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vento

Una mia intervista su #Carnaio e su questo mefitico vento per Il Libraio

(fonte)

Carnaio, edito da Fandango, è il terzo romanzo di Giulio Cavalli e segue Mio padre in una scatola di scarpe (Rizzoli, 2015) e Santamamma (Fandango, 2017). Un libro che racconta di alcune delle nostre ossessioni, dalla paura dell’immigrazione alla sicurezza a tutti i costi anche a quello di perdere spazi di libertà.

Di alcuni di questi temi abbiamo parlato con Giulio Cavalli nell’intervista che ci ha rilasciato in occasione della sua inclusione nella cinquina del Premio Campiello.

Qual è il personaggio cui è più legato nel libro e per quale ragione?

Ho cercato di rimanere equidistante da tutti i miei personaggi, mi interessava un libro disinfettato dall’inquinamento del dibattito politico e che fosse una pura narrazione a disposizione delle diverse temperature emotive dei miei lettori. Da lettore, e non da scrittore, se ne dovessi scegliere uno ex post propenderei per il pescatore Giovanni Ventimiglia perché è la rappresentazione di tutti quelli che non hanno gli strumenti sociali, culturali e economici per contrastare il pensiero comune e i benpensanti quando malpensano. Noi siamo pieni di Giovanni Ventimiglia che vengono con troppa facilità messi nei cassetti dei vili e invece sono semplicemente incagliati.

A pagina 113 scrive «un amico di quelli che vogliono difendere l’umanità con il culo degli altri dicevano stizziti i cittadini di DF che lo osservavano da lontano come si sta a distanza dalle persone che non ci assomigliano e da cui non vogliamo farci intaccare». Intaccare da cosa? E soprattutto: difendere l’umanità è ancora davvero possibile oggi?

Il primo trucco per non sentire il peso di dover difendere qualcuno è trasformarlo in altro rispetto a noi. Se le dannazioni altrui non sporcano il nostro tappeto e se i media ne diluiscono i dolori abbiamo imparato a osservare il tutto come se fosse una fiction del dolore che ci richiede solo un po’ di indignazione e di pietà, giusto per il tempo che dura. È un tempo in cui ci terrorizza avere paura e quindi alla fine delle paure siamo diventati schiavi. Così ci rinchiudiamo in spazi sempre più ristretti e ci occupiamo solo delle persone più vicine in nome di un federalismo delle responsabilità che non è nient’altro che un egoismo sdoganato completamente.

Difendere l’umanità però è possibile e continua ad accadere in tutte le parti del mondo. Certo, è terribilmente fuori moda ma basterà capire che nel gorgo potremmo finirci anche noi per segnare un’inversione di tendenza.

Premio Campiello 2019 – Intervista a Giulio Cavalli

Che bellezza Lilly Carboni quando dice di se stessa «abito a DF da sempre ma sono una donna di mondo, ho girato l’Italia, l’Europa, sono una viaggiatrice infaticabile, non ho mai ceduto alla tentazione di rinchiudermi nel mio minuscolo cortile, ho visitato i migliori ristoranti fotografati sui giornali, ho camminato sulle spiagge che usano nei film e in città tutti sanno che il mio gusto si è formato grazie a un’esperienza internazionale». L’apertura mentale grazie a esperienze senza una geografia limitata e la concretezza nel cortile di casa a volte vanno in conflitto. Come farle abbracciare nella contemporaneità?

Il viaggio è la soluzione. Il viaggio fisico (con la voglia di farsene contaminare) e il sapere sono i migliori vaccini per curarci e per prendere coscienza dei limiti della nostra visuale. In fondo è anche la grande missione della letteratura: scardinare le nostre sicurezze. Come scriveva Mark Twain non dobbiamo avere paura di ciò che non conosciamo ma dobbiamo temere ciò che crediamo vero e invece non lo è.

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Intensificare il controllo di DF diventa sempre più urgente ma questo consegue una limitazione delle libertà in un gioco infinito fra lecito e non lecito, nonostante le opinioni di chi vive fuori dal microsistema. Al netto della simbologia, che nutre tuttavia l’immaginario, siamo dentro una Italia DF secondo lei negli ultimi tempi? Stiamo perdendo pezzi di libertà barattandoli in nome della sicurezza oppure sono soltanto fantasmi di una certa sinistra?

Le eventuali analogie con il libro le lascio ai lettori. Registro comunque che la sicurezza in Italia sia una clava sventolata per erodere i diritti e i due decreti che ne portano il nome sono l’esempio più significativo. È difficile comprendere che ripristinare i diritti è un esercizio molto più difficile di quello che sembra, una volta persi.

Quale messaggio vuole portare con le ondate ricorsive di cadaveri? Le va di scomporre il lato narrativo per farci capire livelli di lettura che magari ci sono sfuggiti?

Mi serviva spingere al limite la trasformazione della vita umana in oggetto da potere/dovere utilizzare da parte degli abitanti. Un mare che non ha più pesci e che vomita cadaveri è un mare che certifica che da quelli si debba trarne profitto. E la ripetizione della morte è il trucco che spesso si usa per svuotarne il significato.

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DF a un certo punto dichiara l’indipendenza dall’Italia. Il divide et impera sembra andare di moda anche oggi, si pensi alla spinta nordica delle autonomie regionali, in conflitto con le grandi istituzioni come l’Europa.  In Italia rischiamo fra qualche anno separazioni territoriali come DF?

La ricerca compulsiva del sovranismo e la manipolazione del senso di Patria non porta nient’altro che una chiusura sempre più fortificata e sempre più ristretta, fino all’esclusione dal resto del mondo. Al di là di quello che succederà in Europa direi che l’idea dei muri in cui chiudersi dentro stia già funzionando in termini elettorali.

Da chi vorrebbe che fosse letto il suo libro e per quale motivo?

Da chi ama la letteratura, innanzitutto. E da chi crede che le parole abbiano ancora la forza di porre domande.

Come si sta preparando o si preparerà per la serata finale del Premio Campiello?

Abbiamo concluso il tour, è stata un’esperienza positiva che mi ha permesso di stringere rapporti con i miei colleghi di cinquina. Non ho particolari tremori per la serata finale: quello che dovevo fare l’ho messo nelle pagine. Tutto qui.

Ischia il vento

Non me ne vorrà l’amico Pippo Civati se gli rubo il titolo geniale che ha coniato come didascalia di Toninelli che esulta a pugno chiuso in Senato un decreto che sotto l’etichetta di Genova e della sua ricostruzione ci ha messo un bel condono edilizio per Ischia. Notate la grottesca drammaturgia: in un provvedimento urgente che dovrebbe ricostruire si inserisce di straforo un liberi tutti su una ricostruzione abusiva che sta dall’altra parte d’Italia. Se fosse la trama di un racconto, qualsiasi editore lo rimanderebbe indietro contestandone l’assurdità. E invece la realtà è un pessimo romanzo, talvolta, incredibile nel senso letterale del termine, di qualcosa che verrebbe naturale non crederci. Ma è così.

Ma non è tanto la scena di giubilo di Toninelli a turbare il sonno (gesti simili di esultanza sguaiata ci sono stati offerte da tutti, di tutti i partiti, nemmeno troppo tempo fa) quanto la continua banalizzazione del provvedimento su Ischia che viene ridotta a slogan d’accusa da parte di un’opposizione che legittima la rincorsa alla banalizzazione e che invece la maggioranza cerca di confondere.

Allora proviamo a capirne di più. Il punto fondamentale è nel primo comma dell’articolo 25 del decreto. Lo spiega bene il professore Giacomo Costa, già docente di Economia all’Università di Pisa: «Il provvedimento su Ischia inserito nel Decreto Genova è un condono? Tecnicamente no, sostanzialmente sì: in base al primo comma dell´art. 25 del decreto la platea delle domande di condono presentate in risposta alle leggi di condono dell´1985, 1994, 2003 viene ampliata stabilendo che tutte e tre le generazioni di domande siano valutate “applicando esclusivamente le disposizioni… della legge 47/85” proposta e approvata dal governo Craxi.  Questo voluto anacronismo consente di ignorare non solo nella valutazione ma anche nell´ ammissibilità delle domande di seconda e terza generazione i requisiti posti dalle leggi del 1994 e del 2003 in base all´evoluzione nella legislazione ambientale, antisismica, idrogeologica successiva al 1985.»

In pratica il governo ha deciso di appiattire la normativa alla regolamentazione più lasca, allargando le maglie di controlli e di doveri alla misura più comoda. Se fosse un dialogo sarebbe più o meno così:

«Facciamo una gara per vedere chi arriva prima?», «sì, certo, però adottiamo le regole di quella volta che trent’anni fa, ti ricordi, per qualche mese, valse anche arrivare secondi o terzi e quarti eppure dichiararsi primi!», «perfetto!», «via!».

Con la sanatoria del 1985 si poteva sanare tutto: case abusive in riva al mare, in aree franose, a rischio sismico, vincolate, demaniali, dentro ai Parchi.

Dicono quelli al governo che però se non fosse così a Ischia non si potrebbe costruire.

Quindi un’opera abusiva diventa una colpa solo se ci muore qualcuno? Così, solo per capire. Perché arriveremo sempre tardi, pensandola così. Sempre e solo dopo i morti. O no?

Buon venerdì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/11/16/ischia-il-vento/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Faccio il lavoro più bello del mondo. E non sopporto lo sventolio della scorta.

Anche stasera. A San Didero, che è un comune a forma di gioiello pendente appeso al collo della Val di Susa. Qui dove la montagna è una religione laica da indossare con un certa fierezza. Essere montanari significa avere a cuore la propria terra, qui. La questione TAV non è una disquisizione tra tifosi, qui ti mangia il giardino e, se ti va male, la casa, anche.

Siamo andati in scena con Mafie Maschere e Cornuti davanti a un pubblico che non si aspettava mica uno spettacolo che schiaffasse in faccia quello che non vediamo per stare tranquilli. Qui, anche qui, si aspettavano di vedere “l’animale minacciato”, un tipico esemplare di personaggio televisivo che facesse il triste. E invece no.

In fondo, ci pensavo adesso che sto andando a dormire, faccio il lavoro più bello del mondo: racconto storie e mi diverto nell’appoggiarle in modo inaspettato. Dall’inaspettato, se siamo bravi, si accende la sorpresa e poi la sorpresa partorisce la meraviglia.

Non so dire bene quando mi sono messo intesta di smetterla di fare “l’uomo lupo”, prodotto circense da portare in tournée per sfruttare il filone degli scortati.

Io sono io. Non sono le mie minacce (ho provato a raccontarlo in Santamamma). E ogni volta che qualcuno, sorpreso, mi dice che lo spettacolo è stato un bello spettacolo e che lo spettacolo non ero io mentre lo recitavo mi convinco di avere reso onore al privilegio che mi è capitato: raccontare storie.

E niente. Ve ne sono grato. Ecco. E fanculo le minacce e la scorta. Tutto qui.

 

La dignità dell’errore. E delle scuse

Filippo Chiarello aveva 38 anni, due bambini piccoli e un intervento da fare alla colecisti in laparoscopia. Nell’ospedale Santa Sofia di Palermo ci è entrato con l’idea di doverne uscire in pochi giorni, pronto ad affrontare una di quelle operazioni che di questi tempi sono routine. E invece è morto. E fino a qui sembrerebbe l’ennesima storia di malasanità pronta a finire sui giornali (locali, perché la sanità è sempre argomento molto poco pop) e ad aprire una sequela giudiziaria tra cartelle cliniche, scarichi di responsabilità e assicurazioni trincerate in difesa.

Invece qui le porte della sala operatoria si sono aperte davanti alla faccia addolorata di un medico che si è dichiarato colpevole di un errore: «Ho spalancato le porte della sala operatoria, ho allargato le braccia e ho detto che era colpa mia. Mi sono sentito morire dentro, sulle facce dei parenti ho visto la disperazione – racconta il medico che ha fatto l’intervento – e mi assumo la responsabilità ma ci tengo a far sapere che non ero distratto, ero concentrato. La verità è che può capitare e i rischi degli interventi in laparoscopia sono dietro l’angolo».

 

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Giornata storta per i “taxi del mare” e così muoiono in 34 (almeno)

Da una parte c’è il comunicato stampa della Guardia Costiera italiana:

«Per uno sbandamento verosimilmente causato dalle condizioni meteomarine e dallo spostamento repentino dei migranti su un fianco dell’imbarcazione – si legge nella nota -, circa 200 migranti sono caduti in mare da un barcone con circa 500 migranti a bordo. L’immediato intervento delle navi ‘Fiorillo’ della Guardia Costiera e ‘Phoenix’ del Moas ha consentito di trarre in salvo la maggior parte dei migranti caduti in acqua. Trentaquattro, invece, i corpi senza vita recuperati in mare dai soccorritori».

Dall’altra c’è la testimonianza di Medici Senza Frontiere:

«Due guardacoste libici, in uniforme e armati, sono saliti su uno dei gommoni. Hanno preso i telefoni, i soldi e altri oggetti che le persone portavano con sé”, racconta Annemarie Loof di Msf. “Le persone a bordo si sono sentite minacciate e sono entrate nel panico. Molti passeggeri, che fortunatamente avevano già ricevuto i giubbotti di salvataggio prima che iniziassero gli spari si sono buttati in acqua spinti dalla paura».

Piccolo promemoria: da settimane qualcuno dice che le ONG (quelli come Medici Senza Frontiere, appunto) avrebbero sporchi interessi sulla pelle dei migranti. Da qualche settimana quegli stessi rimestatori nel torbido, in mancanza di riscontri, citano la guardia costiera libica come fonte dei loro sospetti.

Ecco. Tirate voi le somme.

 

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Banalizzare, criminalizzare, purché non se ne parli: il metodo No Tav applicato ai No Tap

Accade così: si alza la polvere facendo in modo di convincerci che la polvere sia il lascito dei violenti, si formano le squadriglie di picchiatori politici contro “quelli che dicono no a tutto”, si scialacqua solidarietà un po’ a caso in favore delle forze dell’ordine anche quando non ci sono disordini e si sventola il feticcio del progresso inevitabile (o del thatcheriano “non c’è alternativa”) per chiudere il discorso.

Ma il discorso, quello vero, quello che parte delle analisi e che per svilupparsi dovrebbe comprendere anche la possibilità che i decisori diano risposte convincenti, quel discorso in realtà non avviene mai. Ora ci manca solo che si faccia male qualcuno e poi anche i “No Tap” sono cotti a puntino per diventare la forma contemporanea dei “No Tav” in salsa pugliese. Le mosse piano piano si stanno incastrando tutte e anche l’ultimo tweet del senatore del PD Stefano Esposito (“Ogni giorno che passa i #NOTAP assomigliano drammaticamente ai #notav un grazie alle nostre #FFOO”) certifica che il processo si avvia a dare i suoi frutti.

Negli ultimi due giorni risuona soprattutto la barzelletta degli ulivi: “i no Tap? ambientalisti preoccupati per qualche manciata di alberi che verranno prontamente rimessi al loro posto” dicono più o meno i banalizzatori di partito. E fa niente se le ragioni della preoccupazione siano tutte scritte in un parere del 2014 di ben 37 pagine dell’Arpa protocollato dalla Regione Puglia (lo trovate qui); non importa che l’Espresso abbia raccontato come (ma va?) gli interessi particolari delle mafie abbiano messo qualcosa in più degli occhi sul progetto (è tutto qui) e non importa nemmeno che le motivazioni della protesta non siano contro il progetto in toto ma sulla località di approdo che era la peggiore delle soluzioni possibili: l’importante è che la protesta No Tap possa essere messa velocemente nel cassetto dei signornò e si divida subito tra le solite fazioni.

A questo aggiungeteci l’italica inclinazione alla servitù (come nel caso della viceministra Bellanova, PD, che si diceva contraria da candidata e ora seduta sulla poltrona da viceministro se la prende con Michele Emiliano perché si occupa più della sua regione piuttosto che della fedeltà agli ordini del capo) e vi accorgerete che di tutto si parla tranne che dell’analisi del dissenso.

 

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Adesso è il momento di fare ciò che ti piace.

Adesso è il momento di fare ciò che ti piace. Non aspettare lunedì, non aspettare domani. Non fare allungare davanti a te la carovana di sogni calpestati. Non aspettare.
Non frenarti per paura o viltà. Non posporre la vita con altra morte, e non aspettare niente dalla sorte che non sia più della tua tenacia e della tua energia.
Se il tuo sogno è bello, dagli forma come il torrente scava le sponde; come il vento che vive e si trasforma.
E perché tutto risulti come tu vuoi, detta tu stesso le tue regole e converti il tuo autunno in primavera.

(Ivan Malinowski) (clic)

Radio Mafiopoli 21- Nani alti e Bassezze basse

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TESTO:

Ci sono tre coccodrilli ed un orango tango, tre piccoli serpenti e tanti piccoli nani. Nani mica per l’altezza nana o per il cappello rosso blando, nani per la prevedibilità con cui li si può aspettare ogni mattina fuori da qualsiasi miniera dove succhiare un po’ di soldi sporchi e impolverati per bene perchè non si vedano per bene. E poi c’è Biancaneve. Ma non quella bianca neve che le ‘ndrine usano spolverata per bene sopra tutta la repubblica di Mafiopoli da nord a sud. No, c’è la Biancaneve quella un po’ mamma e un po’ puttana, quella che ha le gambe larghe da starci dentro tutti, una sorta di “mammasantissima”…
– Ciao a tutti sono un nano di Mafiopoli e mi chiamano Eolo. Eolo, sì, come il vento quello che ti entra nei capelli e ti esce dal ****. Io sono un nano allegro e forte e risiedo a Mazara del Vallo, vi racconto la mia storia. Allora, a Mazara volevamo io e tutti i nani piantarci una bella striscia di pale, per produrre energia, perché a Mafiopoli dal Vallo siamo bravissimi a fare girare le pale! All’appalto hanno partecipato in due, proprio come le pale. ENERPRO (per gli amici eolici ENERPROT) e SUD WIND, che in dialetto mafiopolitano vuol dire “sudo ma vinco”. E, infatti, hanno vinto loro, anche perché si dice che hanno letto il progetto dei concorrenti prima che venisse depositato! Insomma è uscito dall’ufficio del comune! Come mai? Questione di finestre aperte! Questione di venti e di correnti! Come la corrente politica di Vito Martino, che anche se non si capisce qual è il nome e quale il cognome si capisce benissimo da che parte sta. Tanto che Martino (che tra di noi chiamiamo Vitolo Martinolo) con tutto sto vento si è mica ritrovato in tasca trasportati dalla corrente 150.000 euroli per la mediazione tra i venti? Quello che si dice un politico sulla cresta dell’onda. Ma senza surf, che mammasantissima gli ha portato una Mercedes 220 fiammante e veloce come il vento. Storie da Mafiopoli. Storie di nani. Dal profilo basso come i nani. Eolo che sono io, Vitolo Martinolo il consigliere comunale e consigliore, Giovannolo Battistolo Agatolo (detto Agate) già bello che pregiudicatolo, Luigilo Franzinellilo, Melchiorre Saladinolo (che viene dalla zona di Salemi del nano buffo Sgarbolo) e poi c’è Sucamèli. Che l’architetto l’abbiamo messo al plurale perché ci sono anche i bambini. E dietro a tutto come sempre il terribile nano Obolo: per gli amici Matteo Messina Denaro detto Soldino. Evviva, evviva, urrà. Bum bum. Giù il cappello invece al sindaco gaio di Gela Rosario Crocetta, che nonostante il freddo ci crede sul serio che Mafiopoli possa essere pulita. Infatti, lui dice “l’avevo detto!”. E insieme ad un abbraccio gli affibbiamo il nome di Puffo Quattrocchi. Che anche se non è un nano è comunque all’altezza giusta per guardarli negli occhi.
– A Cerveteri ci ha lasciato le penne U Malpassotu Giuseppe Pulvirenti, il nano boss e moralizzatore detto il leone di Belpasso. Moralizzatore e leone, come i Gormiti della foresta. Leone perché si è divertito tanto a difendere il Santo Benedetto nella faida catanese. E fa niente se sono rimasti per terra morti in 100 l’anno, succede sempre nei cartoni animati. Ma Pulvirentolo era famoso per essere il nano più moralizzato della miniera: chiedere a Giuseppe Conti e Angelo Ficarra, sparati dalla pistola del nano perché adulteri. È tipico a Mafiopoli preoccuparsi delle cose serie con la serietà di nano Imbecillilo. Ed è tipico predicare bene e razzolare male. Perché U Malpassatu ci aveva un amante tanto da chiedere aiuto a nano Divorziolo. Ma Biancaneve cornuta era troppo, anche per le storie incredibili della Repubblica di Mafiopoli.
– A Messina in carcere un infermiere preso dalla sindrome di Biancaneve curava i boss del clan di Giostra e di Santa Lucia sopra Contesse con tutte le cure mafiopolitane. Infatti a Gaetano Barbera, Daniele Santovito e Luigi Gallo ci dava l’aspirina, la tachipirina e pure il telefonino per dare ordini all’esterno. Durante l’interrogatorio ha risposto: “telefono – casa”.
– Poi c’è un altro nano. Il principe dei nani. E c’è una storia che è peggio del peggiore cartone animato. Ma con uno sparo solo, in via D’Amelio e poi tutto intorno tanto silenzio. E c’è in via D’Amelio un signore, un capitano mio capitano che di nome fa Arcangioli e che cammina con una valigia in mano. La valigia è di Borsellino e dentro c’è tutto un mondo che non è più e dentro la valigia e dentro c’è tutto un mondo. E Arcangioli lui cammina con la faccia sicura della casalinga che ha assolto l’obbligo quotidiano della spesa per la famiglia. Quella con la F maiuscola. E c’è uno stato, lo stato di Mafiopoli che dice che quell’uomo non va processato. Ma Mafiopoli è uno stato che le cose le dice sotto voce. Piano piano. Con silenzio tutto intorno. Come vuole il Nano. Ma è una storia da raccontare con calma. Perché ogni tanto con i nani bisogna usare i picconi. Alla Disney.

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