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Questione di stile

Ora festeggiamo, in maniera poco rumorosa, consapevoli delle tante questioni che da domani dovremo affrontare. Lo scrive Marco Doria, il candidato indipendente (appoggiato da SEL come unico partito) che ha vinto a Genova. Ora aspetto senza stile che qualche giovane e meno giovane democratico salga sul carro del vincitore. 1,2,3…

Open data: una casa di vetro per lo Stato

Per darvi una idea: un sistema informativo di un grande Comune – spiega Davide Lipodio, direttore consulenza per la Pa di Engineering – oggi può arrivare a superare le 200 applicazioni e, poiché le competenze sono sostanzialmente le medesime, anche nei Comuni di medie dimensioni si può arrivare a superare con facilità le 100 applicazioni». Su Bologna, per esempio, sono state analizzati 179 programmi. «In queste settimane è in corso l’analisi dei risultati che permetterà di decidere a quali dati dare priorità e quali interventi effettuare per la generazione degli open data. Le prime indicazioni sono confortanti – sottolinea -. Le applicazioni che non gestiscono dati di una qualche utilità per cittadini, imprese e istituzioni si sono rivelate una minoranza». L’esperienza di Engineering con il Comune di Bologna ma anche quelle di soggetti come Spaghetti OpenData stanno dimostrando come estrarre un metallo prezioso ma instabile. «Le pubbliche amministrazioni – osserva Lipodio – rappresentano immensi giacimenti e le applicazioni informatiche che raccolgono, elaborano e trattano i dati pubblici possono essere considerate alla stregua di vere e proprie miniere». La tecnologia c’è, servono solo i minatori. Se ne parla oggi su Il Sole 24 Ore. Servono i minatori e noi (l’avevamo già scritto qui in tempi non sospetti) stiamo provando ad accendere la miccia.

Poveri i diritti

È vero che l’attenzione per i problemi della povertà non era mai scomparsa, anche nella discussione giuridica. Ma si era concentrata piuttosto sulle povertà post-materiali, sulla post-povertà senza aggettivi (quanti sbrigativi “post” hanno distorto l’analisi di fenomeni nuovi!), sulla sottolineatura o sulla critica della poverty law scholarship. Se era giusto mettere in evidenza che le povertà non sono riducibili solo a carenze materiali, i tempi mutati inducevano a scrivere, ad esempio, che «le nuove povertà post-materiali (anziani soli, handicappati, tossicodipendenti, depressi psichici) sono in crescita mentre calano quelle materiali» (R. Spiazzi,Enciclopedia del pensiero sociale cristiano, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1992, p. 602), e quell’elenco si allungava con riferimenti alla solitudine, alla mancanza di relazioni sociali, alla perdita di senso, ai malati di Aids, alle diverse forme di esclusione. Ma oggi quella conclusione non è proponibile, perché sono proprio le povertà materiali ad essere tornate alla ribalta.  I nostri, infatti, sono pure i tempi della vita precaria, della sopravvivenza difficile, del lavoro introvabile, delle rinnovate forme di esclusione legate alla condizione d’immigrato, all’etnia. Sono tornati i “poveri”, un mondo che sembrava scomparso grazie alla diffusione del benessere materiale, o che almeno era confinato in aree sociali ristrettissime. E con essi è tornato, drammatico e ineludibile, il problema di come assicurare la tutela dei loro diritti primari – il lavoro, la salute, la casa, l’istruzione. Con buone ragioni Marco Revelli ha potuto dare a un suo bel libro il titolo Poveri noi (Einaudi, Torino, 2010). Davvero poveri tutti: ovviamente quelli che vivono concretamente la condizione della povertà, ma anche quelli che avvertono non solo il disagio personale, ma l’inaccettabilità sociale di un mondo nel quale, attraverso la povertà, vengono negate la dignità e l’umanità stessa delle persone. E proprio attraverso questo dato di realtà possiamo comprendere meglio il significato profondo delle parole che aprono la nostra Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Quando il lavoro non c’è, quando viene negato o sfigurato, è lo stesso fondamento democratico di una società ad essere messo in pericolo. Stefano Rodotà su povertà dei diritti oltre che dei poveri.

Liberisti sinistrati e smemorati

Ci sarà un motivo se la difesa dei principi costituzionali che sono sulla graticola in questo momento (penso all’articolo 18, all’equità e in generale a questa mania delle liberalizzazione che appaiono l’unica soluzione possibile) è demandata a tutti i comparti sociali, politica esclusa. Capita di ascoltare Don Gallo sull’articolo 18 e ti accorgi che una tesi così fortemente di cuore e cervello erano giornoiche la stavi aspettando, ascolti Oliviero sulla torre del Binario 21 e cogli come (più della laurea) conti il dolore e la perseveranza per resistere interpretando senza remore la Costituzione. Forse sarà un problema di narrazione (se ne parla spesso, figuratevi poi dalle nostre parti) ma la lacuna che punge di più è la latitanza della memoria storica della parte che rappresentiamo. Una sorta di liberismo necessario che sembra avere contagiato anche gli innovatori politici che su questo tema arrossiscono e balbettano qualche “ma anche”. A furia di restare schiacciati nella timidezza di un anacronistico “esproprio finanziario” abbiamo finito per regalarlo e subirlo senza nemmeno un cenno di difesa o, almeno, di comprensione del momento. Perché la politica cambia con un cambiamento culturale, certo, ma la rivoluzione culturale si accende senza timidezze. Ho sempre creduto che gli anni 80 siano la chiave di volta di questo impoverimento che ha lasciato la porta aperta agli imbarbarimenti (vincenti) degli altri e oggi ho incrociato questo articolo. Che, come ogni tanto succede, è uno di quei pezzi che avresti voluto scrivere tu:

Perché la sinistra ha smarrito la lezione della Costituzione

Le debolezze e gli errori che hanno condotto la sinistra, negli anni 80, a cambiare ideologia. L’Unità, 12 febbraio 2012

In Italia la subalternità all’egemonia liberale si è tradotta
in posizioni liberiste in economia e in una cultura istituzionale tutta incentrata su governabilità e legittimazione diretta

I lunghi anni Ottanta, racchiusi tra l’offensiva craxiana per la rottura dei consolidati equilibri partitici del Paese e lo choc del crollo del Muro di Berlino, hanno segnato un punto di svolta per le strategie politiche e per la cultura delle forze che, oggi, compongono il centrosinistra (aprendo una vicenda che ha esibito tratti peculiari, in parte diversi da quelli che hanno caratterizzato altre esperienze europee dei medesimi anni).

È comprensibile che la discussione si sia concentrata soprattutto sulla questione delle strategie, che aveva un’urgenza irresistibile e reclamava decisioni immediate e operative, ma gli effetti più profondi e di più lungo periodo si sono prodotti sul terreno della cultura – o, se si preferisce, della cultura politica – delle forze che furono sottoposte al duplice stress del protagonismo craxiano e della dissoluzione degli equilibri postbellici.

Già il solidarismo cattolico-sociale sembrava cominciare a conoscere, a partire da quegli anni, una fase di ripensamento e pareva subire la spinta ad accreditare più i punti di contatto che quelli di differenziazione rispetto al liberalismo e allo stesso liberismo. Ma era soprattutto nella cultura politica comunista, che pure poteva contare su un grande patrimonio, che giacevano elementi critici che rendevano difficoltoso raccogliere la sfida delle novità: almeno a un livello intermedio, la grande tradizione culturale liberale non sempre era conosciuta appieno e chi la conosceva non sempre vi si confrontava a viso aperto, senza pregiudiziali ideologiche e senza ricorrere all’argumentum ex auctoritate (che voleva che certe tesi fossero sbagliate solo perché non avevano trovato accoglienza in qualche vulgata di facile successo).

Era fatale che questi elementi di debolezza, uniti a un’ingiustificabile spinta all’abbandono del patrimonio posseduto, a torto stimato quasi interamente “vecchio” e inutile per la comprensione del “nuovo” avanzante, generassero una grave subalternità culturale, che per un verso si traduceva nell’acritica accettazione di tutto quanto si era ignorato o avversato, e per l’altro incideva sulle stesse strategie politiche, che, prive di un robusto basamento di convincimenti teorici, subivano oscillazioni, tanto più pericolose quanto più spregiudicata si faceva l’iniziativa politica di molte forze politiche avversarie.

I segni di questa subalternità culturale sono stati e in qualche caso sono ancora evidenti, e basta ricordarne alcuni. Sul piano della cultura istituzionale, ad esempio, si è a lungo dimenticata la complessità strutturale e funzionale delle democrazie rappresentative, concentrando l’attenzione sulla sola questione della governabilità e della legittimazione (pretesamente) diretta degli esecutivi, trascurando la lezione impartita dalla stessa Costituzione, nella quale era stato disegnato un complesso meccanismo di produzione della decisione pubblica, che doveva muovere dai cittadini (titolari di diritti qualificabili come frammenti di vera sovranità), passare attraverso i partiti (intesi come strumenti di partecipazione e di emancipazione democratica), delinearsi nelle assemblee rappresentative (come luogo del confronto, non solo dello scontro), definirsi compiutamente in sede di governo.

Il distorto bipolarismo italiano non è frutto soltanto del caso o delle scelte del centrodestra, ma anche di un’ideologia maggioritaria che della tradizione politica liberale sembra conoscere Schumpeter, ma non Locke o Tocqueville.

Né le cose vanno diversamente sul piano della cultura economica. Anche qui sembra che si sia abbracciato Hayek senza passare per Smith o Ricardo o, men che meno, Keynes. Anche qui la lezione della Costituzione appare dimenticata. Il suo articolo 41 garantisce, certo, la libertà dell’iniziativa economica privata, ma allo stesso tempo ne subordina l’esercizio al rispetto dell’utilità sociale, della sicurezza, della libertà e della dignità umana. Quali sono, nelle posizioni dell’attuale centrosinistra, i segni che si ritiene prioritario impegnarsi per definire cosa sia oggi, in questo momento storico, l’utilità sociale? Quali i segni che non ci si accontenta di farla coincidere con il risultato della competizione retta dai meccanismi della libera concorrenza? Eppure già i classici dell’economia politica sapevano che l’interesse generale non è la sommatoria di quelli individuali e nemmeno il risultato automatico del loro libero confronto. L’utilità sociale dovrebbe essere definita politicamente, ma chi ne è ancora consapevole?

Le parole hanno spesso una grande forza evocativa e quando si parla di concorrenza “libera” o di “liberalizzazioni” si ha l’impressione che un giogo sia stato rimosso, che l’arroganza del potere sia stata battuta. Ma non è sempre così.

Certe scelte economiche e normative implicano significative conseguenze sociali, che andrebbero considerate. Acquistare una maglietta a qualsiasi ora del giorno e della notte, certo, è una bella comodità. Ed è anche un bel vantaggio pagarla meno del solito, se si può comprarla in un grande esercizio commerciale che ha forti economie di scala. Ma tutto questo ha un costo. In termini di alterazione degli stili di vita, di deterioramento dei processi di socializzazione, di lacerazione della trama del tessuto produttivo, di riduzione delle reali opportunità di scelta, di incisione nelle garanzie effettive e concrete (quelle che contano davvero) dei lavoratori.

La retorica della sovranità dei consumatori è penetrata a fondo nella cultura del centrosinistra e ha fatto grandi guasti. Quella del consumatore è per definizione una figura apolitica o tutt’al più prepolitica. È al cittadino, al soggetto politico, che spetta la sovranità.

Anche questo è un insegnamento della Costituzione. E le forze politiche che, giustamente, continuano a difenderla hanno un dovere di coerenza, perché la Costituzione non è solo una bandiera da agitare per evitare il peggio o per evocare le ragioni unificanti della comunità politica, ma è anche e soprattutto un grande progetto di trasformazione sociale, di emancipazione della persona umana, di conciliazione delle ragioni della libertà con quelle dell’eguaglianza.

Credo che di questo si debba tornare a discutere.

L’ingrediente per lo sviluppo economico: l’umanità

Massimo Gramellini nel suo editoriale di oggi lo dice senza mezzi termini e, finalmente, alza la discussione. Perché in mezzo alle battute dei ministri, ai sorrisi compiaciuti di qualche berluscones non ancora estinto e di alcuni democratici con un’irrefrenabile strabismo liberista ci siamo dimenticati delle fragilità e delle solitudini. E mentre si gioca (come scrive bene Alessandro Gilioli) a fare i liberisti con il culo degli altri vogliono farci credere che la solidarietà è una debolezza e i deboli un costo non sostenibile e fastidioso. Adesso vuoi vedere che il “restiamo umani” di Vittorio Arrigoni non è solo questione di razze e territorio ma un grido d’allarme più alto e vasto? Perché il gioco dei duri che ce l’hanno duro l’abbiamo inventato noi in Lombardia qualche decennio fa riuscendo a costruire classi sempre più distanti, incazzate tra loro e difficilmente dialoganti, e la strategia del “divide et impera” conviene sempre a chi impera. Gli altri rimangono lacerati, più che divisi.

Desiderava fare qualcosa che non lasciasse possibilità di ritorno. Desiderava distruggere brutalmente tutto il passato dei suoi ultimi sette anni. Era la vertigine. L’ottenebrante, irresistibile desiderio di cadere. La vertigine potremmo anche chiamarla ebbrezza della debolezza. Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa. Ci si ubriaca della propria debolezza, si vuole essere ancor più deboli, si vuole cadere in mezzo alla strada, davanti a tutti, si vuole stare in basso, ancora più in basso. (Milan Kundera)

Formigoni e l’articolo 18: ecco il testo

Voleva fare il Presidente del Consiglio da grande, il Celeste Roberto Fromigoni ventennale Governatore di Regione Lombardia. Ma nonostante le camicie adolescenziali la sua strada si è fermata ai troppi arresti dei suoi amici più cari, al San Raffaele affondato nei bilanci e nella credibilità morale, alla pazienza troppe volte persa negli ultimi tempi. Ora, visto che non potrà fare il grande salto, si accontenta di provare ad imitare gli spigoli peggiori del Governo Nazionale: la sua ultima PROPOSTA DI PROGETTO DI LEGGE “MISURE PER LA CRESCITA, LO SVILUPPO E L’OCCUPAZIONE” è il manifesto del sistema lombardo. Quello che privatizza chiamandola liberalità. E siccome ne sentirete parlare spesso nei prossimi giorni (già se ne parla qui o qui) e poiché tutti esprimeranno opinioni secondo le proprie convinzioni ma conoscere per deliberare è indispensabile, ecco il testo scaricabile della proposta in questione. Discutiamone insieme.

ASSOSEMPIONE recensisce il libro NOMI COGNOMI E INFAMI


Milano – “A Milano la mafia non c’è” Affermava negli anni ’80, al colmo nella Milano da bere (forse aveva bevuto troppo) il sindaco Paolo Pillitteri. Con giuliva cadenza sino a pochi mesi fa anche Letizia Moratti (la mamma del Batman meneghino) scandiva che la mafia “Non appartiene a questa città”, probabilmente non consapevole del fatto che era la città ad appartenere alla mafia.
Nel frattempo con bavosa tracotanza il leghista Maroni dopo avere saturato tutti i mezzi di informazione possibili, imponeva a Saviano, reo di avere detto che esiste la mafia in Lombardia e fa di tutto per “relazionarsi” con chi governa, un suo elenco di “cose fatte”.
“Che la ‘Ndrangheta stesse colonizzando Milano, lo dicevo negli anni ’80. L’ho confermato due anni fa e i fatti mi hanno dato ragione. Ora c’è l’Expo e non so più come dirlo”. Parole di Enzo Macrì, sostituo procuratore nazionale antimafia. Giulio Cavalli di questo e molto altro scrive nel libro, con prefazione di Carlo Caselli, “Nomi , cognomi e infami” (Edizioni Ambiente, pagg. 244, € 16). Giulio Cavalli, con i suoi spettacoli teatrali, documenta da anni con tagliente ironia, la presenza della mafia nella città della Borsa; per questo da oltre due anni vive sotto scorta.
Due distinti capitoli spiegano come nei suoi confronti si sia manifestata una sincera e cosciente solidarietà nelle regioni del sud, al contrario inesistente in Lombardia, sua regione d’origine.
Per non dimenticare l’autore fa riemergere dalla memoria il ricordo di uomini uccisi dalle mafie, come Don Diana, bruno Caccia, Giuseppe Fava e molti altri.
Gli spazi lasciati all’immaginazione sono minimi e quando ci sono sfiorano la poesia, altresì Giulio Cavalli documenta tutto: nomi, luoghi, testimonianze, fatti, come l’elezione del boss Pino Neri a Paderno Dugnano sancita in un centro intitolato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
E’ scrittura palpitante quella di Giulio Cavalli, di rabbia e speranza, di ironia e sentimento, di umanità e perseveranza, sino a fargli affermare che “ridere di mafia è una ribellione incontrollabile”.
Mauro Bianchini
L’articolo qui.

“La mafia in Lombardia è figlia dell’indifferenza”


Giulio Cavalli ha parlato della criminalità organizzata al nord in una serata organizzata da Anpi, Arci, Legambiente e Libera (da VARESENEWS)

«In Lombardia la mafia veste l’abito del salotto buono. Non lascia i morti ammazzati sui marciapiedi ma si dirama attraverso la corruzione e il riciclaggio. E questi, credetemi, non sono reati minori». Per Giulio Cavalli conoscenza e consapevolezza sono la prima arma contro la criminalità organizzata. Un’arma non da poco, «che le mafie temono perché hanno paura delle persone che studiano, della cultura della conoscenza». L’attore e politico è stato ospite ieri sera del comune di Cantello, per un incontro promosso da Anpi, Arci, Legambiente e Libera. Intervistato dal vicedirettore di VareseNews, Michele Mancino, ha raccontato come è cambiato il volto delle mafie nel nostro paese, come è in realtà poco cinematografico quello dei boss e cosa negli anni ha permesso alla malavita di arrivare a stendere le mani anche sulla nostra regione.

«Se dovessimo descrivere oggi la Lombardia a uno straniero dovremmo parlare anche dei suoi “problemini”: partiamo dagli arresti dei politici regionali. Formigoni ha preso la distanze dai consiglieri Nicoli Cristiani e Ponzoni parlando di “responsabilità personale” ma la verità è che abbiamo assistito all’ennesima tipica vicenda lombarda. Quello che è accaduto è tipico perché sono state candidate persone inopportune nonostante si sapesse che erano in contatto da anni con esponenti della criminalità. In questo comportamento si nota tutta la carenza della politica regionale e di quella nazionale che considerano inopportuno solo chi è dichiarato colpevole al terzo grado di giudizio. Forse qualche domanda avrebbero dovuto farsela prima… Poi abbiamo la vicenda dei rifiuti nascosti sotto il manto della Brebemi, perché ci sono, i nuovi processi contro le cosche insediate nei comuni strategici di provincia o ancora i dati che ci dicono che 9 appalti su 10 non rispondono ai requisiti della normativa antimafia. Insomma il quadro è preoccupante».

Chi ha amministrato la nostra regione fino adesso, sostiene Cavalli, si è “dimenticato” di mettere in guardia i cittadini sui pericoli del cambiamento in corso: «Siamo passati dal dire “Al Nord non esiste la mafia” a “Siamo in una situazione di emergenza”, senza passare dalla fase in cui forse si poteva fare qualcosa. La Lombardia su questo tema è passata da regione indifferente a regione ignorante. Un’ignoranza figlia di quell’indifferenza e di mancanza di sensibilità. Dobbiamo chiederci come persone che non rivestono nemmeno cariche politiche siano in grado di influenzare se non addirittura prendere le decisioni degli assessori. Più la mafia si rafforza ed entra in contatto con la politica più la democrazia ne esce sconfitta». Cosa possono fare allora i cittadini? «Prima di tutto restare aggiornati, leggere, informarsi. E poi chiedere conto. In regione le persone si possono ancora scegliere, chiediamo i risultati a chi abbiamo votato».

9/02/2012
m.c.c.mariacarla.cebrelli@varesenews.it

Il pizzo nel DNA

La relazione della Direzione Investigativa Antimafia parla chiaro: “Il ricorso all’usura, unitamente alle pratiche estorsive, è da ritenersi un vero e proprio sistema tipico ed irrinunciabile, utilizzato da tutti i sodalizi per il controllo delittuoso del territorio e strumentale all’applicazione del potere mafioso dell’intimidazione. […] L’imposizione del cosiddetto “pizzo” rimane, dunque, una pratica diffusa, anche per via di una subcultura che valuta, in modo assolutamente acquiescente, la “convenienza a pagare”, rispetto alla minaccia paventata. Di conseguenza, il racket trova quasi quotidianamente nuova linfa, imponendosi come manifestazione radicata nel territorio e costituendo, per le organizzazioni mafiose, una pratica assolutamente remunerativa per l’ingente accumulazione finanziaria connessa”. L’analisi della Rete Antimafia della Provincia di Brescia (sempre attenta e precisa) non lascia dubbi. Come si evince da queste parole il pizzo resta ad oggi una pratica molto diffusa nel mondo criminale, assolutamente pericolosa in quanto in grado non solo di incrementare notevolmente il patrimonio economico dei malavitosi, ma anche di permettere un capillare controllo del territorio. Il fenomeno del racket è da sempre visto come una piaga lontana, un elemento tipico del sud, dove la mafia spadroneggia senza troppo disturbo. I dati dicono:anche in Lombardia.