di “cerchio magico” che fa capo a Napolitano, anche se al centro della corte brilla lo zio Nenè, il pupillo dell’inquilino del Colle. Che sia allora lo zoccolo duro del nuovo garantismo “rosso”? Anime e pezzi di quella sinistra che un tempo, nella Sicilia delle stragi e dei depistaggi, faceva dell’antimafia giudiziaria una bandiera di rigore e di giustizia. E oggi non nasconde più il fastidio per quello che Macaluso definisce con disprezzo il “populismo giudiziario”, l’ossessione delle manette. C’è la torta, lo spumante, ci sono le candeline. Baci, applausi, letture. Si celebra un compleanno, una stagione che fu, una generazione di ricordi; per una fetta della sinistra è il trionfo postumo di un’idea di riformismo garantista che finalmente ha l’avallo della massima carica istituzionale.

Ma c’è qualcosa di nuovo oggi nell’aria. Si fa vivo, alla festa, l’immancabile Fiandaca, l’ex maestro di Ingroia che ormai nei salotti di Palermo si atteggia ad anti-Ingroia. Di questo neo-garantismo di sinistra è un improvvisato ma utile cantore: a Roma c’è chi se n’è accorto da tempo. Pochi giorni dopo aver fatto gli auguri al “ventriloquo” di Napolitano, attorno alla torta confezionata a Palermo, Fiandaca viene promosso da Renzi in persona al ruolo di candidato del Pd alle Europee per la Sicilia. Ed è a questo punto che l’Unità saluta, con fervore, la fine di un tabù: “È molto più di una candidatura – scrive Claudia Fusani il 15 aprile – È la fine di un tabù lungo vent’anni. Un tabù che purtroppo ha pesato tantissimo nei rapporti tra politica e magistratura e in parte responsabile di certi innegabili ritardi nella riforma della giustizia. La candidatura del professor Fiandaca, uno dei massimi esperti in Italia di diritto penale, nella circoscrizione Isole alle Europee nelle liste del Pd ha un significato che va molto al di là del prestigio e del peso del nome. Fiandaca, infatti, ha avuto il coraggio, e il merito di criticare l’impostazione del processo sulla trattativa tra Stato e mafia in corso a Palermo’’.

Coraggioso Fiandaca. Che però rastrella solo 76 mila voti e alle elezioni del 24 e 25 maggio viene solennemente trombato, incarnando l’ennesimo flop isolano dei democratici che piazzano invece a Strasburgo Caterina Chinnici, magistrato e figlia di magistrato (suo padre, Rocco Chinnici, è il consigliere istruttore di Palermo che fu massacrato dalla mafia con un’autobomba nell’83), capace di tesaurizzare un bottino di 133 mila voti. C’è tra gli elettori Pd la voglia di premiare ancora una volta un simbolo dell’antimafia? È uno schiaffo agli anatemi anti-pm del giurista che sbeffeggia la trattativa Stato-mafia? Contestato dai suoi studenti, snobbato dai siciliani, il professor Fiandacatorna a fare l’anti-Ingroia nel chiuso della sua aula universitaria e sparisce di scena. Come da copione, il Pd glissa sulla figuraccia inflitta all’accademico polemista.

La riforma della giustizia

Ma oggi il fantasma “fiandachiano” di un sinistra iconoclasta che divora i propri eroi antimafia aleggia nell’aula bunker e incombe sul processo della Trattativa. Uscendo dalle pagine del libro del giurista, il garantismo di sinistra è diventato ormai un indirizzo istituzionale che va da Renzi (suo l’imprimatur alla candidatura di Fiandaca) al ministro della Giustizia Andrea Orlando (migliorista in età giovanile, ha sponsorizzato anche lui il giurista palermitano), che trova concorde il presidente del Senato Pietro Grasso (“Quelli lì, avrebbe detto a Mancino riferendosi ai pm di Palermo, “danno solo fastidio”) e il candidato alla Consulta Luciano Violante (“originale” per lui l’idea di citare il capo dello Stato come testimone al processo sulla trattativa).

Ora, dopo la conferma della convocazione di Napolitano davanti alla Corte d’assise di Palermo, la nuova linea di Fiandaca e Macaluso è pronta a farsi agenda politica. La guerra con le toghe è a 360 gradi. E Re Giorgio ha già annunciato l’imminente riforma della giustizia. La novità? Manco a dirlo, sta nella svolta di Renzi: il Pd non più come partito fiancheggiatore di giudici e Procure, ma “partito che laicamente affronta il tema della giustizia” declinandola sotto il segno del garantismo. “Noi siamo garantisti sul serio – promette il premier – alla magistratura chiediamo di rispettare ogni norma a tutela dell’imputato”.

Al Quirinale due chiacchere con i boss

7 OTT – La Procura di Palermo, in una memoria depositata alla Corte d’Assise, ha dato parere favorevole alla partecipazione dei boss Toto’ Riina e Leoluca Bagarella e dell’ex ministro Nicola mancino alla deposizione, al Quirinale, del Capo dello Stato al processo sulla trattativa Stato-Mafia.
I capimafia, qualora la Corte accogliesse la loro istanza di assistere alla deposizione, parteciperebbero in videoconferenza dal carcere, mentre Mancino potrebbe assistere dal Quirinale. Secondo i pm, infatti, la possibilita’ di partecipare all’udienza, seppure con le forme della videoconferenza, sarebbe prevista dalla norma richiamata dalla Corte d’Assise per lo svolgimento dell’udienza al Quirinale, cioe’ l’articolo che disciplina l’audizione del teste sentito a domicilio. Inoltre – per la Procura – alla luce dei principi generali che consentono all’imputato di partecipare al processo, un’eventuale esclusione, a fronte di una precisa istanza, potrebbe determinare una nullita’ processuale. Da qui il parere favorevole della Procura. (ANSA).

Io pagherei per sapere le domande che potrebbe porre l’avvocato di Riina, ad esempio.

Il Grande Suggeritore dovrà deporre

E quindi niente: alla fine il Capo dello Stato Giorgio Napolitano dovrà deporre al processo Stato-mafia, lasciandoci il dubbio che qualche altro Presidente l’avrebbe fatto “sua sponte” e decisamente più spedito. E dovrà spiegare alla Corte (ma credo anche a noi) come è successo che così troppa gente così troppo in alto sia sia preoccupata al limite del lecito e sicuramente oltre la ragionevolezza per rassicurare il senatore Mancino e altri.

A proposito: sulla “trattativa” ho avuto il piacere di scrivere un breve pezzo teatrale per la prossima uscita de I Quaderni de l’ORA. Vi tengo informati.

Camorra, Stato e quell’altra trattativa

La fonte è il Procuratore Nazionale Antimafia Franco Roberti:

«In quegli anni (era il 1981, ndr) un coraggioso giudice istruttore, Carlo Alemi, nello svolgere le indagini venne posto in un assoluto e grave isolamento, addirittura con un ambiente ostile come quello della Procura dell’epoca, che gli remava contro». «Quando, dopo anni, pentiti del calibro di Pasquale Galasso e Carmine Alfieri conffrmarono che a trattare con Raffaele Cutolo e con le Brigate Rosse furono apparati dei servizi segreti – ha proseguito Roberti – noi pm recuperammo l’istruttoria e la sentenza-ordinanza scritta da Alemi, avendo totale conferma di quanto egli era riuscito ad accertare. E questa fu la prima vera “trattativa” tra Stato e mafia. La verità è che già in quell’occasione si volle stendere un velo di omertà con la complicità di apparati dello Stato. E fu necessario allora un intervento del presidente Pertini perché non si realizzasse un accordo scellerato con le Br e si riuscisse a spedire Cutolo all’Asinara. Niente, nella storia del nostro Paese è slegato: ma da allora a oggi se grandi passi sono stati compiuti lo si deve anche al sacrificio di magistrati come Livatino, Falcone e Borsellino».

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RadioMafiopoli 17a Puntata: “La mafia è una merda e uccide i bambini. E’ ora di gridarlo forte”

Schermata-2013-06-01-alle-06.39.58La nuova puntata di RadioMafiopoli. Questa settimana abbiamo deciso di provare a mettere in fila le tante cose che sono successe e passata abbastanza sottovoce: dalle minacce di Riina a Nino Di Matteo fino alle rivelazioni durante il processo sulla trattativa Stato-Mafia e la mattanza dei bambini. Per motivi di spazio abbiamo deciso di riprendere la rubrica “Affari di famiglia” dalla prossima settimana. Chiunque voglia discutere, criticare o collaborare noi siamo qui.

I nomi e i cognomi che ci mancano alla faccia di Di Matteo

E insomma alla fine il CSM non ha trovato il tempo per esprimere la propria solidarietà a Nino Di Matteo e colleghi che si devono accontentare della manifestazione “civile” e della serata al Teatro Biondo.
Alla fine sembra impossibile riuscire a pronunciare nomi e cognomi senza rinchiudersi nella generale “solidarietà ai magistrati che lottano contro la criminalità organizzata” come se pronunciare uno dei cognomi che si danno da fare sulla trattativa Stato-mafia sia un peccato mortale. Abbiamo una classe dirigente che è diligente nel rimanere nel brodo della mediocrità senza esporsi troppo, abbiamo uno stato anagettivo che delega la vicinanza ai cittadini rinunciando alla rappresentanza della solidarietà e abbiamo un Presidente della Repubblica che vive il processo che prova a raccontare la nascita della seconda Repubblica come un poppante intimorito. Questa sera Nino Di Matteo ha voluto alzarsi dalla seconda fila della platea che ascoltava il mio spettacolo al Teatro Biondo di Palermo per stringermi la mano. Gli ho promesso che se proprio dobbiamo essere soli saremo in tantissimi, ad essere soli. Insieme.