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umanità

Attaccare bottone: la campagna cardiaca d’inverno in Lombardia

E’ uno spostamento di battiti, una campagna elettorale. Uno spostamento di fibre e sensibilità attraverso le storie che chiedono di essere abbracciate in un progetto che possa essere credibile, potabile e che profumi di speranza. Giro molto in questi giorni, inauguro le sezioni di SEL che in tempi di apolitica, antipolitica e sofisticati civismi suonano come avamposti fatti di persone e cose, terminali tattili di una voglia di concretizzare.

Ieri ho partecipato all’inaugurazione della sede SEL di Novate: l’apprensione di un varo preparato con il garbo antico delle vecchie sezioni di partito coccolate come la stanza in più della casa di tutti. Ogni volta che mi capita di stare in mezzo alla voglia di tenere le redini di un ideale mi commuovo. Sarò uno stupido idealista, anch’io, o forse uno spericolato sognatore che non riesce a sostenere l’umanità di quelle persone che ieri hanno speso il pomeriggio a rendere quella stanza (finalmente diventata sede) apparecchiata e pettinata per la festa. Ogni volta che vengo indicato come padrino di un battesimo del genere sento la responsabilità di essere all’altezza dei nostri e dei loro sogni e di questa faticosa costruzione di una chiave di lettura collettiva della Lombardia che in fondo ci immaginiamo così forte da farci sanguinare il naso. C’erano anche dei ragazzi che suonavano, ieri, ranicchiati in un angolo della stanza e ascoltati con la riverenza che si riserva alla musica delle celebrazioni. Io non so se sono troppo fortunato o ingenuo ma in un momento esatto del pomeriggio ho pensato che non possa essere irrealizzabile una volontà così fiera di essere così umana. Nonostante i proclami della Lega, i calcoli da scrivania delle segreterie e i balbettamenti di questo inverno che stringe sulla campagna elettorale. Ci siamo augurati tutti che si riesca a farsi carico del significato dietro quell’apertura. Di questo lavorare capillare. Di questi circoli, sedi e compagni che sono i capillari che chiedono a noi eletti (e eleggibili) di essere le arterie che li tengano in flusso costante con il cuore di una politica che tenga la barra diritta e che nei nostri valori fondamentali accetti solo mediazioni al rialzo. Ci siamo augurati che non fosse una sede con l’aria greve e museale ma fosse un ambulatori di caos vitale e virale che spezzi le catene di questo ripetere continuo che “non c’è alternativa”, che sono tempi di cicuta necessaria e amara. Pensiamo ad una Sinistra che sia la sentinella che veglia con impegno, serietà e professionalità sui valori che non sono storia ma programma.

E’ una campagna cardiaca, quella che si srotola in questi giorni in Lombardia. Fatta con il cuore di chi osa per davvero nel pensare ad una regione che parta dall’eccellenza dei lombardi, questa sì, che è stata tarpata da una classe dirigente nemmeno all’altezza dell’etica e della responsabilità del buon padre di famiglia richiesta ai politici nella nostra Costituzione. Una Lombardia che non dica sempre no ma che ponga le domande giuste: quante tangenziali e autostrade avremmo costruito vietando il cambio di destinazione dei terreni circostanti e immaginando piuttosto l’obbligo di zone boschive per abbattere l’inquinamento, sarebbero le stesse? Quanto dobbiamo aspettare ancora per avere risposte chiare su ipermercati costruiti troppo vicini per avere abbastanza clienti da sostenersi, a chi giovano? Quanto impegno dovremo mettere per raccontare che l’eccellenza degli ospedali privati è tutta nel personale medico e nei contributi a disposizione piuttosto che negli sciagurati consigli di amministrazione? Quanto abbiamo chiarito che la dignità passa per forza dal lavoro, lavoro, lavoro?

C’è già una Lombardia che fa bene. Facciamola insieme.

 

 

 

Chiamati ad alta voce dalla vita

“La prima, essenziale, semplice verità che va ricordata a tutti i giovani è che se la politica non la faranno loro, essa rimarrà appannaggio degli altri, mentre sono loro, i giovani, che hanno l’interesse fondamentale a costruire il proprio furturo e innanzitutto a garantire che un futuro vi sia” (Enrico Berlinguer)

Ci sono momenti in cui si è “chiamati ad alta voce dalla vita” diceva James Joyce.

Ecco, io credo che ora tocchi proprio a noi. E che sia il caso di non frenarci nelle timidezze o infangarci tra le strategie: rompere gli argini per esondare senza riverenze servili ma con il rispetto dell’impegno. Senza accettare il cambiamento solo scritto sui programmi e sui manifesti ma con la voglia di osare la politica smettendo di usarla (nel migliore dei casi). Forti delle cose che abbiamo da dire, delle proposte che abbiamo studiato, delle analisi che abbiamo discusso e dei modelli che dobbiamo permetterci di rifiutare.
Qualche giorno fa un’amica mi diceva che avrebbe voluto una politica che parli di umanità e che non si vergogni di parlare d’amore, di uguaglianza e delle fragilità: ha ragione. Abbiamo ammaestrato il coraggio perché ci hanno insegnato che qui bisogna mediare e intanto siamo cresciuti nell’analfabetismo sui temi della solidarietà, della speranza e dei diritti. Ci hanno convinto che essere solidali qui in Lombardia è un lusso che mette a rischio la sicurezza e l’ordine pubblico mentre in nome della sussidiarietà hanno costruito le lobby più antisociali e antidemocratiche che avremmo mai potuto immaginare. Hanno scambiato la supremazia della politica per l’arroganza dei politici intolleranti alle domande e servili nel rispondere alle baronie. Ci dicono che il momento è grave, che ci ha colti all’improvviso e sono sempre gli stessi che hanno avuto il beneficio di stare sulle mura a fare da sentinelle senza accorgersi di come tutto stava cambiando fuori. Ora vorrebbero la terza repubblica e hanno gli stessi cognomi della seconda e forse di un pezzo della prima.
Ecco, io credo che ora tocchi proprio a noi. Abbiamo cominciato a fare ciò che era necessario, abbiamo studiato e discusso ciò che riteniamo possibile e adesso vogliamo sorprenderci.

L’ingrediente per lo sviluppo economico: l’umanità

Massimo Gramellini nel suo editoriale di oggi lo dice senza mezzi termini e, finalmente, alza la discussione. Perché in mezzo alle battute dei ministri, ai sorrisi compiaciuti di qualche berluscones non ancora estinto e di alcuni democratici con un’irrefrenabile strabismo liberista ci siamo dimenticati delle fragilità e delle solitudini. E mentre si gioca (come scrive bene Alessandro Gilioli) a fare i liberisti con il culo degli altri vogliono farci credere che la solidarietà è una debolezza e i deboli un costo non sostenibile e fastidioso. Adesso vuoi vedere che il “restiamo umani” di Vittorio Arrigoni non è solo questione di razze e territorio ma un grido d’allarme più alto e vasto? Perché il gioco dei duri che ce l’hanno duro l’abbiamo inventato noi in Lombardia qualche decennio fa riuscendo a costruire classi sempre più distanti, incazzate tra loro e difficilmente dialoganti, e la strategia del “divide et impera” conviene sempre a chi impera. Gli altri rimangono lacerati, più che divisi.

Desiderava fare qualcosa che non lasciasse possibilità di ritorno. Desiderava distruggere brutalmente tutto il passato dei suoi ultimi sette anni. Era la vertigine. L’ottenebrante, irresistibile desiderio di cadere. La vertigine potremmo anche chiamarla ebbrezza della debolezza. Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa. Ci si ubriaca della propria debolezza, si vuole essere ancor più deboli, si vuole cadere in mezzo alla strada, davanti a tutti, si vuole stare in basso, ancora più in basso. (Milan Kundera)

Il discorso di fine anno

Mi dispiace, ma io non voglio fare l’Imperatore: non è il mio mestiere; non voglio governare né conquistare nessuno. Vorrei aiutare tutti, se possibile: ebrei, ariani, uomini neri e bianchi. Tutti noi esseri umani dovremmo aiutarci sempre, dovremmo godere soltanto della felicità del prossimo, non odiarci e disprezzarci l’un l’altro. In questo mondo c’è posto per tutti. La natura è ricca, è sufficiente per tutti noi; la vita può essere felice e magnifica, ma noi lo abbiamo dimenticato. L’avidità ha avvelenato i nostri cuori, ha precipitato il mondo nell’odio, ci ha condotti a passo d’oca fra le cose più abbiette. Abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi. La macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà; la scienza ci ha trasformato in cinici; l’avidità ci ha resi duri e cattivi; pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchinari, ci serve umanità; più che abilità, ci serve bontà e gentilezza. Senza queste qualità la vita è violenza e tutto è perduto. L’aviazione e la radio hanno riavvicinato le genti; la natura stessa di queste invenzioni reclama la bontà nell’uomo, reclama la fratellanza universale, l’unione dell’umanità. Perfino ora la mia voce raggiunge milioni di persone nel mondo, milioni di uomini, donne e bambini disperati, vittime di un sistema che impone agli uomini di torturare e imprigionare gente innocente. A coloro che mi odono, io dico: non disperate! L’avidità che ci comanda è solamente un male passeggero, l’amarezza di uomini che temono le vie del progresso umano. L’odio degli uomini scompare insieme ai dittatori e il potere che hanno tolto al popolo ritornerà al popolo e, qualsiasi mezzo usino, la libertà non può essere soppressa. Soldati! Non cedete a dei bruti, uomini che vi disprezzano e vi sfruttano, che vi dicono come vivere, cosa fare, cosa dire, cosa pensare, che vi irreggimentano, vi condizionano, vi trattano come bestie. Non vi consegnate a questa gente senza un’anima, uomini macchina, con macchine al posto del cervello e del cuore. Voi non siete macchine, voi non siete bestie: siete uomini!

Voi avete l’amore dell’umanità nel cuore, voi non odiate, coloro che odiano sono quelli che non hanno l’amore altrui. Soldati! Non difendete la schiavitù, ma la libertà! Ricordate nel Vangelo di S. Luca è scritto: “Il Regno di Dio è nel cuore dell’uomo“. Non di un solo uomo o di un gruppo di uomini, ma di tutti gli uomini. Voi! Voi, il popolo, avete la forza di creare le macchine, la forza di creare la felicità. Voi, il popolo, avete la forza di fare che la vita sia bella e libera; di fare di questa vita una splendida avventura. Quindi, in nome della democrazia, usiamo questa forza. Uniamoci tutti! Combattiamo per un mondo nuovo che sia migliore! Che dia a tutti gli uomini lavoro; ai giovani un futuro; ai vecchi la sicurezza. Promettendovi queste cose dei bruti sono andati al potere, mentivano! Non hanno mantenuto quelle promesse, e mai lo faranno! I dittatori forse sono liberi perché rendono schiavo il popolo. Allora combattiamo per mantenere quelle promesse! Combattiamo per liberare il mondo, eliminando confini e barriere; eliminando l’avidità, l’odio e l’intolleranza. Combattiamo per un mondo ragionevole. Un mondo in cui la scienza e il progresso diano a tutti gli uomini il benessere. Soldati, nel nome della democrazia, siate tutti uniti!

Hannah, puoi sentirmi? Dovunque tu sia, abbi fiducia. Guarda in alto, Hannah! Le nuvole si diradano: comincia a splendere il Sole. Prima o poi usciremo dall’oscurità, verso la luce e vivremo in un mondo nuovo. Un mondo più buono in cui gli uomini si solleveranno al di sopra della loro avidità, del loro odio, della loro brutalità. Guarda in alto, Hannah! L’animo umano troverà le sue ali, e finalmente comincerà a volare, a volare sull’arcobaleno verso la luce della speranza, verso il futuro. Il glorioso futuro che appartiene a te, a me, a tutti noi. Guarda in alto Hannah, lassù. (Il grande dittatore (The Great Dictator) 1940)

L’umanità lasciata in mare

Ogni tanto mi rendo conto di perdermi nel piccolo. Nelle cose (o persone) insulse che pongono problemi che pesano meno di un capello e su cui si perdono giorni o settimane. Ogni tanto mi prende alla gola la paura di non essere all’altezza delle responsabilità Di chi mi legge, di chi mi segue, di chi mi vota e temo di ‘abituarmi’. Perché sulla vicenda libica leggiamo le dichiarazioni politiche e organizzative di presidenti (volutamente minuscoli) e consiglieri. Ogni tanto vede un filo di luce l’appello disperato di qualche organizzazione umanitaria. Eppure la vicenda libica, umana, è in storie come questa che ci chiedono di essere umanamente all’altezza: i passeggeri hanno aspettato due giorni. Poi, quando sono stati certi che le donne non respiravano più, hanno fatto scivolare i loro corpi in mare. Non ci sono stati rituali o preghiere di gruppo: ognuno ha invocato il suo dio in silenzio.