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Fanno audience e lo chiamano politica

Su Repubblica, oggi:

Nel­la de­mo­cra­zia con­tem­po­ra­nea (quel­la ita­lia­na in mo­do mol­to vi­si­bi­le) i par­ti­ti po­li­ti­ci, es­sen­zia­li at­to­ri del si­ste­ma rap­pre­sen­ta­ti­vo fin dal­la sua ap­pa­ri­zio­ne nel­l’In­ghil­ter­ra dei Sei­cen­to, han­no mu­ta­to la lo­ro fun­zio­ne­ma non so­no fi­ni­ti co­me spes­so si so­stie­ne; a que­sta lo­ro mu­ta­zio­ne è cor­ri­spo­sta una tra­sfor­ma­zio­ne del­la de­mo­cra­zia da rap­pre­sen­ta­ti­va a ple­bi­sci­ta­ria. Il nuo­vo ple­bi­sci­ta­ri­smo non è quel­lo del­le mas­se mo­bi­li­ta­te da lea­der ca­ri­sma­ti­ci ma quel­lo del­l’au­dien­ce, l’ag­glo­me­ra­to in­di­stin­to di in­di­vi­dui che com­pon­go­no il pub­bli­co, un at­to­re non col­let­ti­vo che vi­ve nel pri­va­to del­la do­me­sti­ci­tà e quan­do è agen­te son­da­to di opi­nio­ne ope­ra co­me spet­ta­to­re di uno spet­ta­co­lo mes­so in sce­na da tec­ni­ci del­la co­mu­ni­ca­zio­ne me­dia­ti­ca e re­ci­ta­to da per­so­nag­gi po­li­ti­ci. La per­so­na­liz­za­zio­ne­del po­te­re e del­la po­li­ti­ca è un sin­to­mo e un se­gno di que­sta mu­ta­zio­ne. Cir­ca la tra­sfor­ma­zio­ne dei par­ti­ti, es­sa ri­guar­da il lo­ro di­ma­gri­men­to de­mo­cra­ti­co al qua­le cor­ri­spon­de un’o­be­si­tà di po­te­re ma­te­ria­le ef­fet­ti­vo nel­le isti­tu­zio­ni del­lo sta­to, co­me ha mo­stra­to Mau­ro Ca­li­se. Non è per que­sto con­vin­cen­te pre­sen­ta­re la de­mo­cra­zia dei par­ti­ti co­me una fa­se, or­mai tra­mon­ta­ta, del­la sto­ria del go­ver­no rap­pre­sen­ta­ti­vo (que­sta è la te­si so­ste­nu­ta da Ber­nard Ma­nin). Ve­ro è che es­sa è di­ven­ta­ta a tut­ti gli ef­fet­ti una de­mo­cra­zia “dei” par­ti­ti in­ve­ce che “per mez­zo dei” par­ti­ti.
Il de­cli­no del par­ti­to-or­ga­niz­za­zio­ne ha cor­ri­spo­sto al­la cre­sci­ta del par­ti­to-spu­gna che se­gue gli umo­ri po­po­la­ri e li ali­men­ta ad ar­te per me­glio gua­da­gna­re con­sen­so. Il par­ti­to co­sid­det­to li­qui­do è di dif­fi­ci­le con­trol­lo da par­te di sim­pa­tiz­zan­ti e iscrit­ti (i qua­li non di­spon­go­no del re­sto di strut­tu­re e re­go­le per l’ar­ti­co­la­zio­ne in­ter­na del dis­sen­so e del con­trol­lo) e fun­zio­na­le al­l’e­sal­ta­zio­ne del­la per­so­na del lea­der; può far­si isti­ga­to­re di po­li­ti­che po­pu­li­sti­che, se tro­va ciò con­ve­nien­te, in­ve­ce di es­se­re una di­ga che le ar­gi­na co­me era il par­ti­to-or­ga­niz­za­zio­ne. Que­sto slit­ta­men­to a li­qui­di­tà e pro­fes­sio­na­liz­za­zio­ne son­dag­gi­sti­ca fa sì che la de­mo­cra­zia “dei” par­ti­ti sia una de­mo­cra­zia pro­te­sa ver­so for­me po­li­ti­che ple­bi­sci­ta­rie. E’ que­sto l’a­spet­to che fa da re­tro­ter­ra al­la tra­sfor­ma­zio­ne dal­la de­mo­cra­zia del par­ti­ti al ple­bi­sci­to del­l’au­dien­ce.
La de­mo­cra­zia del pub­bli­co o ple­bi­sci­ta­ri­smo del­l’au­dien­ce fa le­va sul mu­ta­men­to di si­gni­fi­ca­to del “pub­bli­co” da ca­te­go­ria giu­ri­di­co- nor­ma­ti­vo (ciò che per­tie­ne al­lo sta­to ci­vi­le) a ca­te­go­ria este­ti­ca, co­me di ciò che è espo­sto al­la vi­sta e esi­sten­te in sen­so tea­tra­le. Al­la cen­tra­li­tà del­la vo­ce (par­te­ci­pa­zio­ne co­me ri­ven­di­ca­zio­ne e au­to­no­mia) fa se­gui­to la cen­tra­li­tà del giu­di­zio spet­ta­to­ria­le, una for­ma di po­li­ti­ca che si mo­del­la sul fo­ro ro­ma­no in­ve­ce che sul­l’a­go­rà ate­nie­se. La ri­na­sci­ta di in­te­res­se per le idee che pi­lo­ta­ro­no la cri­si del par­la­men­ta­ri­smo nei pri­mi de­cen­ni del ven­te­si­mo se­co­lo — quan­do la con­ce­zio­ne ple­bi­sci­ta­ria pre­se una con­fi­gu­ra­zio­ne al­ter­na­ti­va al­la de­mo­cra­zia rap­pre­sen­ta­ti­va — è un’in­di­ca­zio­ne pre­oc­cu­pan­te del nuo­vo fi­lo­ne di ri­cer­ca teo­ri­ca e ap­pli­ca­zio­ne pra­ti­ca in­ter­no al­la de­mo­cra­zia con­tem­po­ra­nea, un fi­lo­ne an­co­ra una vol­ta cri­ti­co nei con­fron­ti del­la strut­tu­ra par­la­men­ta­re e del­la fun­zio­ne me­dia­tri­ce dei par­ti­ti po­li­ti­ci. Il de­cli­no del­la de­mo­cra­zia del par­ti­to po­li­ti­co e la cre­sci­ta del­la de­mo­cra­zia del pub­bli­co
cor­ri­spon­de a una evi­den­te per­so­na­liz­za­zio­ne del­la lea­der­ship edel­lo stes­so di­scor­so de­mo­cra­ti­co a cui fa eco una con­ce­zio­ne del­la po­li­ti­ca co­me mac­chi­na per la crea­zio­ne del­la fi­du­cia nel lea­der. La cre­scen­te at­ten­zio­ne per le eli­te e per un in­cre­men­to del po­te­re ese­cu­ti­vo ri­spet­to a quel­lo par­la­men­ta­re è in sin­to­nia con que­sto mu­ta­men­to in­ter­no al­la de­mo­cra­zia. Un aspet­to non an­co­ra stu­dia­to sta nel de­cli­no del­la po­li­ti­ca co­me eser­ci­zio di au­to­no­mia a fa­vo­re del­la po­li­ti­ca co­me azio­ne giu­di­can­te. Nel pri­mo ca­so la “vo­ce” era l’or­ga­no di un’a­zio­ne col­let­ti­va che vo­le­va es­se­re di com­pren­sio­ne, di­scus­sio­ne, con­te­sta­zio­ne e pro­po­sta; nel se­con­do ca­so, l’or­ga­no ege­mo­ne è l’“oc­chio”, con la ri­chie­sta di tra­spa­ren­za (del met­te­re in pub­bli­co).
Il ple­bi­sci­ta­ri­smo del­l’au­dien­ce ri­sul­ta in un di­vor­zio in­ter­no al­la so­vra­ni­tà tra il po­po­lo co­me in­sie­me di cit­ta­di­ni par­te­ci­pan­ti (con ideo­lo­gie, in­te­res­si e l’in­ten­zio­ne di com­pe­te­re per con­qui­sta­re la mag­gio­ran­za) e il po­po­lo co­me un’u­ni­tà im­per­so­na­le e scor­po­ra­ta che ispe­zio­na e giu­di­ca il gio­co po­li­ti­co gio­ca­to da al­cu­ni e ge­sti­to da par­ti­ti elet­to­ra­li­sti­ci. La par­ti­gia­ne­ria non è espul­sa dal do­mi­nio del­la de­ci­sio­ne; è espul­sa dal fo­rum, nel qua­le il po­po­lo sta co­me una mas­sa in­di­stin­ta e ano­ni­ma di os­ser­va­to­ri che guar­da­no sol­tan­to e non chie­do­no più par­te­ci­pa­zio­ne. La de-co­sti­tu­zio­na­liz­za­zio­ne che que­sto nuo­vo ple­bi­sci­ta­ri­smo com­por­ta ri­po­sa sul­l’as­sun­to che il ve­ro con­trol­lo de­mo­cra­ti­co sia l’oc­chio po­po­la­re in­ve­ce che le nor­me e gli isti­tu­ti giu­ri­di­ci. Ep­pu­re, co­me ha di­mo­stra­to l’I­ta­lia nel­l’e­ra Ber­lu­sco­ni, non sem­pre que­sto ba­sta.
Il pa­ra­dos­so di in­si­ste­re sul fat­to­re este­ti­co del­l’o­pi­nio­ne pub­bli­ca a spe­se di quel­lo co­gni­ti­vo e po­li­ti­co-par­te­ci­pa­ti­vo — sul­l’oc­chio in­ve­ce che sul­la vo­ce — è di non te­ner con­to del fat­to che le im­ma­gi­ni so­no la sor­gen­te di un ti­po di giu­di­zio che va­lu­ta gu­sti più che fat­ti po­li­ti­ci, ed è quin­di ir­ri­me­dia­bil­men­te sog­get­ti­vo e po­li­ti­ca­men­te inet­to. Il pas­sag­gio dal di­scu­te­re e di­bat­te­re (e vo­ta­re sui pro­gram­mi e quin­di per mez­zo di par­ti­ti-or­ga­niz­za­zio­ne) al guar­da­re e giu­di­ca­re stan­do in una po­si­zio­ne spet­ta­to­ria­le (rea­gi­re agli sti­mo­li pro­dot­ti dal lea­der e da­gli esper­ti di co­mu­ni­ca­zio­ne del par­ti­to li­qui­do) cor­ri­spon­de a un se­gno di ma­les­se­re del­la de­mo­cra­zia rap­pre­sen­ta­ti­va più che a una sua mag­gio­re de­mo­cra­tiz­za­zio­ne.
(Il te­sto è una sin­te­si del sag­gio “Dal­la de­mo­cra­zia dei par­ti­ti al ple­bi­sci­to del­l’au­dien­ce” che usci­rà su “Pa­ro­le­chia­ve” a cu­ra di Ma­riuc­cia Sal­va­ti, de­di­ca­to a “Po­li­ti­ca e par­ti­ti”)

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La verità

È un bene raro e prezioso. Per questo qualcuno tende a risparmiarla. Sugli anni 1992-1993, sulle conversazioni tra pezzi che dovrebbero combattersi piuttosto che dialogare. E, se il reato non c’è, sui processi politici che si erano aperti e quando, come e per mano di chi si sono incagliati.
Ma se quel qualcuno è lo Stato diventa tutto più difficile. Una firma per chiarezza forse vale la pena metterla. Anche se la narcotizzazione vacanziera non aiuta. Perché lo spiega bene Andrea Camilleri:
Eh certo, sarebbe bello, ma non facciamo gli ingenui: siccome chi ha trattato con la mafia è ancora al potere, non possiamo certo illuderci che si dia da fare per far emergere la verità. Sarebbe autolesionismo puro. Niente è più difficile che ammettere i propri errori e chiedere scusa. Per questo il potere sta facendo di tutto perché la verità su quel che accadde vent’anni fa non venga alla luce. Gli errori commessi nel 1992-’94 e forse anche dopo dai rappresentanti delle istituzioni sono gravissimi non solo in sé ma anche perché hanno prodotto metastasi cancerose vastissime, ramificate. Lo Stato, diceva Sciascia, non processa se stesso.

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ILVA

Ho già detto che se l’intelligenza umana si impegnasse ad ideare tecnologie rispettose delle esigenze dei lavoratori, invece di fare il contrario, avremmo la soluzione. Oggi si presenta un problema inverso: come adattare agli essere umani un sistema tecnologico ideato per altri obiettivi, e cioè perché ne benefici unicamente la produzione. Sono convinto che se si facesse quel che dico, di lavoro sporco ce ne sarebbe molto meno di quanto Lei afferma. E comunque sia, è evidente che abbiamo due sole alternative: la prima è quella di distribuirlo equamente; la seconda è obbligare una parte della popolazione a fare i lavori sporchi, pena morire di fame. (Noam Chomsky, La società anarchica, p. 65)

Ecco bisognerebbe rileggere Chomsky per leggere la situazione dell’ILVA. Perché diventa difficile pensare ad una tutela del lavoro che non passi dalla tutela dell’ambiente. E non si può pensare alla sopravvivenza quotidiana senza avere negli occhi un futuro potabile.

(magari stando attenti ai funambolismi letterari, eh)

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Blasfemia in scena

Questione di priorità, evidentemente:

Tre attori sono stati arrestati in Grecia con l’accusa di blasfemia. Avevano infatti preso parte ad uno spettacolo teatrale dal titolo Corpus Christi, prodotto da Terence McNally nel 1997, in cui Gesù e i suoi discepoli venivano rappresentati come una comunità gay che viveva a Corpus Christi, nello stato americano del Texas.

Un’opera provocatoria, colpita non solo dall’anatema religioso per la pervasività della Chiesa ortodossa, ma anche dal braccio secolare: in Grecia espressioni giudicate blasfeme vengono punite duramente, con il carcere fino a due anni.

La Federazione Umanista Europea (EHF) e il Greek Helsinki Monitor (GHM) hanno lanciato un appello per la liberazione dei tre attori, scrivendo al ministro della Giustizia greco. Con la secolarizzazione che avanza in Europa, scrivono il presidente EHF Pierre Galand e il portavoce del GHM Panayote Dimitras, diversi paesi hanno ormai abrogato le leggi vetuste che punivano la blasfemia.

Ma in altri, come la Grecia, sono ancora in vigore e “possono portare a persecuzione o avere un effetto deterrente su giornalisti, accademici, artisti e altri cittadini”, per effetto dell’autocensura indotta. L’organizzazione che riunisce le associazioni laiche europee, e di cui fa parte anche l’Uaar in rappresentanza dell’Italia, sostiene la libertà di espressione contro ogni forma di criminalizzazione di stampo religioso e di privilegio delle confessioni di fede.

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Nonna, tu sei il mare, io sono un’onda

Nella melma degli articoli d’agosto una splendida Liliana Segre raccontata da Alessia Rastelli su Il Corriere della Sera:

«So cos’è, mi disse vedendo il tatuaggio sul mio braccio. E io mi sentii capita, senza bisogno di dire niente». È il primo incontro di Liliana Segre – ebrea sopravvissuta ad Auschwitz, – con Alfredo. «L’uomo che poi è diventato mio marito – racconta -. E senza il quale, forse, sarei diventata una di quelle donne che entrano ed escono dai manicomi, considerate “strane” dalle loro stesse famiglie».

Nei primi tempi del matrimonio ma anche negli anni successivi, quando l’entusiasmo e la felicità di giovane sposa non sono più bastati a ovattare gli echi di un passato con cui fare i conti. Parla di una depressione molto forte, la Segre, quando aveva 46 anni e perse l’anziana nonna, ultimo legame con la famiglia distrutta. Poi, intorno ai 60 anni, la consapevolezza di non avere ancora «fatto il proprio dovere» e la scelta di diventare una testimone della Shoah.

«Quando lo comunicai ad Alfredo si preoccupò che per me fosse troppo doloroso. Ma mi appoggiò» ricorda Liliana. «Da allora – prosegue – ho girato centinaia di scuole e parlato a migliaia di studenti. Ogni volta mio marito mi aspettava a casa e mi chiedeva “Come è andata amore mio?”. E io varcavo la soglia e riuscivo a lasciare tutto fuori. Da quando è morto, invece, quattro anni fa, è molto più difficile rientrare e rimanere da sola con i miei fantasmi».
Resta quello che con Alfredo ha costruito. «Siamo stati una famiglia, abbiamo auto tre meravigliosi figli e tre nipoti» dice Liliana, ancora a Pesaro in questa estate di oltre sessant’anni dopo. Insieme con lei c’è Filippo, il più piccolo dei nipoti, di otto anni. «Pochi giorni fa – racconta la Segre – mi ha detto: “Nonna, tu sei il mare, io sono un’onda”. Allora penso che non avrei potuto chiedere di più. E che, nonostante Auschwitz, alla fine ha vinto la vita».

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In italiano: patrimoniale

Uno scrittore multimilionario ha chiesto al primo ministro britannico David Cameron di fargli pagare piu’ tasse: Mark Haddon, l’autore di ‘Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte’, ha detto al Sunday Times che i ricchi come lui dovrebbero contribuire di piu’ per evitare altri tagli da parte del governo. 49 anni, ex illustratore e scrittore per bambini che nel 2003 quasi per caso si e’ trovato in testa alle classifiche dei bestseller, Haddon ha ammesso di essere straricco: ”Le misure di austerity decise da questo governo hanno causato vere sofferenze a molti britannici ma non a me. Il mio alto tenore di vita non e’ stato minimamente intaccato”. ‘Lo strano caso’, la storia di un adolescente con la sindrome di Asperger che una notte trova il cane di una vicina trafitto da un forcone, sta andando in scena in questi giorni al National Theatre di Londra e Brad Pitt ha acquistato i diritti per farne un film con la Warner Bros.

”Perche’ alla gente come me non viene chiesto di fare la sua parte?”, ha detto lo scrittore al Sunday Times spiegando di essere stato ispirato dal miliardario americano Warren Buffett che ha chiesto di pagare piu’ tasse dopo aver scoperto che la sua donna delle pulizie, in proporzione, pagava piu’ tasse di lui. ”Non vedo molta gente che la pensa allo stesso modo. In questo mondo sembrano esserci piu’ Bob Diamonds che Warren Buffett”, ha detto alludendo all’ex Ceo di Barclays, la banca britannica al centro dello scandalo Libor. ”Non e’ solo una questione economica, e’ anche un problema morale”, ha detto lo scrittore: ”Se tutti pagassimo le tasse come si deve non avremmo bisogno di ricorrere all’austerity”.

Questione di etica. E scrittori e politica. La notizia è qui.

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O politico o scrittore

O il politico o lo scrittore. Me lo diceva (e me lo dice ancora) un vecchio democristiano (vecchio nel senso di appartenenza tanto che si inalbera se viene definito “ex”) con mi capita di parlare di politica e di scrittura (maggiori convergenze sulla seconda, a dire la verità).

O il politico o lo scrittore. Era nata una polemica anche su Gianrico Carofiglio che, secondo alcuni, non poteva essere senatore e concorrere al premio Strega. Conflitto di interessi dicevano: nell’Italia dei corrotti, mafiosi, corruttori e monopolisti dell’informazione al Governo, un libro è un pericolo. È normale forse nella rablaisiana illogicità degli ultimi 20 anni.
Mettici poi ogni tanto il gioco purista (e che non ho mai amato) di chi dice che la letteratura è poesia e la politica sempre e comunque infamia. Citano Gramsci sugli indifferenti ma gli scritti in cui Gramsci dice che il buon politico deve essere un buon drammaturgo, quello no, quello lo dimenticano. Anche Roberto Saviano è caduto ogni tanto in qualche osservazione spericolata, ricordo un giorno in cui disse “la politica è ormai una cosa buia”; chissà cosa ne avrebbe pensato il Sindaco di Pollica Angelo Vassallo o La Torre o Placido Rizzotto o appunto Gramsci o perfino Pericle. Dario Fo dice spesso che se si dimostra che tutti sono ladri più nessuno è ladro ed è un “liberi tutti!”.

Però in pochi parlano di questa tentazione (molto internazionale, a dire la verità) dei politici di scrivere libri. Ogni tanto sono libri che nascono come manifesti politici (penso al bel libro delle 10 cose da fare subito di Pippo) ma ogni tanto qualcuno si lancia proprio nel mare aperto della letteratura. Presunta.

Claudio Giunta ha letto l’ultimo libro di Matteo Renzi, il giudizio non è tenero. No.

Stil novo contiene i pensieri di un italiano come tanti, articolati nel modo in cui tanti li articolerebbero, e non ci sarebbe niente di male, in questa media sociologica, se Matteo Renzi non aspirasse a dirigere il maggiore partito italiano e, coll’occasione, l’Italia. Se l’impresa gli riuscirà, si realizzerà questo interessante paradosso: andrà al governo, sotto le insegne di un partito di sinistra, un uomo che – come la tradizione della sinistra vuole – fa della cultura uno dei pilastri del suo programma politico, ma che, per le cose che scrive e per il modo in cui le scrive, non sembra avere alcuna dimestichezza coi libri, né con ciò che i libri insegnano veramente. Ben scavato, vecchia talpa.

Qui la sua idea.

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Intervista per Byoblu: un incidente a sera tarda può capitare a tutti

Una mia intervista per Byoblu.

di Valerio Valentini
“Attore, scrittore, regista e politico italiano, nato a Milano il 26 giugno 1977”. C’è scritto più o meno così sulla prima riga della pagina di Wikipedia dedicata a Giulio Cavalli. Non c’è scritto che vive sotto scorta da 4 anni. Oggi ha particolarmente bisogno di non essere lasciato solo. L’ho intervistato per il blog.

“Possiamo anche non interessarci degli ‘ndranghetisti, ma loro sicuramente si interesseranno di noi”. Più volte ti ho sentito ripetere questa frase: che significato ha avuto nella tua esperienza di uomo e di artista?

Noi dobbiamo riuscire a sgretolare il muro dell’indifferenza. E per farlo credo che l’impegno sia quello di stimolare e allenare il muscolo della curiosità collettiva. Accendere l’acquolina in bocca sul tema mafie e antimafia anche alla “signora Maria” sotto casa, al bar, dal panettiere. Perché gli uomini di ‘ndrangheta conoscono e studiano le mozioni o gli ordini del giorno o i PGT (piano di governo del territorio, ndr) dei piccoli comuni più attentamente degli onesti? Perché utilizzano gli spazi lasciati liberi dalle collusioni, certo, e dall’inettitudine civica. Quindi interessiamoci di loro perché inevitabilmente loro si interessano di noi, per favore. Questo è il richiamo.

Un regista lombardo che denuncia la ‘ndrangheta: all’inizio qualcuno pensava a uno scherzo, dal momento che nella coscienza popolare la mafia calabrese era una faccenda del Sud. Eppure è dal 1979 che la ‘ndrangheta ammazza affiliati ribelli nei ristoranti del milanese come se si trattasse di gangster di Chicago, e nel decennio 1973-1983 furono più di cento i sequestri effettuati dalla criminalità organizzata in Lombardia. Perché, secondo te, c’è voluto tanto per comprendere che la mafia era arrivata anche al nord?

Per una questione politica e culturale. Politicamente, l’atteggiamento degli ultimi anni più in voga era il negazionismo a tutti i costi. La politica lombarda (almeno quella imperante) è vissuta sulla retorica dell’eccellenza in tutti i campi. La Lombardia come punto più alto dell’imprenditoria, della sanità, dell’organizzazione e della sicurezza. Riconoscere il problema delle mafie in fondo costringeva gli amministratori a rivedere dalle fondamenta il proprio “teorema lombardo”. Dal punto di vista culturale la Lombardia è la culla del federalismo. Ma non solo il federalismo bieco e secessionista della Lega quanto più un federalismo delle responsabilità per cui siamo tranquilli se la nostra città è tranquilla o addirittura ci basta che il nostro quartiere sia in sicurezza. Perso quindi il dovere di solidarietà evidentemente si sono create le pieghe culturali per un tranquillo pascolo delle famiglie mafiose. Anzi, negli ultimi vent’anni ci hanno fatto credere che la solidarietà (soprattutto qui in Lombardia) è un vezzo umanitario che non possiamo permetterci, una debolezza che mette a rischio i nostri figli. E così la vera secessione è stato l’egoismo civile.

Dal 2008 vivi sotto scorta: evidentemente un’esperienza molto difficile. Eppure, recentemente, è accaduto qualcosa che ha peggiorato di molto la tua situazione. Vuoi raccontarci cos’è successo?

Ho spiegato tutto nel mio blog. In realtà di minacce me ne arrivano molte e molto spesso personalmente. Ora, però, ci sono dei nomi e dei cognomi dichiarati apertamente in un video. Quindi c’è un reato chiaro: o minacce, o calunnia e procurato allarme. E soprattutto c’è da chiedersi cosa possa spingere un imprenditore a rilasciare un’intervista così disperata e disperante. Mi auguro che le istituzioni diano la risposta.

“Gliela faremo pagare, ma senza fretta. Un anno o dieci anni non è un problema”: più o meno in questo termini è stata formulata la minaccia nei tuoi confronti. Come va interpretata questa micidiale “pazienza” della ‘ndrangheta?

È la frase che più di tutte mi ha colpito e ha colpito alcuni investigatori con cui ho avuto modo di parlare in questo giorni. Se Gasparetto (l’imprenditore che ha lanciato l’allarme, ndr) avesse voluto cercare uno scoop avrebbe potuto favoleggiare di un attentato in pompa magna; invece il non avere fretta (ricordo in una telefonata qualcuno che, parlando di me, disse “un incidente a sera tarda può capitare a tutti”) è nel DNA delle ‘ndrine. Poco rumore. È finita l’era dei gesti eclatanti: conta solo il risultato.

Concretamente, da oggi come cambia (se cambia) la tua vita dopo quest’ulteriore esplicita minaccia?

Credo che i dispositivi della mia sicurezza rientrino in un patto tra me, la mia famiglia e lo Stato. Non amo mai parlarne e sentirne parlare.

Vivendo sulla tua pelle quest’esperienza, ti senti di indicare qualche provvedimento che ritieni opportuno le istituzioni prendano per migliorare le condizioni di collaboratori di giustizia, scrittori e giornalisti minacciati dalla mafia?

Difendere chi si espone è il modo migliore per lo Stato di dimostrarsi credibile. Non sempre ne è stato all’altezza.

In più occasioni hai affermato che il tuo impegno politico (consigliere regionale dal 2010 nelle file dell’IDV, poi passato a Sel) è in qualche modo complementare all’impegno di regista. Ti sei immediatamente impegnato per fondare “Expo No Crime”, l’ente interistituzionale che si occupa di vigilare sul rispetto della legalità in occasione della grande esposizione universale che si svolgerà a Milano. Quale minaccia rappresenta l’Expo 2015 in termini di infiltrazioni mafiose? E quali misure ritieni opportuno applicare per limitarle al massimo?

Hanno scritto un documento importante pochi giorni fa a Milano: il comitato presieduto da Dalla Chiesa direi che ha scritto un “bigino dell’antimafia” che porta soluzioni fattibili e concrete. Poi le leggi bisogna scriverle, usarle e osarle. Al di là delle leggi però la domanda vera è: abbiamo una classe dirigente con lo spessore etico e morale per affrontare la sfida EXPO?

Il tuo coraggio, la tua caparbietà, appaiono eroici. Eppure Giovanni Falcone diceva che non è con l’eroismo degli inermi cittadini che si può sconfiggere la mafia, ma con l’impegno costante delle forze migliori delle istituzioni. Cosa dobbiamo pretendere che faccia lo Stato, per vincere questa battaglia che tu hai deciso di combattere?

Niente eroismi. Ognuno faccia la propria parte. Senza indifferenti. L’articolo 4 della Costituzione: Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Nicola Gratteri, magistrato di Reggio Calabria da vent’anni in prima linea contro la ‘ndrangheta, sostiene che è nella scuola che si può vincere questa battaglia. E tu hai scelto l’arte per combatterla. Fa davvero così paura la cultura ai boss?

Io non credo che si vinca solo con la parola. Ma sicuramente la cultura svolge un ruolo importante: nell’alfabetizzazione della mafia, nell’educazione all’antimafia, nella costruzione di una lettura collettiva del fenomeno. E la scuola è il luogo che ha questo dovere perché, non dimentichiamolo, dovrebbe essere lo Stato ad assumersene l’onere. Non attori e scrittori.

E tutti noi, semplici cittadini troppo spesso abituati – anche noi – a demandare agli altri il compito di essere eroi, cosa possiamo fare?

Convincerci che è una battaglia bellissima. Difendere la propria terra nel senso più intenso della parola, creare una rete solidale che sia un’associazione civica di stampo costituzionale.

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Tiltcamp2012

A Marina di Grosseto ci andavo da bambino. In campeggio. Con lunghe camminate in pineta per mano a mio padre. Era assessore alla cultura e all’istruzione del paesino in cui abitavamo: mi raccontava delle nuove stanze che stavano preparando a scuola e di cosa avrei trovato di nuovo. A settembre. Pensavo a come fosse bello essere lì, a Marina di Grosseto, mentre decidevano le sorprese che avremmo ritrovato. E che io ascoltavo per primo.

La politica quando ero piccolo a Marina di Grosseto mi sembrava una bellissima preoccupazione: occuparsi prima (e in tempo) dell’anno che veniva.

A Marina di Grosseto i ragazzi di Tilt quest’anno preparano il loro Tiltcamp. E si parla di politica, lavoro e delle preoccupazioni per l’anno che viene.

Noi, se volete, ci vediamo il 31 agosto, alle 19. E poi alle 21 con Nichi Vendola.

Il programma, luoghi, orari e modi sono tutti sul sito.

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A proposito di urgenza di programma: la Lombardia

Mentre se ne parla a livello nazionale (anche se, per ora, sapere dice quando e come sembra un’utopia estiva) Andrea su Non Mi Fermo rilancia le primarie anche in Lombardia. Cioè quando e come, appunto.

Magari evitando i pasticci siciliani, se ci si riesce.
O affrontandoli. Perché abbiamo sempre avuto un debole per i momenti in cui bisogna uscire allo scoperto.
E siamo pronti. Noi. E con le idee chiare.