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Mafia nella Fiera di Milano: arrivano le prime condanne

(lo spiega bene Luca Fazzo)

Non è una bella giornata per l’immagine di Milano. Cosa c’è di più milanese della Fiera? Ebbene, ieri mattina un giudice certifica con sentenza che l’onda lunga della mafia era arrivata fino a ridosso dell’ente-simbolo della città, quello della vecchia Campionaria. Un imprenditore siciliano viene condannato per associazione a delinquere finalizzata all’autoriciclaggio e all’appropriazione indebita: l’aspetto avvilente è che tutti gli affari di questo signore ruotavano intorno ai padiglioni della Fiera, dove rastrellava appalti e si muoveva con fare da padrone; e la sentenza dice che i suoi reati erano aggravati dalla «finalità mafiosa»: non agiva solo per arricchire se stesso, ma per finanziare i clan criminali siciliani, arrivando – passaggio dopo passaggio, tra le «famiglie» di Pietraperzia e gli Accardo di Partanna – fino all’entourage del latitante numero uno di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro.

L’imprenditore siciliano si chiama Giuseppe Nastasi e ieri si vede infliggere dal giudice Alessandra Del Corvo otto anni e dieci mesi di carcere. Il suo braccio operativo era la Dominus, un consorzio di cooperative dietro le quali – schermati da una pletora di prestanome – c’erano sempre lui, Nastasi, e suo padre Calogero (che ieri viene condannato a tre anni e otto mesi). Le indagini del Gico, i super-investigatori della Guardia di finanza, hanno accertato come appalti per diciotto milioni – compresi alcuni lavori sul sito di Expo 2015 – fossero stati assegnati alla galassia dei Nastasi da Nolostand, la società controllata dalla Fiera che per questo è stata commissariata dal tribunale. Lui, Nastasi, arrestato a luglio dello scorso anno, ha negato tutto, e anzi si è tolto la soddisfazione di rivelare un giro di mazzette all’interno di Fiera Milano su cui ora la Procura ha aperto un nuovo fascicolo. Questo però non gli ha risparmiato la pesante condanna di ieri. Insieme a lui e al padre, il giudice ha condannato a pene minori altre sette imputati.

È l’inchiesta che ha travolto l’attuale board della Fiera, spingendo l’intero consiglio di amministrazione a dimettersi. Non ci sono (per quanto se ne sa) personaggi di vertice dell’ente sotto inchiesta, ma le carte del Gico raccontano della disarmante facilità con cui Nastasi (indagato oggi anche per associazione mafiosa in un filone trasmesso a Caltanissetta) poteva interloquire con i massimi esponenti di Fiera, incontrando insieme al suo socio Liborio Pace persino l’allora amministratore delegato E. P. Gli incontri allarmarono il capo della security, Domenico Pomi, ex ufficiale dell’Arma, che denunciò come «in quella sede venissero imposti dai due ai vertici aziendali la natura dei servizi e dei prodotti offerti». Insomma, gli anticorpi contro la penetrazione criminale in Fiera fallirono clamorosamente.

Di fronte a una simile prova di vulnerabilità, la Procura della Repubblica aveva chiesto che l’intera Fiera venisse commissariata: sarebbe stata una prospettiva umiliante, persino la prima edizione milanese del Salone del Libro si sarebbe svolta il prossimo aprile in un ente guidato da un amministratore nominato dal Tribunale. Almeno questa onta verrà risparmiata alla Fiera, perché la richiesta della Procura è stata respinta. Ma la sentenza di ieri, che ritiene provata la «mafiosità» delle infiltrazioni negli appalti dell’ente, è destinata comunque a pesare.

Il consiglio dimissionario resterà in carica fino all’approvazione del bilancio, poi si dovrà andare al rinnovo. Ma oltre agli uomini il pool antimafia della Procura si aspetta che siano cambiate le procedure, togliendo peso a quella lottizzazione politica che nei documenti dei pm Paolo Storari e Sara Ombra viene indicata come la causa principale della facilità con cui gli appetiti dei clan hanno potuto saziarsi a spese della Fiera.

È lo svantaggio sociale la malattia di questa epoca (lo dicono i medici)

A togliere preziosi anni di vita e salute non sono solo i noti fattori di rischio e comportamenti scorretti contro cui spesso si scagliano istituzioni e sistemi sanitari (il fumo, associato a una perdita media di 4,8 anni a persona, il diabete a 3,9 e la sedentarietà a 2,4 anni); infatti, ci sono anche 2,1 anni in media a persona (1,5 per le donne e 2,6 per gli uomini) persi a causa di condizioni sociali svantaggiate come un basso profilo professionale, un reddito inadeguato e uno scarso livello di istruzione.

Secondo un maxi studio mondiale pubblicato su Lancet, si tratta di dati importanti perché per la prima volta si evidenzia che lo svantaggio socioeconomico pesa sulla salute in modo comparabile a quei fattori di rischio da sempre additati come Big killer, come appunto obesità e fumo.
Eppure poco o nulla fanno le istituzioni per debellare lo svantaggio sociale che è padre sia di cattivi comportamenti, sia di mancanza di strumenti (economici e culturali) di prevenzione e cura delle malattie, denunciano gli autori del lavoro svolto nell’ambito del progetto Lifepath finanziato dalla commissione europea. Lifepath per la prima volta ha messo a confronto il fardello su salute e aspettativa di vita delle popolazioni dovuto a condizioni sociali svantaggiate con quello di stili di vita e comportamenti scorretti. Inoltre, Lifepath, spiega il coordinatore Paolo Vineis dell’Imperial College Londra, consentirà di scoprire attraverso quali meccanismi biologici (ad esempio malfunzionamenti del sistema immunitario) uno status socioeconomico basso logora la salute. Lo studio si è basato sull’analisi di dati relativi a a 48 gruppi di individui di Gran Bretagna, Italia, Portogallo, Stati Uniti, Australia, Svizzera e Francia, per un totale di più di 1,7 milioni di partecipanti, il cui livello socioeconomico è stato misurato con scale ad hoc. La salute del campione è stata monitorata per parecchi anni e si è potuto stimare il numero di anni mediamente persi per cattive condizioni socioeconomiche.

“Abbiamo scoperto che vivere in condizioni sociali ed economiche svantaggiate può costare caro quanto altri potenti fattori di rischio come fumo, obesità e ipertensione”, afferma la coordinatrice dello studio Silvia Stringhini del Policlinico Universitario di Losanna. Politiche mirate al miglioramento delle condizioni socioeconomiche degli individui, spiega, potrebbero salvare molte vite.
Quindi, intervenire su fattori “a monte”, come il lavoro o l’istruzione, può avere una maggiore efficacia in termini di miglioramento della salute, rispetto a interventi “a valle”, focalizzati su singoli fattori di rischio come l’assistenza a chi vuol smettere di fumare o raccomandazioni e campagne per la sana alimentazione. Questi ultimi restano importanti, ma tendono a favorire nuovamente le fasce sociali più alte, che possono accedervi più facilmente e che hanno meno difficoltà nel correggere eventuali abitudini poco salutari.

(Fonte)

A Ostia la mafia s’è fatta Municipio

(L’articolo di Fulvio Fiano, per Corriere Roma)

L’ufficio tecnico del municipio di Ostia era il covo della illecita gestione degli appalti pubblici in un tutt’uno con la malavita organizzata. A poco più di due anni dagli arresti che hanno scoperchiato il verminaio arriva il «segnaposto»della sentenza di primo grado a localizzare le stanze di lungomare Toscanelli in una ipotetica mappa della criminalità sul litorale.

Il processo si è concluso con sette condanne e fornisce significativi argomenti al commissariamento del X municipio. Una necessità ribadita due giorni fa dal prefetto Domenico Vulpiani nella sua audizione in commissione antimafia: «Ci sono 200 ricorsi l’anno sugli atti del municipio. Dal 2007 risultano non pagati dai concessionari di beni publici circa 2,5 milioni di euro. Il commercio è calato perché è tornata la legalità». E sottolineata dalla presidente Rosy Bindi: «Mai commissariamento a Ostia è stato più utile e doveroso», anche in risposta alla manifestazione di pochi giorni fa che ha chiesto «il ritorno della politica».

La sentenza è importante perché per la prima volta a un funzionario pubblico dell’amministrazione locale, Aldo Papalini, viene riconosciuta l’aggravante del metodo mafioso per reati commessi in prima persona. Da brand esclusivo dei clan, la mafiosità diventa così un fattore intrinseco alla pubblica amministrazione. E il risarcimento danni, da definire, disposto in favore di Comune, Regione ed associazioni antimafia, restituisce il senso dei danni fatti alla comunità nella quale l’organizzazione faceva da padrona.

E i giudici dell’ottava sezione penale, pur decidendo per pene inferiori alle richieste sostenute anche dall’altro pm della Dda, Ilaria Calò, hanno di fatto riconosciuto questa impostazione. Condannato a 5 anni e 8 mesi Armando Spada, esponente dell’omonimo clan alleato dei Fasciani, che per conto di Papalini «convinceva» gli imprenditori riluttanti a piegarsi. Condannato anche Cosimo Appeso (5,5 anni di reclusione), luogotenente della Marina Militare Italiana e presidente della Proloco Ostium 2020. E poi Ferdinando Colloca, fratello dell’ex consigliere municipale pdl, Salvatore, e a sua volta candidato con CasaPound, Damiano Facioni, amministratore della BluDream, e Matilde Magni, moglie di Appeso, tutti a tre anni e quattro mesi. Infine l’imprenditore Angelo Salzano (otto mesi con sospensione della pena), l’unico a non avere l’aggravante di mafia.

Le imputazioni, fotografate in due anni di indagini (2011-2013) dalla Mobile, i carabinieri di Ostia e Capitaneria di porto, vanno dall’abuso d’ufficio alla turbativa d’asta, dal falso ideologico e concussione, alla corruzione.Ventisei in totale gli indagati ritenuti a vario titolo funzionali al sistema con cui Papalini smistava ad imprese amiche gli appalti del municipio. Dalla (fasulla) bonifica del canale dei Pescatori alle concessioni balneari, dalla manutenzione stradale alla recinzione della spiaggia di Castelporziano.

‘Ndrangheta in Val d’Aosta: occhi puntati sui Nirta

La Direzione distrettuale antimafia di Torino sta indagando su infiltrazioni della ’ndrangheta in Valle d’Aosta. Indagini che sono concentrate sulla famiglia Nirta, già in passato oggetto di provvedimenti giudiziari. La notizia – citata nell’ordinanza di custodia cautelare nei confronti del pm Pasquale Longarini e del commerciante Gerardo Cuomo – è stata confermata da fonti investigative ed è coperta dal più stretto riserbo.

Tra i personaggi controllati dalla Dda c’era lo stesso Cuomo, titolare del Caseificio valdostano e definito «soggetto di interesse investigativo»nell’ordinanza, il quale «in occasione di plurimi servizi di osservazione era stato visto incontrare presso la sua azienda Giuseppe Nirta, pluripregiudicato, tra l’altro per reati in materia di stupefacenti, “dominus” effettivo della ditta spagnola Flos Florum sl, con la quale il caseificio valdostano aveva intrapreso rapporti commerciali».

(fonte)

I divorziati non possono essere padrini in un battesimo. I mafiosi (il figlio di Riina) sì.

Le vacanze di Natale di Giuseppe Salvatore Riina detto Salvo non sono passate inosservate. Il figlio del capo di Cosa nostra, condannato anche lui per associazione mafiosa, è tornato in Sicilia con un permesso del tribunale e con un “certificato di idoneità” firmato da un parroco di Padova. Idoneità a fare il padrino di battesimo di una nipotina. Evidentemente, il giovane Riina avrà dato prova di essere un buon cattolico praticante, tanto da far dimenticare i suoi trascorsi di mafia. Fra il 2000 e il 2002 tentava di riorganizzare una cosca: “Io vengo dalla scuola di Corleone” diceva mentre tentava di gestire alcuni appalti, e ai suoi fedelissimi raccontava la stagione delle stragi Falcone e Borsellino decisa dal padre: “Totuccio si fumò a tutti, li scannò”. Salvo Riina è stato scarcerato nel 2011, e da allora ha il divieto di tornare a Corleone, per la procura distrettuale antimafia di Palermo non ha mai interrotto i suoi rapporti con il clan.

Ma, d’incanto, un parroco di Padova gli ha rilasciato un lasciapassare per l’altare e un altro sacerdote di Corleone, don Vincenzo Pizzitola, ha spalancato le porte della Chiesa madre al novello padrino (di battesimo). Così, il pomeriggio del 29 dicembre, la famiglia Riina ha indossato il vestito della festa per la cerimonia. Una messa come tante, ma a Corleone non è passata inosservata. E il tam tam è arrivato fino al vescovo di Monreale, monsignor Michele Pennisi, che sui temi della mafia è una delle voci più autorevoli di tutta la Chiesa siciliana. La notizia non gli è davvero piaciuta. Oggi, dice: “Né io, né gli uffici della Curia eravamo informati. Consentire al figlio di Riina di fare il padrino di battesimo è stata una scelta censurabile e quanto meno inopportuna, che io non approvo”.

In questi giorni il vescovo è in Tanzania, per inaugurare una scuola realizzata con il contributo della diocesi di Monreale. È amareggiato per i fatti di Corleone. “Il parroco si è giustificato dicendo che il figlio di Riina aveva presentato un certificato di idoneità firmato da un parroco della diocesi di Padova, e che aveva il permesso del giudice per venire in Sicilia. Ma io non cambio idea su quanto accaduto”. Il vescovo ricorda che il padrino “deve essere il garante della fede, deve dare testimonianza con le sue azioni. E non mi risulta che il giovane abbia mai espresso parole di ravvedimento per la sua condotta”.

In questi mesi, il rampollo di casa di Riina (il fratello Giovanni sconta l’ergastolo) è impegnato nella promozione del suo libro: è stato anche a “Porta a Porta” per presentare “Riina familiy life”, naturalmente neanche una parola sul trascorso da boss e sulla stagione del terrore e delle complicità del padre rinchiuso al 41 bis. Ora, su Facebook, Salvo Riina lancia anche una campagna per le vittime del terremoto: “A grande richiesta – scrive – l’asta di una copia del mio libro, dedicata e autografata”. Il vescovo Pennisi annuncia una visita pastorale a Corleone: “C’è bisogno di parole chiare sulla mafia, certi episodi non sono più tollerabili”.

La diocesi di Padova precisa che il figlio di Riina “ha ricevuto la cresima lo scorso dicembre dopo un lungo percorso di preparazione condotto in riservatezza. Al termine di questo ho ricevuto un certificato di cresima come da prassi. Su quanto è successo poi nella diocesi di Monreale – dice una nota della Curia – stiamo verificando e daremo comunicazione a tempo debito”. Ma il caso ha sollevato polemiche. La sorella di Giovanni Falcone, Maria, non usa mezzi termini: “A prescindere che si chiami o meno Riina, il padrino di battesimo secondo la Chiesa viene scelto perchè dà una sorta di indirizzo morale al figlioccio. Non credo che un condannato per mafia, anche se è uscito dal carcere, possa avere quei principi morali che consentano di dare a un ragazzo il giusto indirizzo per fare delle scelte edificanti nella propria vita”.

(fonte)

Intanto le mafie si prendono il Friuli

In Friuli Venezia Giulia, lavorano e danno da lavorare da decenni, facendo affari nei settori dell’industria, del commercio e della ristoriazione, conquistando nicchie di mercato e contribuendo a fare girare l’economia generale.

Peccato che i soldi immessi attraverso le loro attività e quelli guadagnati con quegli stessi investimenti arrivino da e tornino in ambienti malavitosi: quelli della criminalità organizzata da cui provengono e che fa capo a Cosa nostra, ’ndrangheta e Camorra. Mafiosi che nell’estremo Nord-Est d’Italia hanno trovato un’ottima occasione di riciclaggio.

L’ultima realazione del ministero dell’Interno sull’attività svolta dalla Direzione investigativa antimafia nel primo semestre 2016 rappresenta una fotografia eloquente degli appetiti che la nostra regione continua a stimolare. Proprio come rilevato l’altro giorno, a Trieste, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, e come documentato dalle cronache giornalistiche in occasione di ogni operazione investigativa.

Confische nel Pordenonese

«L’ingerenza di Cosa nostra nelle attività produttive del Nord-Est ha trovato un’importante evidenza anche in Friuli Venezia Giulia», si legge nella relazione. E la prima metà dell’anno scorso offre almeno quattro conferme di rilievo. Il 3 febbraio, a Pordenone e Aviano vengono confiscati beni riconducibili all’imprenditore edile palermitano Francesco Pecora, deceduto nel 2011, a 72 anni, e ai suoi eredi, per quasi due milioni di euro.

In cima all’elenco, l’Edilizia Friulana Nord srl. La misura è disposta dal tribunale di Palermo, nell’ambito di un’inchiesta che ha ne chiarito la contiguità con personaggi di spicco, tra cui Antonino Rotolo, e che lo ha indicato come l’interfaccia tra la mafia e l’imprenditoria legale: l’uomo, insomma, incaricato di gestirne i capitali illeciti anche fuori dalla Sicilia.

I Graziano a Udine

Il 19 maggio i riflettori si spostano su Udine. Per il capoluogo friulano è l’ennesimo campanello d’allarme rispetto alla presenza, radicata da anni, della famiglia Graziano.

Questa volta, nel mirino degli investigatori ci sono Domenico, pure deceduto nel 2013, a 76 anni, e suo figlio Camillo, 48 anni, entrambi con casa a Tavagnacco e «imprenditori edili mafiosi»: la Guardia di finanza sequestra beni per un valore complessivo di circa 7 milioni di euro, tra Palermo e l’hinterland udinese, dove gestiscono tra l’altro la Nord Costruzioni srl.

Nel 2010, analogo provvedimento aveva travolto il boss Vincenzo – fratello minore di Domenico -, vicino ai Madonia e ai Galatolo, condannato già due volte per associazione a delinquere di stampo mafioso e tutt’ora in carcere con l’ulteriore accusa di avere fatto parte del commando che avrebbe dovuto eliminare il pm Nino Di Matteo.

Il boss dei Brancaccio

Ed è sempre a Udine che si era trasferito Giovanni Arduino, 54 anni, palermitano organico alla famiglia Brancaccio. Il 9 maggio, colpito da ordine di carcerazione emesso dalla Corte d’appello del capoluogo siciliano tre giorni prima, decide di costituirsi ai carabinieri: dovrà scontare tre anni di reclusione per trasferimento fraudolento di valori, aggravato dal metodo mafioso.

«Sebbene non immediatamente riconducibile a un contesto di tipo mafioso – osserva la relazione –, si registra un certo attivismo di criminali di origine siciliana, inseriti in associazioni per delinquere autoctone dedite ai reati di tipo predatorio o inerenti agli stupefacenti».

L’alleanza con i Casamonica

Non meno affollato il versante calabrese. La mappatura tracciata e costantemente monitorata dal personale della Dia di Trieste segnala «la presenza di elementi organici alla ’ndrangheta innanzitutto con riferimento a ditte operanti nel settore edile, estrattivo, del trasporto conto terzi e dell’industria meccanica».

È in quest’ottica di «silente contaminazione del sistema produttivo regionale» che va letta l’operazione della Polizia che, l’11 maggio, era culminata nel sequestro della Serrmac Sas di Budoia. L’impresa, già sottoposta a procedura fallimentare, risulta di proprietà di un gruppo criminale comprendente esponenti della camorra, della ’ndrangheta e dei Casamonica.

La ’ndrina e le pizzerie

Per non dire di tutto quello che precede e che è seguito al primo semestre 2016. Merito soprattutto del nuovo impulso impresso all’attività investigativa dal procuratore capo della Direzione distrettuale antimafia di Trieste, Carlo Mastelloni, dal suo insediamento, nel 2014.

Basti pensare all’iscrizione sul registro degli indagati, per associazione a delinquere di stampo mafioso, di Giuseppe Iona, 51 anni, originario di Belvedere di Spinello e residente a Monfalcone, ritenuto capo di una ’ndrina che, dal 2007, avrebbe controllato un traffico di droga e armi.

E alla non meno complessa inchiesta per presunto riciclaggio che ha investito la catena delle pizzerie Peperino e che la collegherebbe alla Camorra. Dell’altro giorno, infine, il blitz del Ros nei negozi Celio e Jenniyfer del centro commerciale Bennet di Pradamano, di proprietà di una società riconducibile ai Piromalli di Gioia Tauro.

(fonte: Il Messaggero Veneto)

«I diritti si possono perdere. Non sono per sempre.»

“I diritti si possono perdere. Non sono per sempre. Guardate l’America in questo momento, sta discutendo sui diritti della pace, la difesa dell’ambiente, l’aborto. Dopo aver faticato tanto per cambiare le cose arriva uno, votato – ma non e’ detto che il mondo porti avanti il migliore – e i diritti possono essere revocati. Bisogna difenderli. Il mondo cambia ma in tanti modi. Va avanti, poi torna indietro”.

Dacia Maraini, qui.

Il dibattito sui beni confiscati alle mafie (senza peli sulla lingua)

Lo apre Francesco Forgione con un pezzo che vuole essere anche un provocazione proponendo la lettura di dati tutt’altro che confortanti:

“Si tratta di un’immensa ricchezza spesso abbandonata a se stessa: milioni assorbiti dal Fondo unico per la giustizia senza alcuna ricaduta sull’uso e la destinazione dei beni; comuni strangolati dal patto di stabilità impossibilitati a sostenere qualsiasi progetto di riutilizzo o di promozione sociale; istituzioni prima servili verso i mafiosi e di colpo solerti nell’ostacolare le attività economiche sottratte alle mafie; le banche controparti ostruzionistiche delle amministrazioni giudiziarie.”

[…]

“Eppure la redistribuzione della ricchezza accumulata illegalmente è il solo banco di prova per dimostrare la convenienza della legalità. Soprattutto per la gestione delle aziende, con l’affermarsi di un lavoro pulito e redditizio anche in attività nate in un circuito economico-finanziario condizionato dal riciclaggio di capitali mafiosi.
E’ questa la sfida da vincere senza ideologismi e fondamentalismi, ponendo anche fine al tabù della vendita dei beni senza il timore che gli appelli di Saviano e Camilleri blocchino ogni discussione. Pena, il subire l’onta infamante di voler riconsegnare i beni ai mafiosi.
Ci sono beni inutilizzabili. Perché non rivenderli? Ci sono immobili fatiscenti e antieconomici per qualunque progetto di recupero; che farne? E che fare di centinaia  di auto, camion, barche di lusso? Ci sono aziende rette su base famigliare, ma appena la “famiglia” viene esclusa dalla gestione (tutta in nero e alimentata da soldi riciclati) non possono sopportare i “costi” legali dei contratti di lavoro e delle forniture esterne al circuito di distribuzione precedente. Si tratta di decine di negozi, ristoranti, alberghi, piccole aziende.
Bisogna essere onesti intellettualmente e discuterne. Lo devono fare anche le associazioni che su questi temi hanno rapporti privilegiati con prefetture e Agenzia. Il silenzio è solo ipocrisia, oppure serve al mantenimento di posizioni lobbistiche funzionali ad orientare progetti, destinazione e assegnazione dei beni.”

E forse varrebbe la pena aprirlo, questo dibattito.

‘Ndrangheta, colpo ai Cerra-Torcasio-Gualtieri di Lamezia: i fatti e i nomi

Maxi-blitz dei carabinieri in Calabria e in diverse località italiane. Smantellate tre piazze di spaccio gestite direttamente dai clan lametini. Gli indagati sono oltre 70

Erano tre le piazza di spaccio direttamente gestite dal clan di Lamezia Cerra-Torcasio-Gualtieri e per la quale sono state arrestate 47 persone (­24 in carcere e 23 ai domiciliari) questa mattina dai militari del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Catanzaro unitamente a quelli della Compagnia di Lamezia Terme. La prima nel centro cittadino in località Trempa, la seconda in località Capizzaglie e la terza a Ciampa di cavallo. Le sostanze stupefacenti raggiungevano la città della piana seguendo i canali della Puglia e dell’Albania per l’approvvigionamento della marjuana mentre dalla costa ionica reggina proveniva la cocaina e l’eroina. L’ordinanza di custodia cautelare è stata emessa dal Gip del Tribunale di Catanzaro Carlo Saverio Ferraro su richiesta dei sostituti procuratori Elio Romano e Fabiana Rapino. I 47 indagati sono ritenuti affiliati alla cosca ‘ndranghetista Cerra – Torcasio – Gualtieri attiva nella piana di Lamezia e ritenuti responsabili di associazione finalizzata al traffico illecito di stupefacenti con l’aggravante delle finalità mafiose. Complessivamente sono oltre 70 gli indagati.

“Dionisio”. L’operazione è stata convenzionalmente denominata dai carabinieri “Dionisio” ed è un costola di due precedenti inchieste “Chimera 1” e “Chimera 2”, con la quale si era appurata l’esistenza della cosca Cerra-Torcasio-Gualtieri. Il procuratore della Repubblica, Nicola Gratteri nel corso della conferenza stampa ha chiarito come si tratta di un’indagine completa sotto il profilo probatorio. “Ho apprezzato la maniacalità con la quale i carabinieri hanno costruito in maniera sistematica rendendo granitiche le prove”. “Siamo davanti ad una cosca pericolosa – ha aggiunto il procuratore aggiunto Giovanni Bombardieri – perché l’indagine prende avvio dalle dichiarazioni di un testimone di giustizia tossicodipendente, minacciato da soggetti che dovevano recuperare somme di denaro”. Ulteriori riscontri sono arrivati anche da alcuni collaboratori di giustizia, consentendo di completare “uno spaccato importante, perché dal territorio sono stati tirati fuori soggetti che costituivano pericolo costante per la sicurezza dell’area”.

Nomi. Le persone coinvolte nell’operazione sono accusate di associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di stupefacenti, con l’aggravante delle finalità mafiose. Tra di loro ci sono anche il capo storico Nino Cerra, 69 anni, il nipote omonimo, Nino Cerra, 26 anniPasquale Torcasio, 48 anni, oltre ad esponenti di spicco del clan Gualtieri. Nel blitz è coinvolto anche Sebastiano Strangio, 31 anni, elemento di spicco dei clan del Reggino.

In carcere. I 24 provvedimenti di custodia cautelare in carcere riguardano: Nino Cerra, 69 anni; Vincenzo Torcasio, 37 anni; Pasquale Torcasio, 38; Pasquale Torcasio, 37; Antonio Gualtieri, Cesare Gualtieri, 39; Pasquale Carnovale; Cesare Gualtieri, 48; Nicola Gualtieri, 25; Sebastiano Strangio; Danilo Torcasio; Francesco Tropea; Luca Torcasio; Giuseppe Gullo; Peppino Festante; Ivan Matti Altadonna; Silvia Mascaro; Teresa Estino; Antonio Torcasio; Maria Pia Renda; Roberto De Fazio; Salvatore Fiorino; Pasquale Gullo; Gaetano Larosa.

Ai domiciliari. In 23 sono invece finiti agli arresti domiciliari. Si tratta di Giuseppe Dattilo; Stefano Frangipane; Concetto Pasquale Franceschi; Franco Franceschi; Antonio Franceschi; Antonio Salatino; Pasquale Salatino; Antonio De Fazio; Aurelio Scalise; Lorenzo Cosentino; Vincenzo Ammendola; Francesco Genchi; Eljon Hoxhaj; Carmela Profeta; Angela Patruno; Maurizio De Fazio; Pasquale Tedesco; Giovanni Pujia; Antonio Grande; Angela Gatto; Luciano Torcasio; Antonio Gatto; Danilo Fiumara.

L’ELENCO COMPLETO DEI 77 INDAGATI

1) CERRA Nino, inteso “il vecchio” e -Zu’ Nino” di Lamezia Terme (detenuto)
2) CERRA Nino, classe 1991, di Lamezia Terme (detenuto)
3) TORCASIO Pasquale, classe 1969 di Lamezia Terme (detenuto)
4) TORCASIO Vincenzo, cl 1980, di Lamezia Terme (detenuto)
5) TORCASIO Domenico, inteso “U’ Mongolo”, “Mico e Micariellu” di Lamezia Terme (detenuto);
6) TORCASIO Alessandro, classe ’86 di Lamezia Terme (detenuto);
7) TORCASIO Pasquale, inteso “Carra’” e “Cicciobello”, di Lamezia Terme (detenuto)
8) GUALTIERI Emilio Francesco, alias “cinque lire”, “U’ russu”, di Lamezia Terme (detenuto)
9) GUALTIERI Federico, inteso “U’ Zuppariellu” di Lamezia Terme (detenuto)
10) GUALTIERI Antonio, classe ’79 di Lamezia Terme (detenuto)
11) GUALTIERI Francesco, clsse ’74, di Lamezia Terme (detenuto);
12) GUALTIERI Nicola, inteso “Nicolino”, di Lamezia Terme
13) ARIOSTA Stefano, di Lamezia Terme
14) GUALTIERI Cesarino, inteso “Ibiza Verde” di Lamezia Terme
15) RAINIERI Giuseppe, di Lamezia Terme (detenuto);
16) RAINIERI Ottorino, di Lamezia Terme (detenuto);
17) MURACA Gennaro, di Lamezia Terme (detenuto)
18) CIMINO Luciano, di Lamezia Terme (detenuto)
19) VILLELLA Antonio, inteso “Crozza, di Lamezia Terme (detenuto);
20) CARNOVALE Pasquale, di Lamezia Terme (detenuto);
21) PAONE Paolo, di Lamezia Terme (detenuto);
22) PARADISO Angelo Francesco inteso “Ciccia e Ciccuzzu” di Lamezia Terme (detenuto);
23) PARADISO Antonio, alias “Zu Toto di Lamezia Terme (detenuto);
24) CRAPELLA Massimo, di Lamezia Terme (detenuto);
25) GUALTIERI Cesare, alias “U’ Bruitu”, Pazzu -, di Lamezia Terme (detenuto);
26) GUALTIERI Nicola, inteso Bomboletto, di Lamezia Terme (detenuto);
27) GUALTIERI Cesare, classe 1978, di Lamezia Terme (detenuto)
28) FESTANTE Peppino, di Lamezia Terme (detenuto)
29) RENDA Maria Pia, di Lamezia Terme
30) DE FAZIO Roberto, inteso “lo svizzero”, di Lamezia Terme;
31) BONADIO Pasquale, di Platania;
32) STRANGIO Sebastiano, di Bovalino
33) TORCASIO Danilo, inteso “u’ culiellaro”, di Lamezia Terme (detenuto)
34) TORCASIO Luca, inteso cultellaro”, di Lamezia Terme;
35) MASCARO Silvia, di Lamezia Terme;
36) TORCASIO Antonio, di Lamezia Terme;
37) ESTINO Teresa, di Lamezia Terme;
38) TROPEA Francesco, di Lamezia Terme (detenuto);
39) MERCURI Antonello, di Lamezia Terme;
40) BUBBA Massimo, di Maida;
41) MATTI ALTADONNA Ivan, di Lamezia Terme;
42) GULLO Pasquale, di Lamezia Terme (detenuto);
43) GULLO Giuseppe, inteso “Pino” o “Pinuzzo” di Lamezia Terme (ai domiciliari);
44) GULLO Antonio, di Lamezia Terme.
45) FRANCESCHI Rosario, di Lamezia Terme (attualmente ai domiciliari);
46) FRANCESCHI Concetto Pasquale, di Lamezia Terme;
47) FRANCESCHI Franco, alias “lo sfregiato”, di Lamezia Terme;
48) FRANCESCHI Antonio,di Lamezia Terme;
49) DATTILO Giuseppe, alias “Cabrini”, di Lamezia Terme;
50) FIORINO Salvatore, alias “U’ Maruzzaru” di Lamezia Terme (ai domiciliari)
51) FRANGIONE Stefano, di Lamezia Terme;
52) CRISTIANO Pasquale, inteso “chiattilla”, di Lamezia Terme;
53) GRILLO Vincenzo, di Lamezia Terme;
54) FIUMARA Danilo, di Lamezia Terme;
55) TORCASIO Saverio, classe 75, di Lamezia Terme;
56) GRANDE Antonio, di Lamezia Terme;
57) TORCASIO Ugo, di Lamezia Terme
58) BARRESI Vincenzo, di Lamezia Terme;
59) CALIGIURI Pasquale, di Lamezia Terme;
60) SALATINO Antonio, di Lamezia Terme;
61) SALATINO Pasquale, di Lamezia Terme;
62) DE FAZIO Antonio, di Lamezia Terme;
63) SCALISE Aurelio, di Pianopoli;
64) COSENTINO Lorenzo, di Feroleto Antico
65) AMMENDOLA Vincenzo, di Lamezia Terme;
66) GENCHI Francesco, di Paolo del Colle;
67. HOXHAJ Eljon, (albanese);
68) PROFETA Carmela, di Bari;
69) PATRUNO Angela, di Bari;
70) DE FAZIO Maurizio, di San Pietro a Maida;
71) TEDESCO Pasquale, di San Pietro a Maida
72) PUJIA Giovanni, di Lamezia Terme;
73) LAROSA Gaetano, di Lamezia Terme (detenuto);
74) GATTO Angela, di Lamezia Terme
75) TORCASIO Luciano, di Lamezia Terme;
76) GATTO Antonio, di Lamezia Terme
77) CALIDONNA Roberto, di Lamezia Terme (detenuto).

(fonte)