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Bum!

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La chiamano modernità e invece e la natura che ogni tanto, nonostante i calci in testa, riesce per qualche secondo a mettere la bocca fuori dallo stagno.

«Voglio che la Chiesa e la mia comunità sappiano chi sono: un sacerdote omosessuale, felice e orgoglioso della propria identità. Sono pronto a pagarne le conseguenze, ma è il momento che la Chiesa apra gli occhi di fronte ai gay credenti e capisca che la soluzione che propone loro, l’astinenza totale dalla vita d’amore, è disumana».

(monsignor Krzysztof Charamsa, teologo, ufficiale della Congregazione per la Dottrina della Fede e segretario aggiunto della Commissione Teologica Internazionale vaticana, qui.)

Ci vorrebbero vicari

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Scrive Nicola Lagioia riguardo l’editto bulgaro in salsa PD su Rai Tre e sui “non allineati”:

“Ogni potere sogna il commissariamento della realtà, e questo governo deve covare interiormente un buio molto fitto se ha bisogno che tutti intorno sorridano e parlino di un mondo meraviglioso. Pretendere l’ottimismo a tutti i costi può risultare alla lunga molesto. “I gufi non sono quello che sembrano”, diceva il David Lynch di Twin Peaks, e se ne vedi a ogni angolo è forse il sintomo di qualcos’altro.

Mi spiace infine che l’esponente Pd non sia stato sfiorato dal sospetto che le mie parole nascevano da un vecchio imperativo letterario. Parlando delle vittime, ho solo indegnamente provato a fare mia quella precisa e per me enorme lezione secondo cui è importante raccontare non chi la Storia la fa ma le sue vittime, poiché chi porta le stimmate del tempo ne è il vero testimone. Le vittime spesso però non hanno voce. Così dargliela tocca a qualcun altro. Raccontare per chi non può farlo. La letteratura come ruolo vicario. Anche il potere ci vorrebbe vicari, ma di se stesso”.

Il resto è qui.

Un’intervista con IODONNA. Su tutto.

Schermata del 2015-10-01 17:21:29

(Intervista di Raffaella Oliva, l’articolo originale è qui)

Era l’alba del 6 settembre 2006 quando Michele Landa fu ucciso a colpi di pistola e bruciato nella sua macchina. Era un metronotte di Mondragone, provincia di Caserta, un cittadino onesto cui era stato affidato il compito di piantonare un ripetitore per la telefonia mobile a pochi chilometri da casa, a Pescopagano. Gli hanno sparato durante un turno di lavoro, in quel periodo i clan della camorra avevano scoperto il redditizio furto delle apparecchiature telefoniche, forse Michele sapeva qualcosa, il suo sguardo indiscreto non era ben visto. Aveva 61 anni, il suo corpo carbonizzato sarebbe stato ritrovato in un fosso solo quattro giorni dopo: alla famiglia che aveva sporto denuncia per la sua scomparsa le forze dell’ordine avevano suggerito di non preoccuparsi, «sarà con l’amante».

Una morte quasi ignorata, la sua, giusto qualche trafiletto nella cronaca locale. Una morte ingiusta che oggi Giulio Cavalli, scrittore, giornalista, attore e autore teatrale che per il suo impegno contro la mafia vive sotto scorta dal 2007, racconta in Mio padre in una scatola da scarpe, il suo primo romanzo dopo diversi libri d’inchiesta, in uscita il 17 settembre per Rizzoli. «Quella di Michele Landa è una storia profondamente umana, non una vicenda “banalmente” di mafia, bensì la vicenda di un amore e di una famiglia molto unita che si ritrova coinvolta per caso in un dramma più grande di lei», dice il milanese Cavalli, classe 1977. «A Mondragone Landa non era un eroe dell’antimafia; era, più semplicemente, una persona che non voleva avere a che fare con la camorra perché non voleva avere a che fare con l’illegalità in generale. Eppure è stato costretto a soccombere».

Nel romanzo questo aspetto è chiaro: Landa non era un militante, uno di quelli che fanno della lotta alla criminalità organizzata una missione di vita.
Esatto, voleva solo seguire le regole con la geniale semplicità che fu dei nostri nonni. Negli anni l’antimafia ha spesso agito in modo vile, guidata da un sentimento di vendetta, io stesso dopo quello che mi è successo mi ero imbruttito, incattivito (Cavalli ha iniziato a subire minacce di stampo mafioso nel 2006, dopo la messa in scena dello spettacolo Do Ut Des, sulla vita dell’immaginario aspirante boss Totò Nessuno ndr). Ho poi capito che a meritare ammirazione sono coloro che con la semplicità di cui sopra non perdono di vista i propri valori quando capita loro l’occasione di essere giusti, come recita la frase che ho voluto mettere in copertina.

Leggendo il libro viene da chiedersi quanto di vero e quanto di romanzato ci sia nel suo racconto.
Se dicessi che è tutto vero si diffonderebbe l’idea che Giulio Cavalli abbia scritto un’inchiesta sulla camorra. Mettiamola così: il tessuto umano e la vicenda sono reali, e lo sono nel senso che quando Angela Landa, la figlia di Michele, ha letto il libro mi ha confidato di aver ritrovato e riconosciuto, tra quelle pagine, la sua famiglia.

I vari personaggi sono descritti nei loro tic, nelle loro particolarità, nei loro tratti più invisibili, ma eloquenti; a tratti sembra di leggere una sceneggiatura cinematografica.
Forse proprio perché prima di scrivere ho incontrato più volte Angela. Per esempio, il pranzo di famiglia con cui si chiude il libro è autobiografico: io c’ero, ero lì, e in quell’occasione ho avuto modo di scorgere i tic di quelli che sarebbero diventati i personaggi del romanzo. Credo c’entri anche il fatto che nasco come teatrante, ma c’è un ulteriore aspetto da non dimenticare: quando, com’è accaduto alla famiglia Landa, ti ritrovi a vivere una vicenda così assurda, che non ti saresti mai aspettato, ecco, in quei casi sono gli stessi protagonisti della storia a raccontare quest’ultima quasi fossero osservatori esterni, sono i diretti interessati a darne una visione filmica, cinematografica. È un meccanismo di difesa, serve a non cadere nella disperazione. Dietro alle parole c’è sempre un’umanità tremolante e commovente.

Commovente perché distante dalla mera cronaca?
Commovente perché sentire Angela Landa dire “hanno ucciso mio padre, che era la persona che insegnava a mio figlio cos’è un orto” è diverso dal sentir parlare di mafia in televisione, per esempio, dove gli argomenti sono le modalità di azione delle organizzazioni criminali o le relazioni della DDA (direzione distrettuale antimafia ndr).

Che tipo di realtà ha trovato, lei, a Mondragone?
Per fortuna non ho problemi con la camorra, li ho con Cosa Nostra, i siciliani e i calabresi soprattutto, ma con la camorra no. Per me Mondragone è Angela, i nostri incontri, le nostre conversazioni. M’interessava la temperatura emotiva della città, più che il posizionamento della stessa sullo scacchiere criminale. In passato ci ero già stato, ma per degli spettacoli, non avevo avuto modo di assorbire il territorio anche perché è un po’ complicato per me, data la mia condizione.

Da quasi dieci anni vive sotto scorta e come saprà sulle scorte i commenti si sprecano, c’è chi le considera un capriccio: come risponde?
Rispondo che nella stragrande maggioranza dei casi è effettivamente così, viviamo in un Paese in cui si dà la scorta a un attore mentre si dice alla moglie di Michele Landa “non preoccuparti, tuo marito sarà fuori a ubriacarsi con qualche prostituta”. Ciò detto, trovo l’argomento “scorta o non scorta” poco interessante, mi preme di più parlare di quell’eccesso di difesa che in passato mi ha portato ad accettare un abbruttimento, un incattivimento cui credevo di avere diritto e che, invece, mi ha fatto solo perdere tempo.

Ha superato l’abbruttimento, ma la paura, quella si supera?
Dopo un po’ scompare, ci si abitua. Io non ho paura di certe famiglie calabresi, la mia paura è di vivere in un Paese che non dà risposte, ho paura della possibilità di delegittimazione, noncuranza e dimenticanza che è un po’ il senso di questo libro.

È per questo che nel 2010 è entrato in politica, diventando consigliere regionale della Lombardia prima con l’Idv, poi con Sel?
Sono entrato in politica perché sono convinto che i mandanti di certi crimini siano politici e penso che la politica sia un passaggio necessario per portare avanti la lotta alla mafia. Le famiglie appartenenti alla criminalità organizzata sono politicissime, conoscono a memoria leggi, emendamenti, piani di governo del territorio, molto meglio di tanti altri cittadini che magari si ritengono informati. Questo significa ch
e l’antipolitica è un favore che si fa a loro. Credevo di poter essere utile.

Poi cos’è successo?
È successo che quella parentesi politica mi è costata tanto dal punto di vista professionale, il sospetto era sempre quello che qualunque cosa facessi fuori dall’ambito politico nascondesse un interesse partitico. Per non parlare della legislatura pittoresca in cui mi sono ritrovato: il figlio di Bossi, la Minetti… Ce l’ho messa tutta, ma era troppo per me, l’ecologia intellettuale ha dei limiti.

La cosa che più l’ha stupita?
La giustificazione quotidiana di bassezze umane come elemento indispensabile per ottenere un buon risultato. Giustificazione vissuta come un aspetto positivo. E lì ho capito alcune cose: l’Italia non è un Paese che non si è accorto di Andreotti, è un Paese di aspiranti Andreotti. Poi, ovvio, anche in politica ci sono persone con una bella umanità, penso a Pippo Civati, a Maurizio Martina…

Alla fine, però, ha lasciato ed eccoci al suo primo romanzo.
È questo il mio lavoro: raccontare storie. Non raccontare storie per legittima difesa, non fare l’attore civile, non fare il minacciato o lo scortato, solo raccontare
storie. Purtroppo in passato ho sentito il bisogno di difendermi, ho dovuto spesso giustificare gli stereotipi che mi venivano appiccicati addosso, per cui da giovanissimo ero il nuovo Paolini. Poi, dato che ci avevo messo il sorriso, sono diventato il nuovo Dario Fo: insomma, sono stato sempre il modello sostitutivo di qualcosa che c’era già. Ora basta, questo è un libro libero, descrive ciò che sono ora.

Nel libro racconta l’omertà in modo estremamente schietto, come qualcosa di non riconducibile soltanto alla paura.
Certo, è anche un fattore culturale: per i nostri nonni l’omertà era sinonimo di tranquillità e quest’ultima era vissuta come un dovere da buon padre. Per loro assicurare tranquillità ai figli e non creare nevrosi in famiglia era fondamentale. Ora, partendo da questa consapevolezza, sta a noi non diventare vendicativi: non penso che si possa sconfiggere una prepotenza con una prepotenza organizzata più forte, è necessario un lavoro culturale. Ci ritroviamo di frequente a tuonare contro i collusi, quel che mi chiedo è: e se dentro questa forma di collusione ci fosse una struttura culturale che non abbiamo curato abbastanza bene? È questa la domanda che il libro vorrebbe mettere sul tavolo: il nonno di Michele, che gli dice di tacere e di farsi i fatti suoi, è un vigliacco? No, bisogna andare oltre, comprendere, sfruttare la memoria di quei nonni per curare. Non credo più nei paladini antimafia che si scagliano contro tutto e contro tutti.

Descrive bene anche il ruolo complice di certe donne disposte a sposare degli uomini di mafia pur di essere mantenute e fare “la bella vita”.
Attenzione, però, a Milano accade lo stesso quando una donna si sposa con un funzionario corrotto. E anche di quelle donne va compresa una fragilità: mi fa paura il giustizialismo culturale in cui ogni tanto anch’io mi sono ritrovato imprigionato in passato. Amo le persone che non hanno bisogno di avere un nemico per restare salde sui propri obiettivi e sto imparando a essere anch’io così.
 
Si tratta di comprendere per combattere?
Si tratta di fare antimafia non usando la penna come spada ma, per esempio, raccontando una storia d’amore come ho fatto con questo romanzo. Dobbiamo ricominciare a innamorarci della legalità e ancor prima dei fragili e delle fragilità: la nostra attenzione dovrebbe essere rivolta verso chi ha paura, non verso chi ha le condizioni o la fortuna di poter non avere paura. La vera rivoluzione culturale e sociale avverrà quando comprenderemo che ognuno ha la propria battaglia personale da combattere, quindi va rispettato e trattato con gentilezza, come diceva Carlo Mazzacurati. Mio padre in una scatola da scarpe è un romanzo civile perché in un’epoca dominata dal cattivismo come quella attuale rilancia il buonismo non come debolezza, ma come senso di responsabilità sociale.

Il politico del mese è Stefano Benni

StefanoBenni

Non tanto per il rifiuto del premio, secondo me, quanto per la controrisposta alla (brutta) risposta del Ministro Franceschini:

Caro ministro, la sua è una risposta da politico in leggera difficoltà, non da sereno amante della cultura. La mia infondata indignazione è condivisa da molti, e si fonda sui miei incontri con piccole, coraggiose, serie realtà che voi avete soffocato, e che lei farebbe bene a frequentare di più. Avrei preferito che dicesse chiaramente cosa vuole fare d’ora in avanti, piuttosto che elencare cifre sommarie per difendere il suo posto di lavoro. Sì avete dato soldi, ma a chi e con che criteri?

Prendo atto della sua buona volontà e il futuro dirà se lei vuole davvero riportare la cultura al centro (naturalmente al centro) dell’azione politica. È una frase affascinante che sentiamo ripetere da anni. Se ciò avverrà sarò il primo a riconoscerlo, accetterò premi e ci congratuleremo vicendevolmente. Ma si sbrighi, ho una certa età e non vorrei premi alla memoria.

Buon lavoro e chiudo qui,

Stefano Benni

Qui: dove anche la foto di un bimbo morto scade quasi subito.

Nello sgombero dell’accampamento a Ventimiglia ci sono alcune piccole scene, gesti minori ma simbolici che meritano un’osservazione:

Le ruspe. Davvero. Non si sarebbe mai creduto che potessero diventare qualcosa di più di uno schizzo sulla maglietta o dalla bocca di Salvini e invece eccole proprio a Ventimiglia. La città che era diventata simbolo dell’accoglienza e che davvero sembrava avere preso coscienza di essere semplicemente una zona di passaggio bloccata dalla miopia politica europea. E invece ecco le ruspe: così Toti (il governatore più trasparente delle regioni italiane) potrà ricamarsi una vittoria sul bavero.
I rifiuti: quegli indumenti trattati da stracci, quelle coperte lanciate nei camion della spazzatura sono oggetti portati molto spesso dai cittadini. Doni. Gesti concreti di un’accoglienza che mentre cerca le proprie regole vorrebbe avere il diritto di restare sospesa. Non è stato sgomberato un luogo illegale: è stata spianata la residenza di un bisogno. Come se si potesse usare la discarica come un tappeto e nasconderci la polvere sotto.
I fogli di via. Nei giorni scorsi chi prestava aiuto è stato invitato ad andarsene con un foglio di via. Oggi possiamo dire che era l’antipasto della smobilitazione. Le istituzioni che ritengono pericolosi gli “aiuti” non organizzate sono spesso le istituzione che hanno paura di mostrarsi nude, sguarnite in qualche dovere che gli spetterebbe. Così “via i migranti, via i bisognosi, via i solidali”: a rileggerle tra qualche anno queste cose ci faranno inorridire. Inorridire.
Il vescovo colpevole di dare da mangiare agli affamati. Il sindaco Ioculano ha criticato la scelta del vescovo di Ventimiglia Antonio Suetta di dare qualche migliaio di euro ai volontari per garantire il cibo sufficiente. La misericordia è un ostacolo al buon governo. Aspettiamo con ansia l’incoronazione di Nerone.
Qui: dove anche la foto di un bimbo morto scade quasi subito.

Ne ho scritto qui.

Quindi ritorno a scuola

CAVALLIPadre18Mi ha stupito sapere che già adesso ‘Mio padre in una scatola da scarpe‘ sia diventato il “libro che ci hanno dato da leggere a scuola”. E mi emoziona forse perché da anni, girovagando di scuola in scuola (gratis, se non recito, ovviamente) ho imparato ad apprezzare la cura con cui molti professori ponderano ogni passo da proporre ai propri studenti. E pensare che non li ho amati nemmeno, i professori, da studente, e mi sarebbe bastato intravedere quello che ho visto solo dopo. Anche in questo il libro si è già rivelato migliore di me.

«La fragilità mi ha aiutato più delle scorte». Un’intervista.

DSC_7754__«Capita a tutti l’occasione di essere giusti». E’ ciò che racconta Giulio Cavalli nel suo romanzo Mio padre in una scatola da scarpe, edito da Rizzoli. Pagine scritte con impeto senza la consueta sete d’inchiesta, ma solo per narrare quello che accade a molti degli eroi dei giorni nostri tra umanità, omertà e bullismo.

Com’è nato quest’ultimo lavoro?
«E’ partito tutto quando ho conosciuto la figlia di Michele Landa la persona da cui nasce il racconto. Michele era un metronotte di Mondragone al quale è capitato di scontrarsi con una realtà come l’omertà che vale per il suo paese e per tutta Italia, contrariamente alla teoria che il buon padre di famiglia non deve infilarsi in situazioni pericolose. Michele è stato ritrovato ucciso nella sua auto, a pochi giorni dalla pensione. Lui è una vittima come ce ne sono tante altre, ma questa morte assume un significato simbolico enorme».

Quale?
«A tutti noi capita l’occasione di essere giusti nella vita. Lui ha scelto di essere giusto nella sua straordinaria normalità. Io penso che questo sia un paese che ha bisogno di innamorarsi dei fragili e bisogna ricominciare a capire che le persone hanno il diritto di avere paura».

Che cos’ha di diverso rispetto a tante storie che hai raccontato in passato?
«La differenza è che su questa non abbiamo scopi giornalistici, non ci interessa dire come sia stato ucciso o altro, questo è un romanzo, quello che avrei voluto e dovuto scrivere dieci anni fa. Invece ci sono state le minacce in una città come Milano e quindi io ho dovuto difendermi e nell’eccesso di difesa mi sono incattivito e adesso è come se avessi deciso di tornare al mio mestiere, non fare l’inchiesta ma prendere le temperature emotive della gente».

Il bavaglio andrebbe abolito fin dalla tenera età?
«Questo libro parla di mafia, ma anche di prevaricazione. Il fatto che ci siano ragazzi così giovani che sappiano, anche meglio di un pezzo di classe dirigente italiana, che le prevaricazioni sono quotidiane soprattutto nei luoghi dove si fa socialità, penso sia un motivo per essere ottimisti».

Quindi c’è speranza per il futuro?
«Da una parte c’è la cronaca abbastanza desolante, dall’altra penso che questo sia un Paese ricchissimo di valore umano. Dobbiamo uscire da questa cultura distorta degli ultimi dieci anni, di cui anch’io magari sono stato causa, uscire dalla logica che ogni battaglia abbia bisogno di paladini senza macchie. Alla fine abbiamo lasciato indietro le cose importanti. Io ho conosciuto fragilità meravigliose che in realtà mi hanno aiutato più delle scorte armate».

Manuela Sicuro (fonte)

Il ponte

Ero in viaggio, con un febbrone e pensavo di essermi sbagliato. Qualcosa tipo un’allucinazione. “Stanno ripensando al ponte” mi hanno detto. Ma figurati, mi sono detto. Il ponte. Impossibile. E invece.

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‘Mio padre in una scatola da scarpe’ secondo booksblog.it

(L’articolo originale è qui)

“Michele aveva cominciato a picchiare con tutta la voglia che aveva accumulato negli ultimi anni, come si immaginava si potesse picchiare solo prima di morire. E non menava solo quei tre cuccioli d’avvoltoio, no, picchava i ricchi sempre gonfi alla domenica mattina; picchiava quelli che gridano scemo a Massimiliano che piangeva come i magri anche se è grasso come un tacchino, e picchiava anche per lo scemo di troppo che gli dava quando anche lui esagerava con lo scherzo; picchiava per i vecchi così vecchi che fuori dalla chiesa sembra che ci manchi solo ceh se li porti via il vento o li sciolga questo sole unto”.

Schermata 2015-09-29 alle 22.25.39Si sfoga  così, per almeno due pagine, la rabbia di Michele Landa contro tutti gli oppressori e gli oppressi, contro se stesso e la sua famiglia, contro gli ignavi, contro le ingiustizie. Michele, Michele Landa, è il protagonista di “Mio padre in una scatola da scarpe”, romanzo di Giulio Cavalli edito da Rizzoli.

Un romanzo di mafia, ma senza essere troppo plateali. Nessuna coppola o lupara, ma gente normale, gente che per sopravvivere serenamente nel posto in cui vive è costretto alla fine a chinare la tesa, ad arrendersi, a diventare anonimo e invisibile.“Questa è una terra che va abitata in punta di piedi, Michele, va abitata in silenzio, qui le brave persone per difendersi diventano invisibili, Michele, in-vi-si-bi-li”. Un insegnamento che in molte zone del nostro paese viene dato appena incominci a camminare: se vuoi campare, pensa ai fatti tuoi. Resta una persona perbene ma a chi sta sopra di te non dare mai fastidio, non opporti, non alzare la voce. Un insegnamento che viene impartito anche a Michele Landa, un metronotte di Mondragone. Un uomo che tutto ciò che desidera nella sua vita è arrivare alla pensione e godersi i suoi affetti, il suo orto, svegliarsi la mattina e non avere paura di non avere il coraggio di guardarsi allo specchio. Ma qui, a Mondragone, il coraggio è necessario: serve anche per vivere tranquilli, per non farsi sopraffare dalla tracotanza e le minacce dei Torre e dall’omertà dei compaesani. Michele lo sa che non bisogna alzare la testa, ma nonostante tutto sa che le cose, se si vuole, possono cambiare.

Tratto da una storia vera, quella di Michele Landa, ucciso e bruciato a Mondragone la notte tra il 5 e il 6 settembre 2006. Una storia ancora oggi avvolta nel mistero e dimenticata, come le tante storie di mafia e di camorra. “Mio padre ha lavorato in molti posti brutti, ma Pescopagano lo spaventava: puttane, spacciatori, camorristi, criminali nigeriani, là ci sta tutto meno che lo Stato”, diceva ai media suo figlio Antonio.
E’proprio da una frase agghiacciante di suo figlio che Giulio Cavalli prende spunto per il titolo del romanzo: “La scientifica ha ripulito la macchina, ma siamo andati lo stesso nel deposito giudiziario. Abbiamo trovato un femore, la fibbia della cintura di papà, le chiavi di casa e altre ossa. Ce lo siamo portati via in una scatola di scarpe”.

I vigliacchi che non parlano (pubblicamente) di Nino Di Matteo

Tutti quelli che stanno zitti ci dicano, ci spieghino e ci insegnino che Di Matteo si minaccia da solo, che si costruisce pentiti per la carriera (che però, guarda un po’, nemmeno quella riesce a fare) e che le minacce sono false o non pericolose. Ma non se lo dicano nei bisbiglii davanti al caffè o nei messaggini ridanciani: ce lo dicano in faccia, ne facciano un editoriale e ci mettano la firma.

Se dovesse succedere qualcosa, qualsiasi cosa, comunque vada a finire questa storia almeno rimarranno i nomi e i cognomi, insieme a quest’altra brodaglia di codardi.

Il mio articolo (e le mie domande) sono qui.