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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Io non mi ammorbidisco per il compleanno di Berlusconi

È il compleanno di Silvio Berlusconi. Sono 80. E per lassismo di memoria qui da noi, chissà perché, superata una tal soglia d’età cominciamo a smettere di ricordare. Attenzione: non a perdonare, che di per sé sarebbe azione altissima, qui si tratta piuttosto di lasciar seccare il ricordo in una poltiglia inoffensiva e spenta. È successo per Andreotti (vi ricordate? “lasciatelo in pace che ormai è vecchio” ci dicevano, come se fosse etico lasciare invecchiare le pagine buie di un Paese), sta succedendo per Dell’Utri (non ne parla più nessuno, le responsabilità politiche si sono misteriosamente sciolte e la stessa richiesta di grazia altro non è che il tentativo di legittimare un intero periodo storico) e, vedrete, accadrà per Berlusconi.

Buon compleanno Silvio ed è tutto un pullulare di articolesse che ci dicono che sì, certo, ha combinato i suoi guai, ma adesso che ha ottant’anni e che ci si presenta vecchio e stanco forse sarebbe il caso di soprassedere. Soprassedere è il metodo più in voga per non dover spiegare, per permettere di non raccontare. Soprassedere è il verbo migliore per disegnare un tempo in cui i nodi si scavalcano senza farsene carico.

Allora forse, al di là degli auguri di rito, sarebbe il caso di segnarsi su un foglietto l’impatto di Silvio Berlusconi sulla tenuta democratica di questo Paese, a futura memoria, come un pizzino (legalissimo) da lasciare ai figli e ai nipoti.

Berlusconi è l’uomo politico, dopo Andreotti e più di Andreotti, che ha legalizzato la mafia. Si è seduto con i boss mafiosi per studiare strategie imprenditoriali (se a sua insaputa comunque con la piena coscienza del suo braccio destro Marcello Dell’Utri, condannato anche per questo), ha costruito una propaganda elettorale eccezionalmente convergente con gli interessi di Cosa Nostra, ha ospitato un noto mafioso all’interno della sua dimora (Vittorio Mangano, teniamocelo a mente, segnatevelo, prima che scenda la nebbia) e ha costruito un movimento politico che è stato sponda di un altissimo numero di politici legati alla criminalità organizzata. Ma non solo, Berlusconi ha sdoganato culturalmente la mafia e questa forse è una colpa ancora più grave: con la sua simpatia di plastica e paratelevisiva ci ha convinto che Cosa Nostra fosse un’accolita di inoffensivi contadini a cui non prestare troppa attenzione, ha deriso chi ha speso una vita nella lotta al crimine organizzato, ha innalzato l’omertà a inestimabile virtù e definito eroico un boss mafioso. Silvio Berlusconi è stato il più potente spot di Cosa Nostra.

Silvio Berlusconi ha sdoganato la cinica spericolatezza e l’individualismo. Se oggi la tenuta etica del Paese si è ammorbidita a tal punto da esser pronta a piccole illegalità personali pur di ottenere comunque dei benefici pubblici è perché Silvio e la sua banda sono riusciti ad inculcare l’idea che “per arrivare in alto bisogna sporcarsi le mani”. Così fa niente se ci scappa un’evasione fiscale, qualche atto di corruzione o un paio di leggi ad personam: invocando una presunta invidia degli avversari il berlusconismo ha legalizzato la competitività che esce dalle regole. Il mito (scadente e patetico) dell’imprenditore (e del governante) che ha bisogno di forzare le regole per “fare del bene al Paese” è la realizzazione piena del berlusconismo. Mica per niente anche la parola “libertà” oggi è diventata sinonimo di “liberi dai lacci della solidarietà”.

Silvio Berlusconi ha impiantato in Parlamento il presidenzialismo culturale. Senza bisogno di leggi o di riforme (o forse senza la sfacciataggine che invece hanno questi nel proporle) Berlusconi ha trasformato il Parlamento in un votificio a disposizione del premier svuotandolo definitivamente di ogni autonomia decisionale. Berlusconi ha negato la Carta Costituzionale più di qualsiasi referendum e se n’è andato con un lascito pesantissimo: ora ci dicono che i suoi modi incostituzionali Berlusconi li usasse per se stesso mentre oggi servono per il bene del Paese. Ma quei modi restano.

Silvio Berlusconi ha nobilitato l’ignoranza. Ha chirurgicamente sviluppato il pensiero comune che chi ha troppo studiato e troppo si impegna intellettualmente sia un fannullone, un depravato intellettuale, un inoperoso, un ostacolo alla turboproduttività. Grazie anche a una televisione usata come arma di ignorantizzazione di massa Berlusconi ha reso démodé il pensiero autonomo, la critica e il dibattito preferendo il machismo, il tifo sguaiato, il bullismo ormonale e la comodità del pensiero unico. La linea editoriale di Berlusconi (in tutti i campi in cui si è ritrovato ad operare) è l’ebetismo comodo e funzionale. Funzionale ai cazzi suoi, principalmente.

Silvio Berlusconi ha svilito la politica. In cento modi, in mille sensi: dai senatori comprati, al gossip come arma, alla derisione pubblica dell’avversario (anche questa tutt’ora molto in voga pur senza di lui) fino alla demolizione dell’autorità dello Stato. L’antipolitica attuale, badate bene, è figlia di una lunga opera di banalizzazione che ha eroso le istituzioni. La magistratura? Una casta corrotta. Il Presidente della Repubblica? Un pupazzo in mano ai comunisti. La Corte Costituzionale? Un bivacco di vecchi invidiosi. L’opposizione? Coglioni. Gli elettori? Coglioni. I dissidenti? Venduti e traditori. Il Senato? Un’inutile rottura di palle. Le leggi? Liberticide. La Costituzione? Anacronistica. L’Anpi? Una banda di nostalgici. L’Antimafia? Un covo di comunisti. E così via. Ah, se trovate pericolose assonanze con il presente fate due conti.

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A sinistra, se il NO fosse occasione d’unione?

Convergenza di obiettivi, ideali e motivazioni: se esistesse una formula matematica per condensare la politica forse si partirebbe da qui, dalla comunione d’intenti e di modi. C’è un fronte del NO che si assomiglia moltissimo: sono gli stessi ostinatamente sparsi che in questi ultimi anni sembra che abbiano avuto difficoltà anche solo per accordarsi per un aperitivo insieme, sono gli stessi che si sfilacciano spesso quando sarebbe il caso di fare fronte comune e sono gli stessi che ci promettono a cadenza regolare di ricostruire ciò che loro hanno demolito.

C’è sinistra, nel NO. Ci sono tutte le sinistre. E se è vero che hanno pensieri diversi sul rapporto con il potere è pur vero che hanno (se non mi sbaglio) un impianto comune nella valutazione negativa degli effetti di questa riforma costituzionale. Allora senza perdersi troppo sulla provocazione del “votate come i fascisti” come dicono i renziani (a proposito: potete tranquillamente rispondere che undici ex Presidenti della Corte Costituzionale sono contro la riforma) si potrebbe per una volta, se non costa troppa fatica, vedere il bicchiere mezzo pieno. Che non è sicuramente un banchetto ricco, per carità, ma è un punto reale e politico da cui ripartire.

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Le pontilimpiadi del rottamaattore

Caduta l’ipotesi Roma Renzi e i suoi fedeli paninari hanno avuto un’idea brillantissima: il team di creativi della presidenza del consiglio (laureati in twitterologia all’università di Vicchio di Rimaggio, più due specializzandi in powerpointologia) hanno partorito un’idea che coniugasse Olimpiadi, Ponte sullo Stretto e pensioni troppo basse.

«Caro premier» gli hanno detto durante la riunione di presentazione del progetto che si è tenuta a Villa San Martino ad Arcore per non dare troppo nell’occhio, «abbiamo pensato alle Pontilimpiadi. Costruiamo un ponte da Messina a Reggio Calabria (possibilmente a binario unico e senza certificazione antisismica per rispettare comunque le nostre tradizioni oltre che l’ambiente) che contenga un’apposita pista per centometri, duecento, tuttiglialtricentoecentodieci e per mezza maratona e maratona intera. Anzi, abbiamo pensato, per spersonalizzare l’opera anche a uno speciale percorso di una maratona e mezza che lei dovrebbe percorrere alla giornata di inaugurazione…»

(Il premier ha annuito. Con il pollice su, come annuisce lui alle riunioni internazionali per non cimentarsi con l’inglese)

«Poi» hanno proseguito i creativi (già licenziati dalla Lorenzin perché troppo avari di filtro seppia) «abbiamo pensato a un’associazione temporanea di impresa per dividersi il banchetto della valanga dei soldi: Impregilo che impregila, Pessina che pessina, Ilva per il controllo degli scarichi e degli scarti, Montezemolo che Montezemola in tutte le trasmissioni per magnificare l’opera, Malagò che picchetta il Campidoglio sullo zerbino della Raggi, lo Stato che al solito renzizza e Cosa Nostra alla direzione dei lavori…»

(E i gufi? Ha chiesto Matteo ormai schiavo della sua gufofobia)

«Per i gufi abbiamo pensato a un cordone sanitario di vecchietti che fissano a turno acca ventiquattro tutti i cantieri. E per evitare sterili polemiche dei signornò tutto il giorno continueranno a ciondolare in la testa in senso confermativo. Sarà un successo.»

Applausi. Tappi di champagne e l’Italia che riparte. Un tripudio.

(Ma non ci ha pensato già qualcuno? chiede Matteo)

«Assolutamente no. Quell’altro voleva solo un ponte. Il nostro invece è l’Italia che cambia. A forma di ponte» hanno risposto.

Applausi. Tappi di champagne e l’Italia che riparte. Un tripudio.

(Ma le pensioni? Che cazzo c’entrano le pensioni?)

«Beh, signor presidente, anche le cene eleganti di quell’altro non c’entravano un cazzo. Quindi le pensioni ce le buttiamo dentro così. Alla cialtrona. Anzi: alla moderna.»

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I Voucher. E quei dati che gridano Vendetta.

Tanto per essere un po’ più precisi del ministro Poletti e delle bugie di governo. 

La corsa dei Voucher continua indisturbata. La dinamica di crescita è sempre più sostenuta: a Luglio è stata superata la quota di 14 milioni di buoni venduti (nell’arco di un solo mese). Se continua così, a fine anno saranno ben 2,2 milioni i lavoratori coinvolti.

Nel corso del Consiglio dei Ministri n. 131 dello scorso 23 Settembre, sono state approvate le modifiche alla disciplina contenuta nel Decreto Legislativo n. 81/2015, altrimenti noto come Jobs Act: le prestazioni di lavoro accessorio devono essere comunicate all’Inail, tramite SMS o email, almeno sessanta minuti prima della loro erogazione. Dovranno essere scambiate alcune informazioni circa il lavoratore coinvolto, i suoi dati anagrafici o il codice fiscale, il luogo, il giorno, l’ora di inizio e fine della prestazione lavorativa.

Nessuna restrizione circa il settore di applicazione, o la durata complessiva del rapporto di lavoro. Nessuna revisione circa il limite retributivo annuo, lasciato inalterato a 7 mila euro complessivi.

Abbiamo raccolto alcuni numeri fondamentali che testimoniano la crescita esponenziale di questo fenomeno, a tutti gli effetti frontiera del precariato. Sì, perché, sebbene le intenzioni fossero quelle di far emergere il sommerso, lo strumento ha finito per fallire l’obiettivo iniziale. Secondo Tito Boeri, se consideriamo gli uomini in età centrali, solo lo 0,2% di essi emerge da rapporti di lavoro nero (cfr. XV Rapporto Annuale INPS).

Accedono ai voucher soprattutto giovani (Il 43% ha meno di 29 anni) e donne (il 51% dei prestatori d’opera). Escludendo i pensionati (che incidono per l’8% sulla platea complessiva), l’età media scende a 30 anni! Nel 23% dei casi, si tratta di lavoratori alla loro prima esperienza. Il Voucher è lo strumento della prima socializzazione al lavoro per i ventenni. Ricevono pochissimo: circa 500 euro l’anno. In tre casi su dieci, il percettore di voucher è un lavoratore dipendente, part-time. Solo lo 0,4% guadagna più di 5 mila euro l’anno mediante i buoni.

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Quello che mi commuove

È l’impegno, la fatica e il cuore tenuto aperto di chi crede senza mediazioni a qualcosa schiacciati dall’opportunismo e la superficialità di quelli che stanno sopra. Mi commuove, ad esempio, non riuscire a raccontare la disperazione del lavoro. La precarietà che è diventata schiavismo (leggete Schiavi di un dio minore, un libro che è un fiore) ad esempio chiede una sensibilità capace di scendere talmente in basso da farmi sentire un inetto, incapace di abbassarmi. Mi commuovono gli anziani che si tengono per mano, i bambini quando piangono di tristezza e i genitori che non riescono ad essere all’altezza per le disuguaglianze del mondo.

Forse invecchio. Ma mi commuovo.

“Sim sala bim”: il ponte!

Se vi aspettavate che il differimento della data per il prossimo referendum sulla riforma costituzionale fosse una mossa per inventarsi iperboliche promesse per cercare disperatamente di recuperare voti e posizioni allora mettetevi comodi perché il gran momento è già qui. Matteo Renzi oggi promette: la nuova sfida è la vecchissima e berlusconissima idea del ponte sulla stretto, tra Calabria e Sicilia. Quello stesso ponte che è riuscito nell’ordine a portare in piazza tutto il centrosinistra contro il Cavaliere e la sua banda, quel ponte sullo stretto a lungo osteggiato dal PD (che, davvero, non era nella forma gassosa in cui ci appare oggi) e quello stesso ponte sullo stretto che a Messina ha portato alla poltrona da sindaco Renato Accorinti, uomo slegato da tutti i partiti e attivista in prima fila proprio contro lo scempio voluto da Forza Italia e Cosa Nostra.

«Vogliamo un Paese che preferisca la banda larga al ponte sullo Stretto; che dica no al consumo di suolo e sì al diritto di suolo» diceva nel 2010 Matteo Renzi, ma quel Renzi, si sa, non esiste da un pezzo e nonostante la pervicace servitù di alcuni suoi sostenitori non rendersene conto ormai è un’ingenuità imperdonabile. E dove poteva lanciare la sua ultima sparata il premier? Alla festa di Impregilo, ovviamente, dove gli squali del cemento sono stati ben contenti di saltare fuori dall’acqua per ingoiare il boccone inaspettato. Se serviva una mossa per mettere in crisi l’elettorato di centrodestra orientato al no per il referendum questa del ponte (non potendo legalizzare la mafia) è la stoccata perfetta: come potranno ora i colonnelli siciliani anche solo simulare di osteggiare un premier che (nucleare a parte) ha ripreso in mano pedissequamente il loro antico programma elettorale?

Ma Renzi, attenzione, non è uno sprovveduto. Sa bene che nonostante la levata di scudi di queste ore da parte dei “gufi” e i “pessimisti” (come finemente analizza i dissidenti) i vantaggi che gli arriveranno saranno consistenti: quella vecchia oligarchia di imprenditori Chew confidano nel cemento come unica salvezza vendono nella maxi opera la possibilità di un riscatto alla crisi. Il cemento come testosterone dell’imprenditoria è il trucco della politica fin dagli anni ’70, da Andreotti a Craxi, da Berlusconi a Renzi. Sarà curioso osservare gli stessi che manifestavano con le magliette No Ponte e che insistono nel raccontare Renzi come cambiamento: chissà cosa ci diranno ora. Certo qualcuno proverà con la carta del fraintendimento, anzi il plotone di twittargli ha già abbozzato una cosa del genere se frugate sui social.

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Una sorta di prepotenza vittoriosa

Il Parlamento è stato per me innanzitutto il luogo del confronto. Nell’Aula mi trovavo di fronte a “l’altro da me”, ed ero obbligato ad interrogarmi, a risolvere nel vivo del confronto, anche aspro, il nodo di fondo: quale legge? Nel Parlamento che io ho frequentato era viva e concreta la pratica del confronto. Non solo nelle forme canoniche dei rapporti tra i gruppi politici, tra maggioranza ed opposizione, ma nelle relazioni che si stabilivano tra i singoli deputati, nelle lunghe e spesso intense giornate di lavoro comune. Non saprei fare paragone con altri paesi, ma in Italia questa esperienza c’è stata e non è stata un nulla. L’ho vissuta da deputato, poi come capogruppo parlamentare e infine quale Presidente della Camera. E ricordo molto bene l’impressione che ebbi, quando seguivo per “l’Unità” i lavori dell’Assemblea Costituente, dei rapporti, tutt’altro che formali, tra Togliatti, Nenni, De Gasperi, Dossetti. Ovviamente i rapporti non sono stati sempre e solo di confronto. Scelba è stato la negazione del rapporto con “l’altro” e non era certo isolato. In tutta la Dc, dopo il 1948, si affermò una sorta di prepotenza vittoriosa. Nella stessa Aula parlamentare vi erano scontri fisici, ricordo deputati che tentavano di assaltare perfino lo scranno della Presidenza. Ma ricordo anche la qualità e l’intensità del confronto politico. Intervenivano regolarmente i laeder, ed i loro discorsi erano densi di contenuto, quanto curati nella forma. Poi ci si incontrava in Transantlantico e si ragionava su quanto era accaduto in Aula. E ci si preoccupava di come comunicare all’esterno, da parte nostra di informare e coinvolgere i militanti di partito. Togliatti veniva a “l’Unità”, subito dopo la fine della seduta, per correggere personalmente il suo discorso. Lo vedo ancora, tutto sudato, tanto che le compagne avevano sempre pronta una camicia fresca, concentrato a modificare anche le virgole, prima di consegnarlo al redattore per la stampa. Bisognava far presto, per i tempi stretti di uscita del giornale. Del resto tutta la stampa dava conto in modo minuzioso delle cronache parlamentari. Insomma l’azione politica in Parlamento era molto mossa, tutt’altro che rituale. Credo che oggi sia molto sottovalutato, per non dire dimenticato, quanto abbia contato il Parlamento nella vita politica del paese. Non si facevano chiacchiere, si entrava nel merito delle scelte e delle decisioni del governo. In quel confronto mi sono formato, come giornalista e come politico. Ed è nella concreta pratica parlamentare che è maturata la mia concezione della democrazia e la mia riflessione sulla centralità del Parlamento. A voi oggi può sembrare improbabile, ma in quegli anni vi furono dibattiti molto interessanti, di grande rilievo per le prospettive del paese.

(Pietro Ingrao, 2011, conversazione con Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti, a un prezzo irrisorio il libro nato da queste conversazioni si può comprare qui)

Quindi il referendum di ottobre si terrà a dicembre

Fantastico. Ieri il Consiglio dei Ministri si è riunito per decidere finalmente la data del referendum sulla riforma costituzionale altresì detta Renzi-Boschi: si vota il 4 dicembre. Dice Renzi che i tempi rientrano perfettamente nei termini stabiliti dalla legge, come se ci facesse un piacere e soffia nelle corno della battaglia finale.

Matteo Renzi il 4 maggio ospite di Porro a Virus aveva detto: “spero si voti il 2 ottobre”. Sembra un’altra epoca e in effetti lo è: il referendum che doveva servire per un’incoronazione per acclamazione oggi è un bordo molto scivoloso per il premier e per molti membri del governo. Meglio rimandare, quindi, per riorganizzare le truppe, confidare in dati economici migliori in vista della prossima manovra finanziaria e per un clima prenatalizio e infreddolito che assopisca gli spigoli.

Nella sua newsletter è il solito Renzi: “La partita è tutta qui. Qui e ora. Chi vuole cambiare, ci dia una mano. Dandoci del tempo, chiamando un po’ di amici, facendo il volontario sulla rete o tra la gente. Oppure costituendo un comitato”. Il premier sembra aver cambiato idea sull’eccessiva personalizzazione del referendum: «Come fare è spiegato su www.bastaunsi.it dove chi vuole può anche dare un piccolo contributo economico, prezioso per la campagna di comunicazione, che abbiamo iniziato a far girare. Ogni sforzo è importante – scrive – Può persino essere decisivo. La partita è adesso e non tornerà. Non ci sarà un’altra occasione. Sono certo che non la sprecheremo».

È il tempo della propaganda, quindi. I sondaggi negativi hanno convinto il governo a prendersi tutto il tempo disponibile per invadere le case degli italiani con tutta la banda di giornalisti a disposizione. Ci diranno che è il tempo necessario per parlare del merito della riforma. E fa niente se non si sono concessi il tempo di ascoltare gli emendamenti in Parlamento: Renzi il bulletto ha aspettato il suono della campanella per dirci “vi aspetto fuori”. Sembra una disputa da scuola media. E fa niente se di mezzo c’è la Costituzione.

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Il muro del Ticino è sempre più verde

C’è sempre qualcuno più a sud. C’è sempre qualcuno capace di fare la voce più grossa e c’è sempre qualcuno che può comprare (più e meglio) una prepotenza efficace. Il Ticino che esprime diffidenza e fastidio per i frontalieri italiani è un nodo della storia che si ripete circolarmente, quasi ogni giorni in ogni angolo del mondo. A volte, come in questo caso, è solo una diatriba politica che mette di fronte una forza politica come la Lega Nord (del presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni) alla stessa miope xenofobia nazionalista che opera con gli altri ma se è vero che fa sorridere vedere Salvini costretto a difendersi da una salvinata il ricorso è ampio e terribilmente serio.

Viviamo in un tempo in cui la solidarietà è considerata una debolezza che mette a rischio la nostra sicurezza; normale che accada dopo un lungo periodo di benessere diffuso che ha concesso a molti di poter serenamente essere individualisti senza troppe remore. Quando un Paese riesce a garantire buoni margini di stabilità economica ai suoi cittadini la politica si riduce all’idea di semplice amministrazione delle risorse, produzione di servizi e regolatrice di infrastrutture. In Italia negli ultimi vent’anni (esclusi ovviamente i tempi recenti) la propaganda politica si fondava su una narrazione ottimistica del futuro dove sicuramente si sarebbe cresciuti di più, si sarebbe stati ancora meglio. I bisogni erano semplicemente il dazio da pagare da parte di chi non aveva problemi verso la periferia sociale che faticava a stare al passo. Un dazio, non un dovere: la solidarietà esercitata nell’Italia che funzionava era semplicemente un balzello, l’ennesima tassa, niente a che vedere con il dovere sancito dalla Costituzione.

Così è bastato che i tempi fossero più magri per premiare chi ci aizzava contro le fragilità dei deboli che frenano il nostro stare bene: fannulloni, criminali, fancazzisti, terroni, ladroni, negri, albanesi. Il nome non conta, il trucco è riuscire a dividere nell’immaginario dell’elettori un “noi” dagli “altri”. E il modello era semplice: “noi” siamo quelli che senza “gli altri” staremmo meglio perché “noi” ci bastiamo, “noi”. E così il nemico di turno è semplicemente il carburante per tenere su di giri un individualismo travestito da federalismo. Se è federalismo, questo, allora è soprattutto un federalismo delle responsabilità: siamo cresciuti in un momento storico in cui ci dicono che l’importante è occuparsi di noi stessi, stare bene nella nostra città anzi basta che sia tranquillo il nostro quartiere, il nostro condominio, che non ci siano problemi sul nostro pianerottolo. La responsabilità si riduce al cerchio magico di ognuno; quelli fuori possono aspettare. Anzi, quelli fuori devono aspettare. E se ci assale la paura devono quelli fuori devono semplicemente restare fuori.

Certo, funziona un modello sociale così altamente deresponsabilizzante: vuoi mettere la comodità di fottersene di tutto ciò che non ti è vicino? Niente di meglio per l’agiatissimo ozio dei diritti. C’è guerra in Siria? Beh, poveri siriani, se la saranno cercata, mandiamogli gli alpini. C’è un’alluvione in Campania? Per forza, sono ladri. C’è un arresto in Regione Lombardia? Meglio, sono tutti uguali. C’è un’emergenza umanitaria in qualche sperduto in qualche angolo del mondo? Beh, non possiamo mica occuparci di tutti. Con il “non possiamo occuparci di tutti” abbiamo gettato le fondamenta dei muri. Muri per delimitare, il più stretto possibile, lo spazio di cui vogliamo occuparci.

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Giornalisti, sputi e potere. E, per fortuna, Tiziano Terzani.

Tiziano: Adesso sono curioso. No, non sono curioso, sono sereno, Folco. Sono sereno. Non mi aspetto assolutamente più niente.

Folco: Allora puoi finalmente riposarti.

Tiziano: La puoi mettere così, se vuoi.

Folco: Non devi più correre.

Tiziano: Questo è vero, perché un po’ ho sempre sentito che avevo delle responsabilità . Quel senso del dovere, poi, che avevo sempre addosso, quel senso che, insomma, era giusto fare certe cose o non farle. Trovavo bello quello che ha detto Martin (Woollacott, del “Guardian” ndr) l’altro giorno, che io avevo un senso della moralità . Ma non ero io… era che non c’era niente di più importante nella mia vita, non c’era niente di più grande, sai… sono uno che non ha mai fatto compromessi. Non ne ho avuto forse un grande bisogno, ma avevo una ripulsione per i compromessi e se questa la vuoi chiamare moralità , sì. Ho fatto questo mio mestiere proprio come una missione religiosa, se vuoi, non cedendo a trappole facili.

La più facile, te ne volevo parlare da tempo, è  il potere. Facendo questo mestiere la frequentazione del potere è  necessaria, indispensabile. Di ogni tipo di potere: il potere assassino, il potere giusto, il potere… il Potere. Perché è quello che determina le sorti del mondo e tu che sei là a descriverle devi andare dal potere a chiedergli come stanno le cose. Ecco, di nuovo senza che io me lo sia detto una mattina facendo un voto, senza che io ci sia arrivato attraverso constatazioni altrui, io ho sempre provato una ripulsione per il potere. Forse, nel fondo sono un anarchico, ma a me vedere un presidente, un ministro, un generale, tutti con la loro aria tronfia, tutti con la loro pillola da rivenderti, mi ha sempre fatto ribrezzo. Il mio istinto è sempre stato di starne lontano. Proprio starne lontano, mentre oggi vedo tanti giovani che godono, che fioriscono all’idea di essere vicini al Potere, di dare del “tu” al Potere, di andarci a letto col Potere, di andarci a cena col Potere, per trarne lustro, gloria, informazioni magari. Io questo non lo ho mai fatto. Lo puoi chiamare anche una forma di moralità .

(La sua voce si abbassa)

Perché il potere corrompe, il potere ti fagocita, il potere ti tira dentro di sé! Capisci? Se ti metti accanto a un candidato alla presidenza in una campagna elettorale, se vai a cena con lui e parli con lui diventi un suo scagnozzo, no? Un suo operatore. Non mi è mai piaciuto. Ho sempre avuto questo senso di orgoglio che io al potere gli stavo di faccia, lo guardavo, e lo mandavo a fanculo. Aprivo la porta, ci mettevo il piede, entravo dentro, ma quando ero nella sua stanza, invece di compiacerlo controllavo che cosa non andava, facevo le domande. Sono stato uno dei giornalisti che alle conferenze stampa del mondo era proverbiale per fare sempre le domande più provocatorie, quelle che non vedi più  fare oggi. Quelle che non vedi rivolgere alla Condoleezza Rice che l’altra sera diceva “Le Nazioni Unite ora ci stanno bene a mano”. Bastava che uno si riprendesse i giornali di due anni fa “Un momento! Lei il 14 maggio, alle cinque e quaranta alla CBS ha detto <<Le Nazioni Unite sono irrilevanti, sono piene di assassini e sono piene di dittatori>>. E ora le Nazioni Unite sono il toccasana? Ma ci piglia per il culo?!”

(Rido)

Questo è  il giornalismo. I giornalisti più orribili sono quelli che stanno nel Pentagono, nel ministero degli Esteri, sempre là, pronti a pigliare il caffè. Si annuncia “Conferenza stampa!” e loro accorrono. Arriva Bush o Rumsfeld che dicono “Allora John, tu che vuoi sapere?”

Ma che John?!

Folco: Cioè, uno dovrebbe sfidare il potere?

Tiziano: Questo è il mestiere. Scusa, le suddivisioni del potere nell’ambito dello Stato quali sono? Legislativo, esecutivo, giudiziario. E c’è un quarto potere: la stampa e i mezzi di informazione che controllano il giudiziario, l’esecutivo e il legislativo.

Folco: Li controllano?

Tiziano: Li controllano, prendono loro le misure, li prendono in esame per capire se non c’è qualche inghippo.

Folco: Se no cosa succede?

Tiziano: Non funziona il sistema.

Folco: Non funziona la democrazia?

Tiziano: Scusa, se la legge è sbagliata, chi lo va a denunciare? Nessuno. Se invece la stampa incomincia a protestare, a studiarne le conseguenze, acquista un’importanza enorme, diventa la voce della gente che non può parlare.

Folco: E che soffre di una legge fatta male.

Tiziano: No, io non sono mai stato amico di un potente. E’ molto importante questo senso della propria libertà, del non voler dipendere dal benvolere di nessuno, lo capisci?……

(* da “La fine è il mio inizio” – capitolo: IL POTERE  di Tiziano Terzani (a cura di Folco Terzani), pag.311,Longanesi editore, Milano 2006)