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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Un Presidente verde. Del verde giusto, però.

In Austria è quasi fatta per la vittoria di Van Der Bellen alla presidenza. Un rappresentante dei Verdi vince nell’Austria in cui la xenofobia dell’ultra destra cavalca veloce. Una bella notizia. Intanto. Per cominciare.

Ecco cose scrive Repubblica:

«”Alexander Van der Bellen è il nuovo presidente austriaco”. E’ stata per prima la tv pubblica Orf a comunicare la vittoria del candidato ecologista che con il 53,6% dei voti ha di nuovo sconfitto nel ballottaggio l’avversario populista Norbert Hofer che aveva ottenuto l’annulamento delle precedenti consultazioni per irregolarità nel voto.
“Vorrei congratularmi con il signor Van der Bellen per la sua vittoria”, ha dichiarato il segretario generale del Fpoe, Herbert Kickl che ha guidato la campagna del populista Hofer, alla televisione pubblica austriaca Orf. “Per l’ultima volta le forze, che sono contro il rinnovamento, ci hanno fermati”, ha aggiunto Kickl facendo chiaro riferimento alle elezioni politiche che probabilmente saranno anticipate alla prossima primavera.
Il ministero degli Interni ha detto che non ci sono state irregolarità. Proprio la denuncia del partito Fpö del candidato ultranazionalista aveva portato al ripetersi del ballottaggio. Per soli 31mila voti, l’ex presidente dei Verdi era stato dichiarato vincitore. Il conteggio del voto per posta e la diffusione di alcuni dati parziali erano stati alcune delle irregolarità rilevate, sebbene secondo la Corte costituzionale non abbiano influito sul risultato.»

“Salvini è il più grande assenteista di Bruxelles”. E per il tribunale di Milano non c’è diffamazione scrivendolo.

“Lei è il più grande assenteista di Bruxelles”. Salvini perde il processo per diffamazione contro il segretario generale della Fim, Marco Bentivogli, reo di aver dato dell’assenteista – il più grande – al leader del Carroccio. Il tribunale di Milano ha archiviato il procedimento avviato da Matteo Salvini dopo un acceso scambio di battute tra i due nel corso di un programma su La7 nel luglio del 2015. “Dire che Salvini è un assenteista non è diffamazione, perché è semplicemente la verità”, commenta più che soddisfatto Bentivogli.

“Non avevo dubbi che la querela sarebbe stata rigettata, anche perché i dati delle presenze dei parlamentari europei sono pubblici e scaricabili dal sito e, quindi, visibili a qualunque cittadino”, dice parlando di come Salvini “partecipi solo per il 18%” ai lavori della Commissione sul commercio internazionale di cui fa parte.

“Salvini
sentenzia su molti temi in televisione, ma poi non si prende il disturbo nemmeno di partecipare ai lavori di quella commissione – insiste Bentivogli – è un esempio di populismo irresponsabile che noi combattiamo, proprio per il rispetto della democrazia e della rappresentanza che abbiamo. Qualsiasi lavoratore, assente nel luogo di lavoro, viene licenziato. Salvini crede che le leggi si propongono, contrastano o approvano, stando giorno e notte in tv”.

(fonte)

«C’è bisogno di un segnale che, accendendosi, indichi che un limite non può essere superato. Questo segnale è solo il No.» (di Lucia Annunziata)

(di Lucia Annunziata, per Huffington Post, qui)

Nel novembre 2011, in nome della stabilità del paese, viene buttato alle ortiche Silvio Berlusconi, a favore di Mario Monti, senza elezioni. Nell’aprile 2013 si va alle elezioni e Mario Monti non supera l’esame elettorale, senza che però l’incarico di premier vada a nessuno dei due quasi vincitori, né a Bersani né a Grillo. Entra invece Enrico Letta, che non è il campione uscito dalle urne, ma appare più adatto degli altri due ad assicurare la stabilità. La stabilità però è una Musa Inquieta e nel febbraio 2014 butta alle ortiche anche Letta. Entra Matteo Renzi, un politico che al voto parlamentare nazionale non si è mai sottoposto, che passa direttamente da sindaco di Firenze a presidente del Consiglio. In 5 anni 4 premier, di cui 3 mai votati. Cifra da Prima Repubblica.

Se era Stabilità che volevamo abbiamo in realtà prodotto il suo contrario.

Né meglio è andata negli stessi anni in paesi ben più strutturati del nostro. La stabilità invocata, richiesta, organizzata dalle classi dirigenti dell’Occidente come risposta alla crisi montante delle democrazienon ha avuto nessun successo. Lo tsunami di una gigantesca disaffezione e rivolta che attraversa l’Europa, la Brexit Inglese e la vittoria di Trump ne sono la prova inconfutabile. Eppure nessun paese, nessun leader, nessuna classe dirigente ne ha preso finora atto. Men che meno l’Italia.

Al referendum sulla riforma Costituzionale voterò No.

Per spiegare le ragioni di questo No evito di proposito di entrare nel merito delle questioni costituzionali, perché questo voto è innanzitutto un passaggio politico, e non solo italiano. E io sono contraria alle soluzioni che ci vengono proposte. Deboli perché inefficaci.

Alla crisi fra classi dirigenti e cittadini, che serpeggia da anni nelle nostre democrazie, la ricetta che i governi propongono è quella di tentare di limitare le aree dello scontento, di stringere un cordone intorno al dissenso, usando il peso delle relazioni di classe, il peso degli interessi economici, la forza delle strutture pubbliche e, infine, a volte, anche la limitazione del ricorso al voto o, quando è il caso, al referendum, come in Inghilterra e, prima, in Grecia. Nel nome di una bandiera: la stabilità innanzitutto.

Finora la esperienza ci ha detto che questa soluzione non funziona. Eppure, ora che tocca al nostro paese, l’Italia in maniera ostinata e per me sorprendente si è incamminata sulla stessa strada: al No è stato attribuito il solito valore distruttivo, al Sì la funzione positiva, della continuità e della forza istituzionale. In questo senso, come ormai anche chi sostiene il Sì ammette, il referendum è un passaggio squisitamente politico – a dispetto di tutte le discussioni sul contenuto della riforma costituzionale, su cui appunto è quasi inutile a questo punto entrare – il risultato delle urne sarà un giudizio a favore o contro il governo. Una “deviazione” dell’istituto referendario su cui non si può essere d’accordo. Ma che era quasi inevitabile, vista la nostra storia recente.

Nella battaglia contro il “populismo” l’Italia ha, come ricordavo all’inizio, una storia ormai di qualche anno. Dalla caduta di Berlusconi, la classe dirigente del nostro paese ha giocato con il fuoco delle crisi risolte sul filo della soluzioni non istituzionali. Il voto popolare, e la scelta dei premier, come dicevo, sono dal 2011 fuori dalle mani dei cittadini. Questa gestione delle istituzioni non solo ha però aumentato il risentimento popolare contro la politica, ha anche indebolito tutti i premier. Incluso il più forte, il più abile, e spregiudicato dei suoi predecessori, Matteo Renzi, che per arrivare a Palazzo Chigi ha accettato comunque il compromesso di arrivarci senza voto popolare.

All’inizio si è probabilmente illuso che quell’entrata fatta per vie brevi sarebbe stata dimenticata presto a fronte dei suoi successi; e invece, a riprova che le istituzioni contano, la mancanza di elezione popolare ha viceversa intaccato i suoi successi. Quel condizionamento iniziale ha pesato sulle condizioni generali del suo governo: Renzi si è trovato a lavorare con un Parlamento e un potere centrale non scelti insieme a lui, e di conseguenza ha fatto in una maniera esponenziale scelte sempre più irregolari. Ha fatto ricorso a maggioranze occasionali, costruite di volta in volta. Ha dovuto forzare e personalizzare quasi tutti gli appuntamenti più tradizionali, dalle molte fiducie alle scadenze elettorali, dal Jobs Act alle elezioni europee o amministrative, ogni appuntamento ribaltato in un referendum sulla sua persona e sulla forza del suo governo, fino all’ultimo referendum in cui con lui si gioca la testa anche l’Italia.

La debolezza del mancato passaggio elettorale si è riversata infine sulla riforma Costituzionale che giudicheremo. I dubbi di chi dice No oggi in Italia sono fondati nella dinamica delle cose: davvero un lavoro così rilevante come la riscrittura di parte rilevante della nostra Carta può essere fatta nelle condizioni che conosciamo, con maggioranze variabili, forzature, trattative di scambio, in un Parlamento in cui i partiti si sono sgretolati e il cambiamento di casacca è stato sfacciato? Di sicuro si può dire che far fare una riforma Costituzionale a un premier eletto avrebbe assicurato un percorso di scrittura della riforma più trasparente, più corretto, e sicuramente più solido. Evitando il sospetto che essa serva solo a rafforzare qui ed ora il futuro elettorale dello stesso premier.

In altre parole, viviamo da cinque anni in un profondo squilibrio istituzionale, ma invece di affrontarlo, si preferisce, oggi soprattutto per volontà del premier, andare avanti con successive forzature. Nella convinzione, o la speranza, che le prove di forza prima o poi possano piegare lo scontento dei cittadini, o il dissenso.

La formula di questi anni, appunto. Al fianco del Premier infatti è tornata a scendere la classe dirigente di sempre sollevando la paura di sempre – l’instabilità. Juncker e Schaeuble, due che amano Renzi come i bambini le vaccinazioni e che comunque lo difendono, i grandi giornali finanziari, Financial Times e Wall Street Journal, e se una voce sola, l’Economist, dissente si grida al complotto delle forze oscure europee. Quella stessa Europa che però ha aperto una nuova linea di credito all’Italia pur di aiutare il governo. Arrivano, poi, insieme ai mercati, i manager – con Marchionne il 95 per cento dei manager del nostro paese. Per finire con Romano Prodi, che per non mancare all’appello dell’Europa infine si schiera con un premier che pure critica. A proposito di Casta ed Elite, intorno a Matteo Renzi non manca nessuno. È uno schieramento imponente che probabilmente regalerà al Sì la vittoria. Ma aiuterà il paese a fare un passo avanti davvero, come si promette?

La vittoria del Sì darà sicuramente un premier più forte, ma non un paese più solido. Non solo perché la battaglia prima delle urne è stata lacerante, ma soprattutto perché una vittoria ottenuta sulla paura e sulle forzature, come si diceva, aggrava la distanza fra classi dirigenti ed elettori. La vittoria del Sì assicurerà dunque un Renzi più forte, ma non una maggiore stabilità. È questo il “meraviglioso” paradosso che spiega come mai la formula non abbia finora funzionato, in nessun paese dove è stata applicata.

C’è bisogno invece di fermare questa deriva, risettare le priorità e riportare l’Italia a una discussione seria, partecipata, e comunemente accettata, sul suo futuro.

C’è bisogno di un segnale che, accendendosi, indichi che un limite non può essere superato. Questo segnale è solo il No.

Michele Emiliano: “Ho scritto in Procura per il miliardo di euro promesso da Renzi per Taranto. Quei soldi non ci sono”

(L’intervista a Michele Emiliano di Alessandro De Angelis per l’Huffington Post. Leggetela con attenzione perché in un Paese normale una situazione del genere sarebbe sulle prime pagine di tutti i giornali. Tutti.)

Presidente Michele Emiliano, il premier ha annunciato un miliardo di euro per Taranto. Ma quel miliardo c’è? 
Credo che il Premier abbia parlato solo per sentito dire… Magari dagli avvocati che stanno lavorando in questa direzione. Andiamo con ordine. La famiglia Riva è sotto processo per reati gravissimi, tra cui disastro ambientale per inquinamento dell’Ilva.

Il miliardo a cui si riferisce Renzi sarebbe frutto proprio della transazione con i Riva.
Mi lasci proseguire. Il processo sui Riva si svolge a Taranto e ora l’Ilva è sotto la gestione del governo e con il decreto del governo la fabbrica può continuare a funzionare nonostante sia nociva.

E questa è la premessa. 
Ecco, siamo al punto: fino a che il patteggiamento non viene accettato dalla Procura e poi ratificato dal Giudice terzo non esiste quel miliardo di cui parla Renzi. Se tali richieste fossero state già presentate nelle cancellerie dei giudici probabilmente ne avremmo già avuto notizia certa.

E’ uscita una nota che parla di accordo tra azienda e gruppo Riva che potrà essere stipulato entro febbraio.
Appunto, “potrà”. Quella nota conferma che le trattative sono in corso, ma le procure non hanno ricevuto i termini dell’accordo. Fino ad oggi si è parlato di cose che non esistono finché non saranno ratificate.

Sta dicendo che quella di Renzi è una trovata da campagna elettorale non supportata da dati di realtà?
Il premier è molto interessato, diciamo così, ai referendum e pensa che tutto quello che succede sia connesso al referendum. Ma non è così. Io invece sono interessato ai problemi della mia terra. E penso che annunciare quel miliardo come cosa fatta sia quantomento inopportuno e sgradevole soprattutto se in questo modo si vuole mettere una pezza ad una vicenda assurda ed inspiegabile come il mancato finanziamento della sanità tarantina con 50milioni di euro.

Appunto, propaganda, come le avevo chiesto.
Ciò detto, per fare chiarezza, ho appena inviato alle Procure di Taranto e Milano una richiesta per conoscere la verità. La Regione Puglia, in quanto persona offesa dai reati commessi dai Riva per i quali procede la Magistratura di Taranto, può legittimamente avanzare questa richiesta.

Aspetti presidente, mi faccia capire. Lei ha scritto alle procure per capire se c’è quel miliardo di cui parla il presidente del Consiglio? 
Ha capito benissimo.

E sono obbligate a risponderle? 
Non sono obbligate a farlo fino a che l’istanza non è formalmente presentata, ma perché il giudice ratifichi l’accordo di patteggiamento tutte le parti devono essere avvisate e possono partecipare all’udienza in camera di consiglio che lo definisce.

A che serve partecipare alla procedura di patteggiamento?
A controllare la legittimità di tutte le operazioni e soprattutto a trasmettere alla Procura ed ai Giudici l’aspettativa della Regione Puglia che il danaro sia utilizzato per decarbonizzare la fabbrica.

Decarbonizzare?
Sì decarbonizzare. Il dramma ambientale di Taranto non è l’acciaio, è il carbone che serve a produrlo almeno con gli impianti pericolosi ed obsoleti esistenti. La Puglia chiede che questi impianti siano sostituti da più moderni forni elettrici alimentati a gas (anche approfittando di 20miliardi di metri cubi che arriveranno in regione grazie al gasdotto Tap) attraverso una tecnologia denominata “preridotto” già realizzata altrove proprio da aziende italiane.

E il governo?
Vorrei ricordare al premier che la decarbonizzazione è il mantra di tutti i governi del mondo impegnati nella limitazione del riscaldamento terrestre. L’Italia sottoscrive protocolli internazionali per la eliminazione del carbone, e poi non li attua. È questo il momento di farlo, Renzi vincoli quei soldi per convertire a gas l’Ilva, l’acciaieria a carbone più grande e inquinante d’Europa.

Il ministro Calenda però dice che nessuna delle offerte di acquisto dell’Ilva comprende una totale decarbonizzazione?
Appunto, nella testa di gente come Calenda il problema non è la salute dei cittadini e soprattutto dei bambini di Taranto, ma quanto costa un sistema produttivo. Ovviamente un combustibile rozzo e pericoloso come il carbone costa meno del gas. Ma la ragione è semplice: chi vende carbone non paga i danni sociali e sanitari che questo provoca. Il sistema di produzione a gas azzera le emissioni nocive che provocano malattie e tumori e riduce ad un quarto in alcuni casi le emissioni di anidride carbonica, micidiale gas serra.

Ma se la fabbrica è fuori mercato come vuole che regga?
Abbiamo pensato anche a questo. La Puglia vuole che il governo vincoli il gas del Tap nella misura di 2miliardi di metri cubi su 20 ad un costo identico o di poco superiore a quello del carbone, per rendere competitivi i nuovi impianti tarantini. Lo sconto sul prezzo ci sembra una giusta compensazione ambientale per l’impatto del gasdotto sul nostro territorio.

Torniamo alla sua lettere alle procure? Anche questa può apparire una mossa politica verso il premier.
Nient’affatto. Non è affatto questa la mia intenzione e del resto le trattative riservate svelate dal premier sono effettivamente in corso, questo è evidente. Il problema è un altro. È mio dovere avvisare l’Autorità giudiziaria che il danaro dovuto da coloro che hanno provocato danni ambientali e sanitari devastanti deve essere utilizzato non solo per riambientalizzare la fabbrica – facendo un regalo incentivante a chi vuole comprarla – ma anche per i risarcimenti delle centinaia di parti civili del processo che hanno diritto di soddisfarsi su quelle somme al pari dello Stato e della Regione.

Ecco, la fabbrica se la comprano i privati, il miliardo e 3 è dello Stato e, quando sarà, viene investito nella fabbrica dei privati… E le parti civili restano col cerino in mano.
Tant’è. È chiaro che in questo caso ci opporremo al patteggiamento.

Ma allora dove prendere il danaro per fare i nuovi impianti che lei suggerisce nella sua proposta di decarbonizzazione?
Quel miliardo e 300milioni è utilissimo anche per la ricostruzione dello stabilimento e per la eliminazione dei parchi minerari ormai inutili se non si utilizzerà più il carbone. Ma ribadisco, se quel denaro dovesse essere utilizzato per ammodernare gli impianti esistenti lasciando intatta la alimentazione a carbone, dovremmo opporci per evitare che i reati già commessi siano proseguiti anche dopo il risarcimento dei danni da parte degli autori degli stessi.

E se non si decarbonizza la fabbrica? Sarebbe ancora a rischio di interventi da parte dei Magistrati?
Certamente, lo provano i dati epidemiologici. Con l’aggravante che avremo utilizzato i soldi che mettono definitivamente fuori dal processo i Riva per riattare impianti ancora pericolosissimi per la salute a causa del carbone.

In conclusione, Emiliano, abbiamo fatto una lunga conversazione. Ne ho ricavato l’impressione che sull’Ilva non si fida del governo. E che l’annuncio del premier ha stimolato il suo animus da magistrato.
In conclusione? Basta annunci.

Dopo 22 anni il Gambia cambia.

Aveva detto “guiderò il paese per un miliardo di anni” invece dopo ‘soli’ 22 anni, il presidente del Gambia Yahya Jammeh ha riconosciuto la sconfitta elettorale contro lo sfidante Adama Barrow e si prepara a lasciare il potere. “Il popolo ha deciso che devo fare un passo indietro” ha dichiarato in un messaggio alla nazione trasmesso dalla televisione di stato il leader gambiano, alla guida del piccolo paese africano da quando 29enne salì potere nel 1994 con un colpo di stato militare. Jammeh ha riconosciuto la “chiara vittoria” del candidato di opposizione, al termine di una notte scandita dal conteggio dei voti, che molti gambiani hanno seguito alla radio in un clima di entusiasmo misto a timore.

I timori prima del voto

La paura di molti – smentita dalla dichiarazione di poche ore fa del presidente – era legata al fatto che quest’ultimo potesse rifiutarsi di riconoscere il risultato delle urne, alimentando disordini tra i sostenitori delle due parti. Invece, l’annuncio dei risultati definitivi – oltre il 45% dei consensi per lo sfidante contro il 36% circa del presidente uscente – è stato accolto con caroselli e gente in piazza nella capitale Banjul.

Un leader eccentrico e spietato

Nei 22 anni in cui ha guidato il Gambia con il pugno di ferro, il dittatore africano si è conquistato la fama di leader tra i più eccentrici e spietati del continente. In più di un’occasione ha dichiarato di possedere poteri taumaturgici che guariscono dall’Aids e dall’infertilità, e ha dichiarato da un giorno all’altro il paese “una nazione islamica”. Ultraconservatore e strenuo repressore di oppositori politici, attivisti, gay e giornalisti, Jammeh lascia un’economia disastrata e uno stato che – sebbene le piccole dimensioni e una popolazione di appena due milioni di persone – figura tra i primi nelle liste di quelli da cui i giovani africani cercano di fuggire.

Fino alla fine, Jammeh ha represso e incarcerato i membri del Partito Democratico Unito di opposizione che però ha potuto contare su un forte sostegno della popolazione e, dal punto di vista economico, dei gambiani all’estero.

Chi è Barrow lo sfidante che ha vinto

La sua principale intuizione è stata quella di mettere d’accordo tutte le formazioni di opposizione ad esprimersi con un solo candidato. Si è rivelata la mossa vincente di quello che oggi il New York Times definisce “un presidente per caso”, divenuto lo sfidante prescelto dopo che altri soo morti o sono stati incarcerati. In campagna elettorale ha promesso di voler lavorare con la comunità internazionale per cercare di ripristinare l’economia e la sanità, di voler favorire l’accesso all’educazione base e riportare il Gambia tra i paesi che rispettano i diritti umani.

Un esempio in controtendenza

Il timore di molti, ora, è che nei due mesi che mancano alla sua destituzione e all’insediamento di Barrow, il presidente uscente possa escogitare qualcosa per non rispettare il voto popolare. Preoccupazioni che tuttavia non devono offuscare quanto accaduto nel piccolo paese, incuneato nel Senegal se non per il suo affaccio sull’Atlantico. Si tratta infatti un evento che va in direzione contraria a quanto solitamente e, sempre più spesso, accade in buona parte dell’Africa dove i leader al potere da decenni, tentano di modificare la Costituzione per estendere il mandato o , in alternativa, indicono elezioni quasi sempre solo per vincerle.

(fonte)

Michela Murgia: «voterò NO perché da cittadina mi ripugna il pensiero di fondo che si annida nel cuore stesso della riforma»

Appena ho letto la riforma della costituzione presentata dalla ministra Boschi, ho deciso che avrei votato NO. Al di là delle singole modifiche, i cui pasticci nella teoria e le cui conseguenze nella pratica sono state indicate già dai migliori costituzionalisti, voterò NO perché da cittadina mi ripugna il pensiero di fondo che si annida nel cuore stesso della riforma: che la governabilità (o stabilità) sia un valore inversamente proporzionale alla partecipazione. Rendendo il senato ineleggibile, triplicando le firme necessarie per le leggi di iniziativa popolare, abbassando il quorum solo se aumentano del 60% le firme per i referendum abrogativi e inserendo la clausola di supremazia, il governo Renzi ci sta dicendo: “più diventa difficile per i cittadini partecipare alle decisioni e meno sono gli organismi di loro rappresentanza, meglio governiamo”.

Chi accusa la proposta di riforma di avere elementi di autoritarismo non sbaglia: se passasse, la riforma consentirebbe al governo di intestarsi un potere enorme a ogni elezione grazie a un ipertrofico premio di maggioranza, e per tutta la legislatura non doversi confrontare più non solo con opportuni contropoteri interni alle istituzioni, ma molto meno anche con i cittadini. Attualmente abbiamo molti modi legittimi di intervenire sull’azione di governo, non solo quello di votare i nostri rappresentanti; ma la modifica del Titolo V – che regola le competenze tra stato e regioni – interverrà pesantemente anche sulla capacità dei movimenti popolari di fare pressione sui propri amministratori, che davanti alle proteste allargheranno le braccia e diranno: non dipende più da noi.

(continua su Left qui)

Ha ragione Prodi. E per questo voterò NO

Dice Prodi che le riforme contenute nella revisione costituzionale del trio Renzi-Boschi-Napolitano “non hanno certo la profondità e la chiarezza necessarie” e chiarisce che molto dipenderà anche dalla “riforma della legge elettorale”.

Sono d’accordo con lui. Completamente. La revisione costituzionale pensata dal governo e caldeggiata da Renzi in ogni dove (e già questo mette i brividi, a proposito di ruoli e responsabilità di garanzia) è una superficialissima accozzaglia (cit.) di meccanismi imperfetti che con l’idea di superare l’esistente non fanno altro che moltiplicare i processi legislativi e spezzettare competenze in modo non chiaro (appunto) e inconcludente.

La differenza tra me e Prodi è che questi motivi mi spingono a votare convintamente no mentre il Professore propende per il sì. Quella che Prodi definisce “una modesta riforma costituzionale” (alla faccia del cambiamento epocale evocato dai sostenitori del sì) in effetti ha la forma di un pollo che pretende di volare.

Dice Prodi che “nella vita è meglio succhiare un osso che un bastone” e ha tutto il diritto di crederlo ma nella vita ci sono temi e momenti che richiedono di tenere la barra dritta, di rifiutare mediazioni al ribasso che sono spesso solo l’introduzione di storture ben più grandi e di prendere una posizione, parteggiare, essere partigiani. Se si fossero accontentati dell’osso al posto del bastone questa nostra Costituzione non sarebbe mai stata scritta e anche per questo mi piacerebbe che non venisse sporcata con approssimazione. La differenza tra me e Prodi forse è la stessa tra chi si accontenta per stanchezza e chi invece non svende al ribasso la speranza. Già, speranza, che scritta così sembra una parola altissima in questa tenzone referendaria ma è solo un problema di nanismo dei protagonisti. Ne sono convinto.

Col “meglio che niente” compro gli spazzolini o scelgo una pizzeria quando si fa tardi ma non tocco la Costituzione. No.

Buon giovedì.

(Questo è il mio buongiorno scritto per Left il 1 dicembre qui. Su Left mi trovate ogni mattina dal lunedì al venerdì. E sul cartaceo, ovviamente, in edicola.)

Nel merito. «Il SI annuncia un futuro radioso, ma lo abbiamo già visto e non è stato bello». Di Walter Tocci

Lepre o papera? Esercizi di percezione prima del referendum (di Walter Tocci, fonte)

La percezione di un oggetto dipende da ciò che il soggetto ha in mente, come mostrano le figure gestaltiche. Qui sotto, chi cerca proprio una lepre riesce a vederla, ma se cambia lo sguardo si accorge che è una papera.

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Tutti gli argomenti portati dal SI nel referendum possono essere visti in modo diverso e perfino opposto.

Rapidità-Lungaggine

Si è promessa una semplificazione, ma si realizza un bicameralismo farraginoso e conflittuale. È il paradosso della revisione costituzionale. Se fosse un vero Senato delle autonomie, i senatori dovrebbero attenersi all’indirizzo della propria Regione. Invece non hanno alcun vincolo di mandato, proprio come i deputati, e di conseguenza si iscrivono ai gruppi di partito anche a Palazzo Madama. Il Senato è prevalentemente un’assemblea politica, e può capitare che abbia una maggioranza ostile a quella della Camera. Infatti, non essendo mai sciolto potrebbe conservare un orientamento politico che invece alle elezioni viene ribaltato nell’altro ramo.

In tal caso si instaura un bicameralismo conflittuale tra destra e sinistra, molto più incerto dell’attuale. Tutte le leggi approvate dalla Camera vengono richiamate dal Senato per poi tornare alla Camera. È davvero una semplificazione? Seppure con tempi definiti, comporta comunque tre passaggi politici, mentre oggi con il vituperato bicameralismo quasi tutte le leggi (80%) sono approvate in soli due passaggi. La presunta navetta è una menzogna raccontata dai politici che volevano giustificare la propria incapacità di governo: il famoso ping-pong riguarda solo il 3% dei provvedimenti.

Inoltre, sulle leggi che rimangono bicamerali se un Senato ostile rifiuta l’approvazione, il governo non è in grado di superare il blocco, avendo perduto lo strumento del voto di fiducia. Non solo, l’attribuzione delle leggi alla categoria di “richiamate” o bicamerali è affidata all’interpretazione dell’articolo 70 che per riconoscimento degli stessi autori è scritto molto male. Si possono generare molti contenziosi in corso d’opera e se i presidenti di Camera e Senato non trovano l’accordo si ferma il procedimento. Anche dopo l’approvazione una legge può essere annullata per difetto di attribuzione dalla Corte Costituzionale, che è costretta a entrare dentro le procedure parlamentari, aprendo un nuovo campo di contenzioso finora sconosciuto. Avevano promesso rapidità e ottengono la lungaggine. Le nuove leggi non si muoveranno con l’eleganza della lepre ma con il passo barcollante della papera. Per una vera riforma del bicameralismo si doveva abolire il Senato e fissare soglie di garanzia per l’approvazione alla Camera delle leggi relative ai diritti di libertà dei cittadini.

Non è mantenuta neppure la promessa del Senato delle Autonomie. Palazzo Madama si occupa dei massimi sistemi – gli accordi internazionali e addirittura la Costituzione – ma ha scarsi poteri proprio sui problemi dei Comuni e delle Regioni. Per chiarirlo bastano alcuni recenti esempi di politica comunale sui tributi locali e sulle aziende municipali. L’abolizione dell’Imu sulla prima casa e la norma sottoposta al referendum dell’acqua non sarebbero di competenza primaria del Senato. Soprattutto il Senato non ha alcun potere proprio sull’articolo 117 che regola i rapporti tra Stato e Regioni. E tali rapporti saranno ancora più conflittuali. Non è stata infatti abolita la legislazione concorrente. Nella sanità, nell’istruzione, nel welfare, nell’urbanistica esiste ancora la legge cornice dello Stato che delimita la legislazione regionale, ma ha cambiato nome. Prima si chiamava “norme generali” e ci sono voluti dieci anni di sentenze della Corte per precisarne il significato giuridico, tanto che il contenzioso è diminuito. Ora prende il nome di “disposizioni generali e comuni” e ci vorranno altri dieci anni di sentenze per precisarne il significato con una nuova impennata dei conflitti istituzionali.

Su altre materie invece si torna al vecchio centralismo statale che avevamo abbandonato inorriditi ormai venti anni fa. Entra in Costituzione la logica del decreto “Sblocca Italia” che aveva provocato il referendum delle trivelle. Il governo pretende di decidere sulle grandi opere – la Tav, il ponte di Messina, il Mose di Venezia – passando sopra la testa delle comunità locali. Addirittura sulla tutela dell’ambiente il testo è molto confuso. Nella Carta vigente è scritto: tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”. Nel nuovo testo c’è una strana inversione dei termini: “la tutela dei beni culturali; l’ambiente e l’ecosistema”. Quel punto e virgola interrompe il significato della tutela che non riguarda l’ambiente, anche se si può ritenere implicita. Il papa ha dedicato un’enciclica all’ecosistema, qui la questione è indebolita con la punteggiatura.

Al contrario, le vere riforme vengono rinviate. Le Regioni a statuto speciale, ormai prive delle motivazioni della guerra fredda, non solo vengono confermate, ma mantengono la vecchia Costituzione. Dall’Est non vengono più i cosacchi ma i gasdotti; quando arrivano in Friuli decide la Regione, se proseguono in Veneto decide lo Stato. Circa otto milioni di italiani avranno una diversa Costituzione, e la chiamano uniformità.

Infine, viene rinviata la scelta più importante, la riduzione del numero delle Regioni. Eppure era l’unica riforma capace di mutare l’assetto dei poteri locali e di favorire una migliore cooperazione tra Stato e Regioni. Le scelte difficili sono eluse, quelle facili vengono assunte, ma sono realizzate in modo maldestro e raccontate in tono mirabolante

Futuro-passato

Il SI annuncia un futuro radioso, ma lo abbiamo già visto e non è stato bello. Negli ultimi trent’anni il potere legislativo è stato trasferito al potere esecutivo. Non siamo più in una vera democrazia parlamentare, da tanto tempo siamo entrati in un premierato di fatto. Ormai è evidente che il governo legifera e il Parlamento ratifica. Tutto ciò è avvenuto mediante gravi violazioni della Costituzione: deleghe legislative al governo senza specifici indirizzi parlamentari; voti di fiducia ormai settimanali; trucchi procedurali come il maxiemendamento e il voto su articolo unico, senza paragoni nei parlamenti europei; abuso del decreto legge ben oltre la decenza istituzionale. Di quest’ultimo si annuncia il miglioramento ma non viene impedito il vero abuso che consiste nel decretare senza i requisiti di “necessità e urgenza”. Si promette di ridurne l’uso sostituendolo con la legge approvata a data certa. Neppure questo è uno strumento nuovo, esiste già nel regolamento della Camera e di solito viene utilizzato per obiettivi sciagurati; ad esempio servì a Berlusconi per imporre il Porcellum. Non solo, può essere stravolto da un ostruzionismo di maggioranza che ritarda la discussione fino al giorno della scadenza, imponendo il voto in blocco della legge senza emendamenti; d’altronde questo esito era scritto esplicitamente nella prima versione del testo governativo; è stato poi mitigato, ma l’intenzione rimane.

Nei fatti la legge a data certa non sostituirà, ma si sommerà al decreto legge, e insieme renderanno il governo padrone dell’agenda parlamentare. Ma una Costituzione dovrebbe stabilire un equilibrio tra le prerogative della maggioranza e i diritti delle minoranze. A parole questi sono garantiti dallo Statuto delle opposizioni, ma la sua stesura è rimandata al regolamento della Camera, che comunque sarà in mano a chi detiene il premio di maggioranza. Nessuna delle violazioni che hanno già trasferito il legislativo all’esecutivo viene impedita dalla revisione. La legge Boschi, anzi, è una sorta di sanatoria costituzionale; come le cartelle di Equitalia, si mette un velo sul passato e si continua come prima.

La violazione della seconda parte frena l’attuazione della prima parte della Carta. Per ricordarne la grandezza nelle assemblee referendarie ho letto l’articolo 36: “Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Tutti i cittadini comprendono queste parole semplici e profonde, non hanno bisogno di avvocati per leggerle, a differenza del rompicapo del nuovo articolo 70 che dovrebbe definire i compiti del Senato. Quei principi però sono smentiti nella vita quotidiana di milioni di italiani e soprattutto dei giovani. Eppure non si parla più di attuazione della Costituzione, l’argomento è stato scalzato dall’ossessione della revisione. Nei programmi elettorali non è mai mancato il bicameralismo, ma nessun leader di sinistra ha chiesto i voti alle elezioni per attuare l’articolo 36. E se dovesse essere applicato comporterebbe la cancellazione delle ultime leggi sul lavoro, dalla Treu al Jobs Act.

Diciamoci la verità. Da trent’anni il Paese vive senza la Costituzione, né la prima né la seconda parte. E infatti è stato un trentennio triste. Venendo meno il baluardo della Carta la vita degli italiani è peggiorata: sono aumentate le diseguaglianze, è esplosa la discordia nazionale nella società e nella politica, il potere si è concentrato nelle mai di chi già lo possiede.

Con il SI continua una fantasia del passato. Con il No finisce il trentennio triste e si apre una pagina nuova, certo difficile e non priva di rischi, ma finalmente rivolta al futuro.

Potenza-Impotenza

La promessa di stabilità dei governi è la principale fantasia del passato. Da più di venti anni abbiamo abbandonato la proporzionale e ci siamo dati leggi maggioritarie. Avremmo dovuto già ottenere stabilità e invece nessun governo è riuscito a vincere le elezioni successive. Gli esecutivi hanno ottenuto nuovi poteri ma non li hanno utilizzati per attuare il programma presentato agli elettori, bensì per impadronirsi delle regole e conquistare nuovi poteri senza sapere cosa farne.

Sia a destra sia a sinistra è prevalso lo spirito di parte nel cambiamento della Costituzione (2001 e 2005), della legge elettorale (Porcellum e Italicum), nelle forzature parlamentari (canguri e altre invenzioni), sono stati eletti a colpi di maggioranza i presidenti alla Camera e al Senato e talvolta anche al Quirinale. La potenza politica dei leader mediatici ha prodotto solo impotenza del governo. È un decisionismo delle chiacchiera che non è in grado di organizzare complessi e duraturi processi riformatori nella struttura statale e sociale.

Così è fallito il bipolarismo italiano, perché nessuno dei due poli ha mantenuto le promesse, né la rivoluzione liberista di Berlusconi né il riformismo sociale della sinistra. Tutto ciò ha deluso i rispettivi elettori che, in gran parte, hanno abbandonato le urne. Senza domandarsi le ragioni del rifiuto i partiti sostituiscono gli elettori mancanti con i premi di maggioranza, alimentando così ulteriore astensionismo. Il circolo vizioso conduce a una lacerazione tra democrazia minoritaria e governi maggioritari. Questi hanno i numeri in Parlamento, ma non dispongono degli ampi consensi necessari per realizzare vere riforme.

Gli artifici elettorali danno una sensazione di potenza agli esecutivi, ma presto si rivela la loro impotenza a causa del distacco dal paese reale. La governabilità è come il coraggio di Don Abbondio, se uno non ce l’ha, nessuno glielo può dare. L’ossessione delle riforme istituzionali ha smarrito una semplice verità. Per governare un paese ci vuole progetto ambizioso, una classe dirigente autorevole e un vasto consenso popolare. Poi possono aiutare anche piccoli rinforzi istituzionali, ma non riescono a surrogare l’impotenza dei governi. Eppure da trent’anni la classe politica rimuove le proprie responsabilità attribuendo la colpa al bicameralismo. La vittoria del NO ristabilisce le priorità. Il primo problema del paese è costringere la classe politica a rinnovare se stessa lasciando in pace la Costituzione.

Unità-Discordia

Una riforma costituzionale dovrebbe essere l’occasione per rafforzare l’unità del Paese. E invece mai si è vista una discordia nazionale così lacerante. Non ne avevamo proprio bisogno in un momento tanto difficile per l’Italia e per l’Europa. È stato un grave errore di Renzi scommettere le sorti del governo sul cambiamento costituzionale, addirittura tentando un referendum sulla propria persona. Mi piace pensare che si sia accorto dell’errore.

Con qualsiasi risultato questa revisione costituzionale è senza futuro. Anche se vincesse il SI, sarebbe un legge di parte e non di tutti. Se in futuro verrà un altro governo, pretenderà di riscrivere la Carta a suo piacimento. Da venti anni la Costituzione è in balia della maggioranza di turno, prima a sinistra con il Titolo V e poi a destra con la revisione di Berlusconi. Se vince il NO, si mette fine a questa misera pretesa di modificare la Carta secondo interessi politici contingenti. L’impegno a superare lo spirito di parte era già scritto nel manifesto fondativo del PD del 2007, la carta costituente del partito, ma è stata dimenticata, come la Carta della Repubblica.

Nelle ultime ore scatta l’allarmismo. Si teme la crisi di governo nel caso di vittoria del NO, invece è molto probabile che Renzi rimarrà a Palazzo Chigi, pur avendo già annunciato le dimissioni. Non sarebbe la prima volta che cambia idea. Aveva detto “stai sereno, Enrico” e poi lo ha sostituito; aveva promesso “mai al governo senza investitura popolare” e invece è ricorso a una manovra di Palazzo. Anche stavolta avrà la flessibilità per uscire dalla contraddizione. Saprà correggere l’errore con il quale ha messo in pericolo il governo sul referendum.

L’establishment si è mobilitato per approvare la revisione costituzionale, anche se alcuni ammettono che è scritta male. Lor signori sentono per istinto che il cambiamento consente di fare meglio le cose di prima.

Con la stessa naturalezza i ceti popolari avvertono che la Costituzione è dalla loro parte. È un sentimento profondamente radicato nella società italiana, ma via via ignorato dal ceto politico che si trastulla con le riforme istituzionali.

Nella storia repubblicana i referendum sono stati i momenti della meraviglia, quando cioè nello stupore generale la saggezza popolare si è rivelata più avanti rispetto alle angustie e alla miopia delle classi dirigenti.

Andò così con il primo: si diceva che le donne avrebbero fatto vincere il Re, e invece il voto delle donne fu decisivo per fondare la Repubblica. E poi nel ’74: con il divorzio la maturazione civile travolse le titubanze della classe politica di sinistra. Nel 2006 la mobilitazione spontanea degli elettori sommerse con una valanga di NO la legge Berlusconi. E infine nel referendum sull’acqua, dopo trent’anni di liberismo, nell’inconsapevolezza della politica di sinistra, il popolo indicò nei beni comuni l’unica risorsa per uscire dalla crisi.

Anche il referendum di dicembre sarà il momento della meraviglia. Si scoprirà che la saggezza popolare desidera prima di tutto l’attuazione della Costituzione e vuole mettere fine al suo trentennale stravolgimento.

Come nel libro di Isaia il viandante chiede: “Sentinella, quanto dura la notte?” Il 5 dicembre la sentinella inaspettatamente risponderà che la notte è finita, e comincia un nuovo giorno.

Se questo è un costituente: Barani (ALA)

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(il ritratto di Lucio Barani, di Lanaro e Petrini)

Una volta, in Aula, al Senato, si era già paragonato a Giacomo Matteotti, il deputato socialista ammazzato dai fascisti. “Anche Matteotti venne ucciso – urlò rivolto al presidente Piero Grasso – vorrà dire che verrò ucciso anche io per aver parlato”. Grasso lo guardò incredulo, interdetto: “Ma chi è che la minaccia, scusi?”. Oggi invece tocca a Piero Calamandrei essere accostato a Lucio Barani, capogruppo dei verdiniani di Ala al Senato, la cintura di sicurezza del governo Renzi. Il senatore lunigiano si definisce infatti il “New Calamandrei“, così, all’inglese, e non si capisce perché. Detesta Prodi, il Sì del Professore gli dà fastidio: “A noi socialisti non fa piacere”. Anzi, secondo lui l’uscita del fondatore dell’Ulivo è “un’autorete che annulla il vantaggio dato da Mario Monti quando ha dichiarato che voterà No. Dobbiamo recuperare in questi due giorni”.

Subito prima si era toccato i gioielli e nel frattempo gonfia il petto: “Abbiamo scritto una pagina di storia perché senza di noi non c’era il referendum”. “Noi”, Ala, il pezzo di Nazareno rimasto con il Pd e la maggioranza a votare le riforme costituzionali e non solo. “Noi, gli indispensabili”: una frase che ricorre spesso nel vocabolario verdiniano: “La legge passerà grazie a noi: in 19 sosterremo e voteremo le unioni civili” disse per esempio Vincenzo D’Anna, suo collega di partito e protagonista delle performance di Ala. E’ grazie ai consigli di Barani, che nella vita farebbe il medico dello sport, che D’Anna perse diversi chili grazie a una dieta speciale.

E erano insieme, uno accanto all’altro, Barani e D’Anna, in un voto decisivo sulla riforma costituzionale, mentre il primo mimava una fellatio rivolto alla senatrice dei Cinquestelle Barbara Lezzi. D’Anna lo difese parlando di un “fallo di reazione”. Per giustificarlo volle rassicurare i colleghi senatori che Barani “non è uno psicopatico”, anzi, è “un medico, una persona perbene, non uno che frequenta trivii e angiporti”. Pochi giorni dopo circolò un altro video in cui D’Anna poco prima o poco dopo il gesto di Barani, si indicava le parti intime, sempre con gli occhi rivolti ai banchi del M5s.

Ala è stata decisiva, se non indispensabile, nel percorso di approvazione della legge Boschi. “Sono orgoglioso – dice Barani – di far parte di un gruppo che ha permesso agli italiani di andare a votare il 4 dicembre”. Barani. Senatore dopo essere stato deputato, sempre con Berlusconi. Berlusconiano dopo essere stato ultrasocialista, sempre con Craxi. Prima di essere il capo dei senatori verdiniani, era noto quasi solo per questo: per tenere sempre il garofano nel taschino. Il giorno dei 15 anni dalla morte del leader socialista ad Hammamet (gennaio 2015) indossò una maglietta con scritto “Je suis Craxi“: erano passati 11 giorni dalla strage nella redazione di Charlie Hebdo. A Aulla, in Lunigiana, dov’è stato sindaco, ha fatto erigere una statua in onore di Benedetto detto Bettino.

Sindaco di Aulla prima e Villafranca in Lunigiana poi. Indagato per corruzione perché, secondo l’ipotesi dei magistrati, assicurò controlli più blandi su un’operazione di bonifica in una discarica in cambio di cene, vino e un’assunzione. A processo per disastro e omicidio colposo plurimo per l’alluvione in Lunigiana nel 2011: secondo i magistrati (che lui ebbe a definire “belve feroci assetate di sangue di politici”) dette l’ok a troppi permessi edilizi, anche a case e scuole nell’alveo del fiume Magra. Condannato dalla Corte dei conti per una storia di doppi rimborsi: presenziava e si faceva rimborsare da parlamentare e da sindaco. Quando i giornali gli chiesero di spiegare, rispose definendo il pm che lo indagò “comunista”. Siccome era contrario all’allungamento della prescrizione nel 2015 firmò tre emendamenti provocatori che prevedeva che i responsabili di reati contro la Pubblica amministrazione doveva essere sottoposto a fucilazioni di piazza, esposizione al pubblico ludibrio e anche alla pena di morte. “Sono un medico – spiega al fatto.it – La giustizia è malata e il mio compito è guarirla”.