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Mio padre in una scatola da scarpe

‘Mio padre in una scatola di scarpe’ è agghiacciante perché vero (di Rita Fortunato)

(l’articolo originale è qui)

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(Recensione di Rita Fortunato)

Una storia donata va sempre accolta. Questo è il pensiero che mi ha portata ad accettare la proposta di Barbara Reverberi di leggere Mio padre in una scatola di scarpe. Si tratta di un romanzo civile edito Rizzoli, scritto da Giulio Cavalli e comparso nelle librerie italiane il 17 settembre. Fresco fresco di stampa, insomma e che ho anche avuto la fortuna di incontrare sugli banconi per libri allestiti a #PordenoneLegge.

Barbara mi ha subito detto che è un romanzo bellissimo e che lei, personalmente, l’ha divorato.

Per quanto riguarda il verbo “divorare” aveva ragione ma, più che bellissimo, ho trovato l’opera agghiacciante. Ti spiego perché…

Mio padre in una scatola di scarpe è agghiacciante perché vero

Con agghiacciante non intendo dire che Mio padre in una scatola di scarpe non sia un buon libro. Fondamentalmente è un romanzo d’inchiesta tratto da una storia vera, fatta di mafia e omertà. Temi forti, dolorosi, di quelli che non si vorrebbe affrontare perché, quando te li trovi scritti neri su bianco, ti agghiacciano.

L’ho letto in due giorni e avrei voluto che finisse in maniera diversa, che non rimanesse in sospeso. Tuttavia uno scrittore non può accontentare sempre il lettore, soprattutto quando il suo obiettivo è quello di ricordare che ancora esiste una cultura dell’omertà.

Una cultura che sta stretta al personaggio principale e perno attorno al quale ruota tutto il racconto,  Michele. Per amore, il nonno cerca di inculcargli questa filosofia in tutti i modi:

“Qui le brave persone, per difendersi, diventano invisibili”.

È una persona normale, Michele. Vorrebbe solo vivere a casa sua, metter su famiglia e garantire un futuro a figli e nipoti. Assieme a lui, poche brave persone appaiono nella trama del romanzoMassimiliano, considerato lo scemo del paese ma con un cuore d’oro, il nonno e le sue cene domenicali con il nipote e la dolcissima e coraggiosa Rosalba, detta la silenziosa.

Volente o nolente, il lettore non può fare a meno di affezionarsi a queste persone, ad augurar loro tutto il bene possibile. Ad essi va l’ammirazione dell’amico milanese Giulio:

“Quelli che cambiano il mondo sono quelli che non si fanno avvelenare dal mondo”.

Ma niente è ciò che appareMio padre in una scatola di scarpe parla di un’indifferenza che non è solo espressione di codardia o servilismo da parte delle persone semplici, ma anche l’unico comportamento da adottare per sopravvivere in una terra violenta comandata da violenti. Gradualmente (ed è qui che la cosa si fa particolarmente agghiacciante) ci si addentra in un contesto e in una storia dove la desensibilizzazione al dolore la fa da padrone perché, in fondo, ci si abitua a tutto, anche ai soprusi. Non c’è scelta.

Vi è un’educazione alla paura e alla sopravvivenza scambiata per coraggio in una vita quotidiana che impedisce agli abitanti di Mondragone, località dove si svolgono i fatti, di compiere il loro dovere civico e permettere che la giustizia faccia il suo corso.

“Michele, nella vita ci vuole coraggio a rinunciare. Anche a rinunciare ai principi, se serve”.

Nessuno sembra voler spezzare la catena che anno dopo anno stringe il paese in una morsa soffocante di incomprensioni, malelingue e indifferenza. Tutto ciò che accade, anche i gesti di umanità sono visti con sospetto e manipolati per mettere in cattiva luce le brave persone, distruggere la loro reputazione e creatività. La coscienza, in questo romanzo, sembra proprio non esistere. Al massimo vi è rabbia repressa e dolore raccolto e nascosto

Mio padre in una scatola di scarpe è un romanzo logorante e, sinceramente, andrebbe donato ai giornalisti che ricamano notizie prestando orecchio alle voci e non verificando le fonti, ai carabinieri che preferiscono screditare il cittadino medio pur di non perdere i ricavi e gli interessi che li legano a chi dovrebbero incarcerare, alle persone che sparlano e si fanno belli sulle miserie e i dolori altrui, convinti che andare a messa la domenica sia sufficiente per sciacquare la coscienza dalle loro ipocrisie e meschinità.

Non saprei bene cosa aggiungere sull’opera con la quale Giulio Cavalli esordisce in veste di scrittore se non che il libro andava scritto e che merita di essere letto. In mezzo a tanti testi fondamentalmente inutili, privi di messaggio, un romanzo civile come questo spicca dalla massa, per la sua agghiacciante veridicità.

Autore: Giulio Cavalli
Titolo: Mio padre in una scatola di scarpe
Casa Editrice: Rizzoli
Pagine: 288
Anno di pubblicazione: 17 settembre 2015
Prezzo di copertina: € 18

Io faccio la madre

CAVALLIPadre18“Quando ancora le chiedono come sta, cosa fa, al mercato o alla piazza di Mondragone, lei risponde: “La madre”. E risponde con dentro una traversata oceanica, un giro del mondo in mongolfiera e una vittoria olimpica. La madre. Senza perifrasi, incertezze: la madre”.

(dal mio libro, Mio padre in una scatola da scarpe)

Un’intervista con IODONNA. Su tutto.

Schermata del 2015-10-01 17:21:29

(Intervista di Raffaella Oliva, l’articolo originale è qui)

Era l’alba del 6 settembre 2006 quando Michele Landa fu ucciso a colpi di pistola e bruciato nella sua macchina. Era un metronotte di Mondragone, provincia di Caserta, un cittadino onesto cui era stato affidato il compito di piantonare un ripetitore per la telefonia mobile a pochi chilometri da casa, a Pescopagano. Gli hanno sparato durante un turno di lavoro, in quel periodo i clan della camorra avevano scoperto il redditizio furto delle apparecchiature telefoniche, forse Michele sapeva qualcosa, il suo sguardo indiscreto non era ben visto. Aveva 61 anni, il suo corpo carbonizzato sarebbe stato ritrovato in un fosso solo quattro giorni dopo: alla famiglia che aveva sporto denuncia per la sua scomparsa le forze dell’ordine avevano suggerito di non preoccuparsi, «sarà con l’amante».

Una morte quasi ignorata, la sua, giusto qualche trafiletto nella cronaca locale. Una morte ingiusta che oggi Giulio Cavalli, scrittore, giornalista, attore e autore teatrale che per il suo impegno contro la mafia vive sotto scorta dal 2007, racconta in Mio padre in una scatola da scarpe, il suo primo romanzo dopo diversi libri d’inchiesta, in uscita il 17 settembre per Rizzoli. «Quella di Michele Landa è una storia profondamente umana, non una vicenda “banalmente” di mafia, bensì la vicenda di un amore e di una famiglia molto unita che si ritrova coinvolta per caso in un dramma più grande di lei», dice il milanese Cavalli, classe 1977. «A Mondragone Landa non era un eroe dell’antimafia; era, più semplicemente, una persona che non voleva avere a che fare con la camorra perché non voleva avere a che fare con l’illegalità in generale. Eppure è stato costretto a soccombere».

Nel romanzo questo aspetto è chiaro: Landa non era un militante, uno di quelli che fanno della lotta alla criminalità organizzata una missione di vita.
Esatto, voleva solo seguire le regole con la geniale semplicità che fu dei nostri nonni. Negli anni l’antimafia ha spesso agito in modo vile, guidata da un sentimento di vendetta, io stesso dopo quello che mi è successo mi ero imbruttito, incattivito (Cavalli ha iniziato a subire minacce di stampo mafioso nel 2006, dopo la messa in scena dello spettacolo Do Ut Des, sulla vita dell’immaginario aspirante boss Totò Nessuno ndr). Ho poi capito che a meritare ammirazione sono coloro che con la semplicità di cui sopra non perdono di vista i propri valori quando capita loro l’occasione di essere giusti, come recita la frase che ho voluto mettere in copertina.

Leggendo il libro viene da chiedersi quanto di vero e quanto di romanzato ci sia nel suo racconto.
Se dicessi che è tutto vero si diffonderebbe l’idea che Giulio Cavalli abbia scritto un’inchiesta sulla camorra. Mettiamola così: il tessuto umano e la vicenda sono reali, e lo sono nel senso che quando Angela Landa, la figlia di Michele, ha letto il libro mi ha confidato di aver ritrovato e riconosciuto, tra quelle pagine, la sua famiglia.

I vari personaggi sono descritti nei loro tic, nelle loro particolarità, nei loro tratti più invisibili, ma eloquenti; a tratti sembra di leggere una sceneggiatura cinematografica.
Forse proprio perché prima di scrivere ho incontrato più volte Angela. Per esempio, il pranzo di famiglia con cui si chiude il libro è autobiografico: io c’ero, ero lì, e in quell’occasione ho avuto modo di scorgere i tic di quelli che sarebbero diventati i personaggi del romanzo. Credo c’entri anche il fatto che nasco come teatrante, ma c’è un ulteriore aspetto da non dimenticare: quando, com’è accaduto alla famiglia Landa, ti ritrovi a vivere una vicenda così assurda, che non ti saresti mai aspettato, ecco, in quei casi sono gli stessi protagonisti della storia a raccontare quest’ultima quasi fossero osservatori esterni, sono i diretti interessati a darne una visione filmica, cinematografica. È un meccanismo di difesa, serve a non cadere nella disperazione. Dietro alle parole c’è sempre un’umanità tremolante e commovente.

Commovente perché distante dalla mera cronaca?
Commovente perché sentire Angela Landa dire “hanno ucciso mio padre, che era la persona che insegnava a mio figlio cos’è un orto” è diverso dal sentir parlare di mafia in televisione, per esempio, dove gli argomenti sono le modalità di azione delle organizzazioni criminali o le relazioni della DDA (direzione distrettuale antimafia ndr).

Che tipo di realtà ha trovato, lei, a Mondragone?
Per fortuna non ho problemi con la camorra, li ho con Cosa Nostra, i siciliani e i calabresi soprattutto, ma con la camorra no. Per me Mondragone è Angela, i nostri incontri, le nostre conversazioni. M’interessava la temperatura emotiva della città, più che il posizionamento della stessa sullo scacchiere criminale. In passato ci ero già stato, ma per degli spettacoli, non avevo avuto modo di assorbire il territorio anche perché è un po’ complicato per me, data la mia condizione.

Da quasi dieci anni vive sotto scorta e come saprà sulle scorte i commenti si sprecano, c’è chi le considera un capriccio: come risponde?
Rispondo che nella stragrande maggioranza dei casi è effettivamente così, viviamo in un Paese in cui si dà la scorta a un attore mentre si dice alla moglie di Michele Landa “non preoccuparti, tuo marito sarà fuori a ubriacarsi con qualche prostituta”. Ciò detto, trovo l’argomento “scorta o non scorta” poco interessante, mi preme di più parlare di quell’eccesso di difesa che in passato mi ha portato ad accettare un abbruttimento, un incattivimento cui credevo di avere diritto e che, invece, mi ha fatto solo perdere tempo.

Ha superato l’abbruttimento, ma la paura, quella si supera?
Dopo un po’ scompare, ci si abitua. Io non ho paura di certe famiglie calabresi, la mia paura è di vivere in un Paese che non dà risposte, ho paura della possibilità di delegittimazione, noncuranza e dimenticanza che è un po’ il senso di questo libro.

È per questo che nel 2010 è entrato in politica, diventando consigliere regionale della Lombardia prima con l’Idv, poi con Sel?
Sono entrato in politica perché sono convinto che i mandanti di certi crimini siano politici e penso che la politica sia un passaggio necessario per portare avanti la lotta alla mafia. Le famiglie appartenenti alla criminalità organizzata sono politicissime, conoscono a memoria leggi, emendamenti, piani di governo del territorio, molto meglio di tanti altri cittadini che magari si ritengono informati. Questo significa ch
e l’antipolitica è un favore che si fa a loro. Credevo di poter essere utile.

Poi cos’è successo?
È successo che quella parentesi politica mi è costata tanto dal punto di vista professionale, il sospetto era sempre quello che qualunque cosa facessi fuori dall’ambito politico nascondesse un interesse partitico. Per non parlare della legislatura pittoresca in cui mi sono ritrovato: il figlio di Bossi, la Minetti… Ce l’ho messa tutta, ma era troppo per me, l’ecologia intellettuale ha dei limiti.

La cosa che più l’ha stupita?
La giustificazione quotidiana di bassezze umane come elemento indispensabile per ottenere un buon risultato. Giustificazione vissuta come un aspetto positivo. E lì ho capito alcune cose: l’Italia non è un Paese che non si è accorto di Andreotti, è un Paese di aspiranti Andreotti. Poi, ovvio, anche in politica ci sono persone con una bella umanità, penso a Pippo Civati, a Maurizio Martina…

Alla fine, però, ha lasciato ed eccoci al suo primo romanzo.
È questo il mio lavoro: raccontare storie. Non raccontare storie per legittima difesa, non fare l’attore civile, non fare il minacciato o lo scortato, solo raccontare
storie. Purtroppo in passato ho sentito il bisogno di difendermi, ho dovuto spesso giustificare gli stereotipi che mi venivano appiccicati addosso, per cui da giovanissimo ero il nuovo Paolini. Poi, dato che ci avevo messo il sorriso, sono diventato il nuovo Dario Fo: insomma, sono stato sempre il modello sostitutivo di qualcosa che c’era già. Ora basta, questo è un libro libero, descrive ciò che sono ora.

Nel libro racconta l’omertà in modo estremamente schietto, come qualcosa di non riconducibile soltanto alla paura.
Certo, è anche un fattore culturale: per i nostri nonni l’omertà era sinonimo di tranquillità e quest’ultima era vissuta come un dovere da buon padre. Per loro assicurare tranquillità ai figli e non creare nevrosi in famiglia era fondamentale. Ora, partendo da questa consapevolezza, sta a noi non diventare vendicativi: non penso che si possa sconfiggere una prepotenza con una prepotenza organizzata più forte, è necessario un lavoro culturale. Ci ritroviamo di frequente a tuonare contro i collusi, quel che mi chiedo è: e se dentro questa forma di collusione ci fosse una struttura culturale che non abbiamo curato abbastanza bene? È questa la domanda che il libro vorrebbe mettere sul tavolo: il nonno di Michele, che gli dice di tacere e di farsi i fatti suoi, è un vigliacco? No, bisogna andare oltre, comprendere, sfruttare la memoria di quei nonni per curare. Non credo più nei paladini antimafia che si scagliano contro tutto e contro tutti.

Descrive bene anche il ruolo complice di certe donne disposte a sposare degli uomini di mafia pur di essere mantenute e fare “la bella vita”.
Attenzione, però, a Milano accade lo stesso quando una donna si sposa con un funzionario corrotto. E anche di quelle donne va compresa una fragilità: mi fa paura il giustizialismo culturale in cui ogni tanto anch’io mi sono ritrovato imprigionato in passato. Amo le persone che non hanno bisogno di avere un nemico per restare salde sui propri obiettivi e sto imparando a essere anch’io così.
 
Si tratta di comprendere per combattere?
Si tratta di fare antimafia non usando la penna come spada ma, per esempio, raccontando una storia d’amore come ho fatto con questo romanzo. Dobbiamo ricominciare a innamorarci della legalità e ancor prima dei fragili e delle fragilità: la nostra attenzione dovrebbe essere rivolta verso chi ha paura, non verso chi ha le condizioni o la fortuna di poter non avere paura. La vera rivoluzione culturale e sociale avverrà quando comprenderemo che ognuno ha la propria battaglia personale da combattere, quindi va rispettato e trattato con gentilezza, come diceva Carlo Mazzacurati. Mio padre in una scatola da scarpe è un romanzo civile perché in un’epoca dominata dal cattivismo come quella attuale rilancia il buonismo non come debolezza, ma come senso di responsabilità sociale.

Quindi ritorno a scuola

CAVALLIPadre18Mi ha stupito sapere che già adesso ‘Mio padre in una scatola da scarpe‘ sia diventato il “libro che ci hanno dato da leggere a scuola”. E mi emoziona forse perché da anni, girovagando di scuola in scuola (gratis, se non recito, ovviamente) ho imparato ad apprezzare la cura con cui molti professori ponderano ogni passo da proporre ai propri studenti. E pensare che non li ho amati nemmeno, i professori, da studente, e mi sarebbe bastato intravedere quello che ho visto solo dopo. Anche in questo il libro si è già rivelato migliore di me.

«La fragilità mi ha aiutato più delle scorte». Un’intervista.

DSC_7754__«Capita a tutti l’occasione di essere giusti». E’ ciò che racconta Giulio Cavalli nel suo romanzo Mio padre in una scatola da scarpe, edito da Rizzoli. Pagine scritte con impeto senza la consueta sete d’inchiesta, ma solo per narrare quello che accade a molti degli eroi dei giorni nostri tra umanità, omertà e bullismo.

Com’è nato quest’ultimo lavoro?
«E’ partito tutto quando ho conosciuto la figlia di Michele Landa la persona da cui nasce il racconto. Michele era un metronotte di Mondragone al quale è capitato di scontrarsi con una realtà come l’omertà che vale per il suo paese e per tutta Italia, contrariamente alla teoria che il buon padre di famiglia non deve infilarsi in situazioni pericolose. Michele è stato ritrovato ucciso nella sua auto, a pochi giorni dalla pensione. Lui è una vittima come ce ne sono tante altre, ma questa morte assume un significato simbolico enorme».

Quale?
«A tutti noi capita l’occasione di essere giusti nella vita. Lui ha scelto di essere giusto nella sua straordinaria normalità. Io penso che questo sia un paese che ha bisogno di innamorarsi dei fragili e bisogna ricominciare a capire che le persone hanno il diritto di avere paura».

Che cos’ha di diverso rispetto a tante storie che hai raccontato in passato?
«La differenza è che su questa non abbiamo scopi giornalistici, non ci interessa dire come sia stato ucciso o altro, questo è un romanzo, quello che avrei voluto e dovuto scrivere dieci anni fa. Invece ci sono state le minacce in una città come Milano e quindi io ho dovuto difendermi e nell’eccesso di difesa mi sono incattivito e adesso è come se avessi deciso di tornare al mio mestiere, non fare l’inchiesta ma prendere le temperature emotive della gente».

Il bavaglio andrebbe abolito fin dalla tenera età?
«Questo libro parla di mafia, ma anche di prevaricazione. Il fatto che ci siano ragazzi così giovani che sappiano, anche meglio di un pezzo di classe dirigente italiana, che le prevaricazioni sono quotidiane soprattutto nei luoghi dove si fa socialità, penso sia un motivo per essere ottimisti».

Quindi c’è speranza per il futuro?
«Da una parte c’è la cronaca abbastanza desolante, dall’altra penso che questo sia un Paese ricchissimo di valore umano. Dobbiamo uscire da questa cultura distorta degli ultimi dieci anni, di cui anch’io magari sono stato causa, uscire dalla logica che ogni battaglia abbia bisogno di paladini senza macchie. Alla fine abbiamo lasciato indietro le cose importanti. Io ho conosciuto fragilità meravigliose che in realtà mi hanno aiutato più delle scorte armate».

Manuela Sicuro (fonte)

‘Mio padre in una scatola da scarpe’ secondo booksblog.it

(L’articolo originale è qui)

“Michele aveva cominciato a picchiare con tutta la voglia che aveva accumulato negli ultimi anni, come si immaginava si potesse picchiare solo prima di morire. E non menava solo quei tre cuccioli d’avvoltoio, no, picchava i ricchi sempre gonfi alla domenica mattina; picchiava quelli che gridano scemo a Massimiliano che piangeva come i magri anche se è grasso come un tacchino, e picchiava anche per lo scemo di troppo che gli dava quando anche lui esagerava con lo scherzo; picchiava per i vecchi così vecchi che fuori dalla chiesa sembra che ci manchi solo ceh se li porti via il vento o li sciolga questo sole unto”.

Schermata 2015-09-29 alle 22.25.39Si sfoga  così, per almeno due pagine, la rabbia di Michele Landa contro tutti gli oppressori e gli oppressi, contro se stesso e la sua famiglia, contro gli ignavi, contro le ingiustizie. Michele, Michele Landa, è il protagonista di “Mio padre in una scatola da scarpe”, romanzo di Giulio Cavalli edito da Rizzoli.

Un romanzo di mafia, ma senza essere troppo plateali. Nessuna coppola o lupara, ma gente normale, gente che per sopravvivere serenamente nel posto in cui vive è costretto alla fine a chinare la tesa, ad arrendersi, a diventare anonimo e invisibile.“Questa è una terra che va abitata in punta di piedi, Michele, va abitata in silenzio, qui le brave persone per difendersi diventano invisibili, Michele, in-vi-si-bi-li”. Un insegnamento che in molte zone del nostro paese viene dato appena incominci a camminare: se vuoi campare, pensa ai fatti tuoi. Resta una persona perbene ma a chi sta sopra di te non dare mai fastidio, non opporti, non alzare la voce. Un insegnamento che viene impartito anche a Michele Landa, un metronotte di Mondragone. Un uomo che tutto ciò che desidera nella sua vita è arrivare alla pensione e godersi i suoi affetti, il suo orto, svegliarsi la mattina e non avere paura di non avere il coraggio di guardarsi allo specchio. Ma qui, a Mondragone, il coraggio è necessario: serve anche per vivere tranquilli, per non farsi sopraffare dalla tracotanza e le minacce dei Torre e dall’omertà dei compaesani. Michele lo sa che non bisogna alzare la testa, ma nonostante tutto sa che le cose, se si vuole, possono cambiare.

Tratto da una storia vera, quella di Michele Landa, ucciso e bruciato a Mondragone la notte tra il 5 e il 6 settembre 2006. Una storia ancora oggi avvolta nel mistero e dimenticata, come le tante storie di mafia e di camorra. “Mio padre ha lavorato in molti posti brutti, ma Pescopagano lo spaventava: puttane, spacciatori, camorristi, criminali nigeriani, là ci sta tutto meno che lo Stato”, diceva ai media suo figlio Antonio.
E’proprio da una frase agghiacciante di suo figlio che Giulio Cavalli prende spunto per il titolo del romanzo: “La scientifica ha ripulito la macchina, ma siamo andati lo stesso nel deposito giudiziario. Abbiamo trovato un femore, la fibbia della cintura di papà, le chiavi di casa e altre ossa. Ce lo siamo portati via in una scatola di scarpe”.

‘Mio padre in una scatola da scarpe’ secondo ‘Liberi di scrivere’

(Recensione di Irma Loredana Galgano, l’originale è qui)

Schermata 2015-09-27 alle 17.16.31Il 17 di questo mese è uscito per Rizzoli “Mio padre in una scatola da scarpe” di Giulio Cavalli.

Ci sono dei cantanti che hanno una voce talmente melodiosa che ti cattura appena la senti.
Ci sono dei musicisti talmente dotati che ti fanno piacere la loro musica fin dalle prime note.
E poi ci sono quegli scrittori così bravi che ‘rapiscono’ il lettore fin dalle prime battute.
Giulio Cavalli appartiene senza dubbio alcuno a questa categoria.

Mio padre in una scatola da scarpe” racconta la storia semplice di Michele, cresciuto dove «non esistono carabinieri o polizia; qui a Mondragone ci sono le guardie e i ladri, bianco e nero e tutto in mezzo gli altri che sono altri per il tempo che serve a decidere se nella vita vuoi essere bianco o nero, guardia o ladro», in una città che può trovarsi dove si trova, in provincia di Caserta, o in qualsiasi altro posto del mondo perché «Mondragone si sveglia rotonda tutte le mattine, per poi sformarsi attraverso i suoi abitanti».

Una vita sospesa, quella degli “altri”, soprattutto quando propendono per il bianco, in quanto «questa è una terra che va abitata in punta di piedi, va abitata in silenzio, qui le brave persone per difendersi diventano invisibili». Cercava di spiegare suo nonno a un giovanissimo Michele, che non capiva… non riusciva a capacitarsi, esattamente come quarantanni più tardi non ci riuscirà Andrea, suo figlio.
Perché una persona che vuole solo coltivare il proprio amore, formare una famiglia, lavorare, pagare le tasse e trascorrere del tempo con i propri figli e nipoti deve vivere terrorizzato da ciò che può accadere a lui, o peggio a propri famigliari, anche solo come conseguenza per aver rifiutato o accettato un caffè?
Perché un cittadino deve essere costretto a subire l’indifferenza delle forze dell’ordine soggiogate al male peggio dei “neri”?
Perché un uomo o una donna non possono formulare queste domande a voce alta senza rischiare gravi conseguenze e ritorsioni?

Alcuni soggetti afferenti alla malavita organizzata si ritengono dei soldati, arruolati in un diverso esercito certo ma comunque ligi a un codice di regolamentazione che una volta arruolati si sceglie di seguire e rispettare. Va bene. Ma chi non compie questa scelta perché è costretto a subirne comunque le conseguenze?

« Se è mafioso solo chi ammazza allora la mafia non c’è davvero, qui. Quelli che hanno fatto finta di niente con il tuo amico morto ammazzato sono mafiosi. Tu ti ostini a pensare che siano solo cattivi o prepotenti o violenti, e invece sono mafiosi

Michele e Rosalba trascorrono la vita a cercare di diventare invisibili e soprattutto di far essere tale i propri figli e nipoti, coltivando il loro amore che è «un amore antico, se lo ripetono tutti i giorni, perché è tra persone che sono cresciute imparando ad aggiustare le cose senza buttarle». Ma certe cose o certe situazioni non si possono aggiustare, sono come la miccia di un mortaretto… una volta incendiato non resta che aspettare lo scoppio.
Andrea, Giovanni, Antonio e Angela questo scoppio se lo sentono scorrere nelle vene, anche più di Rosalba e decidono insieme di compiere il gesto più rivoluzionario della loro vita, varcando i limiti della legalità e lo fanno con il coraggio e la consapevolezza di doverlo fare, perché rappresenta per loro non solo una rivincita ma una vera e propria catarsi. E così, a modo loro, riescono a sconfiggerlo il Male che li voleva oppressi, immobili e silenti.

Mio padre in una scatola da scarpe” di Giulio Cavalli è il racconto semplice di una famiglia normale che cerca di coltivare i propri sogni in un mondo disumano, crudele e spietato nel quale l’amore e i sentimenti per vincere devono combattere quotidianamente contro colossi armati, contro il potere, la violenza e il potere della violenza.

« Nonostante tutto lei non tornerebbe indietro, no, non rinuncerebbe a nessuno dei momenti vissuto fino a qui, dolori inclusi, perché la sua famiglia è un’opera titanica e artistica che la riempie di fierezza e di orgoglio.»

Le botte in piazza

Schermata 2015-09-27 alle 08.42.20Gli amici di Nazione Indiana pubblicano uno stralcio di ‘Mio padre in una scatola da scarpe‘.

La mattina presto. Per Michele può esserci il caldo più unto, il freddo più buio o la pioggia più fitta, ma il mattino va rispettato: l’alba è l’inizio. Cose semplici. Sono due anni che la scuola è finita e tutto il giorno ha già la forma del callo sulle mani, che ti sfregano ruvide la faccia quando ti lavi.

Lavorare rende liberi.

Michele era stato studente diligente e poco curioso, ma questa cosa del lavoro e della libertà non gli era mai andata giù. I vecchi dicono: “Tocca per farsi una famiglia ed essere una persona per bene”, ma la libertà proprio non c’entra. Ci sono città del mondo in cui il lavoro è un canale che bisogna navigare per stare a galla e sopravvivere, mentre qui a Mondragone si lavora per non dovere niente a nessuno e perché nessuno ti debba niente, per questo Michele ama la fatica: la fatica infatti ha una faccia sola, è meccanica senza viti, acido lattico senza sentimento. La fatica non ha bisogno di merletti. Sono le sei e Michele si alza come si alza il mattino: sale in fretta per scaldarsi.

«Si fatica principalmente per non sentire tutto il resto» dice sempre quello scemo di Massimiliano.

Caffè amaro. Le scarpe che si scollano. Una camicia spessa come pelo di topo, a quadrettoni, con i gomiti quasi trasparenti. Guardandosi allo specchio si osserva. Non è un bel vedere, no, ma tutta questa stoffa è l’armatura per la fatica al magazzino. La porticina del cortile di casa cigola come il portone di un castello abbandonato. Fuori, Mondragone è odore di caglio e case che si sbriciolano.

«Buongiorno e ben alzato, Michè!» La signora di fronte sta già bollendo la salsa. È cieca e sorda come la salsa ma saluta da orologio svizzero tutte le mattine alla stessa ora.

Lui risponde, anzi ci prova. Meglio, alza la mano e scatta con la testa, gli viene male: cade come da un lato, inciampa, sorride, rialza la mano, ride, no forse non se ne è nemmeno accorta e allora stinge il sorriso e niente, come se non fosse successo niente. «’Ngiorno.» Che fatica.

Mentre la strada scende vuota verso lo stop Michele prova a ripensare alla serata appena passata e a quelle voci che lo rivolevano in piedi: non è facile portare addosso le botte a mezza faccia facendo finta di essere elegante, tu che elegante poi non lo sei stato nemmeno al battesimo o alla comunione.

Erano in tre e Michele li aveva notati già da giorni per quelle smorfie da guappi che qui vengono ammaestrati in serie, seduti arrampicati sul muretto in piazza. Ieri sera erano nella solita posa, di quelli che vorrebbero essere falchi ma sono solo una nidiata di avvoltoi. Ieri aveva anche deciso di bersi una bottiglia in compagnia e festeggiare l’assunzione che era diventata ufficiale per tutti, al magazzino. Adulti a tempo indeterminato con il libretto di lavoro in tasca. Ci avevano promesso anche un po’ di malattia e ferie, non proprio tutte quelle che c’erano scritte nel contratto – che per sicurezza avevano fatto leggere a Giulio, che si era trasferito su a Milano e aveva imparato l’italiano meglio di come si impara un po’ sgarruppato nella scuola di Mondragone, e anche Giulio aveva esultato per un contratto che in fondo anche a parole era simile a quello che c’era scritto. Per questo avevano deciso di prendersi il vino, mica quello più buono, ma la qualità subito sotto, ben distante dal vino schifoso e lunghissimo che si bevevano di solito a pranzo. La locanda li conosceva per nome e cognome e si era fidata anche a dargli quattro bicchieri di vetro da portare fino in mezzo alla piazza con la bottiglia impolverata, perché c’è da fidarsi di Michele e quegli altri colleghi suoi, che non creano mai problemi.

Stavano appena stappando il tappo a vite come quello della spuma e ridevano pensando che poi magari un giorno qualcuno sarebbe diventato capoturno, poi magari un giorno, ridevano, avrebbe comprato un vino con il tappo quello vero.

Era stato un attimo e gli altri tre guappi erano già in mezzo. Dammi. No. Forza, dài qua. Ma che vuoi. Festeggiamo anche noi. Facciamo da soli grazie. Lo decidiamo noi chi festeggia qui in piazza. Non ci penso nemmeno…

Ed è stata subito una paranza di botte che facevano più rumore dei bicchieri che rotolavano sui sassi. Tonfi secchi sulle parti molli e il fruscio dei rami secchi quando si pestano con le scarpe, solo che questi erano in faccia, sulla mandibola e sotto gli occhi. Roba forte.

(continua qui)

‘Mio padre in una scatola da scarpe’ secondo Eleonora Cocola

Recensione a cura di Eleonora Cocola (link)
Schermata del 2015-09-24 16:14:26Quella di Michele, nato e cresciuto a Mondragone, non è una vita facile: orfano di genitori alcolisti che gli hanno regalato un’infanzia tormentata, l’unica famiglia che gli è rimasta è suo Nonno. Oltre, naturalmente, alla famiglia che Michele formerà da sé: nonostante le sofferenze che ha subito è un ragazzo a posto, che desidera solo essere felice, condurre una vita onesta e creare una famiglia buona. Tutte cose che a Mondragone sono tutt’altro che scontate.

Dove regna la camorra, che qui ha il nome della famiglia Torre, anche chi non è in cerca di guai deve vivere come se camminasse sulle uova, stando attento a ogni passo, a ogni parola, a ogni sguardo; imparando a far finta di non vedere, a non ribellarsi, a scomparire. È una vita che il nonno glielo ripete a Michele, che deve stare tranquillo e farsi gli affari suoi, e lui alla fine ha imparato: per colpa della famiglia Torre ha perso il lavoro, ha visto tanti amici morire, e ha dovuto trovare un difficile equilibrio tra silenzio e omertà. La sua convinzione che anche a Mondragone sia possibile vivere una vita pulita e felice non si è scalfita: soprattutto grazie all’amore, quello della ragazza che è diventata sua moglie, Rosalba “la silenziosa”: insieme hanno formato una famiglia numerosa con cui Michele non vede l’ora di godersi la vecchiaia.

Non è una storia qualunque quella di Michele Landa: è la storia di un uomo assassinato a colpi di pistola nel settembre del 2006; di un delitto i cui colpevoli sono ancora ignoti. Il romanzo di Giulio Cavalli riporta alla luce questa storia dimenticata, raccontando di una categoria di persone che non sono né con la mafia né propriamente contro di essa: gli invisibili. Quelli che, come Michele, in nome di una vita tranquilla sono costretti a fare violenza su stessi, soffocando la ribellione contro le ingiustizie e le morti di cui sono testimoni. È il Nonno del protagonista il primo portavoce di questa posizione: «Questa è una terra che va abitata in punta di piedi, Michele, va abitata in silenzio, qui le brave persone per difendersi diventano invisibili, Michele, in-vi-si-bi-li».

Con una scrittura intensa e uno stile avvolgente, in grado di catapultare il lettore dritto nella testa dei personaggi, il romanzo di Cavalli insegna che anche diventare invisibili richiede una certa dose di coraggio, e ricorda che purtroppo non sempre basta per salvarsi. Il protagonista Michele e la sua amata Rosalba sono disarmanti per la loro semplicità: dalla purezza del loro sentimento e dalla genuina integrità dei loro valori deriva la forza di questi due personaggi, tanto che quello che accade intorno a loro assume contorni quasi sfocati. La storia minuta, quella di chi subisce i grandi fenomeni senza giocarvi un ruolo di primo piano, viene portata alla luce, rendendo giustizia a tutte quelle vittime della mafia che troppo facilmente cadono nell’oblio.

«Mi interessa la grandezza “ordinaria”»: una mia intervista prima di partire per Ravenna

Intervista di Veronika Rinasti a Giulio Cavalli. L’intervista è stata pubblicata sul numero di Ravenna&Dintorni del 17 settembre. Qui l’inserto completo in pdf)

Cavalli con il nuovo spettacolo su Dell’Utri e il romanzo su Michele Landa: «L’ho scritto pensando ai miei figli»

giulio_cavalli_2012_foto_emiliano_boga_alta_ris-2Giulio Cavalli sarà ospite del Grido 2015 sabato 26 settembre con un doppio appuntamento. , romanzo edito da Rizzoli e in uscita il 17 settembre. Alle 21,00 sarà la volta dello spettacolo teatrale in anteprima nazionale L’amico degli eroi, monologo di Giulio Cavalli con musiche di Cisco Bellotti su Marcello Dell’Utri.

Nell’ultimo anno hai scritto un romanzo, uno spettacolo teatrale e hai iniziato a collaborare con Left. Scrittore, attore, giornalista. Hai deciso cosa fare da grande?

In realtà no! Negli ultimi due anni sono finito a fare il giornalista molto spesso, rispetto agli altri miei lavori. Il mio sogno rimane quello di fare lo scrittore e basta. Non per trasmettere alti pensieri o filosofie illuminanti, sono una persona che adora l’ozio e quindi la scrittura è semplicemente la forma più compatibile con me stesso. Mi capita di cambiare metodo a volte, ma questo dipende dal fatto che a seconda del tema trattato, mi sembrano più utili forme diverse. La storia di Michele Landa, ad esempio (il protagonista del romanzo Mio padre in una scatola da scarpe), è talmente umana che sento di non avere la cifra stilistica o la bravura per portarla su un palco. Mi viene più facile raccontarla in un libro.

Nel romanzo hai lavorato molto sulle parole, raccontando nel dettaglio i personaggi e ambientazioni. Quanto sei legato a questo libro?

Mio padre in una scatola da scarpe è il libro che mi rappresenta di più. Negli ultimi anni ho avuto la sensazione di dovermi sempre difendere. Con questo romanzo ho voluto scrollarmi di dosso l’etichetta di quello che si “merita” le minacce. Il processo di delegittimazione ti porta l’ansia di dare un certo tipo di risposta anche quando la delegittimazione in realtà non esiste. Il mio habitat è quello del racconto che non ha bisogno di fatti eclatanti, ma è legato alle piccole cose e forse questo romanzo è il mio lavoro più libero.

Quella di Michele Landa è una storia di cui si è parlato poco a livello nazionale. Perché hai scelto di parlare proprio di lui?

Mi piace molto raccontare la grandezza “ordinaria” delle persone normali. Sono assolutamente contrario alla mitizzazione della mafia e dell’antimafia. Molto spesso l’incontro con la criminalità organizzata si verifica per cause banali, come trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato, come è successo a Michele Landa. Secondo me c’è un insegnamento molto più umano nella sua vicenda, che nelle storie ormai famose e abusate. La sua storia mi è stata raccontata durante un pranzo, quello di cui parlo alla fine del libro. Mentre scrivevo non mi sono sentito un giornalista, volevo soltanto raccontare la profonda umanità di questa famiglia che si era sempre tenuta fuori dalla criminalità organizzata, dichiarandosi anche ignorante su questo argomento.

Hai pensato ad un lettore ideale mentre scrivevi il romanzo?

Mi piacerebbe riuscire a creare una cultura dell’etica e della legalità che si appassionasse anche alle storie minori. Mi capita spesso di incontrare studenti nelle scuole e cerco sempre di contrastare questa bolsa retorica dell’antimafia, come se Falcone e Borsellino fossero il sussidiario della criminalità organizzata quando nella realtà esistono infinite sfumature di persone. Ho pensato ai miei figli e a quando, da grandi, mi chiederanno il perché di una vita così movimentata. Ecco, questo libro sarà la risposta.

Dopo la presentazione del libro, avremo in anteprima nazionale, anche “L’amico degli eroi”, spettacolo teatrale realizzato con il crowdfounding. In questo caso il progetto sociale è stato un obbligo o una scelta?

Innanzitutto trovo deliranti i bandi per ottenere fondi pubblici. Quindi abbandono per principio tutto quello che mi sembra illogico. E poi non mi avrebbero permesso di farlo. Gli unici spettacoli che ho realizzato con piccoli contributi pubblici sono L’innocenza di Giulio e bambini a dondolo, in cui parlo di turismo sessuale. Ma l’aiuto si limita alla fase di produzione. Gli spettacoli vengono scritti ma non venduti, e in questo modo l’ente compra il “perdono” attraverso il finanziamento.
Per il resto, io mi ritengo una persona fortunata. Ho molte persone che mi seguono, che sono miei lettori e sostenitori…e molto spesso sono anche le mie fonti. Ho pensato perché non provare a metterle insieme, cercando di creare anche un rapporto diretto. Tutto questo mi permette di esprimere anche giudizi etici sul dell’utrismo, cosa che probabilmente con un produttore privato non avrei potuto fare. L’amico degli eroi non è lo spettacolo che ti spiega solo perché Dell’Utri è mafioso, andiamo oltre. Raccontiamo che Dell’Utri, ovvero il siciliano che sogna di essere borghese, incontra il milanese che sogna di poter essere prepotente nelle modalità siciliane, si crea un mix talmente forte da arrivare a governare il paese.

Se dovessi descrivere Dell’Utri in due parole?

Mah…io lo trovo molto simile ad Andreotti. Dell’Utri è il sottovuoto spinto travestito da eroicità, a volte anche da intellettuale. Dell’Utri rimane l’opera d’arte di Silvio Berlusconi che, dopo aver imparato a vendere qualsiasi prodotto, ha venduto alla Lombardia leghista e antiterrona un nuovo modello di siciliano buono e potabile.

Come si articola lo spettacolo?

La prima parte è una narrazione di fatti realmente accaduti della vita di Marcello Dell’Utri. È il “Cavalli che non ti aspetti” perché non ci sono scoop. La seconda parte è in video. È uno spettacolo teatrale con una sorta di cinegiornale all’interno.