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Giulio Cavalli

Sudore e sabbia

berlusconi-mangano-dellutriNon è propriamente sabbia perché in fondo si tratta di polvere diventata spessa ma la scrittura de L’amico degli eroi e la sua produzione “sociale” sono un letargo produttivo che mi tiene mediamente lontano dal resto. La scrittura, prima di tutto: sono anni che mi ritrovo a percorrere la corsia d’emergenza del giornalismo per non tralasciare i particolari che probabilmente mi hanno salvato più di qualsiasi altra protezione, sempre intento a scrivere i nomi e i cognomi per dare una faccia riconoscibile ad un argomento che in molti cercano tuttora di rendere fumoso e quindi non discutibile. Ma la scrittura, dicevo, la scrittura mi manca da tantissimi anni;, preso da numeri, date e incroci che mi hanno inflaccidito, forse, ma certo aumentato l’appetito. Eppure proprio oggi, provate a pensarci, scrivere diventa la professione più rischiosa e folle in un momento di informazioni e pareri a tutti i costi e certamente affrontare Dell’Utri (meglio: il dellutrismo come già avevamo fatto con l’andreottismo di Giulio) con tono narrativo mi porta a tornare al teatro, alla scrittura. A casa mia.

Per questo ritengo fondamentale il periodo di lettura collettiva del testo (che sarà il copione e cha sarà il libro) insieme a tutti i produttori (che siete voi, credo, e che comunque potete essere voi contribuendo alla pagina del crowdfunding) per capirsi fin da subito sul fine che ci proponiamo: può la letteratura essere appuntito strumento politico senza bisogno di essere giornalismo? Io credo che sì, altrimenti non sarei qui, e credo che una nuova e rivitalizzante modalità di teatro civile possa (o debba, non so) passare da una fiducia incondizionata alla parola.

Noi siamo qui, cercando di essere all’altezza delle vostre aspettative. Dateci una mano. Se potete. Se volete.

L’aria intorno ad Amazon /2

Il New York Times risponde alla riposta di Amazon:

di David Streitfeld

Forse Amazon è davvero scossa dal fenomeno di Authors United, catalizzatosi intorno allo scrittore Douglas Preston. Gli autori stanno chiedendo ai loro lettori di tempestare di mail Jeff Bezos, amministratore delegato di Amazon, per fargli smettere di “prendere libri in ostaggio” in occasione della controversia con Hachette.

Venerdì scorso, Amazon si è presentata sotto la sigla di Readers United, mettendo on line una lettera dove si incoraggiano gli acquirenti di e-book a tempestare di mail l’amministratore delegato di Hachette, il cui indirizzo è stato prontamente fornito.

Amazon, nella sua lettera, ha ribadito le argomentazioni delle ultime settimane: gli e-book devono essere più economici e Hachette sta derubando i lettori, impedendo che ciò accada. Amazon ha anche fornito degli esempi di giornalismo virtuoso sul tema – una lista molto selettiva.

Per i lettori che non dovessero essere sicuri di cosa scrivere con precisione a Hachette, Amazon ha fornito anche un elenco di punti. Il primo è: “abbiamo notato il vostro cartello illegale”, chiaramente un rompighiaccio in questo tipo di discussioni.

Amazon sostiene che le persone che si scagliano contro gli e-book si scagliano contro il futuro, e parla di come l’industria del libro odiasse i tascabili economici quando furonio introdotti nel 1930, di come sostenesse che avrebbe rovinato il business quando invece il tempo ha dimostrato il contrario. Purtroppo però, per rafforzare la propria tesi, Amazon ha tirato in ballo l’autorità sbagliata:

“Il famoso scrittore George Orwell venne pubblicamente allo scoperto e dichiarò: “gli editori dovrebbero unirsi contro di loro”. Sì, George Orwell stava suggerendo proprio questo.” Cioè, secondo Amazon, di fare cartello.

Ora. Può l’Amazon team, accreditato come la fonte di questo post, avere scritto proprio una cosa del genere? Perché, insomma, basterebbe un colpo di google per rivelare che Amazon sta travisando questo “famoso autore.”

Quando Orwell scrisse la frase citata, stava celebrando i tascabili economici della Penguin, non certo sollecitandone la soppressione. E allora può Amazon – che recentemente ha fatto sparire senza preavviso dai Kindle dei propri clienti diverse copie di 1984 dopo aver scoperto che non ne possedeva i diritti per l’edizione elettronica – davvero credere che George Orwell – tra tutte le persone! – avesse voluto sopprimere i libri?

Ecco dunque ciò che scrisse davvero Orwell sul «New English Weekly», il 5 marzo 1936. “I libri Penguin rappresentano splendido valore per sei pence, talmente splendido che gli altri editori dovrebbero unirsi per reprimerli”.

Capito? Gli piacevano.

Orwell continuò poi a minare quelle che sono diventate le argomentazioni di Amazon in un modo molto più efficace di quanto abbia fatto la stessa Hachette. “Naturalmente è un grande errore pensare che i libri economici incentivino il commercio dei libri”, scrisse. “In realtà è proprio il contrario… Più i libri diventeranno economici, meno denaro verrà speso per i libri”.

Invece di comprare due libri costosi, continuava Orwell, il consumatore comprerà due libri economici e quindi utilizzerà il resto dei suoi soldi per andare al cinema. “Questo è un vantaggio dal punto di vista del lettore e non fa male al commercio nel suo complesso, ma per l’editore, il compositore, l’autore e il libraio, è un disastro”, concludeva.

Il vero problema, sostenne lo scrittore in un saggio di un decennio più tardi, “Libri contro sigarette,” riguardava i libri in sé. Avevano trascorso un momento difficile, dovendosela vedere con altri media – una questione ancora aperta nel 2014.

“Se il nostro consumo di libri rimane basso come è stato fino ad ora”, scriveva Orwell, “ammettiamo almeno che questo accade perché la lettura è un passatempo meno eccitante che andare alla corsa dei cani, al cinema o al pub, e non perché i libri, che comunque possono essere presi in prestito, sono troppo costosi”.

Un portavoce di Amazon non ha risposto alle domande sulll’ipotesi che Orwell non stesse davvero sostenendo un fantomatico cartello di editori ma, semplicemente, facesse dell’ironia.

Ora, fuori da ogni dubbio, ce lo dice lui stesso

“Un minuto prima che Renzi entrasse nella stanza del Presidente della Repubblica mi era stato detto che sarei diventato ministro della Giustizia”, lo ha rivelato ieri sera Nicola Gratteri, procuratore aggiunto a Reggio Calabria e magistrato simbolo della lotta alla ‘ndrangheta, nell’ambito della rassegna culturale Ponza D’Autore. “Nella lista con i 16 nomi con cui Renzi si è presentato da Napolitano c’era anche il mio. Poi là dentro non so cosa sia successo”. “Credo che il Presidente della Repubblica non abbia voluto che diventassi Ministro, ma il vero motivo non lo so”.

Ne avevamo parlato in una puntata di RadioMafiopoli. E qualcuno aveva anche commentato professorale e dubbioso, per dire.

Non esistono storie che filano lisce.

Non esistono storie che filano lisce. Dico tutte per tutto il tempo. Altrimenti non suonerebbero mica, sarebbero una pausa. E una pausa che non suona è solo uno straccio di silenzio. Eppure è così cronometrico-cronologico-martellante giocare alla maratona. Quelle che vinci facile, alla Pietri con la i, sono un silenzio. Un respiro lungo i chilometri che sono. Non è difficile fare alla maratona. Non ci sono mezzi, macchine, rotelle, marchingegni da oliare, pulire, spolverare, controllare. Testa, gambe, ginocchio, piede e sei già arrivato giù alla strada. Dalla testa alla strada c’è il tempo di un capello. Una scossa liscia e senza interruzioni. Una febbre di piede davanti all’altro e piede davanti all’altro e piede davanti all’altro.

(Giulio Cavalli – Corro perché scivolo, ebook)

Potete acquistarlo qui.

AAA Albanesi cercasi

La-Vlora-a-Bari--499x285Temo i pregiudizi. Sempre. Da sempre. Credo che la narcolessia intellettuale e culturale di questo Paese sia in gran parte figlia di un’informazione sommaria, di una riflessione affrettata e di un’immatura riflessione lasciata spesso ai luoghi comuni. Forse anche per questo ho sempre pensato alla “sinistra” come laboratorio di elaborazione di struttura di pensiero piuttosto che località geografica sulla mappa politica. Sul fronte dell’immigrazione abbiamo, in Italia, i migliori (o forse, i peggiori) mistificatori europei: sono riusciti (da Bossi in giù) a macinare una xenofobia nutrita “dall’impellente bisogno” e quindi vissuta con molti meno sensi di colpa rispetto alle sfacciate destre europee. In Italia anche i cittadini “accoglienti per cultura e per natura” si sono ritrovati ad essere vicini alle posizioni di Lega o partiti di destra per una visione distorta della propria realtà, imboccata troppo spesso da allarmi troppo ghiotti per non diventare virulenti. E allora, poiché amo spingermi ad essere curioso, stiamo preparando un progetto di studio e di analisi dell’immigrazione albanese in questi ultimi anni con un occhio di riguardo ai guadagni della criminalità organizzata.

Per questo avrei piacere (e bisogno) di ascoltare, leggere e confrontarmi con gli “immigrati” (parola orribile e cacofonica) e gli operatori che abbiano qualcosa da dirmi, qualche interesse convergente o suggerimento. La mail è la solita: giulio (@) giuliocavalli.net.

Intanto vale la pena leggere uno tralcio dell’intervento in occasione della Settimana della cultura albanese, org. da Illyricum,Patronato Acli, Acli e Ipsia, Milano 3 dicembre 2010:

Non ci occupiamo qui delle fasi storiche dell’emigrazione albanese, che addirittura si rifanno al 1400 quando, a seguito dell’invasione turca, una consistente quota della popolazione riparò in Italia, ma ci concentriamo sui flussi determinatisi dopo il superamento del regime comunista.

Gli albanesi hanno conosciuto una emigrazione di massa durata all’incirca un decennio, mentre l’Italia ha fatto questa esperienza per un secolo e mezzo. Le condizioni problematiche dell’esodo sperimentate anche dagli albanesi hanno caratterizzato la lunga esperienza degli italiani all’estero anche più duramente, senza pregiudicarne uno sbocco finale positivo.

Tra i Paesi europei l’Italia si distingue per essere stato fortemente segnato dall’emigrazione, assicurando a tante aree del mondo una preziosa riserva di manodopera. Non bisogna dimenticare che gli stessi ricchi Paesi del Nord e del Centro Europa furono, a loro volta, Paesi di emigrazione diretta oltreoceano: tra il 1900 e il 1920 furono circa 20 milioni gli europei che partirono alla volta del continente americano

Al Censimento del 1861 gli italiani che vivevano all’estero erano appena 230.000. Con l’unificazione del 1861, il ritardo economico del Sud d’Italia e l’aggravarsi della situazione agricola determinarono la necessità di emigrare anche nelle regioni settentrionali, ma specialmente nel Meridione, per il quale Francesco Saverio Nitti coniò la celebre frase: “O emigranti o briganti”.

Dal 1861 al 1880 la media annuale degli espatri superò di poco le 100.000 persone all’anno, negli anni ’80 fu di poco inferiore alle 190.000 unità l’anno e negli anni ’90 toccò le 290.000 unità.

Nel primo decennio del 1900 gli espatri, in continua crescita, furono in media 600.000 l’anno, prevalentemente transoceanici. Nel 1913 si registrò il picco massimo, con quasi 900.000 espatri, su

una popolazione di 35 milioni di abitanti. Nel periodo 1871-1911 furono 6 milioni le persone a emigrare, in prevalenza oltreoceano, trattenendosi all’estero nei due terzi dei casi.

Poi i flussi verso l’estero diminuirono a causa degli eventi bellici e, tuttavia, la media degli emigranti nel periodo 1911-1920, fu pari a 382.000 espatri l’anno.

Quindi ci fu un rallentamento dovuto alle restrizioni legislative dei Paesi di insediamento e la media annuale degli espatri, dalle 255.000 unità degli anni ’20, scese alle 70.000 negli anni ’30. Il 1932 fu l’anno in cui, per la prima volta, il numero dei migranti scese sotto le 100.000 unità con 83.348 espatri. In quel periodo si indirizzavano i flussi verso le colonie italiane. Tuttavia, nel 1930 venne stipulato un accordo con la Germania in base al quale si trasferirono in terra tedesca ben 500.000 italiani, ma dal 1939 vennero incrementati i rimpatri. Il saldo migratorio per il periodo 1922- 1942 è valutato pari a circa 1.200.000 persone.

La necessità di emigrare riprese dopo la seconda guerra mondiale, ancora una volta coinvolgendo diverse regioni del Nord, e in particolar modo il Veneto. L’allora Presidente del Consiglio dei Ministri, Alcide De Gasperi, per far fronte a questa situazione raccomandò, in maniera generalizzata, di imparare una lingua e di andare a lavorare all’estero.

Il ritmo più alto di espatri dall’Italia si collocò negli anni ’50, con quasi 300.000 unità l’anno e il picco fu raggiunto nel 1961 (387.000 espatri).

Nel complesso sono emigrati quasi 30 milioni di persone, si contano 4 milioni di cittadini italiani residenti in tutte le parti del mondo e tra i 60 e gli 80 milioni di oriundi.

Il 1975 fu l’anno dell’inversione di tendenza perché i rimpatri (123.000) prevalsero sugli espatri (93.000). Si colloca in quel periodo l’inizio dell’immigrazione straniera in Italia, che però ha iniziato a coinvolgere l’Albania solo 15 anni dopo.

È doveroso chiedersi come fossero trattati gli italiani all’estero in questo lungo periodo di emigrazione di massa. In Brasile sostituirono gli schiavi; negli Stati Uniti non poterono utilizzare le chiese normali e furono ammessi a pregare solo nei sottoscala; non mancarono i casi di linciaggio, tanto negli Stati Uniti (fu famoso quello di New Orleans nel 1901) che in Francia (Aigues Morts nel 1893); in Belgio nell’ultimo dopoguerra molti furono sistemati nelle baracche di internamento dei prigionieri tedeschi; in Sud Africa l’avvio di una consistente collettività va riferito al grande campo di concentramento stabilito sul posto per più di 100.000 italiani. A Buenos Aires il prof. Cornelio Moyano Gacita così scriveva degli italiani: “La scienza ci insegna che insieme col carattere intraprendente, intelligente, libero, inventivo e artistico degli italiani c’è il residuo di un’alta criminalità di sangue”. Considerazioni simili sugli italiani, specialmente se meridionali, erano diffuse in altri Paesi esteri, come ad esempio negli Stati Uniti: “Gli individui più pigri, depravati e indegni che esistano… Tranne i polacchi, non conosciamo altre persone altrettanto indesiderabili” (Corriere della Sera, 22 febbraio 2002, pag. 1 e 9).

[…]

La maggioranza della popolazione italiana, come hanno evidenziato diverse indagini, è propensa a ritenere che il problema della criminalità e la mancanza di sicurezza urbana in Italia siano, in gran parte, addebitabili agli immigrati, in particolare agli albanesi e ai romeni.

Un giudizio così severo, secondo le ricerche condotte dai redattori del Dossier Caritas/Migrantes (che trovano un supporto anche in altre indagini), senz’altro non è giustificato nei confronti degli immigrati regolari e va riferito con grande cautela anche agli irregolari. Sono, perciò, fondamentali le precisazioni sul tasso di criminalità degli immigrati, sul ritmo d’aumento delle denunce contro stranieri, sul comportamento dei nuovi immigrati e, infine, sugli aspetti penali riguardanti gli albanesi.

a. Italiani e stranieri: un tasso di criminalità simile. Il tasso di criminalità dei cittadini stranieri regolarmente presenti in Italia non è più alto di quello degli italiani: queste sono le conclusioni alle quali è giunta una recente ricerca condotta dall’équipe del Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes insieme all’agenzia Redattore Sociale (cfr. Caritas/Migrantes, Dossier Statistico Immigrazione 2009, Edizioni Idos, ottobre 2009, pp. 208-217). Il confronto tra italiani e stranieri è stato attuato seguendo una ripartizione omogenea per classi di età (popolazione tipo), così come non si è tenuto conto delle denunce riguardanti gli stranieri non regolarmente soggiornati. Ciò ha consentito di ridimensionare il tasso di criminalità degli stranieri e di concludere che italiani e stranieri hanno un tasso di criminalità abbastanza simile.

b. Aumento delle denunce inferiore all’aumento della popolazione straniera. I dati del Ministero dell’Interno riguardanti le denunce contro stranieri nel periodo 2005-2008, confermano che le denunce presentate contro gli immigrati aumentano a un ritmo più contenuto rispetto all’aumento della popolazione straniera, pur essendo questa popolazione più giovane, così come già evidenziato da altre recenti ricerche (Fondo Europeo per l’Integrazione/Ministero dell’Interno, Immigrazione, Regioni e Consigli Territoriali per l’Immigrazione, Edizioni Idos, Roma giugno 2010; cfr. anche, sulla base di altri dati, Paolo Buonanno, Paolo Pinotti, Do immigrants cause crime?, Paris School of Economics, Working Paper No. 2008-05; cfr. anche www.bancaditalia.it/pubblicazioni e, per una sintesi, www.lavoce.info; Tito Boeri, Immigrazione non è uguale a criminalità, Lavoce.info, 2 febbraio 2010).

È vero che per gli immigrati regolari sono andate aumentando le denunce, ma ancor di più è aumentata la popolazione di riferimento. Le denunce presentate in Italia contro cittadini stranieri sono state 248.291 nel 2005, 275.482 nel 2006, 299.874 nel 2007 e 297.708 nel 2008. In questo stesso periodo le denunce sono aumentate del 19,9%, mentre gli stranieri residenti (quindi, solo quelli regolari anche se essi non sono gli unici autori dei reati) da 2.670.514 a 3.891.293 (aumento del 45,7%). Anche se le denunce riguardassero solamente i cittadini stranieri residenti, l’incremento dei reati sarebbe inferiore all’incremento della popolazione straniera, minando così alla base l’equiparazione tra aumento della popolazione straniera e aumento della criminalità.

c. Il tasso di criminalità dei nuovi immigrati nel VII Rapporto Cnel. La paura diffusa tra gli italiani riguarda in prevalenza i nuovi arrivati, che non si conoscono e perciò destano i maggiori sospetti. Il VII Rapporto Cnel sugli Indici di integrazione degli immigrati in Italia (luglio 2010: cfr. www.cnel.it) è entrato nel merito di questa obiezione e si è chiesto se i cittadini stranieri venuti ex novo in Italia nel periodo 2005-2008 abbiano influito negativamente sulla situazione di sicurezza del Paese. A tale scopo è stato ipotizzato che l’aumento delle denunce contro cittadini stranieri (49.417, risultanti della differenza tra quelle del 2005 e quelle del 2008) corrispondano a reati commessi esclusivamente dagli stranieri registrati ex novo come residenti (1.220.779): in questo modo, l’incidenza delle denunce nei loro confronti è del 4,05%, pari a 1 denuncia ogni 24,7 persone.

Il tasso così calcolato va confrontato con l’addebito penale nei confronti dell’intera popolazione residente in Italia alla data del 31 dicembre 2008: si è trattato di 60.045.068 persone (tra le quali una ogni 15 è di cittadinanza straniera) sulle quali hanno inciso per il 4,49% le 2.694.811 denunce penali complessive. Per le persone già residenti si è trattato di 1 denuncia ogni 22,3 residenti, con una incidenza maggiore rispetto a quella addebitale ai nuovi venuti, che perciò non possono essere considerati i maggiori colpevoli della situazione di insicurezza vissuto dalla gente.

d. Il VII Rapporto Cnel e il tasso di criminalità degli albanesi. Per gli albanesi, se si distingue tra criminalità organizzata e criminalità comune, si riscontra che a quest’ultimo riguardo si sono fatti notevoli passi in avanti. Nel periodo 2005-2008 le denunce contro tutti gli stranieri sono aumentate del 19,9%. Rispetto a questo valore medio alcune collettività si sono collocate al di sotto e così è avvenuta anche per gli albanesi, per i quali l’incremento delle denunce è stato pari al 17,4%, passando da 17.561 nel 2005, a 19.027 nel 2006, a 19.006 nel 2007 e 20.609 nel 2008. L’incidenza che gli albanesi residenti in Italia hanno avuto nel 2008 sulle denunce (6,5%) è inferiore a quello che essi hanno avuto sui residenti (11,3%), con una differenza a loro favore di 4,8 punti percentuali che merita di essere segnalata. L’andamento virtuoso dell’Albania si riscontra anche da un altro dato. Nel 2005 gli albanesi incidevano per il 7,1% sul totale delle denunce presentate contro stranieri, mentre questa percentuale è risultata più ridotta negli anni successivi (6,9% nel 2006, 6,3% nel 2007 e 6,9% nel 2008).

Alla luce dell’evoluzione storica che ha caratterizzato la collettività albanese in Italia, è fondato ritenere che ai consistenti flussi irregolari del recente passato vada ricollegata una certa lievitazione delle denunce penali, non solo perché una quota consistente di esse ha riguardato l’inosservanza della normativa sugli stranieri, ma anche perché le persone sprovviste di permesso di soggiorno sono state più facilmente ricattate dalle organizzazioni malavitose. A cavallo degli anni ’90 e i primi anni del nuovo secolo, gli albanesi incidevano per il 20-30% sui respingimenti effettuati alla frontiera, superando la pressione migratoria della Romania e del Marocco, e risultavano la prima collettività per numero di denunce. Chiusa l’esperienza delle migrazioni di massa e dei gommoni, controllati i trafficanti di manodopera (che hanno tentato nuove rotte) e potenziate le vie legali d’ingresso, si è delineato uno scenario più soddisfacente perché le denunce sono aumentate in misura ridotta rispetto all’aumento della popolazione e ciò, in altre parole, diminuisce il tasso di criminalità.