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Giulio Cavalli

Oh, eccoci

Insomma abbiamo avuto il nostro bel da fare ma alla fine siamo tornati online e dovrebbe essere tutto a posto. Se trovate qualche problema di navigazione sul sito vi chiedo di segnalarlo qui. Ah: buona giornata, intanto.

Anche per Albano la mafia non esiste nel suo paese (sciolto per mafia)

foto-albanoIl comune è stato sciolto per infiltrazioni mafiose, ma, per Albano Carrisi, in realtà, la Sacra Corona Unita a Cellino San Marco non esiste.

Il cantante, interpellato dal Fatto Quotidiano, dopo la notizia dello scioglimento del Consiglio comunale pugliese, ha infatti assicurato di non aver mai visto la mafia.  “Qui a Cellino non esiste”. Piuttosto, specifica, “abbiamo una delinquenza simile a quella di tanti paesi d’Italia”.

Poco importa, dunque, se il Governo ormai da mesi aveva posto la propria attenzione sul paese. I commissari antimafia nominati dal prefetto, a dicembre avevano persino inviato al titolare del Viminale Alfano una relazione accurata in merito. A febbraio, poi, i carabinieri si presentarono in municipio per acquistare atti amministrativi, centinaia di documenti che proverebbero la collusione con famiglie della Scu. Non è finita: ora, i carabinieri del Ros stanno indagando su due diverse inchieste, una riguardante condizionamenti mafiosi e l’altra che cerca di far luce sugli attentati subiti dal sindaco Francesco Cascione (Pdl), avvocato penalista e difensore di molti affiliati alla Sacra Corona Unita.

(via)

Buona Pasqua Cardinale Bertone

Il Cardinale Tarcisio Bertone inaugurerà presto il suo nuovo mega attico da 700 metri quadrati a Palazzo San Carlo. Papa Francesco “abita” lì di fianco in un bilocale da 70 metri quadrati: un decimo, per dire. Proprio Bergoglio aveva parlato di preti “untuosi, sontuosi e presuntuosi”, che devono avere invece “come sorella la povertà”. Il Cardinale Bertone è la stessa persona che in tutti questi ultimi anni si è concentrato più sulla protezione “politica” dell’azienda “Chiesa” piuttosto che dei suoi fedeli e ha voluto insegnarci le regole per vivere nel buono e giusto. E in questa sera di Pasqua appena passata (credenti o non credenti) mi viene da pensare al senso della “misura” nelle proprie azioni e nei propri bisogni: un senso della “misura” che deve essere un bene comune per potere misurare l’uguaglianza. Ma questa è politica, mica fede. E non dovremmo impicciarci.

‘Ndrangheta e processioni: parla Gratteri

Sempre continuando il discorso che facevamo qui e qui, l’intervento di Gratteri puntualizza (sulla stessa linea):

”Le mafie si nutrono di consenso popolare. Per esistere, cercano la gente: sono presenti li’ dove c’e’ da gestire denaro e potere e dove ci sono grandi folle, come nelle manifestazioni sportive ma soprattutto nelle e vicino alle processioni religiose”. In un colloquio con l’Adnkronos, il procuratore aggiunto presso il tribunale di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, torna a lanciare l’allarme infiltrazioni delle ‘ndrine nei riti della Settimana Santa. ”E’ importante -rimarca il magistrato antimafia- in questi giorni pasquali vigilare, soprattutto in Calabria, contro ogni tentativo di infiltrazioni mafiose, perche’ per i capi della ‘ndrine la processione e’ una vetrina: amano farsi vedere vicino a santi e preti”. ”Bisogna intervenire per prevenire strumentalizzazioni -ribadisce il procuratore- come ha fatto il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica di Vibo Valentia”, presieduto dal prefetto Giovanni Bruno, intervendo sulle processioni dell’Affruntata di Stefanaconi e Sant’Onofrio, nel vibonese, che si svolgono la mattina della domenica di Pasqua. Quest’anno, scrive infatti il ‘Quotidiano della Calabria’, i portatori del Cristo Risorto, della Madonna e di San Giovanni, non saranno sorteggiati: li scegliera’ la Protezione civile tra i propri volontari. Una decisione concertata con il vescovo della Diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea, mons. Luigi Renzo. Il 14 aprile scorso, nel corso della sua audizione in commissione Antimafia, Gratteri aveva sottolineato che gli ndranghetisti ”sono molto legati alla Madonna di Polsi, custodiscono immagini di S. Michele Arcangelo e -new entry negli ultimi anni- nei blitz messi a segni nei covi dei latitanti abbiamo trovato immagini di Padre Pio”.

Azzeramento del mandamento mafioso di Porta Nuova: le facce

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Gli otto arrestati dai carabinieri nell’ambito dell’operazione “Iago”, sono tutti affiliati alla famiglia mafiosa di Porta Nuova. Si tratta di Marcello Di Giacomo, 47 anni, fratello dell’uomo ucciso il 12 marzo; Vittorio Emanuele Lipari, 53 anni; Onofrio “Tony” Lipari, 24 anni; Nunzio Milano, 65 anni; Stefano Comandé, 28 anni; Francesco Zizza, 32 anni; Salvatore Gioeli, 48 anni; Tommano Lo Presti, 39 anni.

Lipari è considerato il reggente della famiglia di Porta Nuova, Gioeli il reggente della famiglia mafiosa di Palermo Centro e Tommaso Lo Presti, recentemente tornato in libertà, il suo successore.
Le indagini sono state coordinate dal capo della procura Francesco Messineo, dall’aggiunto Leonardo Agueci e dai sostituti Francesca Mazzocco e Caterina Malagoli. L’indagine ha consentito di ricostruire l’attuale organigramma del mandamento mafioso facendo emergere i ruoli dei capi ma – sostengono gli investigatori – soprattutto ha permesso di scongiurare l’inizio di una pericolosa faida tra famiglie mafiose.L’indagine è stata avviata a maggio 2013 e si concentrava su Giuseppe Di Giacomo, braccio destro dell’allora reggente Alessandro D’Ambrogio, poi arrestato mentre Di Giacomo è stato ucciso a colpi di pistola, in pieno giorno, il 12 marzo scorso. Da subito era emerso il ruolo determinante di Di Giacomo, forte anche della parentela carismatica: il fratello Giovanni è infatti detenuto per mafia, ma in grado di dettare le strategie criminali per controllare il territorio. Nel luglio 2013 viene arrestato il boss Alessandro D’Ambrogio e il vertice del mandamento viene decapitato per questa ragione Giuseppe Di Giacomo viene designato come suo successore. “Una scelta – scrivono gli investigatori – destinata a suscitare il risentimento in mafiosi di rango che, scarcerati da li’ a poco, non condividono la leadership. Di Giacomo viene ucciso – proseguono i militari -in un agguato eseguito con classiche modalita’ mafiose”. Dopo l’omicidio scatta il desiderio di vendetta da parte dei familiari di Giacomo – in particolare dei fratelli Giovanni e Marcello – che progettano di uccidere coloro che ritengono essere i responsabili del delitto”.

Nelle foto, da sinistra in alto: Emanuele Lipari, Salvatore Goieli, Marcello Di Giacomo, Stefano Comandé, Francesco Zizza, Nunzio Milano, Tommaso Lo Presti, Onofrio Lipari.

L’agnello pasquale

A proposito di appelli per gli agnelli innocenti, il Ministro dell’Interno Angelino Alfano chiede i numeri identificatori per quei due sotto le scarpe:

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Le via crucis con odore di mafia

Vi ricordate? Ne parlavo giusto qui (e si sono innervositi parecchio) e oggi l’Ansa batte questa (bella) notizia:

(ANSA) – VIBO VALENTIA, 19 APR – Il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica di Vibo Valentia, d’intesa con la Diocesi di Mileto, ha deciso di commissariare le processioni dell’Affruntata di Stefanaconi e Sant’Onofrio, nel vibonese, che si svolgono la mattina della domenica di Pasqua. La decisione è stata presa per evitare infiltrazioni della ‘ndrangheta nei due eventi religiosi. Al termine della riunione è stato deciso che le statue saranno portate dai volontari della Protezione civile.

'Ndrangheta: cosca controllava anche le processioni

La curiosità funziona.

La (prevista) brutta fine di Massimo Ponzoni

L’ennesimo pezzo di formigonismo e di brutta Lombardia che ha impunemente governato per anni:

formigoni_ponzoniEra stato mister 11mila voti, rimasto potente nonostante la perdita della carica di assessore e con l’aspirazione a ottenere una “delega per i lavori dell’Expo 2015″. Poi per Massimo Ponzoni, ex assessore regionale della Lombardia ed ex segretario dell’ufficio di presidenza in era Formigoni, era arrivata un’ordinanza di custodia cautelare. Era il gennaio del 2012 e oggi a poco più di due anni dalla sua consegna agli uomini della Guardia di Finanza è arrivata la sentenza di primo grado: una condanna a dieci anni e sei mesi di reclusione messo dai giudici del Tribunale di Monza.

A Ponzoni venivano contestati la corruzione, la concussione e bancarotta fraudolenta nell’ambito del ‘crac Pellicano’, la società immobiliare con sede a Desio di cui l’allora assessore era socio, dichiarata fallita dal tribunale di Monza per un ammanco di circa 600mila euro. L’inchiesta era però stata stralciata  da un’indagine della Dda di Milano sulla ‘ndrangheta. Di cui Ponzoni che al telefono si vantava di aver potuto fare a meno – diversamente dalle elezioni del 2005 – sostenendo in una conversazione intercettata: “Mi sono tolto di mezzo la grande soddisfazione di arrivare primo… secondo sono arrivato con Carugo e terzo mi sono tolto i voti dicerti personaggi affiliati a certi clan“. Per il difensore di Ponzoni, l’avvocato Luca Ricci si tratta di “una sentenza ingiusta”.

Con l’ex assessore sono stati poi condannati dai giudici monzesi a pene che vanno dai due anni e mezzo a cinque anni e mezzo, tutti e quattro i coimputati accusati a vario titolo di corruzione, concussione e bancarotta fraudolenta.

Ponzoni era stato arrestato il 17 gennaio del 20012 quando si era consegnato alla Guardia di Finanza perché su di lui pendeva un’ordinanza di custodia cautelare. Il gip ha firmato aveva firmato l’arresto anche per l‘imprenditore Filippo Duzioni, per l’ ex sindaco di Giussano Franco Riva e l’ex assessore provinciale e tecnico del Comune di Desio Rosario Perri (per questi erano stati disposti i domiciliari).  Per il giudice esisteva ”un radicato e diffuso sistema di illegalità che presenta, come dato comune, l’asservimento della funzione pubblica all’ interesse privato”; un ”contesto affaristico” non solo fatto, secondo la ricostruzione di presunte mazzette,”voti comprati”, appoggi per scalate all’interno delle amministrazioni locali in cambio di interventi sui piani di governo del territorio, ma anche legato con un filo alla ‘ndrangheta e che ha portato a iscrivere nel registro degli indagati, accanto a Ponzoni, oltre venti persone, tra suoi parenti, imprenditori, commercialisti e pubblici ufficiali.

Secondo il gip c’era anche  ”la sua dedizione al consumo di droga”, la ”cocaina”, a cui si aggiungono i ”costi del lusso”, a spingerlo ”procurarsi liquidità”. Bisogno questo, secondo il giudice, che l’avrebbe portato a commettere ”fatti corruttivi”, e per la quale sarebbero state ”strumentali (…) anche le condotte distrattive poste in essere nella gestione delle società” poi fallite o a lui riconducibili. Società svuotate, per l’accusa, per comprare voti o finanziare la sue campagne elettorali. E poi per pagare ”noleggi di barche” e anche ”viaggi esotici” al governatore della Lombardia Roberto Formigoni fino ad arrivare agli oltre 13 mila euro pagati da il Pellicano alla pasticceria Cova di via Montenapoleone, a Milano, o ai 62.400 euro versati a un ‘centro studi arredamenti” della Brianza.

Latitante a Milano

Ovvero Milano come luogo sicuro per la latitanza di un ‘ndranghetista, per intendersi.

Si era rifugiato nel Milanese, ma la polizia è riuscita a rintracciarlo. La Squadra mobile di Catanzaro ha arrestato, in una località dell’hinterland milanese, un latitante, Vincenzo Vitale, di 40 anni, considerato un esponente di spicco della cosca Gallace-Gallelli della ‘ndrangheta, che ha la sua base operativa a Guardavalle, lungo la fascia jonica catanzarese.

Vitale era ricercato da un anno dopo che era sfuggito all’arresto nell’ambito dell’operazione “Free Boat” che aveva portato alla cattura di esponenti di spicco e affiliati della cosca di Guardavalle, accusati di associazione per delinquere di stampo mafioso ed estorsione.

Nella stessa operazione, alla quale ha partecipato la Squadra mobile di Milano, è stato arrestato anche un presunto fiancheggiatore di Vitale, accusato di avere favorito la sua latitanza in Lombardia.

La solitudine dell’America Latina (secondo Gabo)

Beh, è morto Gabriel Garcia Márquez e oggi certo si sprecano i commenti. Noi sentiamo la mancanza degli uomini della cultura molto più della presenza, siamo fatti così, ormai credo che sia un’attitudine antropologica. Però la voce di Gabo è stata anche una grande voce politica come succede per gli uomini di cultura che non vogliono rimanere fuori dal proprio tempo e al di là dei suoi libri (che chissà quanti davvero l’hanno letto), il suo discorso alla consegna del premio Nobel è un manifesto moderno e applicabile alle molte Americhe Latine di questo tempo. Per questo credo valga la pena rileggerlo e tenerlo a mente:

Antonio Pigafetta, un navigatore fiorentino che accompagnò Magellano nel primo viaggio attorno al mondo, durante il suo passaggio attraverso la nostra America meridionale scrisse un resoconto rigoroso che tuttavia sembra un’avventura dell’immaginazione. Raccontò di avere visto maiali con l’ombelico sulla schiena e uccelli privi di zampe, le cui femmine covavano le uova sul dorso del maschio, e altri come pellicani senza lingua, i cui becchi sembravano cucchiai. Raccontò di avere visto un mostruoso animale con testa e orecchie di mulo, corpo di cammello, zampe di cervo e nitrito di cavallo. Raccontò che il primo nativo incontrato in Patagonia fu messo davanti a uno specchio, e che quel gigante esagitato perse l’uso della ragione per paura della propria immagine. Questo libro breve e affascinante, nel quale già si intravedono i germi dei nostri attuali romanzi, non è affatto la testimonianza più stupefacente sulla nostra realtà di quei tempi. I cronisti delle Indie ce ne lasciarono innumerevoli altre. L’Eldorado, il nostro illusorio paese tanto conteso, figurò in numerose mappe per lunghi anni, cambiando luogo e forma secondo la fantasia dei cartografi.

Cercando la fonte dell’eterna giovinezza il mitico Álvar Núñez Cabeza de Vaca esplorò per otto anni il Nord del Messico, con una spedizione stravagante i cui membri si divorarono gli uni con gli altri e dalla quale ritornarono solo cinque dei seicento uomini che la componevano. Uno dei tanti misteri che non furono mai decifrati è quello delle undicimila mule, ognuna carica di cinquanta chili d’oro, che un giorno partirono da El Cuzco per andare a pagare il riscatto di Atahualpa e non arrivarono mai a destinazione. Più tardi, nel periodo coloniale, venivano vendute a Cartagena delle Indie galline allevate in terre alluvionali nelle cui interiora si trovavano pietruzze d’oro. Questo delirio aureo dei nostri fondatori ci ha perseguitato fino a poco tempo fa. Ancora nel secolo scorso, la missione tedesca incaricata di studiare la costruzione di una ferrovia interoceanica sull’istmo di Panama giunse alla conclusione che il progetto era realizzabile a condizione che i binari non fossero fatti di ferro, un metallo che scarseggiava nella regione ma d’oro.

L’indipendenza dalla dominazione spagnola non ci salvò dalla follia. Il generale Antonio López de Santa Anna, che fu tre volte dittatore del Messico, fece seppellire con magnifici funerali la gamba destra che aveva perso nella cosiddetta guerra dei Pasticcini. Il generale Gabriel García Moreno governò l’Ecuador per sedici anni come un monarca assoluto e il suo cadavere fu vegliato, in uniforme di gala e con la corazza delle decorazioni, seduto sulla poltrona presidenziale. Il generale Maximiliano Hernández Martínez, il despota teosofo del Salvador che fece sterminare in una barbara mattanza trentamila contadini, aveva inventato un pendolo per verificare se i cibi fossero avvelenati e fece ricoprire di carta rossa l’illuminazione pubblica per combattere un’epidemia di scarlattina. Il monumento al generale Francisco Morazán, eretto sulla plaza Mayor di Tegucigalpa, è in realtà una statua del maresciallo Ney comprata in un magazzino di sculture usate.

Undici anni fa, uno degli insigni poeti del nostro tempo, il cileno Pablo Neruda, illuminò con le sue parole questa sala. Da allora, nelle buone coscienze d’Europa, e a volte anche nelle cattive, hanno fatto irruzione con impeto sempre maggiore le spettrali notizie dell’America Latina, questa immensa patria di uomini visionari e di donne memorabili, la cui infinita ostinazione si confonde con la leggenda. Non abbiamo avuto un attimo di tregua. Un presidente prometeico trincerato nel suo palazzo in fiamme è morto combattendo da solo contro un intero esercito, e due disastri aerei sospetti e mai chiariti hanno tolto la vita a un altro presidente dal cuore generoso e a un militare democratico che aveva ristabilito la dignità del suo popolo.

Ci sono state cinque guerre e diciassette colpi di Stato, ed è venuto alla ribalta un dittatore luciferino che in nome di Dio ha compiuto il primo etnocidio dei nostri tempi nell’America Latina. Nel frattempo, sono morti prima di compiere un anno venti milioni di bambini latinoamericani, che sono più di quanti ne siano nati in Europa dal 1970. I desaparecidos a causa della repressione sono quasi centoventimila, che è come se oggi non si sapesse dove siano finiti tutti gli abitanti della città di Uppsala. Numerose donne, arrestate quando erano incinte, hanno partorito nelle prigioni argentine, ma si ignora ancora l’identità e il luogo di residenza de loro figli, che le autorità militari hanno dato in adozione clandestina o hanno internato negli orfanotrofi. Per essersi opposti a questo stato di cose, sono morti circa duecentomila uomini e donne in tutto il continente, mentre più di centomila sono stati ammazzati in tre piccoli e volenterosi paesi dell’America centrale: Nicaragua, El Salvador e Guatemala. Se ciò fosse avvenuto negli Stati Uniti, la cifra proporzionale sarebbe di un milione e seicentomila morti violente in quattro anni. Dal Cile, paese tradizionalmente ospitale, sono fuggite un milione di persone: il dieci per cento della sua popolazione. L’Uruguay, una minuscola nazione di due milioni e mezzo di abitanti che veniva considerato il paese più civilizzato del continente, ha perso nell’esilio un cittadino su cinque. La guerra civile nel Salvador ha prodotto, dal 1979, quasi un rifugiato ogni venti minuti. Il paese che si sarebbe potuto creare con tutti gli esuli e gli emigranti forzati dell’America Latina avrebbe una popolazione più numerosa di quella della Norvegia.

Oso pensare che sia stata questa realtà fuori dal comune, e non soltanto la sua espressione letteraria, a meritare quest’anno l’attenzione dell’Accademia svedese delle Lettere. Una realtà che non è quella di carta, ma vive con noi e determina ogni istante delle nostre innumerevoli morti quotidiane, alimentando una sorgente creativa insaziabile, piena di sventura e di bellezza. Della quale questo colombiano errante e nostalgico non è nulla di più che un numero maggiormente segnalato dalla sorte. Poeti e mendicanti, guerrieri e malandrini, tutte noi creature di quella realtà eccessiva abbiamo dovuto chiedere molto poco all’immaginazione, perché la sfida maggiore per noi è stata l’insufficienza delle risorse convenzionali per rendere credibile la nostra vita. È questo, amici, il nodo della nostra solitudine.

E se queste difficoltà confondono noi, che ne condividiamo l’essenza, non è difficile capire perché i talenti razionali di questa parte del mondo, estasiati nella contemplazione della propria cultura, si siano ritrovati senza un metodo valido per interpretarci. È comprensibile che insistano nel valutarci con lo stesso metro col quale valutano se stessi, senza ricordare che le ingiurie della vita non sono uguali per tutti, e che la ricerca dell’identità è difficile e sanguinosa per noi quanto lo è stata per loro. L’interpretazione della nostra realtà con schemi che non ci appartengono contribuisce soltanto a renderci sempre più sconosciuti, sempre meno liberi, sempre più solitari. Forse la venerabile Europa sarebbe più comprensiva se tentasse di vederci nel suo stesso passato. Se ricordasse che a Londra occorsero trecento anni per costruire le prime mura e altri trecento per avere un vescovo; che Roma si dibatté nelle tenebre dell’incertezza per venti secoli prima che un re etrusco la innestasse nella storia; e che ancora nel XVI secolo i pacifici svizzeri di oggi, che ci allietano con i loro formaggi mansueti e i loro orologi impavidi, insanguinavano l’Europa come soldati di fortuna. Ancora all’apogeo del Rinascimento, dodicimila lanzichenecchi al soldo degli eserciti imperiali saccheggiarono e devastarono Roma, passando a fil di spada ottomila dei suoi abitanti.

Non pretendo di incarnare le illusioni di Tonio Kröger, i cui sogni di unità fra un Nord casto e un Sud appassionato Thomas Mann esaltava cinquantatré anni fa in questa sala, ma credo che gli europei dallo spirito illuminato – quelli che lottano anche qui per una grande patria più umana e più giusta – potrebbero aiutarci meglio se riconsiderassero a fondo il loro modo di vederci. La solidarietà con i nostri sogni non ci farà sentire meno soli finché non si concretizzerà in atti di sostegno legittimo ai popoli che coltivano l’illusione di avere una vita propria nella ripartizione del mondo.

L’America Latina non vuole essere una pedina senza libero arbitrio, e non c’è ragione perché lo sia. E non ha nulla di chimerico il fatto che i suoi propositi d’indipendenza e originalità diventino un’aspirazione dell’Occidente. Ciò nonostante, i progressi della navigazione che hanno tanto ridotto le distanze fra le nostre Americhe e l’Europa sembrano invece averne aumentato la distanza culturale. Perché l’originalità che ci viene riconosciuta senza riserve nella letteratura ci viene negata con ogni tipo di sospetti nei nostri difficilissimi tentativi di cambiamento sociale? Perché pensare che la giustizia sociale che gli europei d’avanguardia tentano di imporre nei proprio paesi non possa essere anche un obiettivo latinoamericano con metodi diversi in condizioni differenti? No: la violenza e il dolore smisurati della nostra storia sono il risultato di ingiustizie scolari e amarezze inenarrabili, e non una congiura ordita a tremila leghe da casa nostra. Tuttavia, molti dirigenti e pensatori europei lo hanno creduto, con l’infantilismo dei nonni che hanno dimenticato le proficue follie della loro giovinezza, come se non fosse possibile altro destino se non quello di vivere alla mercé dei due grandi padroni del mondo. È questa, amici, la dimensione della nostra solitudine. E tuttavia, di fronte all’oppressione, al saccheggio e all’abbandono, la nostra risposta è la vita. Né i diluvi né le pestilenze, né le carestie né i cataclismi, e nemmeno le guerre eterne attraverso i secoli dei secoli sono riusciti a ridurre il tenace vantaggio della vita sulla morte.

Un vantaggio che aumenta e accelera: ogni anno ci sono settantaquattro milioni di nascite in più rispetto alle morti, una quantità di nuovi esseri viventi in grado di accrescere di sette volte ogni anno la popolazione di New York. La maggior parte di loro nasce nei paesi con meno risorse, compresi, naturalmente, quelli dell’America Latina. I paesi più prosperi, invece, sono riusciti ad accumulare abbastanza potere di distruzione da annientare cento volte non solo tutti gli esseri umani che esistono oggi, ma la totalità degli esseri viventi che sono passati per questo sfortunato pianeta.

In un giorno come quello di oggi il mio maestro William Faulkner disse in questa sala: «Mi rifiuto di ammettere la fine dell’uomo». Non mi sentirei degno di occupare questo posto che fu suo se non fossi pienamente consapevole che, per la prima volta dall’inizio dell’umanità, il colossale disastro che egli si rifiutava di ammettere trentadue anni fa è ora soltanto una semplice possibilità scientifica. Di fronte a questa sconvolgente realtà che nel corso di tutto il tempo umano è dovuta sembrare un’utopia, noi inventori di racconti, che crediamo a tutto, ci sentiamo in diritto di credere che non sia troppo tardi per iniziare a creare l’utopia contraria. Una nuova e impetuosa utopia della vita, in cui nessuno possa decidere per gli altri perfino sul modo di morire, dove sia davvero reale l’amore e sia possibile la felicità, e dove le stirpi condannate a cent’anni di solitudine abbiano, finalmente e per sempre, una seconda opportunità sulla Terra.

Gabriel Garcia Marquez
Gabriel Garcia Márquez riceve il premio Nobel per la letteratura dal principe Carl Gustaf a Stoccolma, 8 dicembre 1982. (AP Photo/Bjorn Elgstrand, Pool, File)