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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

L’antisemita ebreo e le storie minuscole

Si chiama Csanad Szegedi, è un europarlamentare, si è fatto eleggere per la propria fiera postura antisemita. E ha scoperto di essere ebreo. Ne scrive Il Post e ne scrivono in molti oggi. Ma la cosa che mi colpisce è come una personalità politica costruita sugli ideali inumani e amorali dell’antisemitismo (e sono in molti, tra Lega e ex AN, anche qui da noi) sia stato punito non dalla Storia ma dalla propria storia, minuscola e personale.

E ho pensato, sotto il torrido sole di agosto, che mi piacerebbe che la storia (minuscola e delle persone) costringesse questo Paese a riscoprire come la concentrazione di ricchezze, emotività, pregi, fantasia e voglia di fare sia diffusa: da nord a sud, da est a ovest. Rara, forse, solo in pezzi importanti della classe dirigente che è l’oligarchia che ha ottenuto da troppo tempo il condono per la secessione dai propri doveri morali.

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Il manuale per i piantagrane

“Per anni quando mi recavo a rinnovare la tessera d’ingresso annuale al Senato degli Stati Uniti, venivo invitato a compilare due moduli. Il primo richiedeva dettagli biografici, il secondo doveva certificare che avevo firmato il primo sotto giuramento. Ero ben felice per il secondo, perché dove si richiedeva di definire la mia “razza”, scrivevo sempre “umana” nell’apposita casella. Ogni volta si arrivava a un battibecco. “Metta bianca”, mi fu detto una volta – da un impiegato afroamericano, mi si consenta di aggiungere. Spiegai che il bianco non è neppure un colore, figurarsi una razza. Attirai anche la sua attenzione sulla clausola del giuramento che mi obbligava a dichiarare unicamente la verità. “Metta Caucasica”, mi fu suggerito in un’altra occasione. Risposi che non avevo legami col Caucaso e che non credevo affatto in quella antiquata categoria etnologica. Le cose andarono avanti così finché un anno nel modulo non compariva più lo spazio per la razza. Vorrei essere creduto, anche se non è facile. Ti faccio dono di questa storia anche come invito a fare il piantagrane tutte le volte che le probabilità sono favorevoli e talvolta anche quando non lo sono: è un buon esercizio”.

(Christopher Hitchens, Consigli a un giovane ribelle)
(grazie a Mante)

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La donna che morse il cane

Nella prefazione del libro, Alberto Spampinato, direttore dell’associazione Ossigeno per l’informazione, mette l’accento sui rischi e le difficoltà che devono superare i giornalisti “per riferire le notizie più importanti: quelle che nascono in periferia, lontano dalle redazioni dei grandi giornali, e riguardano fatti di mafia, corruzione, malaffare, uso distorto dei soldi pubblici”. Proprio intorno alle redazioni di giornali locali si intrecciano le tre storie dell’e-book. “I giornali locali sono quelli che subiscono maggiormente le minacce e i tentativi di intimidazione, perché raccontano il territorio così come lo vedono”, dice Adinolfi. “Nei giornali locali fare il giornalista è ancora più difficile perché ti trovi ogni giorno a contatto con le persone di cui scrivi”. Adinolfi racconta la sua giornata con Marilena Natale in giro per Casal di Principe: “Entrando in un bar poteva capitare di trovarsi di fronte a un personaggio di cui aveva parlato in un articolo il giorno precedente”.
“I media nazionali dovrebbero attingere dai giornali locali, non lasciarli soli e aiutarli a non essere dimenticati quando accadono queste minacce”, dice. “Spesso c’è la solidarietà del momento ma poi il giornalista si trova a essere solo e a incontrare per strada la persona che l’ha picchiato o minacciato”.

La donna che morse il cane. Storie di croniste minacciate di Gerardo Adinolfi è il libro di tre storie di croniste minacciate: Rosaria Capacchione, Marilena Natale e Marilù Mastrogiovanni. Madri, mogli, figlie, fidanzate. Donne che hanno la sola colpa di aver raccontato con lucidità i fatti e le contraddizioni della loro terra. Ed è un libro importante per non perdere il ‘realismo’ sull’informazione antimafia in Italia. Che è molto più presente di quanto spesso si insista a credere (e far credere) e ha l’odore della minaccia abituale. Ecco, se riuscissimo una volta per tutte a subire meno la fascinazione del pericolo e lo studiassimo come fenomeno da sconfiggere, forse perderemmo un po’ di poesia ma potremo costruire meccanismi di solidarietà difensiva. Militare, istituzionale, civica. Anche perché i dati per le analisi e il dibattito ci sono tutti: l’Osservatorio sui giornalisti minacciati diretto dall’amico Alberto Spampinato da anni monitora gli episodi. E chiede misura e responsabilità. Oltre alla notizia.

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Fanno audience e lo chiamano politica

Su Repubblica, oggi:

Nel­la de­mo­cra­zia con­tem­po­ra­nea (quel­la ita­lia­na in mo­do mol­to vi­si­bi­le) i par­ti­ti po­li­ti­ci, es­sen­zia­li at­to­ri del si­ste­ma rap­pre­sen­ta­ti­vo fin dal­la sua ap­pa­ri­zio­ne nel­l’In­ghil­ter­ra dei Sei­cen­to, han­no mu­ta­to la lo­ro fun­zio­ne­ma non so­no fi­ni­ti co­me spes­so si so­stie­ne; a que­sta lo­ro mu­ta­zio­ne è cor­ri­spo­sta una tra­sfor­ma­zio­ne del­la de­mo­cra­zia da rap­pre­sen­ta­ti­va a ple­bi­sci­ta­ria. Il nuo­vo ple­bi­sci­ta­ri­smo non è quel­lo del­le mas­se mo­bi­li­ta­te da lea­der ca­ri­sma­ti­ci ma quel­lo del­l’au­dien­ce, l’ag­glo­me­ra­to in­di­stin­to di in­di­vi­dui che com­pon­go­no il pub­bli­co, un at­to­re non col­let­ti­vo che vi­ve nel pri­va­to del­la do­me­sti­ci­tà e quan­do è agen­te son­da­to di opi­nio­ne ope­ra co­me spet­ta­to­re di uno spet­ta­co­lo mes­so in sce­na da tec­ni­ci del­la co­mu­ni­ca­zio­ne me­dia­ti­ca e re­ci­ta­to da per­so­nag­gi po­li­ti­ci. La per­so­na­liz­za­zio­ne­del po­te­re e del­la po­li­ti­ca è un sin­to­mo e un se­gno di que­sta mu­ta­zio­ne. Cir­ca la tra­sfor­ma­zio­ne dei par­ti­ti, es­sa ri­guar­da il lo­ro di­ma­gri­men­to de­mo­cra­ti­co al qua­le cor­ri­spon­de un’o­be­si­tà di po­te­re ma­te­ria­le ef­fet­ti­vo nel­le isti­tu­zio­ni del­lo sta­to, co­me ha mo­stra­to Mau­ro Ca­li­se. Non è per que­sto con­vin­cen­te pre­sen­ta­re la de­mo­cra­zia dei par­ti­ti co­me una fa­se, or­mai tra­mon­ta­ta, del­la sto­ria del go­ver­no rap­pre­sen­ta­ti­vo (que­sta è la te­si so­ste­nu­ta da Ber­nard Ma­nin). Ve­ro è che es­sa è di­ven­ta­ta a tut­ti gli ef­fet­ti una de­mo­cra­zia “dei” par­ti­ti in­ve­ce che “per mez­zo dei” par­ti­ti.
Il de­cli­no del par­ti­to-or­ga­niz­za­zio­ne ha cor­ri­spo­sto al­la cre­sci­ta del par­ti­to-spu­gna che se­gue gli umo­ri po­po­la­ri e li ali­men­ta ad ar­te per me­glio gua­da­gna­re con­sen­so. Il par­ti­to co­sid­det­to li­qui­do è di dif­fi­ci­le con­trol­lo da par­te di sim­pa­tiz­zan­ti e iscrit­ti (i qua­li non di­spon­go­no del re­sto di strut­tu­re e re­go­le per l’ar­ti­co­la­zio­ne in­ter­na del dis­sen­so e del con­trol­lo) e fun­zio­na­le al­l’e­sal­ta­zio­ne del­la per­so­na del lea­der; può far­si isti­ga­to­re di po­li­ti­che po­pu­li­sti­che, se tro­va ciò con­ve­nien­te, in­ve­ce di es­se­re una di­ga che le ar­gi­na co­me era il par­ti­to-or­ga­niz­za­zio­ne. Que­sto slit­ta­men­to a li­qui­di­tà e pro­fes­sio­na­liz­za­zio­ne son­dag­gi­sti­ca fa sì che la de­mo­cra­zia “dei” par­ti­ti sia una de­mo­cra­zia pro­te­sa ver­so for­me po­li­ti­che ple­bi­sci­ta­rie. E’ que­sto l’a­spet­to che fa da re­tro­ter­ra al­la tra­sfor­ma­zio­ne dal­la de­mo­cra­zia del par­ti­ti al ple­bi­sci­to del­l’au­dien­ce.
La de­mo­cra­zia del pub­bli­co o ple­bi­sci­ta­ri­smo del­l’au­dien­ce fa le­va sul mu­ta­men­to di si­gni­fi­ca­to del “pub­bli­co” da ca­te­go­ria giu­ri­di­co- nor­ma­ti­vo (ciò che per­tie­ne al­lo sta­to ci­vi­le) a ca­te­go­ria este­ti­ca, co­me di ciò che è espo­sto al­la vi­sta e esi­sten­te in sen­so tea­tra­le. Al­la cen­tra­li­tà del­la vo­ce (par­te­ci­pa­zio­ne co­me ri­ven­di­ca­zio­ne e au­to­no­mia) fa se­gui­to la cen­tra­li­tà del giu­di­zio spet­ta­to­ria­le, una for­ma di po­li­ti­ca che si mo­del­la sul fo­ro ro­ma­no in­ve­ce che sul­l’a­go­rà ate­nie­se. La ri­na­sci­ta di in­te­res­se per le idee che pi­lo­ta­ro­no la cri­si del par­la­men­ta­ri­smo nei pri­mi de­cen­ni del ven­te­si­mo se­co­lo — quan­do la con­ce­zio­ne ple­bi­sci­ta­ria pre­se una con­fi­gu­ra­zio­ne al­ter­na­ti­va al­la de­mo­cra­zia rap­pre­sen­ta­ti­va — è un’in­di­ca­zio­ne pre­oc­cu­pan­te del nuo­vo fi­lo­ne di ri­cer­ca teo­ri­ca e ap­pli­ca­zio­ne pra­ti­ca in­ter­no al­la de­mo­cra­zia con­tem­po­ra­nea, un fi­lo­ne an­co­ra una vol­ta cri­ti­co nei con­fron­ti del­la strut­tu­ra par­la­men­ta­re e del­la fun­zio­ne me­dia­tri­ce dei par­ti­ti po­li­ti­ci. Il de­cli­no del­la de­mo­cra­zia del par­ti­to po­li­ti­co e la cre­sci­ta del­la de­mo­cra­zia del pub­bli­co
cor­ri­spon­de a una evi­den­te per­so­na­liz­za­zio­ne del­la lea­der­ship edel­lo stes­so di­scor­so de­mo­cra­ti­co a cui fa eco una con­ce­zio­ne del­la po­li­ti­ca co­me mac­chi­na per la crea­zio­ne del­la fi­du­cia nel lea­der. La cre­scen­te at­ten­zio­ne per le eli­te e per un in­cre­men­to del po­te­re ese­cu­ti­vo ri­spet­to a quel­lo par­la­men­ta­re è in sin­to­nia con que­sto mu­ta­men­to in­ter­no al­la de­mo­cra­zia. Un aspet­to non an­co­ra stu­dia­to sta nel de­cli­no del­la po­li­ti­ca co­me eser­ci­zio di au­to­no­mia a fa­vo­re del­la po­li­ti­ca co­me azio­ne giu­di­can­te. Nel pri­mo ca­so la “vo­ce” era l’or­ga­no di un’a­zio­ne col­let­ti­va che vo­le­va es­se­re di com­pren­sio­ne, di­scus­sio­ne, con­te­sta­zio­ne e pro­po­sta; nel se­con­do ca­so, l’or­ga­no ege­mo­ne è l’“oc­chio”, con la ri­chie­sta di tra­spa­ren­za (del met­te­re in pub­bli­co).
Il ple­bi­sci­ta­ri­smo del­l’au­dien­ce ri­sul­ta in un di­vor­zio in­ter­no al­la so­vra­ni­tà tra il po­po­lo co­me in­sie­me di cit­ta­di­ni par­te­ci­pan­ti (con ideo­lo­gie, in­te­res­si e l’in­ten­zio­ne di com­pe­te­re per con­qui­sta­re la mag­gio­ran­za) e il po­po­lo co­me un’u­ni­tà im­per­so­na­le e scor­po­ra­ta che ispe­zio­na e giu­di­ca il gio­co po­li­ti­co gio­ca­to da al­cu­ni e ge­sti­to da par­ti­ti elet­to­ra­li­sti­ci. La par­ti­gia­ne­ria non è espul­sa dal do­mi­nio del­la de­ci­sio­ne; è espul­sa dal fo­rum, nel qua­le il po­po­lo sta co­me una mas­sa in­di­stin­ta e ano­ni­ma di os­ser­va­to­ri che guar­da­no sol­tan­to e non chie­do­no più par­te­ci­pa­zio­ne. La de-co­sti­tu­zio­na­liz­za­zio­ne che que­sto nuo­vo ple­bi­sci­ta­ri­smo com­por­ta ri­po­sa sul­l’as­sun­to che il ve­ro con­trol­lo de­mo­cra­ti­co sia l’oc­chio po­po­la­re in­ve­ce che le nor­me e gli isti­tu­ti giu­ri­di­ci. Ep­pu­re, co­me ha di­mo­stra­to l’I­ta­lia nel­l’e­ra Ber­lu­sco­ni, non sem­pre que­sto ba­sta.
Il pa­ra­dos­so di in­si­ste­re sul fat­to­re este­ti­co del­l’o­pi­nio­ne pub­bli­ca a spe­se di quel­lo co­gni­ti­vo e po­li­ti­co-par­te­ci­pa­ti­vo — sul­l’oc­chio in­ve­ce che sul­la vo­ce — è di non te­ner con­to del fat­to che le im­ma­gi­ni so­no la sor­gen­te di un ti­po di giu­di­zio che va­lu­ta gu­sti più che fat­ti po­li­ti­ci, ed è quin­di ir­ri­me­dia­bil­men­te sog­get­ti­vo e po­li­ti­ca­men­te inet­to. Il pas­sag­gio dal di­scu­te­re e di­bat­te­re (e vo­ta­re sui pro­gram­mi e quin­di per mez­zo di par­ti­ti-or­ga­niz­za­zio­ne) al guar­da­re e giu­di­ca­re stan­do in una po­si­zio­ne spet­ta­to­ria­le (rea­gi­re agli sti­mo­li pro­dot­ti dal lea­der e da­gli esper­ti di co­mu­ni­ca­zio­ne del par­ti­to li­qui­do) cor­ri­spon­de a un se­gno di ma­les­se­re del­la de­mo­cra­zia rap­pre­sen­ta­ti­va più che a una sua mag­gio­re de­mo­cra­tiz­za­zio­ne.
(Il te­sto è una sin­te­si del sag­gio “Dal­la de­mo­cra­zia dei par­ti­ti al ple­bi­sci­to del­l’au­dien­ce” che usci­rà su “Pa­ro­le­chia­ve” a cu­ra di Ma­riuc­cia Sal­va­ti, de­di­ca­to a “Po­li­ti­ca e par­ti­ti”)

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La verità

È un bene raro e prezioso. Per questo qualcuno tende a risparmiarla. Sugli anni 1992-1993, sulle conversazioni tra pezzi che dovrebbero combattersi piuttosto che dialogare. E, se il reato non c’è, sui processi politici che si erano aperti e quando, come e per mano di chi si sono incagliati.
Ma se quel qualcuno è lo Stato diventa tutto più difficile. Una firma per chiarezza forse vale la pena metterla. Anche se la narcotizzazione vacanziera non aiuta. Perché lo spiega bene Andrea Camilleri:
Eh certo, sarebbe bello, ma non facciamo gli ingenui: siccome chi ha trattato con la mafia è ancora al potere, non possiamo certo illuderci che si dia da fare per far emergere la verità. Sarebbe autolesionismo puro. Niente è più difficile che ammettere i propri errori e chiedere scusa. Per questo il potere sta facendo di tutto perché la verità su quel che accadde vent’anni fa non venga alla luce. Gli errori commessi nel 1992-’94 e forse anche dopo dai rappresentanti delle istituzioni sono gravissimi non solo in sé ma anche perché hanno prodotto metastasi cancerose vastissime, ramificate. Lo Stato, diceva Sciascia, non processa se stesso.

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ILVA

Ho già detto che se l’intelligenza umana si impegnasse ad ideare tecnologie rispettose delle esigenze dei lavoratori, invece di fare il contrario, avremmo la soluzione. Oggi si presenta un problema inverso: come adattare agli essere umani un sistema tecnologico ideato per altri obiettivi, e cioè perché ne benefici unicamente la produzione. Sono convinto che se si facesse quel che dico, di lavoro sporco ce ne sarebbe molto meno di quanto Lei afferma. E comunque sia, è evidente che abbiamo due sole alternative: la prima è quella di distribuirlo equamente; la seconda è obbligare una parte della popolazione a fare i lavori sporchi, pena morire di fame. (Noam Chomsky, La società anarchica, p. 65)

Ecco bisognerebbe rileggere Chomsky per leggere la situazione dell’ILVA. Perché diventa difficile pensare ad una tutela del lavoro che non passi dalla tutela dell’ambiente. E non si può pensare alla sopravvivenza quotidiana senza avere negli occhi un futuro potabile.

(magari stando attenti ai funambolismi letterari, eh)

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Blasfemia in scena

Questione di priorità, evidentemente:

Tre attori sono stati arrestati in Grecia con l’accusa di blasfemia. Avevano infatti preso parte ad uno spettacolo teatrale dal titolo Corpus Christi, prodotto da Terence McNally nel 1997, in cui Gesù e i suoi discepoli venivano rappresentati come una comunità gay che viveva a Corpus Christi, nello stato americano del Texas.

Un’opera provocatoria, colpita non solo dall’anatema religioso per la pervasività della Chiesa ortodossa, ma anche dal braccio secolare: in Grecia espressioni giudicate blasfeme vengono punite duramente, con il carcere fino a due anni.

La Federazione Umanista Europea (EHF) e il Greek Helsinki Monitor (GHM) hanno lanciato un appello per la liberazione dei tre attori, scrivendo al ministro della Giustizia greco. Con la secolarizzazione che avanza in Europa, scrivono il presidente EHF Pierre Galand e il portavoce del GHM Panayote Dimitras, diversi paesi hanno ormai abrogato le leggi vetuste che punivano la blasfemia.

Ma in altri, come la Grecia, sono ancora in vigore e “possono portare a persecuzione o avere un effetto deterrente su giornalisti, accademici, artisti e altri cittadini”, per effetto dell’autocensura indotta. L’organizzazione che riunisce le associazioni laiche europee, e di cui fa parte anche l’Uaar in rappresentanza dell’Italia, sostiene la libertà di espressione contro ogni forma di criminalizzazione di stampo religioso e di privilegio delle confessioni di fede.

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Nonna, tu sei il mare, io sono un’onda

Nella melma degli articoli d’agosto una splendida Liliana Segre raccontata da Alessia Rastelli su Il Corriere della Sera:

«So cos’è, mi disse vedendo il tatuaggio sul mio braccio. E io mi sentii capita, senza bisogno di dire niente». È il primo incontro di Liliana Segre – ebrea sopravvissuta ad Auschwitz, – con Alfredo. «L’uomo che poi è diventato mio marito – racconta -. E senza il quale, forse, sarei diventata una di quelle donne che entrano ed escono dai manicomi, considerate “strane” dalle loro stesse famiglie».

Nei primi tempi del matrimonio ma anche negli anni successivi, quando l’entusiasmo e la felicità di giovane sposa non sono più bastati a ovattare gli echi di un passato con cui fare i conti. Parla di una depressione molto forte, la Segre, quando aveva 46 anni e perse l’anziana nonna, ultimo legame con la famiglia distrutta. Poi, intorno ai 60 anni, la consapevolezza di non avere ancora «fatto il proprio dovere» e la scelta di diventare una testimone della Shoah.

«Quando lo comunicai ad Alfredo si preoccupò che per me fosse troppo doloroso. Ma mi appoggiò» ricorda Liliana. «Da allora – prosegue – ho girato centinaia di scuole e parlato a migliaia di studenti. Ogni volta mio marito mi aspettava a casa e mi chiedeva “Come è andata amore mio?”. E io varcavo la soglia e riuscivo a lasciare tutto fuori. Da quando è morto, invece, quattro anni fa, è molto più difficile rientrare e rimanere da sola con i miei fantasmi».
Resta quello che con Alfredo ha costruito. «Siamo stati una famiglia, abbiamo auto tre meravigliosi figli e tre nipoti» dice Liliana, ancora a Pesaro in questa estate di oltre sessant’anni dopo. Insieme con lei c’è Filippo, il più piccolo dei nipoti, di otto anni. «Pochi giorni fa – racconta la Segre – mi ha detto: “Nonna, tu sei il mare, io sono un’onda”. Allora penso che non avrei potuto chiedere di più. E che, nonostante Auschwitz, alla fine ha vinto la vita».

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In italiano: patrimoniale

Uno scrittore multimilionario ha chiesto al primo ministro britannico David Cameron di fargli pagare piu’ tasse: Mark Haddon, l’autore di ‘Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte’, ha detto al Sunday Times che i ricchi come lui dovrebbero contribuire di piu’ per evitare altri tagli da parte del governo. 49 anni, ex illustratore e scrittore per bambini che nel 2003 quasi per caso si e’ trovato in testa alle classifiche dei bestseller, Haddon ha ammesso di essere straricco: ”Le misure di austerity decise da questo governo hanno causato vere sofferenze a molti britannici ma non a me. Il mio alto tenore di vita non e’ stato minimamente intaccato”. ‘Lo strano caso’, la storia di un adolescente con la sindrome di Asperger che una notte trova il cane di una vicina trafitto da un forcone, sta andando in scena in questi giorni al National Theatre di Londra e Brad Pitt ha acquistato i diritti per farne un film con la Warner Bros.

”Perche’ alla gente come me non viene chiesto di fare la sua parte?”, ha detto lo scrittore al Sunday Times spiegando di essere stato ispirato dal miliardario americano Warren Buffett che ha chiesto di pagare piu’ tasse dopo aver scoperto che la sua donna delle pulizie, in proporzione, pagava piu’ tasse di lui. ”Non vedo molta gente che la pensa allo stesso modo. In questo mondo sembrano esserci piu’ Bob Diamonds che Warren Buffett”, ha detto alludendo all’ex Ceo di Barclays, la banca britannica al centro dello scandalo Libor. ”Non e’ solo una questione economica, e’ anche un problema morale”, ha detto lo scrittore: ”Se tutti pagassimo le tasse come si deve non avremmo bisogno di ricorrere all’austerity”.

Questione di etica. E scrittori e politica. La notizia è qui.

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