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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Quale antimafia? (di Salvo Vitale)

telejato

Ancora un articolo di Salvo Vitale. Da leggere.

UNA CONDANNA PRESTABILITA

Le vicende di Pino Maniaci suggeriscono alcune riflessioni. Partiamo dall’affermazione del giudice Teresi, sparata proprio nel giorno della conferenza stampa di un’operazione che doveva  essere quella dell’arresto di nove mafiosi di Borgetto e nella quale è stato “infilato” anche Maniaci. Non abbiamo bisogno dell’antimafia di Pino Maniaci, dell’antimafia a fini personali”.

Partiamo dalle azioni della Procura e dei carabinieri di Partinico. L’obiettivo era chiaro: assimilare Maniaci con i mafiosi, metterlo assieme con quelli che sono stati bersaglio delle sue denunce, fare di tutta l’erba un fascio, cioè suggerire l’idea che l’antimafia di Maniaci non serve come strumento di lotta alla mafia, ma che non c’è nessuna differenza tra il mafioso e Maniaci, tra Nicolò Salto, Giambrone e chi li chiama invece Pezzi di Merda. Insomma, nessuna differenza tra Maniaci che chiede il “pizzo” più IVA al sindaco di Borgetto, il quale si mette in bella vista sotto l’occhio della telecamera mentre conta i soldi, e chi taglieggia tutti i titolari degli esercizi commerciali della zona senza comunque rilasciare fatture. Anzi, a giudicare dal numero di pagine dedicate nell’ordinanza a Maniaci (circa 300) e quello dedicato ai nove mafiosi (circa 200), sembra che le vicende di Maniaci interessino colui o coloro che hanno commissionato le intercettazioni più di quelle dei mafiosi borgettani. Per non parlare delle modalità: alle tre di notte si presentano due capitani a casa di Maniaci per intimargli “lo sfratto”, cioè il divieto di soggiorno. Perché tale divieto e tale orario? C’è una tale pericolosità nel soggetto, da richiederne l’esilio immediato? No, ma si tratta di una misura preventiva che può essere assunta, a parte il carcere, senza bisogno di processo. In realtà è una misura “d’immagine”: mostrare che comunque un provvedimento è stato preso perché ci sono saldi elementi criminosi per giustificarlo. E poi il video, otto minuti che condensano quasi due anni d’intercettazioni: ancora una volta un preciso obiettivo maligno: mostrare a tutta Italia, prima dell’inizio di qualsiasi procedimento, che Maniaci chiede soldi, cioè estorce, che dice che Renzi è stronzo, che il premio che gli hanno regalato è un “premio del cazzo”, che ha l’amante e che interviene in suo favore presso il sindaco di Partinico obbligandolo a darle un lavoro, una carrozzella per la figlia malata, un sussidio. Anche qua salta tutto, ovvero viene fuori che, con i rapporti personali, tipo raccomandazione, si può ottenere tutto in barba a ciò che prescrive la legge. Altro che legalità! Ci troviamo davanti a un soggetto che, usando lo spettro del suo microfono e della sua telecamera, crede di poter fare tutto e di fottersene persino di quella stessa antimafia che egli dice di praticare. Si tratta, a un’attenta lettura, di mosse preventivate, studiate, accantonate al momento, cioè quand’è scoppiata la vicenda Saguto,  e poi tirate fuori “a scurdata”. In pratica “fare fuori” l’uomo attraverso la distruzione della sua immagine, vista l’inconsistenza penale delle accuse nei suoi confronti. Domanda: Perché?

GIORNALISMO E ANTIMAFIA

Assumiamo sempre come linea guida l’affermazione di uno dei giudici che si occupa del caso, Vittorio Teresi, la quale, è stato notato dall’ex collega Ingroia, che difende Maniaci, sembra già una sentenza di  condanna prima che si faccia il processo. Che ne sa Teresi dell’antimafia fatta da Telejato, di giorni e giorni con la telecamera in giro per documentare favori, abusi, disfunzioni, cattura di boss, sequestri e confische, manifestazioni, interviste alla gente comune, agli studenti,agli studiosi, ai fedeli, agli scettici? Che ne sa di imprenditori venuti in redazione per denunciare le ingiustizie nei loro confronti, in nome dell’antimafia? Delle interviste messe in onda a gente che, in nome dell’antimafia e per azione della legge aveva perso tutto, soprattutto il lavoro, ma che ci teneva a salvare almeno la dignità? Che ne sa delle riprese al matrimonio della figlia di Totò Riina (QUI), di quelle per l’arresto dei Lo Piccolo, di quelle a Montagna dei Cavalli nel covo di Provenzano? Che ne sa di ragazzi con la telecamera in mano che vanno a fare le interviste e si ritrovano aggrediti e malmenati, anche da parte di coloro dei quali volevano trasmettere la voce e le idee? Si potrebbe rispondere che altro è l’antimafia di alcuni ragazzi, l’antimafia di Salvo Vitale, che da Radio Aut ha continuato il percorso iniziato con Peppino Impastato, altro è l’antimafia di Pino Maniaci, ovvero che c’è un’antimafia di Telejato e una di Pino Maniaci, ma non è così, perché non c’è l’una e l’altra, è tutto la stessa cosa. Che ne sa degli estenuanti viaggi in tutta Italia, non per ritirare un “premio del cazzo” intestato agli “eroi del nostro tempo”, ma per parlare a centinaia di ragazzi e trasmettere loro il messaggio che senza i mafiosi il mondo è migliore? E allora, se di questa antimafia che usa il mezzo d’informazione televisivo come uno strumento per propagandare le iniziative di legalità, per far cambiare mentalità alla gente, per distruggere l’immagine di “uomo di rispetto” che il mafioso si porta addosso, per far conoscere le facce di malandrini, per diffondere i comunicati sull’operato delle forze dell’ordine, che denuncia le malefatte, anche le disfunzioni, da qualsiasi parte esse provengano, non ce n’è bisogno, qual’è l’antimafia giusta, di quale antimafia c’è bisogno?

Personalmente non credo all’antimafia della magistratura e a quella delle forze dell’ordine: quella non è antimafia, è lavoro, è il loro lavoro. Essere mafiosi è un reato, perseguire i mafiosi, da chi è pagato dallo stato per farlo è un obbligo, un dovere. Sulla correttezza di questo lavoro, ma non di tutto il lavoro, qualche dubbio è d’obbligo: quattro giorni prima dell’inizio dell’operazione denominata Kalevra le imputazioni a Maniaci e l’indagine su di lui erano state anticipate sapientemente da un articolo di Francesco Viviano su “La Repubblica”: lo stesso giornale ha tenuto una linea d’accusa e di condanna prestabilita anche nei successivi articoli. Domanda: chi ha fornito le informazioni a Francesco Viviano? C’è stato un disegno preventivo per incastrare Maniaci, l’azione è stata progettata predisponendo attentamente ogni mossa? Il discorso si allarga al rapporto strettissimo tra alcuni giornalisti e i magistrati della Procura di Palermo. Non ci vuole molto a rispondere su chi fornisce a costoro informazioni riservate, frammenti d’indagine, testi delle intercettazioni. Ma questo stretto rapporto può diventare funzionale ad alcune strategie che i magistrati adottano quando vogliono andare oltre le comuni garanzie che tutelano i diritti della persona sotto indagine, nel tentativo di aggiungere ulteriori tasselli al materiale probatorio di cui dispongono. Il giornalista è uno strumento che può gonfiare o distruggere l’immagine e la credibilità di qualsiasi persona. Il sospetto, il “pare che…” “si dice…”, “secondo voci di corridoio” “negli ambienti bene informati gira voce che…” sono premesse professionali indispensabili per poter dire ciò che non è provato, di cui non si hanno completi riscontri. A volte basta buttare un cerino acceso, basta ingenerare il sospetto. Supponiamo che io dica: il procuratore Vittorio Teresi ha lavorato fianco a fianco della Saguto nell’ufficio misure di prevenzione: se qualcuno non conosce Vittorio Teresi e non sapesse delle sue posizioni di distacco dall’operato della Saguto, potrebbe pensare che egli stia agendo per “vendicare” l’azione di Telejato nei confronti della collega.

E qua entra il giornalismo di Maniaci, quello che non fa sconti a nessuno, neanche ai due sindaci di Borgetto e Partinico, neanche alle associazioni antimafia o alle icone intoccabili dell’antimafia ufficiale, a cominciare da Ciotti per finire a Giovanni Impastato, senza per questo voler metterne in discussione l’operato e i meriti di nessuno. A questo giornalismo d’assalto, spesse volte aggressivo e istintivo, sino a colpire la dignità della persona accusata, si contrappone quello di coloro che Maniaci chiama “porgitori di microfono”, pronti a scrivere un articolo col telecomando, magari a colpi di copia-incolla, dimentichi dei rischi e ormai incapaci di portare avanti un’inchiesta sul campo. In questo contesto si possono leggere le interviste piene di incensamenti, vedi quella fatta da Leopoldo Gargano alla presidente Saguto nello scorso maggio, quasi contemporanea all’articolo sull’attentato farlocco alla stessa Saguto, che portò a un rafforzamento della scorta e alla possibilità di disporre di una nuova macchina blindata. Nelle intercettazioni si legge della volontà della stessa Saguto di mettere a disposizione di Gargano, e quindi dell’ordine dei giornalisti un appartamento confiscato, in zona centrale a Palermo. E comunque a Gargano va riconosciuto di avere raccolto nel suo archivio un’enorme mole di materiale di ogni provenienza sulle vicende dell’antimafia in vetrina.

Fuori discussione l’antimafia dei politici: è passerella, vetrina, in qualche raro caso è rivisitazione della memoria, ma non lascia tracce operative. Una fiaccolata, un corteo, un’inaugurazione di una targa, un convegno e l’antimafia si esaurisce nella sua improduttiva doverosa formalità.

Meno che mai è esente da dubbi  l’antimafia degli imprenditori che dicono di non pagare il pizzo, che fanno convegni e invitano altri imprenditori a ribellarsi. Non so e lo lascio decidere a chi legge, se abbiamo bisogno dell’antimafia di questi giornalisti, di questi magistrati, di questi uomini politici, di questi imprenditori. E allora di quale antimafia abbiamo bisogno?

L’ANTIMAFIA DIFFICILE

La definizione risale a un convegno organizzato a Cinisi nel ventennale della morte di Peppino Impastato i cui atti furono pubblicati da Umberto Santino. Allora ci si riferiva alla difficoltà di operare in un ambiente ostile e ostinatamente richiuso nella difesa dei suoi valori spesso arcaici. Certamente è difficile l’antimafia che si pratica nelle scuole. Con tutti i suoi limiti, con le ostilità di docenti che non vogliono “sottrarre” ore di lezione e che si sentono quasi “derubati” della loro presenza o “obbligati” ad assicurarla darla quando sono annunciate iniziative che coinvolgono tutta la scuola, con l’atteggiamento spesso distaccato e menefreghista di buona parte degli studenti che accoglie tali iniziative solo per fare “vacanza”. Le scuole sono un luogo naturale dell’antimafia, dove possono essere individuati e portati avanti gli elementi, i principi educativi per promuovere e realizzare una società in cui tecniche, metodi e strategie mafiose possano essere messi nell’angolo. Il principio dell’informazione e della comunicazione  che, dal docente passa all’alunno, non è diverso da quello che dal giornale o dal teleschermo passa al lettore o al telespettatore. Si tratta, per il giornalista, di individuare contenuti deontologici e comportamentali da tenere come faro guida e di non scordare che si tratta di un mestiere a rischio. Soprattutto se, assieme alle persone di cui si parla c’è anche lo Stato, che progetta sino ad otto anni di carcere per la diffamazione a mezzo stampa, anziché accontentarsi, come nei paesi civili, di una rettifica o di una presa d’atto. In tal senso l’operato di Maniaci, tra le pressioni per un aiuto a una ragazza, individuata frettolosamente come la sua amante e tra l’oscura e ancora irrisolta vicenda dei cani uccisi (Chi ha ucciso e impiccato i cani a Telejato?, ndr), si configura penalmente irrilevante, ma eticamente problematica.

L’ANTIMAFIA SOCIALE

E infine c’è quella cui ha fatto riferimento lo stesso Teresi, l’antimafia sociale, quella che interessa i vari strati della società civile, che si pratica nei luoghi di lavoro, nelle manifestazioni per il lavoro o per i diritti civili, tra i senzatetto, in mezzo ai quartieri degradati della città o alle storie di violenza nascoste dentro le case dei paesi, quella che ci porta a diretto contatto con le vittime del sistema, con gli estorti, con i figli dei mafiosi, con i ragazzi che si trovano a scegliere se iniziare una carriera criminale veloce o la lenta ma onesta ricerca di un lavoro che non c’è.  L’antimafia di chi si ribella al pizzo, denuncia gli estorsori, ma si ritrova solo e, per colmo, con i beni sequestrati, grazie a una legge sulle misure di prevenzione che può consentire di travalicare i normali diritti del cittadino, anche sulla base di sospetti.

L’antimafia di coloro ai quali viene affidato un bene confiscato ai mafiosi e che devono studiare come renderlo attivo e produttivo. Attivo, se si tratta di luogo destinato ad utilità sociale, luogo d’incontro e di lavoro culturale comune, produttivo se si tratta di luogo da destinare ad attività economiche che possano realizzare la vittoria di un modello di gestione diverso da quello mafioso, nel rispetto delle garanzie di chi ci lavora o vi partecipa. Non è facile. Si potrebbe pensare ad Addio Pizzo e a Libera e chiuderla lì, ma si troverà, se si vuole, ugualmente qualcosa da dire: magari che si fa antimafia per fini economici o, secondo l’accusa di Teresi a Maniaci, per il proprio tornaconto. Che tornaconto poi possa avere uno che ogni mese è costretto ad elemosinare i soldi per tenere aperta la televisione, è da discutere.

ASSALTO ALL’ANTIMAFIA

Da alcuni mesi c’è un attacco senza precedenti all’antimafia. L’attacco più violento è stato sferrato a Libera, alla gestione autoritaria di Don Ciotti, ad alcune disfunzioni al suo interno, al monopolio che essa detiene nell’assegnazione dei beni confiscati, al mancato rapporto tra quanto prodotto e quanto messo in vendita ecc. Non meno criticati i ragazzi di Addio Pizzo che, attraverso un’agenzia di viaggio lucrerebbero su progetti di itinerari di turismo civile. Nel mirino ci sono in particolare alcuni imprenditori, Helg, Montante, Lo Bello, Catanzaro che sono finiti in inchieste giudiziarie a causa di relazioni con il mondo che hanno combattuto. Di tutto si fa un bel fascio e si tenta di dargli fuoco. Difficile dire le motivazioni di questo “obiettivo antimafia”. Cosa c’è dietro queste manifestazioni critiche? Un’ipotesi provocatoria potrebbe essere quella della mafia nascosta nel nostro subconscio, legata a lontane origini mai cancellate, a messaggi sepolti, ma sempre attivi, per cui la mafia è nell’ordine naturale delle cose e l’antimafia rappresenta il suo sommovimento, un’ipotesi di ribellione rispetto a tutto quello che è stato sedimentato da secoli. Per dirla con Salvo, cioè con me, nel film “I cento passi”“E diciamolo una volta per tutte che noi siciliani la mafia la vogliamo! Non perché fa paura, ma perché dà sicurezza, perché ci identifica, perché ci piace! Noi siamo la mafia”.

L’altra ipotesi è quella del purismo: l’antimafia, nella sua sacralità, nella sua scelta di costruire un mondo nuovo, non può lasciarsi coinvolgere da tentazioni economiche non può essere “usata” a fini di lucro”, quasi che il denaro sia sporco, mentre c’è invece chi ne profitta per arricchirsi. Anche Telejato lo ha fatto nella convinzione, che l’antimafia non dovrebbe diventare affare.

Vengono fuori voci, spesso messe in giro ad arte, particolarmente da chi non ha tagliato il cordone ombelicale con la sua “mafia sommersa”, di finanziamenti di cui i destinatari si sarebbero appropriati, di fondi male usati e senza il conseguimento degli obiettivi, di soldi chiesti in cambio di prestazioni le cui motivazioni erano educative, di protagonismo, di millantato credito, di testimonianze di presenze e di azioni e collaborazioni che non ci sono state ed altro. L’intenzione, che qualcuno teorizza è di rifondare l’antimafia, di reimpostarla su una “sacralità” che nulla a da spartire con l’altra ipotesi più concreta, ovvero di come l’economia può ripartire con un corretto uso degli strumenti della legalità. Il pericolo nascosto, la destinazione finale di queste critiche è di smontare l’antimafia, di prospettarla come un’emergenza ormai inutile,di lasciare tutto in mano allo stato e ai suoi rappresentanti, gli unici deputati ad agire. In pratica, smontare l’antimafia per lasciare la mafia: se così è non ci sto e credo che non ci stiano tanti altri. Migliaia di altri…

(fonte)

Come sarà l’America di Trump. Satira. O forse no.

donaldtrump

Oggi 30 maggio 2020 a Washington il Presidente degli USA Donald Trump ha firmato la nuova legge sulla povertà: «è fatto divieto in territorio americano di essere indigenti e procurare perdita d’immagine allo Stato d’appartenenza. Per chi viene trovato povero è prevista una sanzione dai 5.000 ad un massimo di 20.000 dollari”. Trump, presentando alla Casa Bianca la sua ultima riforma prima della battaglia cruciale per la rielezione ha specificato che la povertà è uno dei peggiori freni all’economia americana (solo dopo all’impurità di razza) e che questa nuova norma sradicherà una volta per tutte la nullafacenza,  vero cancro della produttività.

A chi gli ha chiesto come sia possibile sperare di recuperare i soldi delle multe da persone dichiarate povere Trump ha risposto con una sonora risata: «non sono i soldi ad interessarci – ha dichiarato il Presidente – ma l’iscrizione a credito da parte dello Stato di denaro che servirà per ottenere finanziamenti dagli istituti bancari per la rincorsa agli armamenti che, da tempo, è uno dei punti principali del governo americano. Non solo potremmo finalmente rendere inoffensivi i poveri che oltre che poveri risulteranno formalmente indebitati ma così facendo si otterrà una solidità finanziaria (“mica economica, come interessa a quei quattro straccioni democratici” – ha specificato Trump nda) che ci permetterà di investire negli ambiti nevralgici di questo governo». Il discorso di Trump è stato accolto con un lungo e scrosciante applauso da parte del Direttivo Ristretto, il nuovo organo consultivo e deliberativo che ha sostituito il Congresso già nel 2018 per “snellire l’iter decisionale”.

(il mio racconto per Fanpage continua qui)

Quelle cooperative legate a Mangano e Dell’Utri. Ancora.

Vittorio-Mangano

Sequestri milionari a Natale Sartori, titolare di Alma Group, finito in carcere nel 2014 con l’accusa di evasione fiscale per 31 milioni di euro ed emissione di false fatture per 91 milioni. Il Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Milano ha sequestrato beni mobili e immobili e disponibilità finanziarie per 18 milioni di euro al messinese. L’inchiesta della Procura di Milano che portò in carcere Sartori fu coordinata dal pm Carlo Nocerino, ora procuratore aggiunto a Brescia. Sartori, passato poi agli arresti domiciliari, risulta legato alla famiglia Mangano, quella dello “stalliere” di Arcore, e a Marcello Dell’Utri. Il suo nome è già comparso in inchieste sulla criminalità organizzata. I sequestri di oggi rientrano in una attività di misure di prevenzione.

Nel 2014 Sartori fu arrestato con l’accusa di essere capofila di una serie di operazioni illecite che coinvolgevano il Consorzio Alma Group, di cui era a capo l’imprenditore messinese. L’azienda, specializzata in pulizie, trasporto merci per conto terzi e movimentazione di magazzino, si era aggiudicata decine di appalti privati, compresi quelli di alcune grandi catene di supermercati come Esselunga, Conad e Il Tirreno. Al gruppo facevano capo otto cooperative ritenute fittizie, le quali avrebbero emesso fatture per operazioni inesistenti per 91 milioni, Iva compresa, e mai versata, a favore di Alma Group consentendo a quest’ultimo di detrarre illegittimamente l’imposta.

Le indagini, coordinate dal pm Alessandra Dolci della Dda di Milano, hanno consentito di appurare come l’imprenditore fosse unsoggetto “abitualmente” dedito a condotte illecite di varia natura (reati tributari e contro la Pubblica amministrazione) e con la disponibilità di un patrimonio sproporzionato rispetto ai redditi dichiarati. Il sequestro ha riguardato oltre 35 immobili e terreni, 9 auto, una barca, diversi conti correnti e una società.

(fonte)

L’Italietta attaccata ai marò

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Non si può non essere d’accordo con Renzi quando dice che sulla vicenda dei marò e del loro ritorno in Italia forse sarebbe il caso di tenere un basso profilo. Non solo perché mentre qualcuno li ha trasformati in nuovi santini destrorsi ci sono due pescatori uccisi che meriterebbero un processo (e che però sono indiani, con la pelle scura e quindi poco interessanti) ma anche perché il compito italiano è garantire un processo giusto e non un’assoluzione per superiorità di razza.

Per questo la proposta che sfilino alla parata del 2 giugno è un’idea balorda che disegna perfettamente il momento storico di un veteronazionalismo che non ha nemmeno più esempi spendibili: credere che i marò siano portatori sani dell’onore di essere semplicemente italiani forse è un’offesa per i militari italiani (moltissimi, anzi quasi tutti) che non sono accusati di omicidio. Questa destra passita e salvinistica non è nemmeno più in grado di parteggiare per il diritto e scivola continuamente nel patetico protezionismo.

Volere un processo giusto per Massimiliano Latorre e Salvatore Girone significa volere giustizia anche per Ajeesh Pink e  Valentine che sono rimasti uccisi perché scambiati per pirati.

(il mio buongiorno per #Left continua qui)

Questa riforma della Costituzione è il sogno di ogni oligarchia

riformasenato

Professor Zagrebelsky, dunque più che a un referendum saremmo davanti a un golpe, come sostiene il fronte del “no” alla riforma che lei guida insieme a altri dieci ex presidenti della Consulta, e a molti costituzionalisti? Non lo avete mai sostenuto nemmeno davanti agli abusi di potere di Berlusconi e alle sue leggi ad personam: cos’è successo?
«Nel “fronte del no” convergono preoccupazioni diverse, come è naturale. Vorrei però che si lasciassero da parte le parole a effetto. L’atmosfera è già troppo surriscaldata. Contesto la parola golpe, non l’allarme. Come si fa a non vedere che il potere va concentrandosi e allontanandosi dai cittadini comuni? Non basta per preoccuparsi?».

Sono qui per sentire lei, e aiutare i lettori a capire. Dove vede questo disegno di esproprio del potere?
«Non penso a una “Spectre”, per intenderci. Vedo un progressivo svuotamento della democrazia a vantaggio di ristrette oligarchie. Per ora le forme della democrazia reggono, ma si svuotano. Si parla di post-democrazia e, se subentra l’autoritarismo, di “democratura”. Ripeto: non c’è da preoccuparsi?».

Tutto questo per il referendum sulla riforma del Senato?
«Il Senato è un dettaglio, o un’esca. Meglio se lo avessero abolito del tutto. È all’insieme che bisogna guardare. Rispetto ai mali che tutti denunciamo (rappresentanti che non rappresentano, partiti asfittici e verticistici e, dall’altro lato, cittadini esclusi e impotenti) che significa la riforma costituzionale unita a quella elettorale? A me pare di vedere il sogno di ogni oligarchia: l’umiliazione della politica a favore di un misto di interessi che trovano i loro equilibri non nei Parlamenti, ma nelle tecnocrazie burocratiche. La conseguenza è che viviamo in un continuo presente. Il motto è “non ci sono alternative”, e così il pensiero è messo fuori gioco».

Lei ha avuto responsabilità istituzionali, è stato presidente della Consulta: non ha mai sollevato questo allarme coi vertici dello Stato?
«Con “i vertici” ho poche occasioni d’incontro. Ma ne ricordo uno, al Quirinale col presidente Napolitano. Gli parlai dell’alternativa che si prospetta sempre, quando le condizioni sociali si fanno strette e il malessere aumenta, tra chiusure autoritarie e aperture democratiche: o la ricerca di nuove strade o l’insistenza su quelle vecchie che pesano sui gruppi sociali più deboli».

Ad esempio?
«Pensi al modo abituale di tirare avanti esponendosi ai creditori. Il debitore finisce per cadere totalmente nelle loro mani. Nel diritto antico potevi finire schiavo. Oggi puoi essere spogliato. Si canta vittoria quando la finanza internazionale rifinanzia il debito pubblico e non si vede il nodo del cappio che si stringe. Eppure c’è l’esempio della Grecia che parla chiaro. Lo stato sociale è allo stremo e si sono chiesti in garanzia spiagge, isole e porti, se non anche il Parte- none».

Io sono più preoccupato per questi problemi che per la riforma del Senato: il welfare state, quella che abbiamo chiamato l’economia sociale di mercato, la democrazia del lavoro fanno parte della civiltà europea, non le pare? 
«Anche per me questa è la vera posta in gioco. Guardi però che tutto nel nostro discorso si tiene, dal welfare al referendum. Sennò non si capirebbe, di fronte all’enormità dei problemi che abbiamo, tanto accanimento nei confronti del povero Senato. Il “sì” spianerebbe una strada; il “no” farebbe resistenza».

Insomma, dalla crisi si può uscire con meno o più democrazia?
«Sì. La prima strada porta alla rottura dei vincoli sociali, diciamo pure alla distruzione della società, condannando i più deboli all’impotenza e all’irrilevanza. La seconda passa per un grande discorso democratico, franco, sincero, che non nasconda le difficoltà e chiami tutti a uno sforzo di responsabilità, ciascuno secondo le proprie possibilità, mobilitando le energie civili del Paese e recuperando sovranità».

Anche lei pensa che l’Europa sia un nemico, come dicono ogni giorno gli opposti populismi?
«Per nulla. Ma l’Europa è una scelta, non un guinzaglio. L’articolo 11 della Costituzione prevede la possibilità che l’Italia limiti la sua sovranità a favore di organismi internazionali, ma a condizione che ciò serva alla pace e alla giustizia tra le Nazioni. Che cosa vuol dire? Che non è un’abdicazione incondizionata alla finanza, entità immateriale con conseguenze molto concrete, ma una partecipazione consapevole e paritaria a istituzioni democratiche sovranazionali. L’Europa dovrebbe significare più, non meno democrazia».

Sta dicendo che l’Europa è un destino democratico da scegliere ogni giorno, non un vincolo di cui si smarrisce la legittimità?
«È l’opposto della semplificazione brutale dei nazionalisti. Anzi, un recupero dello spirito di Ventotene, un “plebiscito d’ogni giorno” dei popoli, non dei mercati. Invece si è pensato che unendo i mercati la politica avrebbe seguito. Ma gli interessi economici spesso sono ostili alla politica, e la riducono a intendenza. Speriamo che non sia troppo tardi».

Ma secondo lei la politica accetta consapevolmente questa diminuzione di ruolo e di peso, o decide il rapporto di forza?
«C’è un pensiero unico in campo, tra l’altro responsabile della crisi. Perfino un riformista come Keynes è considerato un eretico. La politica, dicevo, si è ridotta a una dimensione puramente esecutiva, con interventi tampone, incapace di un pensiero autonomo e prospettico. L’implosione è sempre in agguato».

Professore, non è troppo pessimista?
«Non parlerei di pessimismo, ma di prudenza, una virtù che nel governo delle società non è mai troppa. A parte tutto, la riforma è scritta malissimo, illeggibile, talora incomprensibile».

Sta facendo un problema di forma?
«Di sostanza, prego, perché una costituzione democratica ha innanzitutto l’obbligo della chiarezza. Il linguaggio dei riformatori rivela due difetti: semplificazione e radicalità, brutalità e ingenuità».

Si può essere brutali e ingenui al tempo stesso?
«Certo. Prenda lo slogan: la sera delle elezioni si saprà chi ha vinto. Non le sembra che riveli una mentalità al tempo stesso sbrigativa e ingenua? In quel giorno ci saranno vincitori e vinti e vae victis!».

Ma lo slogan non indica anche un rimedio alla palude, all’eterna tentazione del consociativismo?
«A patto di non considerare la vittoria come un’unzione sacra che permette di insultare chi non è d’accordo: sindacati, professori, magistrati, pubblici amministratori, con l’idea che siano avversari da spegnere. Un governante saggio non dovrebbe crearsi il nemico perché, appena le cose incominceranno ad andare male, sarà chiamato a pagare un conto salato».

Ma nel Paese dell’eterno democristiano, non è meglio un legame diretto tra il voto e il governo?
«Perché “diretto” sarebbe “non democristiano”? A me pare che proprio l’idea del vincitore e dello sconfitto alimenti una vocazione tipica da noi: il timore d’essere lasciati nel campo della sconfitta. Così, c’è stata e c’è una vocazione potente a salire sul carro del vincitore. E questa non è forse la forma peggiore del consociativismo, addirittura preventiva?».

Lei teme l’abuso del vincitore?
«Si è parlato della Costituzione vigente come il frutto ormai superato della “paura del tiranno”. Il tiranno, nel senso del fascismo, oggi non c’è più. Ma il vento che tira in Europa e nel mondo non ci rende avvertiti di altri, nuovi pericoli? Tanto più che le istituzioni che saranno sottoposte a referendum varranno per il futuro e non sappiamo chi potrà avvalersene».

Ma ci sono costituzionalisti, come il professor Cassese, che non vedono nella riforma un rafforzamento dell’esecutivo: è così?
«Nessuno può essere certo delle sue previsioni, ma il gioco combinato della “velocità” nella politica e dell’elezione come investitura trasformerà chi vince in arbitro indiscusso del sistema. Già ora il Capo del governo è anche Capo del suo partito, e la minoranza interna è schiacciata sotto il ricatto permanente del voto anticipato».

Anche De Mita per un breve periodo fu segretario della Dc e capo del governo: perché nessuno lo paragonò a un tiranno?
«Semplice: perché c’erano i partiti e una legge elettorale proporzionale con le preferenze. Oggi i partiti sono dei monoliti, col solo compito di sostenere il Capo. E, di nuovo, tutto si tiene: con la legge elettorale vigente in Parlamento siederanno i fedelissimi».

Lei ritiene Renzi capace di tutto questo?
«Non voglio personalizzare. Tra l’altro oggi c’è Renzi, domani può venire chiunque. I governi passano, le istituzioni restano».

Ma la società non vuole un superamento del bicameralismo perfetto?
«Lo voglio anch’io, ma non in questo modo. Ridurre procedure e costi è positivo. Ma tutto ciò non va cavalcato in termini antiparlamentari, perché saremmo all’antipolitica. Di un parlamento vitale si ha sempre bisogno. Anzi avremmo bisogno che rappresentasse il meglio del Paese, come si diceva una volta: ridotto nel numero e più competente».

Le ricordano sempre che Ingrao si schierò a favore di una sola Camera: cosa risponde?
«L’idea di Ingrao era la “centralità del Parlamento”. Voleva una Camera sola per promuovere la politica in Parlamento, non per umiliarli entrambi».

E’ questa la vera ragione del suo “no”?
«E’ fondamentalmente questa, unita a ragioni specifiche. Il Senato è ridotto, ma non abolito. Il bicameralismo rimane per una serie di materie che possono innescare seri conflitti. È previsto che siano risolti dalla trattativa tra i due presidenti. Ma è lecito patteggiare sul rispetto delle regole? Le incongruenze tecniche sono molte. Non invidio chi dovrà scrivere la nuova legge elettorale del Senato. Non si capisce da chi saranno scelti i nuovi senatori: se sono “designati” dagli elettori non possono essere “eletti” dai Consigli regionali. Sa cosa le dico? Non mi dispiace non insegnare più il diritto costituzionale il prossimo anno, perché non saprei come spiegare ai miei studenti non una materia, ma un guazzabuglio».

Più facile spiegare la fiducia al governo da parte di una sola Camera, non crede?
«Questo è giusto, e utile. Non sono affatto contrario a un governo che governi. Ma dentro un sistema che respiri democraticamente a pieni polmoni».

Dal governo non può venire niente di buono?
«Perché? Sono buone le unioni civili, l’autonomia dai vescovi, la prudenza sulla Libia, il rifiuto della politica del “a casa nostra” verso i migranti. Vede che non ho pregiudizi? Ma non mi piace che una discussione sulla Costituzione si trasformi in un plebiscito sul governo. La Costituzione non è a favore né contro qualcuno, non si vince in questa materia e non si perde. Nessuno si gioca tutto sulla Carta, tutti ci giochiamo qualcosa e forse molto».

Professore, non l’ho mai sentita richiamare i grillini, come fa con il Pd, ad una responsabilità comune sul destino del sistema: come mai?
«Potrei dirle che l’antipolitica è figlia della cattiva politica. Ma è giunta l’ora che i Cinque Stelle si emancipino dalle idee elitistiche e accettino la logica parlamentare. La vera arte politica sta nel creare le condizioni dello stare insieme. Il che non vuol dire rinunciare alle proprie ragioni, ma cercare di diffonderle oltre i propri confini. Dire questo non significa nostalgia del vecchio ordine, ma desiderio di buona politica».
A proposito di vecchio, cosa risponde a chi usa questo termine come un insulto contro di voi?
«Anche noi siamo stati giovani, senza averne merito, e anche loro diventeranno vecchi, senza colpe per questo. Ma, non era la destra che polemizzava coi vecchi?».

Sì, ricorda gli attacchi a Spadolini, Rita Levi Montalcini sbeffeggiata in Senato: dunque?
«C’è traccia di futurismo nella rottamazione. I giovani hanno sempre ragione, i vecchi devono tacere. Sono battute, dice qualcuno. Ma vede: così si smarrisce il sentimento del passaggio generazionale, la trasmissione dell’esperienza. Si vuole rompere la tradizione in nome di un presunto Anno Zero. Certo, l’eccesso di tradizione spegne. Ma tagliare ogni radice per il peso della memoria espone al vento. Vivi nell’oggi e improvvisa».

La Repubblica, 26 Maggio 2016

Caro Shady, hai ragione: è la cultura dei diritti che ci manca in politica estera

siria

Caro Shady,

ho letto con molta attenzione la tua lettera a Civati in cui ripercorri la viltà italiana su un politica estera che ormai  è la caricatura di un compromesso che avrebbe voglia di essere credibile come posizione. E sono d’accordo con te quando scrivi:

«Trovo esclusivamente necessario cambiare marcia in politica estera, garantendo la pace negli altri paesi e la necessità di sostenere le società civili che tentano di emanciparsi da dittature e fondamentalismi, ma è anche urgente una rivoluzione culturale in Italia. In cinque anni ho notato che intorno alla Siria – e non solo – c’è una vergognosa assenza da parte della una classe intellettuale italiana(siano essi poeti, scrittori o altro). Non c’è interesse nell’impegnarsi nel sostenere cause extraeuropee o nel semplice dar voce a autori che non siano “amici”. Se oggi c’è un riaffermarsi del populismo e della xenofobia, una grave responsabilità l’hanno gli intellettuali, incapaci di arginare una contro cultura (di destra ma non solo) che si fa largo fra i giovani e che fra qualche decennio – se continuiamo di questo passo – ci dimostrerà tutta la sua carica distruttiva. Guardiamo alla cultura nel mondo arabo: ci sono scrittori e poeti disposti a farsi incarcerare, torturare e uccidere in nome di un ideale. Scrivono libri (romanzi, saggi e raccolte di poesie) socialmente impegnati. Hanno molto da insegnarci riguardo a come si usa una cittadinanza attiva. A questo loro attivismo, la classe culturale italiana continua a vivere in una torre d’avorio, non tentando di sdoganare la cultura araba dall’angolo in cui è reclusa nell’immaginario collettivo.»

Io e te facciamo parte di questa generazione con le antenne ricettive anchilosate dalla paura e dalla diffidenza, una generazione tesa a guardare con sospetto qualsiasi richiesta di diritti che non siano immediatamente riscontrabili nel nostro quotidiano. La stessa vicenda di Giulio Regeni, del resto, appare come una provincialissima preoccupazione di chi teme che possa riaccadere a “qualcuno di noi” mentre ogni giorno qualche Giulio (semplicemente con un nome più impronunciabile) continua ad essere torturato.

Temo però che la questione abbia radici molto più profonde di un semplice federalismo delle responsabilità che abbiamo inventato per poterci perdonare: quella a cui assistiamo non è semplicemente una dispersione di energie ma molto più pericolosamente mi sembra essere un individualismo spinto che ci porta ad abbracciare preferibilmente le cause già notiziabili, i delitti più “pop” oppure le tragedie che siano facilmente comprensibili. È un problema di cultura, caro Shady, perché è una mancanza di storia: abbiamo sdoganato l’ignoranza. Tutto qui.

Per questo credo che sarebbe il caso che la politica torni a fare politica nel senso più pieno prendendosi la responsabilità di alfabetizzare un Paese che vorrebbe avere il diritto di non sapere e invece non ce l’ha; c’è da costruire un patrimonio intellettuale sapendo che non porterò frutti immediati, che probabilmente non avrà fragorosi riscontri elettorali ma che ci consenta di tornare a pensare “a ragion veduta”. Con la consapevolezza dei diritti e con la cultura della loro storia.

Per questo credo che il tuo stimolo sia valido per la Siria come per l’Italia: la consapevolezza è il risultato di un lavoro in rete che non rimanga impigliato tra fratellanze d’interesse o scuderie. E noi ci proviamo. Insieme.

(la lettera di Shady Hamadi è qui)

Quel (brutto) silenzio su Saviano

Ho pensato che forse sarebbe stato il caso di aspettare almeno un giorno per giudicare, così dopo i deliri del senatore D’Anna (ALA, la misconosciuta schiera di servetti al comando di Verdini e quindi nuova maggioranza di governo) che ha insistito in un’intervista per dirci che Saviano è “un’icona farlocca” e che lui e la Capacchione (giornalista sotto scorta e parlamentare PD) “vivono di rendita”.

Ho aspettato per sentire almeno un cenno minimo di solidarietà, un segnale di disgusto e, perché no, una censura vera contro chi si permette di pensare che la tranquillità della propria vita si un dazio ragionevole da pagare in cambio del successo. Poi ho ascoltato Verdini scusarsi (per quanto possano valere le scuse di un bugiardo naturale come stabilito dalle Procure) e ho scorto la Valente prendere le distanze dalle affermazioni di D’Anna.

E poi il silenzio. Buio. Netto. Perché? Perché Saviano (e la Capacchione e tutti quelli che sono stati cannibalizzati per una minaccia di una mafia a caso) sono allo stesso tempo i simboli della delega vigliacca di chi pensa che non sia affar suo e allo stesso tempo la dimostrazione dell’inerzia di tutti gli altri. Può un libro smuovere le coscienze? In un Paese di membri del governo corrotti e classe dirigente svenduta alla mafia certo che sì, eccome. Può Saviano avere sbagliato qualcosa? Certo, sicuro, probabilmente moltissimo ma ogni suo errore riconosciuto rischia di essere una tacca di vigliaccheria in più a tutti quelli che stanno zitti.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Mamma è rimasta in mare

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Nohamed, 9 mesi e una traversata che s’è bevuta la madre. Europa 2016.

«Mentre a 18 miglia dalle coste libiche si ribaltava un peschereccio con quasi 600 migranti, a Lampedusa arrivava il carico di un altro dramma del Mediterraneo: 150 scampati al naufragio di due gommoni, compresa una bimba di appena 9 mesi che ha perso la mamma, morta per ustione da benzina durante la traversata. Una bimba sola arrivata dal cuore dell’Africa, recuperata tutta bagnata, totalmente disidratata, dall’equipaggio di una motovedetta della Guardia costiera che, ancor prima di attraccare alla banchina, ha allertato il poliambulatorio diretto dal medico tante volte premiato come simbolo di solidarietà, Piero Bartolo, protagonista del film di Gianfranco Rosi «Fuocammare», che adesso vorrebbe prendere la piccola in affidamento.»

Il senso delle dimissioni di Montanari

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Sarebbe bello che qualcuno trovasse il coraggio di scriverlo che si incrociano nomi altisonanti che sottovoce confessano di non essere nella condizione di poter contraddire il potere. Sarebbe bello ricordarsi che gli intellettuali (o accontentandosi: gli operatori culturali) anticipano la Storia, ne prevedono le nefandezze, ne annusano profeticamente i bisogni e non sono i leccapiedi ludici del potere. Sarebbe bello, insomma, riconoscere che i forbiti allineati sono portavoce. Tutt’altra cosa.

Per questo anche il piccolo gesto di Tomaso Montanari merita di essere sottolineato: lo storico dell’arte ha deciso di dimettersi dal proprio ruolo di membro di commissione del Ministero dei Beni Culturali con una lettera indirizzata direttamente al ministro Franceschini.

(il mio buongiorno per Left continua qui)