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vita

Mi ricordo

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Andrea Cardoni sta raccogliendo i ‘mi ricordo’ improvvisati che riesce a trovare in giro per il Paese. Una memoria condivisa e digitalizzata che è diventata un tumblr, una pagina Facebook e uno spazio su Medium. Il progetto nasce da una bella frase d Paul Aster che dice ”

«Fermatevi per un momento o due, date modo alla vostra mente di aprirsi, e inevitabilmente ricorderete, con una chiarezza e una specificità che vi stupirà».

Qui c’è il mio piccolo e breve contributo, sul tempo in cui all’oratorio si “facevano le squadre” prima della partita:

Adesso è il momento di fare ciò che ti piace.

Adesso è il momento di fare ciò che ti piace. Non aspettare lunedì, non aspettare domani. Non fare allungare davanti a te la carovana di sogni calpestati. Non aspettare.
Non frenarti per paura o viltà. Non posporre la vita con altra morte, e non aspettare niente dalla sorte che non sia più della tua tenacia e della tua energia.
Se il tuo sogno è bello, dagli forma come il torrente scava le sponde; come il vento che vive e si trasforma.
E perché tutto risulti come tu vuoi, detta tu stesso le tue regole e converti il tuo autunno in primavera.

(Ivan Malinowski) (clic)

Io non voglio morire d’intenti

Schermata 2013-01-01 alle 16.53.17Non ho mai ben capito se gli intenti vadano scritti la sera dell’ultima sera dell’ultimo giorno dell’anno o la mattina del primo dell’anno successivo. Confesso che non sono mai stato bravo con i bilanci e i consuntivi: mi immalinconiscono come le anziane nel letto d’ospedale che non ricevono mai visite e fingono di farsi compagnia con i parenti degli altri, promettendosi che gli basti così. Peggio ancora con gli esami di coscienza: ho un incalcolabile difficoltà con i sensi di colpa che mi rende clinicamente ossessivo e compulsivo verso le mie mancanze.

Potrei anche sognare intanto un anno che mi liberi le spalle da blindature e scorte. Non ci avevo mai pensato in questi ultimi anni, era un desiderio nella cesta dei desideri indesiderabili e invece mi si è acceso giusto giusto ieri notte mentre i botti diventavano un soffio rauco di polvere da sparo incollacciata sul marciapiede. E’ stato un desiderio che mi ha sorpreso: un ardimento spericolato dove ho pensato a me stesso con la cura che non pensavo di riuscire più ad usare. Perché se c’è un alone che mi ha unto in questi ultimi anni è proprio questa sensazione di eterna solitudine sorvegliata a vista che mi fa sentire di troppo in un mare di troppo poco e che non sono mai riuscito a spiegare. Rileggo il pezzo di Marco di due anni fa e mi sembra che ci sia la stessa musica di sottofondo. Non so se mi spiego: anni come un recinto che disegna i cerchi del mio tronco con le cicatrici al posto delle linee della crescita. Una cosa così. Pensavo che la mia vita fosse in una parentesi di controffensiva difensiva e invece è l’imboccatura di una strada di cui non se ne vede l’orizzonte. Niente panico o letteratissimi tormenti, per carità, ma una noia usurante che ha l’abitudine come unica lenizione possibile.

C’è il lavoro: il mio lavoro con la parola e la scena. In un anno di ricerca di nettare e nido tornare in scena con Duomo d’onore è stato un dito che ha toccato corde che temevamo non suonassero più. Ho bisogno di stare sul palcoscenico per parlare con me. Semplicemente. E non dovere rendere conto a nient’altro che i fatti e la bellezza: due compagni che litigano spesso. Ho ritrovato la mia quotidianità nel freddo e il disordine dei camerini, nei “due minuti” dati prima di cominciare bussando piano alla porta, nei vestiti di scena stropicciati come le donne bellissime con le loro rughe, negli amici che ti danno il cenno che è andata bene e nelle cene mangiate troppo tardi con la fame che corre contro il sonno. Se dovessi augurare un lavoro ai miei figli gli augurerei la fortuna di lavorare con la soddisfazione che va a dormire dopo di te, come capita a me. C’è la scrittura: questo 2012 è stato un anno di scrittura a singhiozzo tra la quotidianità delle cose quotidiane che lasciano sabbia nei reni e negli ingranaggi della penna. Mi ero promesso un romanzo per provare a volare e mi hanno lasciato a terra le informative, le sentenze e le scelte: questo mio nuovo anno ha quel romanzo da recuperare tra i bagagli smarriti.

C’è la politica: che è cambiata come un figlio che si fa grande nel tempo del tuo ultimo viaggio e lo ritrovi con la sensazione di avere perso proprio quel minuto in cui ti chiedeva di essere un padre presente. Ho amici sparsi in questa confusa tela di colori diffusi eppure distanti mentre l’occasione ci chiede di essere preparati alla raccolta. Qualcuno mi chiede perché non abbia partecipato alle primarie per il parlamento, qualcuno ancora insiste nel rinfacciarmi un “ritiro” per la presidenza lombarda, qualcuno mi chiede di Luigi De Magistris e gli arancioni (dimenticando Leoluca Orlando e quel pezzo di IDV che ci sta dentro e ci ha sempre voluto fuori), qualcuno mi dice che dovrei seguire Pippo Civati e gli altri (come se fosse un trenino dopo pranzo quando si è tutti un po’ brilli intorno ai tavoli con la cravatta slacciata) e qualcuno dice che Cavalli ha un assessorato promesso da Ambrosoli: continuiamo il nostro lavoro in Lombardia, semplicemente, con la serietà dei progetti iniziati e degli impegni presi con un Formigoni in meno. Non sembra difficile capire che la politica diffusa non è confusione nello spazio ma allargamento di persone e di idee. Fare rete piuttosto che preoccuparsi di stare in un buon posto nella rete.

Poi c’è la vita: e quest’anno la vita mi ha aperto stanze meravigliose e fresche, mi ha sbattuto in faccia porte che mi hanno fatto male e insegnato l’impegno e l’etica degli affetti. Vorrei imparare ad essere coraggioso senza bisogno di baldanza, vorrei fare pace con i dolori che non ho mai voluto guardare negli occhi, vorrei essere capace di sorridere di avere un fratello trentaquattro anni dopo che lo siamo stati prima di non saperlo fino ad oggi, vorrei togliermi l’alibi della solitudine per nascondere la cura che non mi voglio prendere, vorrei trovare le parole per spiegare ai miei figli che le scelte sono i mattoni necessari per i muri portanti della dignità, vorrei ascoltare chi ho deluso, ascoltarli per ore senza avere la debolezza di interromperli per giustificarmi, vorrei convincere più gente possibile che restare umani paga, e vorrei convincermene anch’io, vorrei avere l’intelligenza di perdonare con durezza e difendermi senza la macchia della vendetta, vorrei riconoscermi e farmi riconoscere in quello che faccio, quello che dico e quello che scrivo senza lasciare spifferi per dietrologie e isterismi.

Vorrei anche avere usato il “voglio” e non il condizionale ma non voglio tornare indietro a correggere le ultime righe. Le tengo così, come un impegno più che non un intento. Per non morire d’intenti. Con intenzioni serie.

Che sia un buon 2013.

 

 

Domande sulla scienza: hanno risposto

Avevo ripreso qui l’interessante dibattito sulla scienza nei programmi dei candidati alle primarie del centrosinistra. Hanno risposto (ed è un punto da segnare per i proponenti, sicuramente) e tutto quello che pensano lo trovate qui.

Per partigianeria (e nettezza) vale la pena leggere il pensiero di Nichi Vendola sulla Legge 40 e testamento biologico:

Io credo si debba cancellare una delle leggi più oscurantiste, pericolose e ingiuste nei confronti delle donne. I limiti della legge 40, bocciata anche dalla Corte Europea dei Diritti Umani, sono continuamente confermati dai tanti ricorsi vinti da quelle coppie che si rivolgono ai tribunali per vedersi riconoscere un principio fondamentale di libertà e di giustizia. Abbiamo con urgenza bisogno di una nuova legge di civiltà, moderna, giusta e umana.
Sostengo con convinzione il rispetto della libertà di scelta per il fine vita. L’obbligo di soffrire per legge non è umano e dignitoso, non è più rinviabile una legge sul testamento biologico.

#SAVE194 i diritti conquistati vanno difesi in un Paese dalla memoria fragile

Leggo, aderisco e anche io copio e incollo:

“Sembra, ogni volta, di dover ricominciare da capo. Facciamolo, allora, e partiamo da una domanda. Questa: “tutte le donne italiane possono liberamente decidere di diventare madri?”. La risposta è no.
Non possono farlo, non liberamente, e non nelle condizioni ottimali, le donne che ricorrono alla fecondazione artificiale, drammaticamente limitata dalla legge 40.
Non possono farlo le donne che scelgono, o si trovano costrette a scegliere, di non essere madri: nonostante questo diritto venga loro garantito da una legge dello Stato, la 194.

Quella legge è, con crescente protervia, posta sotto accusa dai movimenti pro life, che hanno più volte preannunciato (anche durante l’ultima marcia per la vita), di volerla sottoporre (di nuovo) a referendum.

L’articolo 4 di quella legge sarà all’esame della Corte Costituzionale – il prossimo 20 giugno – che dovrà esaminarne la legittimità, in quanto violerebbe ” gli articoli 2, (diritti inviolabili dell’uomo), 32 I Comma (tutela della salute) e rappresenta una possibile lesione del diritto alla vita dell’embrione, in quanto uomo in fieri”.

Inoltre,  quella legge è svuotata dal suo interno da anni. Secondo il Ministero della Salute sono obiettori sette medici su dieci (per inciso, i cattolici praticanti in Italia, secondo i dati Eurispes 2006, sono il 36,8%): in pratica, si è passati dal 58,7 per cento del 2005 al 70,7 per cento del 2009 per quanto riguarda i ginecologi, per gli anestesisti dal 45,7 per cento al 51,7 per cento e per il personale non medico dal 38,6 per cento al 44,4 per cento. Secondo la Laiga, l’associazione che riunisce i ginecologi a difesa della 194, i “no” dei medici arriverebbero quasi al 90% del totale, specie se ci si riferisce agli aborti dopo la dodicesima settimana. Nei sette ospedali romani che eseguono aborti terapeutici, i medici disponibili sono due; tre (su 60) al Secondo Policlinico di Napoli. Al Sud ci sono ospedali totalmente “obiettanti”. In altre zone la percentuale di chi rifiuta di interrompere la gravidanza sfiora l’80 per cento, come in Molise, Campania, Sicilia, Bolzano. Siamo sopra l’85% in Basilicata. Da un’inchiesta dell’Espresso di fine 2011, risulta che i 1.655, non obiettori hanno effettuato nel solo 2009, con le loro scarse forze, 118.579 interruzioni di gravidanza, con il risultato che più del 40% delle donne aspetta dalle due settimane a un mese per accedere all’intervento, e non è raro che si torni all’estero, alla clinica privata (o, per le immigrate soprattutto, alle mammane). Oppure, al mercato nero delle pillole abortive.
Dunque, è importante agire. Vediamo come.

Intanto, queste sono alcune delle iniziative che sono state prese:
1) Lo scorso 8 giugno, Aied e Associazione Luca Coscioni hanno inviato a tutti i Presidenti e assessori alla sanità delle Regioni un documento sulle soluzioni da adottare per garantire la piena efficienza del servizio pubblico di IVG come previsto dalla legge. “Siamo altresì pronti a monitorare con attenzione l’applicazione corretta della legge e, se necessario, a denunciare per interruzione di pubblico servizio chi non ottempera a quanto prevede la legge”, hanno detto.
Le proposte sono:
Creazione di un albo pubblico dei medici obiettori di coscienza;
Elaborazione di una legge quadro che definisca e regolamenti l’obiezione di coscienza;
Concorsi pubblici riservati a medici non obiettori per la gestione dei servizi di IVG;
Utilizzo dei medici “gettonati” per sopperire urgentemente alle carenze dei medici non obiettori;
Deroga al blocco dei turnover nelle Regioni dove i servizi di IVG sono scoperti. 

2) La scorsa settimana ha preso il via la campagna contro l’obiezione della Consulta di Bioetica Onlus: qui trovate le informazioni e qui il video.

Diffondere queste informazioni è un primo passo. Ce ne possono essere altri. Fra quelli a cui, discutendo insieme, abbiamo pensato, ci sono:

1) Raccogliere testimonianze. Regione per regione, città per città, ospedale per ospedale, segnalateci gli ostacoli nell’accesso all’IVG e alla contraccezione d’emergenza. Potete farlo anche in forma anonima, nei commenti al blog. Ma è importante: perché solo creando una mappa dello svuotamento della legge è possibile informare su quanto sta avvenendo ed eventualmente pensare ad azioni anche legali.

2) Tenere alta l’attenzione in prossimità del 20 giugno. Lanciate su Twitter l’hashtag #save194, fin da ora.
L’intenzione di questo post è quella di informare. Non è che il primo passo: perché la libertà di scelta continui a essere tale, per tutte le donne italiane”.

Carlo Rivolta

Carlo Rivolta

Mi ricordo di lui e del profumo di polvere del Teatro alle Vigne. Saranno dieci anni che lo guardavo nella sua magrezza imponente tutta voce e scheletro. Non lo avevo capito. Ci sono incomprensioni che ti cambiano la vita: entrano senza bussare, accendono una lampadina e non lasciano nemmeno un biglietto per capirsi. C’è qualcosa qui, oggi, sulla scrivania di fogli contro polvere che sbordano sul palco che è una lampadina con il profumo di Carlo sopra la platea. Con il cruccio mai cicatrizzato di non essermelo andato a cercare in tempo. Ciao Carlo, te lo scrivo adesso quando è piena anche senza la scia della notizia e del ricordo per le foto dell’ipocrisia di rito.

Plenilunio d’acqua. Favola acquatica in atto unico.

E la canzone dell’acqua
è una cosa eterna.
È la linfa profonda
che fa maturare i campi.
È sangue di poeti
che lasciano smarrire
le loro anime nei sentieri
della natura.
Che armonia spande
sgorgando dalla roccia!
Si abbandona agli uomini
con le sue dolci cadenze.
Il mattino è chiaro.
I focolari fumano
e i fiumi sono braccia
che alzano la nebbia.
Ascoltate i romances
dell’acqua tra i pioppi.
Sono uccelli senz’ala
sperduti nell’erba!
Gli alberi che cantano
si spezzano e seccano.
E diventano pianure
le montagne serene.
Ma la canzone dell’acqua
è una cosa eterna.
(F.G. Lorca)

C’è una favola, una favola leggera sull’acqua che si intitola semplice “plenilunio d’acqua” e che la ritroveranno solo chissà fra quanti anni magari dentro una bottiglia di plastica tutta accartocciata. Perche fra chissà quanti anni qualcuno, magari qualcuno di molto importante, farà due conti in piazza un pomeriggio che ci saranno quasi tutti, e si riuscirà a dirlo forte che quella bottiglia accartocciata, che finisce accartocciata come tutte le bottiglie accartocciate negli angoli accartocciati del mondo, ecco lì in piazza (ma sara fra chissà quanti anni) si sentirà dire che quella bottiglia accartocciata e il camioncino che l’ha portata fin lì costano una fatica cento volte per l’acqua che c’è dentro. E allora la favola conviene cominciare a raccontarla adesso, mentre portiamo bottiglie accartocciabili di qua e di là senza preoccupazioni su e giù per il mondo, mentre usiamo per lavarci i denti gli stessi secchi d’acqua che in qualche angolo accartocciato e assetato del mondo basterebbero a tutta una famiglia per tutto un giorno, mentre ci occupiamo che il balcone sia in pendenza giusta per imbucare bene e presto la pioggia dentro i tombini. Perché poi magari succede come per tutto che l’acqua diventa una preoccupazione e la favola si avvera, e quando sono preoccupati si sa che la gente la prima cosa che smette di fare è ascoltare le favole:
C’era una volta uno stagno, uno stagno pulito, areato, con un bel sole di giorno e un’arietta fresca che lo accarezzava la sera, e dentro un’acqua così chiara e così fresca che ti viene sete anche solo a raccontarla. Nello stagno ci abitavano quattro famiglie di rane e ogni tanto di passaggio ci veniva per le vacanze un fenicottero e delle zanzare. La giornata era la tipica giornata come succede in tutti gli stagni del giorno: al mattino a sciacquarsi bene tra le zampe e sotto al gargarozzo nell’angolo a destra dove le mamme insaponavano i più piccoli, a mezzogiorno tutti insieme a cucinare in umido nell’angolo a sinistra che stava sotto l’ombra comoda degli alberi sull’argine, al pomeriggio ci si rincorre sulle foglie che galleggiano in tutto quello spazio in mezzo e poi la sera ognuno tornava a casa con i fratelli e i genitori nella propria casa di canneto. E le case di canneto erano così larghe e lunghe che ci avrebbero dormito in ognuna quasi cento rane sdraiate per il lungo. Un giorno una rana che voleva diventare sindaco convocò una riunione e prese un megafono di erba
–    Cari cittadini! (disse con la voce erbosa e megafona che rimbalzava sull’acqua) noi stiamo bene qui nel nostro stagno che tutti ci invidiano, questo lo so bene, ma io voglio farvi un regalo ancora più grande per stare più comodi e poterci stendere per il lungo nelle nostre case non cento ma quasi mille rane stese per il lungo. Ieri una zanzara mi ha parlato dei suoi viaggi sopra all’umido nel suo giro di mezzo mondo! C’è non lontano da qui, al massimo a mille salti da qui, uno stagno molto più grande del nostro, con un’acqua fresca che è azzurra come è azzurro l’angolo della bocca delll’airone. E gli orli di quest’acqua sono fatti di schiuma. Lì potremmo avere tanto spazio che ognuno di noi avrebbe un giardino fuori dalla porta grande come questo stagno! Venderemo il nostro stagno e ci compreremo una mare!
–    Evviva!
Gridavano tutti, tutti tranne il vecchio Ranonnno, che a lui questa storia proprio non lo convinceva. Il vecchio Ranonno ne aveva già viste di storie che partivano con il sogno di un lago e finivano nel buco del lavandino.
Il giorno dopo arrivò un contadino con un cappello rotondo di paglia sulla testa. La rana che voleva diventare sindaco gli aveva venduto l’angolo basso per piantarci del riso da risotto. E ci martellò nell’angolo una recinzione di un ferro mezzo verde ma tutto arrugginito cha faceva lì vicino un’acqua che sapeva di ferro come gli sciroppi per la tosse.
–    Non preoccupatevi! Disse alle quattro famigli la rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare – basterà stringerci un po’ durante la colazione!
Poi il giorno successivo arrivò un tubo. Sì proprio un tubo, di quelli arancioni e di plastica che a guardarlo con occhi da rana sembrava una galleria arancione ma senza la montagna sopra. La rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare aveva venduto l’angolo a destra dove le mamme insaponavano i piccoli ad una fabbrica che stava poco lontano e cominciò a sputare fuori dalla galleria a forma di tubo un’acquetta tutta solida che faceva una macchia bianca e tutta gommosa. E le rane a nuotarci vicino avevano un mal di pancia peggio di un’indigestione di cachi.
–    Non preoccupatevi! Disse la rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare. – basterà che una famiglia delle quattro si trasferisca un paio di giorni, una settimana al massimo, per racimolare i soldi che ci servono per firmare il contratto e comprarci il mare!
Venne deciso che la famiglia che doveva traslocare era quella del secondo canneto alla foglia numero tre, perché avevano sette figli e occupavano molto spazio. Al mattino quando partirono con tutte quelle valigie e scatoloni tutti legati nello stagno si alzò una nebbiolina leggera di tristezza che non si era mai vista e rimase incastrata tra la macchia gommosa del tubo e la recinzione di mezzo ferro per tutte le settimane dopo. Adesso però c’era un fastidioso problema: l’acqua che sapeva così tanto di acqua ormai piano piano cominciava ad avere un sapore dolciastro, a volte u po’ amarognolo e con una punta di carciofo. Le famiglie decisero che era proprio da ridere stare tutto il giorno in un’acqua che non sapeva di acqua, che rimbalzava come la gomma e arrugginiva come il ferro.
–    Non preoccupatevi! Disse la rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare. – traslocheremo per qualche giorno, al massimo una settimana, la famiglia del canneto all’ombra e chiederemo al fenicottero di portarci dell’acqua a forma di acqua e al sapore di acqua dallo stagno vicino, in cambio di una sua piscina personale nell’angolo all’ombra! Per noi ci basterà per qualche giorno, una settimana al massimo, smettere di giocare alla rincorsa sulle foglie e aspettare di comprarci il nostro mare!
E così fu fatto. Altre valigie e scatoloni per la famiglia della famiglia del canneto all’ombra, fazzoletti bianchi alla stazione per i saluti con il fenicottero felice che portava acqua e avvitava il trampolini nella sua piscina recintata. E la nebbia incastrata della malinconia che sapeva di gomma e ferro si faceva sempre più densa. Così dopo una settimana le due famiglie che erano rimaste, e la rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare e Ranonno vivevano un po’ più stretti e inciampevoli nello stagno che una volta era pulito, areato, con un bel sole di giorno e un’arietta fresca che lo accarezzava la sera, e dentro un’acqua così chiara e così fresca che ti viene sete anche solo a raccontarla. Ma erano anche speranzosi che da lì a poco avrebbero abitato in un pezzo di mare tutto per loro. Solo il Ranonnno non era speranzoso, perché ne aveva già viste tante di storie che dovevano essere un lago e invece finivano nel buco del lavandino.
Finchè un lunedì mattina la rana che voleva diventare sindaco non disse che ormai si era vicini alla meta. Disse che mancava poco per definire il contratto del pezzo di mare, e con gli occhi che brillavano raccontò che il martedì sarebbe arrivata la balena che aveva comprato un bel pezzo di stagno per passarci le vacanze. Perché si sa che le balene hanno la testa tanto grossa che dentro ogni tanto rimbalzano delle idee che sono proprio strane.
–    Una balena? Ma non ci staremo mai! Dissero le due famiglie rimaste. Ma come faremo? Dovremo ammucchiare tutti i nostri mobili e le nostre cose in angolo come i sacchi della spazzatura?
Questa storia della balena proprio non li convinceva. La rana che voleva diventare sindaco provò a convincerli, ma non c’era proprio modo di farglielo capire. Le due famiglie fecero i bagagli e salirono sul primo treno.
–    Meglio così! Pensò la rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare. – sarò da solo tra le onde e starò largo come un re!
Anche il Ranonno fu la volta che andò via. prese il suo vecchio bastone e quei quelle quattro camicie che stavano nell’armadio e passò a salutare la rana che voleva diventare sindaco. Tirò fuori un foglio chiuso in quattro con un bollo di ceralacca e si raccomandò di aprirlo solo dopo l’arrivo della balena.
Il martedì la balena arrivò, con le sue sedici valigie e quattro cappelliere, che era ancora mattina presto. La rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare si mise nel suo angolo di stagno che ormai le era rimasto e che era piccolo come un fazzoletto piccolo e puzzolente come una schiuma puzzolente. La balena sistemò bene uno a uno tutti i suoi vestiti (quelli della festa, quelli per il tennis, quelli lavoro e sette vestaglie per la notte), poi indossò un costume giallo nuovo che aveva comprato per l’occasione e si tuffò con un tuffo a bomba nel suo nuovo pezzo di stagno in affitto. La rana che voleva diventare sindaco (che era ormai da sola a guardare la scena) dovette subito ritirare le zampe da quanto la balena le atterrò vicino e in quel momento pensò che è senza senso stare stretti in uno stagno in cui si è soli. Ma pensò al suo pezzo di mare e la tristezza per un secondo passò. Poi la balena si immerse sotto il velo d’acqua dello stagno, fece un respiro profondo e spruzzò con un fischio una torre d’acqua così alta che sembravano tre grattacielo uno in testa all’altro. E lo stagno cominciò veloce a svuotarsi; rimanevano le fogli e quei secchi dei rami secchi. E il grattacielo d’acqua continuava e diventava sempre più alto e il fischio sempre più fischio. E nello stagno oramai cominciava a vedersi il fondo fangoso e le cantine dei granchi e i chiodi del recinto che sapeva di ferro e il buco nero della galleria arancione a forma di tubo. Finchè lo spruzzo si spense, il fischio sfischiò un momento prima di spegnersi e la balena con il costumino nuovo all’asciutto cominciò a strepitare e ad urlare come un bambino inciampato. Poi si sistemò la frangia e continuando a a tutto volume disse alla rana che era stata truffata, che non avrebbe pagato e che anzi se l’avesse presa gliel’avrebbe fatta pagare.
La rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare cominciò a saltare tutta storta e spaventata per scappare dai passi della balena che cominciava ad arrivare e saltò più forte del forte che sapeva tutto il pomeriggio e poi tutta la sera fino al mattino dopo tra gli alberi, le montagne e la neve e il deserto, correva così forte e così tanto che pensava quasi di aver fatto mezzo giro del mondo. Al mattino sola, stanca e senza più nemmeno un fazzoletto a forma di stagno dove stare e senza le sue cose che erano rimaste nell’armadio asciutto trovò un ruscello, un torrentino che veniva da nessuna parte e non andava da nessuna parte. E fu triste a pensare che alla fine il suo mare aveva quella forma di ruscello timido e magro. E fu triste a pensare come si sta soli in un ruscello da soli e com’era triste aver traslocato gli amici.
In tasca aveva solo il foglietto del vecchio Ranonnno, che di tutta questa storia non era mai stato convinto perché ne aveva viste tante finire nel buco del lavandino. La rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare fu felice che almeno qualcosa era riuscita a portarsela via e seduta nel torrente che le arrivava alle ginocchia aprì la ceralacca. Dentro c’era un proverbio degli indiani Sioux Teton d’America e diceva:
Una rana non s’ingozza mai di tutta l’acqua dello stagno in cui vive.