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TURCHIA

Siria, Turchia, Trump, Putin: uno scenario possibile

(l’articolo di Gianandrea Gaiani dal numero di pagina99 in edicola il 10 dicembre)

Quando Donald Trump si insedierà alla Casa Bianca, il 20 gennaio, l’esito della guerra in atto in Iraq e Siria potrebbe essere già stato scritto. Gli assedi di Aleppo e Mosul, concettualmente simili alle battaglie medievali pur se combattuti con armi moderne, sembrano poter determinare importanti sviluppi nelle campagne del governo siriano e dei suoi alleati contro le formazioni antigovernative, per lo più jihadiste, e nella controffensiva dell’Iraq per riconquistare i territori espugnati dall’Isis nel 2014. Sul fronte siriano gli sviluppi militari sembrano più rapidi.

La penetrazione delle truppe di Damasco nei quartieri orientali di Aleppo occupati dal 2012 dai miliziani e già per metà riconquistati dai governativi, sembra preludere a una rovinosa sconfitta delle opposizioni armate sostenute finora soprattutto da Turchia e monarchie del Golfo (ma anche dagli Usa) che includono “ribelli moderati” le cui milizie hanno però un peso limitato e sul campo combattono al fianco di ex qaedisti, salafiti e fratelli musulmani riuniti nel cosiddetto Esercito della Conquista.

Il tracollo dei ribelli ad Aleppo sta già determinando un effetto domino sui fronti minori, incluso il sobborgo di Damasco di Khan al-Shih, evacuato da un migliaio di miliziani con i loro famigliari in base a un accordo che ne ha permesso il trasferimento a Idlib, e tornato dopo quattro anni in mano ai governativi. La sconfitta dei ribelli ha ragioni militari ma anche politiche. Sul campo di battaglia le truppe siriane rafforzate dai consiglieri (e dai contractors) russi come dalle milizie sciite iraniane, afghane e irachene, dai pasdaran di Teheran e dagli Hezbollah libanesi sfruttano l’intesa di fatto raggiunta tra Damasco, Ankara e Mosca che ha visto rallentare se non interrompersi il flusso di rifornimenti, in gran parte provenienti da Arabia Saudita e Qatar, che dal confine turco raggiungevano le milizie jihadiste nell’area di Aleppo.

La Turchia, che non ha mai lesinato aiuti a chiunque combattesse Bashar Assad, incluso lo Stato Islamico, sembra aver ridimensionato le proprie ambizioni: dopo che l’intervento russo ha impedito di raggiungere questo obiettivo, Ankara ha la necessità di costituire una “zona cuscinetto” per proteggere i suoi confini meridionali dai miliziani curdi siriani alleati dei cugini turchi del Pkk. Non è un caso che mentre le forze siriane avanzano ad Aleppo quelle turche si espandano nel nord della Siria dal 24 agosto a spese dell’Isis ma soprattutto impedendo l’affermarsi di un territorio autonomo curdo a ovest dell’Eufrate la cui costituzione non sarebbe gradita neppure ad Assad. Ogni intesa con Erdogan va però considerata precaria come hanno dimostrato anche le dichiarazioni rilasciate dal presidente turco a fine novembre in cui ha affermato che l’esercito turco sarebbe entrato in Siria «per porre fine alla tirannia del presidente Bashar el Assad».

Mosca ha espresso stupore e chiesto chiarimenti ma le tensioni sociali provocate dalle purghe post golpe e dall’islamizzazione forzata cella Turchia, unite al tracollo della lira potrebbero influire sulle iniziative di Erdogan, considerato sempre di più una “mina vagante” anche in Europa e in ambito Nato. In termini strategici la caduta di Aleppo non porrà fine alla guerra civile ma ridurrà le capacità dei ribelli permettendo di liberare importanti forze militari siriane e alleate per riconquistare le regioni meridionali, la provincia di Idlib e soprattutto per attaccare le regioni orientali in mano allo Stato Islamico inclusa la “capitale” dell’Isis, Raqqah, già minacciata dalle Forze Democratiche Siriane che riuniscono curdi e milizie cristiane e sunnite. Conseguire la disfatta dei ribelli siriani prima dell’insediamento di Trump faciliterebbe un’intesa globale russo-americana incentrata proprio sullo sforzo bellico comune contro l’Isis in Siria.

Presumibilmente più lenti saranno invece i progressi nella battaglia di Mosul. Le forze irachene hanno ripreso diversi quartieri e dicono di aver ucciso un migliaio di miliziani dei circa seimila presenti in città secondo le stime del Pentagono. Baghdad imputa la lentezza dell’avanzata all’accanita resistenza nemica e alla volontà di ridurre le vittime civili ma pesa anche il fatto che l’esercito iracheno deve impiegare come punta di lancia i reparti scelti della polizia federale e dell’esercito che dopo sei settimane di battaglia sono esausti e devono rimpiazzare caduti e feriti il cui numero resta imprecisato. Altri reparti non danno molte garanzie di tenuta sotto il fuoco nemico di fronte a perdite elevate e l’Isis ha sempre dimostrato la superiorità dei suoi miliziani sugli avversari in termini di coraggio e capacità tattiche.

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Turchia: chiesto l’ergastolo per la scrittrice Asli Erdogan

Tra 15 giorni sapremo se la scrittrice turca Asli Erdogan (non è parente del presidente) sarà condannata all’ergastolo insieme alla linguista Necmiye Alpay e ad altri sette giornalisti ed editori del quotidiano filo curdo Ozgur Gundem, considerato da Ankara la voce della propaganda del partito curdo dei lavoratori (Pkk). In carcere dal 20 agosto Asli è accusata di far parte del Pkk, e di avere utilizzato il quotidiano a fini sovversivi, pubblicando immagini e interviste ai terroristi, ponendo in essere propaganda a favore del terrorismo curdo con l’obiettivo di minare l’integrità e l’ordine economico, giuridico e sociale del Paese.

La scrittrice, in passato, ha lavorato come fisica al Cern ed è tornata in Turchia nel 1996 per dedicarsi ai suoi libri e al giornalismo. Dopo l’arresto aveva fatto giungere notizie terribili sulla sua detenzione.

“Mi trattano in un modo che lascerà danni permanenti sul mio corpo – si legge nella lettera pubblicata sul Daily Cumhuriyet -. Il mio pancreas e il mio sistema digestivo non funzionano come dovrebbero ma non mi viene data la medicina di cui ho bisogno. Sono diabetica e necessito di una nutrizione speciale, eppure qui posso mangiare solo yogurth. Soffro di asma e non mi viene concessa l’ora d’aria”.

In solidarietà con la scrittrice alla fine di settembre alcune librerie italiane hanno aderito all’iniziativa “Scrittura libera”, patrocinata dall’Associazione librai italiani, per leggere brani tratti dal suo solo libro tradotto in italiano due anni fa da Keller: Il mandarino meraviglioso.

Il 19 ottobre, al primo giorno della Fiera di Francoforte, il direttore degli Editori e dell’Associazione dei Librai tedeschi, Heinrich Riethmüller, aveva letto una lettera di Asli Erdogan, che gli era stata recapitata.

“Dietro pietre, cemento e filo spinato – come da un pozzo – vi chiamo: qui, nel mio paese, si lascia avvilire la coscienza con un’inimmaginabile brutalità. Si cerca di uccidere la verità, la coscienza viene calpestata con una brutalità incredibile” si leggeva nel testo.

Secondo l’ultima stima dell’osservatorio indipendente P24, sono 144 i giornalisti al momento in prigione in Turchia. Almeno 168 media sono poi stati chiusi dopo il tentato putsch. Tra questi, il quotidiano filo-curdo Ozgur Gundem.

(fonte)

Il patetico Erdogan

Non c’è nulla di più patetico del potere che ha bisogno di farsi prepotente per riuscire a governare perché non ci riesce semplicemente seguendo le regole. Recep Tayyip Erdogan è in questo momento il paradigma del potere in tutte le sue peggiori storture, fatto di bile e vendetta (grottescamente legittimate da un propizio fallito colpo di Stato) aggrappato a una proiezione di se stesso che rasenta l’iperbole. Il fatto è che qui non c’è niente da ridere: nonostante la posa da bullo Erdogan con la sua Turchia oggi tiene sotto scacco l’Europa grazie all’errore politico di chi ha deciso di usarlo come sacchetto dell’umido dell’immigrazione europea.

Erdogan intervistato da RaiNews 24 (a proposito: che bellezza vedere giornalisti non accomodanti sulle reti del nostro servizio pubblico) riesce in poche frasi a condensare l’impensabile tracotanza di chi crede di essere legge, sostituendosi alle leggi: “la vicenda dell’indagine su mio figlio a Bologna potrebbe mettere in difficoltà le nostre relazioni con l’Italia, che dovrebbe occuparsi piuttosto della mafia” ha dichiarato il leader turco, riferendosi anche ad una presunta timidezza da parte dell’Europa che non avrebbe sostenuto abbastanza il “ripristino della legalità” dopo il golpe fallito in Turchia.

Peccato che l’idea di ripristino di Erdogan passi attraverso la violenta censura degli organi di informazioni non allineati con una repressione che non ha nessuna parvenza di legalità né di democrazia. Il ripristino delle regole passa attraverso l’eliminazione degli avversari? Se Erdogan non è in grado di capire che la personalizzazione delle regole è incompatibile con l’idea di moderna gestione di un Paese non può essere considerato un interlocutore affidabile. La muscolarità è una deriva dei tronfi falliti.

(il mio editoriale per Fanpage continua qui)

L’uomo in piedi si arrende

L’Uomo in piedi? È finito anni fa. A suo tempo quella protesta ha avuto forza, io ho indicato una strada. Che la gente la segua oppure no, devono deciderlo da soli”. C’è amarezza nelle parole di Erdem Gunduz, 37 anni, il coreografo autore nel giugno del 2013 di uno straordinario atto di protesta, insieme civile e artistico, in Piazza Taksim.

Nei giorni drammatici di Gezi Park, quando la gente di tutte le fedi politiche, i movimenti, i tifosi di squadre di calcio tra loro avversarie, occuparono lo spazio verde che l’allora premier conservatore islamico Recep Tayyip Erdogan voleva spianare per costruire un grande centro commerciale, l’artista turco fece una cosa molto semplice che colpì tutti. Si mise in piedi, in silenzio, per sei ore di fila, a osservare in alto la grande foto di Mustafa Kemal, detto Ataturk, Padre dei Turchi, il fondatore della Turchia laica e moderna.

Fu un’immagine potentissima. Gunduz, con la camicia un po’ fuori dai pantaloni, il filo del cellulare appeso alla tasca, lo sguardo libero, guardava negli occhi il Padre della patria. Come per richiamarsi al suo pensiero. E l’Uomo in piedi fu subito seguito da una folla che imitò il suo gesto: donne, giovani, anziani, tutti dietro di lui. A migliaia. La Turchia, in ogni piazza, in tutte le città, si riempì di cittadini che, in silenzio, seri, composti, pacifici ma determinati, affollavano le strade rimanendo fermi, ritti, a protestare contro la repressione in atto (10 i morti, centinaia i feriti in tutto il Paese, quando infine i blindati sfondarono il cordone umano al parco di Gezi).

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Ma perché il nostro ambasciatore è ancora in Turchia?

Ma cosa altro deve succedere perché l’Italia abbia un sussulto in politica esterache non sia la firma paciosa di Renzi che brancola in qualche lingua semicomprensibile? Abbiamo avuto un timido vagito nel caso di Giulio Regeni (effimero, uno starnuto) e poi per il resto l’Italia è una Paese che ha limitato la politica estera all’imbarazzante elemosina di uno sguardo fugace dall’Europa.

Mentre la Turchia annega nella melma di Erdogan e del colpo di Stato più utile del West qui ormai sembra che la difesa dei diritti sia stata definitivamente appaltata a associazioni, Ong e qualche lurido buonista. Il governo? Il governo no, il governo, questo governo, ha scambiato la politica per l’annuncio, la dichiarazione per l’unica azione possibile per non disturbare gli equilibri esistenti: probabilmente dalle parti del Consiglio dei Ministri considerano il nostro ambasciatore ad Ankara il menù fisso per fingere cortesia.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Tortura e Turchia, sono giorni neri

Ma esattamente a cosa ci serve spendere chili di retorica, organizzare catene di conferenze, inzuppare depliant elettorali, cucire contrizioni a favore di telecamera, tessere rapporti con i famigliari delle vittime, srotolare conferenze parlamentari, richiamare ambasciatori, travestirsi da pacifisti con le paci degli altri, trasmettere speciali lacrimevoli, stendere bandiere, imbalconare lenzuola, essere tutti ogni giorno un ammazzato in giro per il mondo, inondare i social, trafugare tragedie, fotografare uomini incaprettati in batteria, spacciare foto di facce sformate dalle botte, intitolare vie, esibire pornografici minuti di silenzio o spacciare lacrime?

A cosa serve tutto questo se in un giorno solo, nello stesso giorno, in Turchia si apparecchia la tavola per la pena di morte e in Italia si affossa il reato di tortura?

A che serve Laura Boldrini che ulula per il disabile preso a cazzotti mentre il Parlamento segue le effusioni militari di un ministro dell’interno,  Angelino Alfano, che per esistere ha bisogno di leccare gli istinti paramilitari dei poliziotti che si stagliano violenti, potenti e impuniti?

Come può il senatore Manconi chiedere all’Egitto la verità su Regeni mentre sta in una maggioranza che gli ha ricacciato il reato di tortura in gola?

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Mi chiamo Erdogan e sparo ai bambini. Pagato dall’Europa.

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L’Europa piange lacrime di polistirolo per celebrare la Giornata Mondiale del Rifugiato che, visto il quadro generale, sembra uno scherzo mal riuscito. Invece no. Ieri tutti i burocrati hanno finto almeno per un minuto di essere tutti contriti per poi lasciarsi andare all’ammazzacaffè. La Giornata Mondiale del Rifugiato è un po’ come il progetto di un distributore automatico di diritti: buono per farci sopra narrazione da campagna elettorale ma poi alla fin fine semplicemente una perversione da calendario.

Intanto, ventiquattro ore prima, le guardie turche (i militari servetti di una nazione indegna di essere considerata democratica eppur profumatamente pagata dall’Europa per “risolvere” il problema dei rifugiati) hanno pensato di schiacciare il grilletto per disinfettare il confine: sarebbero otto morti di cui quattro bambini. Un presepe di cadaveri. Una cosa così.

Le fonti ufficiali turche (che valgono più o meno come le dicerie da bar) dicono e non dicono, confermano ma non troppo e infine cercano di raccontare la difficoltà di “vigilare i confini”.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Sono scappati dalla guerra. E sono morti.

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Tre bambini siriani sono morti in un campo per rifugiati in Turchia a causa di un incendio. Sono scappati dalla guerra, sono sopravvissuti al mare e sono morti dopo essere stati “accolti”. La notizia è qui. Il giudizio, beh, fate voi.

Li armano e poi li combattono /9

La Turchia consente attraverso le sue frontiere la vendita all’Isis di fertilizzante che può essere utilizzato per realizzare esplosivi. A sostenerlo è il New York Times con un’inchiesta dalla città di Akcakale, al confine con la Siria.

Secondo il quotidiano, in queste settimane decine di camion carichi di nitrato di ammonio, un composto chimico che può essere impiegato sia come fertilizzante che per la costruzione di bombe, hanno attraversato la frontiera per consegnare il materiale nella cittadina siriana di Tal Abyad, che si trova sotto il controllo dell’Isis da quasi un anno. Le autorità locali sostengono che è tollerato solo il commercio di fertilizzante a basso contenuto di nitrato, che avrebbe minori capacità esplosive.

Ad Akcakale, tuttavia, sono in pochi a credere che il fertilizzante serva davvero per aiutare i contadini siriani. “Non è per l’agricoltura, è per le bombe”, dichiara Mehmet Ayhan, politico dell’opposizione candidato al Parlamento. Ayhan non si oppone a questo tipo di commercio, dal momento in cui crea posti di lavoro in una città impoverita. “Fino a quando i turchi possono trarne dei benefici, è un fatto positivo”.

Nelle ultime settimane la Turchia ha rafforzato i controlli alle sue frontiere per evitare il passaggio in Siria dei cosiddetti foreign fighters, ma il commercio di beni verso zone controllate dallo Stato islamico continua a essere tollerato. Ma un conto è quando si parla di drink energizzanti, un altro quando si tratta di un fertilizzante usato per realizzare potenti esplosivi. E su questo c’è poco da dire: l’aperto trasporto di nitrato di ammonio nei territori gestiti dall’Isis pone dubbi persistenti sul reale impegno della Turchia a isolare i jihadisti suoi vicini.

Secondo John Goodpaster, un perito chimico consultato dal Nyt, con 90 kg di nitrato di ammonio è possibile equipaggiare un’autobomba, mentre con 9 kg si potrebbe condurre un attacco kamikaze. Nei soli camion rintracciati ne sarebbero state contenute 25 tonnellate. Il nitrato di ammonio è stato utilizzato per compiere diversi attentati, tra cui quello al consolato britannico di Istanbul che nel novembre 2003 causò 27 morti.

Rapporto Amnesty: “Ad Aleppo atrocità indicibili”

Oltre alle vessazioni dello Stato islamico, la popolazione siriana è sottoposta ad “atrocità indicibili” da parte del regime di Bashar al Assad e delle frange più violente delle forze di opposizione. Soprattutto ad Aleppo, dove le forze del regime siriano continuano a commettere “crimini contro l’umanità” bombardando in modo cieco e indiscriminato la città. La denuncia arriva da Amnesty International che non risparmia neppure le forze ribelli, responsabili di “crimini di guerra”.

Nel suo ultimo rapporto l’ong afferma che i raid ininterrotti dell’aviazione siriana contro l’ex capitale economica del paese costringono gli abitanti “a condurre un’esistenza sotterranea”.

Amnesty condanna “gli atroci crimini di guerra e le altre violenze compiute quotidianamente nella città dalle forze governative e dai gruppi di opposizione”. “Alcune azioni del governo ad Aleppo equivalgono a crimini contro l’umanità”, afferma Amnesty.

Il rapporto critica soprattutto il ricorso ai bombardamenti aerei con i cosiddetti barili bomba, un’arma particolarmente devastante e che uccide in modo indiscriminato. “Prendendo di mira in modo deliberato e ininterrotto i civili, il governo sembra aver adottato una politica di punizione collettiva contro la popolazione civile ad Aleppo”, afferma il direttore della sezione Medioriente di Amnesty, Philip Luther. Il presidente Bashar al Assad ha sempre negato il ricorso a queste armi che, secondo Amnesty, “provocano un terrore puro e sofferenze inimmaginabili”.

Ma l’ong critica anche i gruppi ribelli ad Aleppo, una città divisa dal 2012 tra la zona orientale in mano agli insorti e quella occidentale controllata dal regime. Il rapporto assicura che i ribelli hanno commesso “crimini di guerra” utilizzando “armi imprecise come i mortai o razzi artigianali fabbricati con bombole del gas e soprannominati ‘cannoni dell’inferno’”. Questi proiettili, sparati regolarmente dai ribelli contro la parte occidentale della città, hanno causato la morte di almeno 600 civili nel 2014. L’anno scorso i barili bomba hanno ucciso invece almeno 3.000 civili nella provincia di Aleppo. Il rapporto fa riferimento anche al ricorso alla “tortura su vasta scala, detenzioni arbitrarie e sequestri, compiuti tanto dall’esercito che dai gruppi di opposizione armati”.

(fonte)