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Ottobre 2013

Bindi all’Antimafia/ Cavalli ad Affari: una conoscenza del tema sarebbe stata preferibile

da AFFARITALIANI

“Credo che la classe dirigente dovrebbe essere l’espressione migliore di una certa professionalità sul tema, in questo caso della lotta alla mafia. E non voglio per forza dire una preparazione specifica, ma almeno una certa sensibilità”. Giulio Cavalli, attore e politico impegnato da anni nella lotta alla mafia, commenta con Affaritaliani.itla nomina di Rosy Bindi alla presidenza della Commissione antimafia.

E sulle fratture tra Pd e Pdl è pessimista: “Non mi sembra che questa nomina nasca sotto i migliori auspici. Il fatto che nasca in queste condizioni, con questa frantumazione politica e così tardi non è un buon segnale. Se le larghe intese sull’economia non si trasferiscono nella lotta al crimine organizzato sono una barzelletta”.

Il dubbio sulla professionalità resta: “La Bindi so che ha servito molto bene le salamelle all’ultima festa dell’Unità. E’ il sogno americano: parti vendendo panini e arrivi a presiedere la Commissione antimafia”. E sul probabile avvallo di Matteo Renzi alla nomina aggiunge: “Ho la sensazione che in termini congressuali stiano salendo molti sul carro di Renzi e che trovino le porte sempre belle aperte”.
Di Tommaso Cinquemani
twitter@Tommaso5mani

Giulio Cavalli: “L’antimafia si fa con la buona amministrazione, non con gli attori teatrali o gli scrittori”

In occasione della chiusura del programma “In viaggio con la Mehari”, tenutosi al Pan di Napoli, intervenuto l’attore Giulio Cavalli, sotto scorta per il suo impegno antimafia e di recente minacciato per l’ennesima volta, con il ritrovamento di una pistola carica nel giardino antistante la sua casa di Roma.

L’appuntamento a cui hai partecipato serve a ricordare Giancarlo Siani, giornalista ucciso dalla camorra nel 1985. Quanto è importante ricordare figure come la sua e quelle delle altre vittime di mafia?
“L’importante è che sia un ricordo vivo, quindi che sia un’azione. Secondo me il paradigma di Giancarlo Siani è tutto nel voler analizzare, e non solo indignarsi, di fronte al fenomeno camorra, e quindi studiarlo, e soprattutto semplificarlo per renderlo fruibile a tutti. Oggi servirebbero cento Giancarlo Siani per far sì che la mafia e l’antimafia non rischino di diventare degli argomenti troppo endogamici, troppo intellettuali e poco fruibili”.

Quanto è importante, secondo te, il riutilizzo dei beni confiscati?
“Bisognerebbe aprire il dibattito e riconoscere che l’agenzia nazionale dei beni confiscati non funziona. Riconoscere che finché non risolviamo i problemi dei rapporti con gli istituti bancari, e le colpe degli istituti bancari, su eventuali mutui sui beni confiscati. E ci vorrebbe un po’ meno buonismo e più sana amministrazione. L’antimafia si fa con una buona amministrazione. Non si fa con gli attori teatrali o con gli scrittori. L’importante è non vendere i beni confiscati e io spero che ancheRoberto Saviano si ravveda quanto prima su questo“.

Lo scorso 5 ottobre saresti dovuto essere a Napoli, al Nuovo Teatro Sanità, per il tuo spettacolo “L’innocenza di Giulio. Andreotti non è stato assolto”. Appuntamento saltato per l’ennesima minaccia ricevuta. Quanto è importante, in questo Paese, il teatro civile?
“È importante per la mia piccolissima e umilissima parte. Un Paese non si salva con gli scrittori civili. Non si salva con gli attori civili. Questo è un Paese che si salva con i contadini civili, la mamme, i fratelli maggiori. Non credo che ci sia un’arma più potente delle altre. Credo che ci debba essere una rete. Forse quello che lascia perplessi è che la criminalità è molto organizzata, mentre l’antimafia molto meno”.

La criminalità è molto organizzata anche perché molto spesso va a braccetto con la politica?
“Un altro passo importante sarebbe quello di smetterla di dividere i buoni e i cattivi in un mondo in cui le zone di grigio sono tantissime. Le semplificazioni le trovo sempre pericolose. La magistratura e le istituzioni buone. I mafiosi cattivi. Tutto quel mondo che c’è in mezzo è quello che a me spaventa molto di più. A me fa molto più paura un prefetto inconsapevole che uno ‘ndranghetista armato”.

Tu dicevi che spesso l’antimafia e poco organizzata. A volte, è più un’antimafia di facciata. Cosa ne pensi?
“Due cose mi preoccupano. Una è l’antimafia che non fa nomi, ed è un’antimafia con troppa buona educazione, che non mi appartiene e non fa per me. La seconda è che noi siamo abituati a degli ambienti antimafiosi che sono solidali solo con i propri sodali, e antropologicamente questa è proprio la solidarietà tipica del clan. Serve un’antimafia un po’ più aperta, senza padroni, più libera, nel senso vero della parola”.

Passando al teatro. Dove ci sono i giovani con maggiori prospettive in questa professione?
“Io penso che la vitalità di questo Paese dal punto di vista teatrale sia tutta nel sud. Lo raccontano anche i successi di questi ultimi anni. Penso alla vitalità della Puglia, alla vitalità stessa della Campania. Ci sono solo due categorie che ascoltano solo quando si parla di loro: gli attori e gli antimafiosi. Quindi puoi immaginare un attore antimafioso come sia pericoloso al cubo”.

(dall’huffington post)

Infetto interno

L’antimafia, invece, spesso dimentica che prima di combattere il nemico esterno, bisogna imparare a combattere contro i sentimenti bassi, le disgregazioni, le delegittimazioni e l’isolamento che la infetta all’interno.

Vale la pena leggere Massimiliano Perna, oggi, qui.

Le intercettazioni dimenticate in traghetto

La ‘ndrangheta non ha bisogno di sparare, no. La ‘ndrangheta sarebbe solo un accolita di stronzi se non succedessero fatti che passano (troppo) in silenzio e che dipingono perfettamente il livello di collusione con ambienti altri che di mafioso non hanno nulla, ad occhi nudi.

Se il faldone delle intercettazioni di uno dei processi chiave in corso in questi giorni a Reggio Calabria viene “ritrovato” dimenticato su un traghetto, aperto, significa che tutto il lavoro della Procura è appeso ad un filo. Eppure il processo “Meta” è fondamentale per dimostrare che le grandi famiglie De Stefano, Tegano, Libri e Condello – messe da parte le rivalità della seconda guerra di mafia – hanno deciso di unirsi in una sorta di “direttorio” per controllare in maniera oppressiva ogni settore cittadino (e non solo).

Il pubblico ministero della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, all’apertura dell’udienza di ieri del processo “Meta” ne ha dato comunicazione: i quattro plichi “dimenticati” su un traghetto sarebbero stati trovati integri e solamente uno risulterebbe “aperto”. Quelle stesse intercettazioni, tra l’altro, guarda il caso, dovrebbero essere già state trascritte ma, guarda il caso, il compito non è ancora stato svolto nonostante l’incarico sia stato dato diversi mesi fa.

In un Paese curioso una notizia del genere rimbalzerebbe in ogni angolo. In ogni angolo.

Intanto in Lombardia si spara

Questa la novità: nel 2013 a Buccinasco la ‘ndrangheta torna a sparare. E lo fa con efficacia chirurgica. Intimidazione talmente eclatante da spingere la vittima a non denunciare, a cancellare le prove e, fatto grave e inquietante, a fuggire da Milano per rifugiarsi, assieme alla famiglia, in una regione del centro Italia. Movente delle minacce: aver sconfinato il suo territorio di spaccio. Ad azionare il grilletto uomini di clan minori ma storicamente alleati alle cosche di Platì dominanti nell’hinterland sud-ovest del capoluogo lombardo.

Ecco allora i fatti. Cinque colpi contro un’auto. Sparati per intimidire. Alla maniera mafiosa. Prima va in frantumi il lunotto posteriore poi quello anteriore. Un proiettile si incastra tra le due portiere. Capita a Buccinasco i primi giorni di aprile del 2013. Le nove di sera sono passate da poco. In via degli Alpini davanti al parcheggio dell’Esselunga un gruppo di ragazze esce dalla palestra. L’obiettivo degli attentatori non è distante. Poi il fatto: due uomini arrivano a bordo di una moto, il passeggero scende e inizia a sparare. Le giovani atlete assistono alla scena, ma sono distanti. Subito dopo la moto riparte. Dai locali vicini escono in molti. Hanno sentito, dicono che avvertiranno i carabinieri di Corsico. Le ragazze così se ne vanno. Nulla, però, succede. Nessuno denuncia. Di più: poche ore dopo l’auto crivellata di colpi sparisce.

I carabinieri si attivano qualche giorno dopo. Ma solo perché il passaparola consegna a un militare la descrizione della sparatoria. Il lavoro non è facile. Si torna sul posto, ma è difficile trovare indizi utili. Ci si affida così alle fonti confidenziali. Il territorio, si sa, è ad alta densità criminale. E, infatti, l’episodio non passa inosservato. Chi sa parla e indica una carrozzeria a Trezzano Sul Naviglio. Qui, poco dopo gli spari, arriva il titolare dell’auto per farla riparare. Il dato è decisivo. Salta fuori il nome del proprietario. Si tratta di un medio spacciatore di origini pugliesi. Di mestiere fa il cuoco, ha moglie e un figlio. Quando viene convocato dai carabinieri resta di sasso, sbianca, non parla. Si capisce che sa, ma non vuole dire. I carabinieri riescono comunque a ricostruire. Il movente dell’intimidazione è da ricercare nel traffico di droga gestito, in queste zone, da uomini della ‘ndrangheta. Il cuoco, naturalmente, non è un affiliato, ma un acquirente sì. Evidentemente, ragionano gli investigatori, ha sconfinato la sua zona di azione oppure non ha pagato una partita droga. Non chili, ma qualche etto. Questo il suo giro d’affari. Quindi, dopo l’interrogatorio, la fuga precipitosa.

I boss, dunque, riprendono in mano le armi. Sparano, ma non uccidono. I morti fanno troppo rumore. Tanto che, in queste zone, l’ultimo omicidio di mafia risale al 27 settembre 2000, quando viene ucciso Pasquale Ciccaldo, spacciatore con ambizioni da boss. Ciccaldo stava rientrando a Corsico. Gli spararono con un fucile a canne mozze e lo finirono con un colpo in testa. Perché, allora come oggi, la ‘ndrangheta non tollera sconfinamenti.

(il sempre bravissimo Davide Milosa)

Fare lo scrittore. Oltre che scrivere.

Ecco, vale la pena leggere il libro di Giuseppe Culicchia, E così vorresti fare lo scrittore. Ma sul serio e anche se non volete fare lo scrittore. Perché dentro c’è un modo di essere che può essere declinato in tutte le professioni.

Ora, dato che in Italia sono più quelli che scrivono che quelli che leggono, e ci mancherebbe visto che oggi come oggi siamo tutti creativi e non a caso in Toscana dedicano proprio alla creatività l’immancabile festival e sempre alla creatività è stato intitolato l’ultimo Salone del Libro, immagino dietro suggerimento di un creativo, forse anche tu stai per pubblicare il primo romanzo. O la prima raccolta di racconti. O la prima raccolta di poesie. O anche solo il primo racconto. O magari appena la prima poesia. Stai per farlo con la casa editrice Einaudi, firmando un contratto? Benissimo. Stai per farlo con un editore a pagamento, firmando un assegno? Malissimo. In ogni caso sappi che d’ora in poi, sia in privato sia in pubblico, potrai tirartela. Anzi no, dovrai tirartela. Se già te la tiravi prima, meglio: significa che sei naturalmente predisposto alla carriera intellettuale. Se invece non sei tipo da tirartela, vuol dire che dovrai imparare a farlo. Per come funzionano le cose nel dorato mondo delle Lettere italiane, infatti, ben presto imparerai a tue spese che solo e soltanto tirandotela verrai preso sul serio da critica, stampa, pubblico e dai famosi addetti ai lavori. Non a caso, chi pur pubblicando qualcosa non se la tira suscita sempre una grande diffidenza. Viene per così dire preso sottogamba, quando non del tutto ignorato anche da testate specializzate che in teoria dovrebbero almeno accorgersi della sua esistenza, magari recensendo il suo decimo romanzo. Chi non se la tira a dovere, peritandosi di usare non solo sulla pagina ma anche in occasione di interventi e interviste parole magari inutili e che però necessitano della consultazione del dizionario, suscita inevitabilmente commenti del tipo:

1. Ma come, ora pubblicano anche uno così?
2. Ma come si fa a pubblicare uno così?
3. Beh, se hanno pubblicato uno così, non vedo perché non dovrebbero pubblicare anche me.
4. Vorrei capire perché a uno così lo pubblicano, e a me no.
5. Il fatto che abbiano pubblicato uno così è la cartina di tornasole della decadenza della società letteraria italiana.
6. Il fatto che abbiano pubblicato uno così è la cartina di tornasole della decadenza del sistema Italia.
7. Il fatto che abbiano pubblicato uno così è la cartina di tornasole della decadenza della civiltà occidentale.
8. Il fatto che abbiano pubblicato uno così è la cartina di tornasole della decadenza del genere umano.
9. Il fatto che abbiano pubblicato uno così è la prova che Dio non esiste.
10. Certo che oggi in Italia pubblicano proprio tutti.

81sLpP+G+ZL._SL1423_Chi pubblicando qualcosa al contrario se la tira, non solo quando viene intervistato dai tiggì dopo aver vinto il Premio Strega o averlo perso per un voto ma anche mentre ordina un’insalata al ristorante, suscita immancabilmente un grande rispetto e una pari ammirazione, spesso accompagnati da una certa soggezione. E in genere provoca reazioni della serie:

1. E poi… scrive divinamente.
2. E poi… è così affascinante.
3. E poi… ha un gran carisma.
4. E poi… ha scritto tante di quelle frasi che a me piace sottolineare.
5. E poi… prima ha riscritto Omero, quindi ha rivisto Mozart, e infine dopo aver corretto Melville ha smontato Beethoven. Adesso, pare, dopo averci spiegato il mondo sta lavorando a un remix della Bibbia.
6. E poi… scrive editoriali lunghissimi occupandosi di pedofilia e globalizzazione e gite scolastiche e teatro molecolare e cinema quantistico e fisica coreana e meccanica napoletana e pizza sperimentale e arte della guerra e sindonologia comparata e.
7. E poi… ha detto che suo figlio di undici anni e Steve Jobs ragionano alla stessa maniera.
8. E poi… ha detto che anche se è tra i votanti del Premio Strega aveva comunque il diritto di votare se stesso al Premio Strega, e che se non ha vinto il Premio Strega per un solo voto, malgrado il suo voto, è solo perché il Premio Strega è in mano ai giochetti degli editori.
9. E poi… se n’è andato, così com’era venuto, senza salutare.
10. E poi… non ho capito bene che cosa volesse dire, ma avessi visto come lo diceva.

Per tirarsela come si deve basta aver scritto e se possibile pubblicato, meglio se non a pagamento, anche solo un romanzo, o una raccolta di racconti, o al limite un singolo racconto, o perfino una singola poesia. Riguardo alle vendite, che sono non di rado il primo pensiero di chiunque venga pubblicato, anche se di norma è più elegante assumere un atteggiamento di distacco riguardo all’argomento, è sufficiente attrezzarsi. Se si è venduto bene, benissimo: significa che finalmente anche il grande pubblico ha imparato ad apprezzare le opere di qualità. Se non si è venduto granché bene, bene lo stesso: significa che il grande pubblico non è ancora pronto per apprezzare le opere di qualità ma è sulla strada per farlo. Se non si è venduto per niente bene, male: ma l’Italia, si sa, è “un paese di merda”.
Tirarsela come si deve, tuttavia, non è cosa semplice. Bisogna essere profondamente insicuri di sé e allo stesso tempo prendersi molto sul serio, tanto da arrogarsi la libertà di spiegare il mondo dall’alto della propria intelligenza a lettori e commensali, dichiarando altresì la bontà della propria poetica e sentenziando l’irrilevanza di quelle altrui, se possibile in modo così lambiccato da escludere a priori ogni seria ipotesi di chiarezza. Inoltre occorre atteggiarsi a intellettuali, e perciò vestirsi prevalentemente di nero. Ma non basta. Per tirartela al meglio dovrai perciò tenere a mente alcune regole fondamentali e applicarle sia quando vai alla toilette sia quando vincerai il Premio Strega, o lo perderai per un voto.

1. Scegliere con cura i termini di paragone per quanto riguarda te stesso e la tua opera. I nomi migliori sono in assoluto quelli di Omero, Proust, Borges. Per darti un tono, cita Bolaño. Per fare sfoggio della tua cultura underground, cita Frank Miller. Per distinguerti ancora un po’ e fare sfoggio della tua trasversalità culturale, il collettivo Wu Ming. Cita sempre il compianto David Foster Wallace. Va da sé che per citare qualcuno non è necessario aver letto ciò che ha scritto.
2. A tavola con gli amici come sul palco dove stai presentando la tua opera, accenna come di sfuggita a tutta una serie di autori anche se non ti sei mai dato la pena di sfogliarli. Tra gli indispensabili: Baudrillard, Benjamin, Calvino, Deleuze, Foucault. Con Calvino in particolare si va sempre sul sicuro perché avendo scritto tra gli altri un libro intitolato Le città invisibili si presta a essere citato con grande facilità, a meno che non si sia autori di un romanzo, o una raccolta di racconti, o una raccolta di poesie, o anche solo un racconto, o appena una poesia, con ambientazione incontrovertibilmente agreste. Tra una parola e l’altra ricordati di ammiccare alla “leggerezza calviniana”. Ricordati altresì di citare il compianto David Foster Wallace.
3. Specie quando non sai che cosa dire, devi avere l’aria di soppesare con cura non solo le frasi ma anche le singole parole. In ogni caso, parla molto, molto, molto lentamente, anche per apprezzare fino in fondo il suono della tua voce. Cerca di imitare quella del compianto David Foster Wallace, anche se a dire il vero non l’hai mai sentita.
4. Ravvivati spesso i capelli. In assenza dei medesimi, punta tutto sullo sguardo. Uno sguardo alla David Foster Wallace.
5. Smetti di salutare. Chi? Tutti, tranne i critici che contano e i colleghi da cui ti aspetti una recensione positiva per l’ultimo libro che hai pubblicato visto che hai recensito positivamente il loro ultimo libro. Ricordati anche di salutare il tuo editore così da potergli telefonare a maggio per sollecitare il pagamento dei diritti eventualmente spettanti. Digli che comunque lo faceva anche il compianto David Foster Wallace.
6. Anche se stai cucinando una semplice pasta in bianco, approfittane per spiegare il mondo a partire da una semplice pasta in bianco a chiunque in quell’istante sia presente in veste di pubblico: mogli, figli, amici, gatti eccetera. Pare che anche il compianto David Foster Wallace amasse cucinare, del resto.
7. Accetta tutte le interviste, anche quelle sull’autenticità della Sindone o sugli ultimi sviluppi della politica siciliana, dando risposte a un tempo trasversali e apodittiche (avendo cura di accertarti, prima di darle, del significato del termine “apodittiche”). Nelle interviste, infila sempre il nome del compianto David Foster Wallace.
8. Partecipa a tutti i dibattiti di tutti i festival, da quello sulla spiritualità a quello sulla matematica, spiegando il mondo al pubblico. Ricordati di presenziare al dibattito vestito di nero da capo a piedi. Rammaricati per la scomparsa precoce del compianto David Foster Wallace.
9. Spara a zero sulla televisione. Ma fai di tutto per andarci, ovviamente a Che tempo che fa di Fazio ma anche a Ciao Darwin di Bonolis. Millanta di avere scoperto il compianto David Foster Wallace prima di chiunque altro.
10. Protesta con chi di dovere perché nella stanza all’Hotel Le Méridien, il cinque stelle del Lingotto, dove sei sceso in occasione del Salone del Libro non hai trovato i cioccolatini in omaggio visti nelle mani di altri autori anche meno famosi di te. Di sicuro comunque non se li è presi il compianto David Foster Wallace.

Poi certo devi tirartela, oltre che in privato davanti allo specchio magari provando e riprovando gli sguardi e le posture e i gesti più adatti, e in pubblico sopra un palco, anche in Rete, digitando su una tastiera, cosa che com’è noto si può fare anche in mutande. Prima di accendere il computer occorre però prendere atto che il Web è almeno in ambito letterario il regno assoluto del narcisismo, e che malgrado ivi abbondi il guano (lo sostiene Wu Ming 1 ed è obiettivamente difficile dargli torto), se vuoi passare per uno scrittore autorevole dovrai partecipare a più forum incentrati sul dorato mondo delle Lettere e sulle ricorrenti polemiche in merito a questa o quella presa di posizione di questo o quell’autore in merito a questo o quell’argomento, si tratti della possibilità di scrivere non più dopo Auschwitz ma dopo lo “spettacolare” attentato dell’11 settembre, di aderire o meno al manifesto letterario del momento, di sottoscrivere l’ultima raccolta di firme, ironizzando su chi usa a sproposito termini come “enallage” o “ipallage” e facendo notare en passant il fatto di aver discusso la propria tesi di laurea con Umberto Eco o comunque a Bologna. Non solo. Tieni a mente che occorre ribadire la propria esistenza approfittando di ogni occasione di visibilità digitale, si tratti di intrufolarsi in una discussione sul nazismo vero o presunto degli gnomi di Tolkien o di partecipare a un dibattito sul caso del fantomatico capitolo mancante di Petrolio di Pasolini o di esprimere solidarietà a Saviano malgrado l’invidia per il numero di copie vendute, medicata solo in parte dal fatto che Saviano vive sotto scorta da anni. Che si tratti di una discussione o di un dibattito, l’essenziale è rimarcare con ogni mezzo la propria superiore intelligenza e cultura ed erudizione, così da consolidare almeno virtualmente il proprio prestigio e quindi la propria carriera intellettuale senza badare al fatto che il fatturato di tutta l’editoria italiana è comunque inferiore a quello non della Ferrero ma di un singolo prodotto della Ferrero ossia della Nutella, anche se così facendo è facile trasformare il tutto in un litigio con gli altri partecipanti al dibattito o alla discussione, perché ciascuno è lì per rimarcare le proprie e consolidare eccetera. Salvo poi dirsi disgustati, a cena con gli amici o in veste di opinionisti su un qualche quotidiano, dalle risse televisive e dalla barbarie degli ultras.

Domani a Milano per Lea

Denise, la figlia di Lea Garofalo ci chiede di essere in tanti.

E non si può davvero mancare perché l’insegnamento che ci lascia Lea Garofalo, Denise e la condanna per Carlo Cosco e i suoi sodali è una lezione da non dimenticare.

Ore 10.30, Piazza Beccaria, Milano. Il funerale di Lea.

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