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Il lato oscuro del giornalismo (di Fabrizio Feo)

(di Fabrizio Feo, da Liberainformazione)

“Solo contro una ciurma di miserabili, solo perché tutti gli altri colleghi del suo territorio- tranne una, Giada Drocker, corrispondente dell’Agenzia Italia – sembrano non preoccuparsi più di tanto dell’incubo che sta vivendo uno che ha il vizio di scrivere”.
Lo ha scritto senza giri di parole su Repubblica Attilio Bolzoni parlando  della vicenda di Paolo Borrometi cronista siciliano, sotto scorta dopo avere subito minacce e aggressioni. Parlando del processo al capo cosca che ha preso di mira Paolo Borrometi, si legge: “…Nell’Italia dei 30 giornalisti sotto scorta, delle tremila minacce ricevute e dei 30mila atti intimidatori subiti dal 2006 da chi fa cronaca, il processo contro lo ” zio Titta” alla sua seconda udienza ha segnato nuovamente la diserzione in massa dei cronisti locali nonostante la costituzione di parte civile degli Ordini regionali e nazionali dei giornalisti e della Federazione nazionale della Stampa”.
È proprio questo il punto: la prima barriera difensiva di chi fa il cronista, in quelle periferie del Paese che sono frontiere – e ormai non più solo li – è la solidarietà attiva dei colleghi degli altri giornalisti. Innanzitutto quella dei colleghi del luogo. Solidarietà che si può manifestare, se si vuol farlo concretamente, in un unico modo: condividendo l’impegno di chi è minacciato. Impegnandosi nel racconto dei fatti scomodi, nella denuncia. Purtroppo però sono infiniti gli interrogativi su cosa vogliano dire oggi per molti di noi giornalisti parole come impegno, solidarietà, colleganza. E c’è da chiedersi perfino se, per molti noi, quelle parole abbiano – come dovrebbero – un senso.
E poi, su un altro versante, altrettanti interrogativi incombono su quale sia il senso, la misura di parole come deontologia, etica, regole, indipendenza, impermeabilità a condizionamenti di ogni genere. Tanto più se i condizionamenti vengono da ambienti contigui alle organizzazioni criminali o direttamente da esse. Non sono domande astratte.
Accade ad esempio una cosa strana: molti giornalisti ed organi di informazione – locali e non – pare non si siano accorti  di  quanto sia grave il contenuto  di  tre dei provvedimenti cautelari richiesti o emessi dalla Procura Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria tra maggio e luglio scorsi.
Libera Informazione ne aveva già parlato in agosto. Eppure su questa vicenda negli ultimi sei mesi è sceso un silenzio pressoché totale. È come se la categoria, e i suoi organismi, colleghi di solito sempre attenti al contenuto degli atti della magistratura inquirente, fosse precipitata improvvisamente in una sorta di cecità o di amnesia collettiva.
Ecco il punto: si tratta dei numerosi riferimenti al ruolo svolto da alcuni giornalisti incrociati da polizia e carabinieri e Guardia di Finanza nel corso delle indagini sull’ex parlamentare Paolo Romeo e l’avvocato Giorgio de Stefano esponente di una storica famiglia di ndrangheta, nonché su molti politici, funzionari pubblici e affaristi, collegati alla “Mamma santissima”, la cosiddetta “Super cupola” della mafia calabrese.
Alcuni giornalisti, stando a quei documenti, sarebbero stati avvicinati per scrivere a favore o contro di questo o di quello. E ad avvicinarli sarebbe stato Paolo Romeo. Non uno sconosciuto, ma un ex parlamentare condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, protagonista in più di un’occasione di vicende non limpide e noto per i suoi stretti rapporti con figure di vertice di potenti famiglie della ‘ndrangheta, già prima delle inchieste divenute di pubblico dominio tra maggio e luglio scorsi.
I giornalisti, scrivono i magistrati di Reggio, sarebbero finiti negli atti d’indagine non solo perché erano direttamente in contatto con Paolo Romeo, “più volte a diposizione del Romeo, per le campagne di stampa che lo stesso organizzava”, perché da lui utilizzati per “diretti servigi“, ma anche per la “capacità d’influenzare ed orientare l’operato di altri inconsapevoli giornalisti, in funzione delle sue strategie. Per una “azione di infiltrazione” nel mondo giornalistico.
Parole pesanti.
E chi avrebbe dovuto almeno chiedersi perché non ha aperto bocca. Ma come? Tutti pronti a parlare di legalità, in astratto, e poi quando c’è da pretendere quanto meno chiarezza…muti. E silenziosi invece non si può rimanere: oltretutto i primi ad essere colpiti da una vicenda del genere sono i tanti giornalisti coraggiosi che in Calabria non si sono piegati e rischiano  grosso ogni giorno.
Una vicenda, quella di Reggio, che sorprende, ma fino ad un certo punto. Non è la prima volta che accade una cosa del genere.
Un esempio. Nove anni fa la procura di Catanzaro dispose numerosi arresti nei confronti dei presunti appartenenti ad un gruppo criminale accusato di aver trasformato il porto di Amantea in una cosa propria. Dagli atti di quella inchiesta (ordinanza di custodia cautelare “Nepetia”) emerse che il personaggio di vertice del gruppo criminale, Tommaso Gentile, condannato per reati di stampo mafioso, aveva incontrato, proprio nel porto, un giornalista. Il giornalista aveva fatto un accurato racconto su alcune vicende che gli stavano a cuore al boss, che a sua volta aveva fatto al giornalista confidenze sul suo rapporto con un politico locale. Tutto intercettato.
In un’altra occasione ancora – spiegavano i magistrati di Catanzaro – Gentile aveva contattato il medesimo giornalista per accertarsi che non venissero scritti articoli a proposito di un attentato. Anche qui tutto intercettato.
Ebbene non risulta che le circostanze abbastanza anomale – per usare un eufemismo – contenute nell’ordinanza di custodia cautelare Nepetia abbiano fatto saltare sulla sedia. Quanti ne erano all’oscuro e quanti voltati dall’altra parte?
Per non parlare dell’informazione on line locale: in Calabria ci sono testate che, ogni giorno, fanno il proprio dovere, e anche di più, con pochissimi mezzi e tantissimo coraggio. Ma ce ne sono anche altre che, per dirne una, attaccano con violenza il lavoro di chi osa occuparsi di vicende illecite, di interessi dei loro padroni palesi od occulti.
C’è chi ha perso la rotta, c’è anche chi non l’ha mai avuta, ma anche chi non fa nulla per sanzionare condotte che violano le regole e infangano un’intera categoria. E non accade solo in Calabria.
Nessuno si aspettava o si aspetta processi, tanto meno giudizi sommari. Del resto non si sa nemmeno se la magistratura abbia approfondito o intenda approfondire le  circostanze di cui abbiamo parlato.

A proposito della bufala della post-verità

Conviene leggersi Massimo Mantellini che scrive:

Improvvisamente la politica si è accorta del potere dirompente delle bugie.
E questo – accidenti – è un buon punto di partenza. Ovviamente le bugie che la interessano sono in genere quelle degli altri e questo rende il dibattito in corso da qualche tempo piuttosto curioso.

Così quando leggerete “post-verità” – parola oggi di gran moda – qualcuno semplicemente vi sta dicendo che voi, infine, avete scelto di rinnegare le cose davvero importanti: avete smesso di occuparvi della verità.

Nella grande maggioranza dei casi i giudici delle vostre cattive abitudini saranno gli stessi proprietari delle verità che voi state rifiutando: gente che, in pratica, sta venendo a chiedervi il conto. Per questo la politica parla tanto volentieri di post-verità. Perché quello che le si materializza davanti agli occhi è prima di tutto il proprio fallimento nell’essere creduti.

(il suo post è qui)

Intanto i rapporti tra Egitto e Italia si normalizzano. Alla faccia di Giulio Regeni. E l’Eni gode.

Al-Masry Al-Youm, quotidiano egiziano, ha pubblicato il 25 dicembre scorso la notizia, appresa da fonti della Farnesina, che Giampaolo Cantini, nominato da Matteo Renzi a maggio scorso ambasciatore d’Italia in Egitto, arriverà a gennaio al Cairo prendendo il posto lasciato vacante, dall’aprile scorso, dall’ambasciatore Maurizio Massari, assegnato a Bruxelles. Rapporti in distensione, come ha fatto capire il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni durante la conferenza stampa di fine anno che ha spiegato che la linea del governo in questi mesi è stata improntata “alla fermezza e alla richiesta di collaborazione verso le autorità egiziane” e “dopo i depistaggi iniziali, abbiamo visto una collaborazione molto utile“.

Progressi sul piano politico ma anche in quello economico. L’Eni infatti ha annunciato di aver firmato due nuovi accordi di concessione per i blocchi offshore di North El Hammad e North Ras El Esh, situati nelle acque convenzionali dell’offshore egiziano del Mediterraneo, che la società si era aggiudicati nell’ambito del Bid Round Internazionale competitivo Egas 2015. Eni, informa una nota, è operatore del blocco North El Hammad con la quota del 37,5% in compartecipazione con Bp, con il 37,5%, e Total, con il 25%. Il blocco, che ricopre un’area di 1.927 Km quadrati, è situato a ovest delle aree di sviluppo di Abu Madi West e Baltim-Baltim Sud, dove recentemente Eni ha effettuato le importanti scoperte di Nooros, in produzione da agosto 2015 e Baltim South West. Eni possiede anche una quota del 50% nel blocco North Ras El Esh in compartecipazione paritetica con Bp, operatore. Il blocco è ubicato a sud-ovest delle aree di sviluppo di Temsah e Port Fouad. Queste nuove assegnazioni, che seguono quelle recenti del blocco onshore Southwest Meleiha, nel deserto occidentale, e Shorouk, Karawan e North Leil, situati nelle acque profonde dell’offshore egiziano del Mediterraneo, consolidano ulteriormente il portafoglio titoli e la posizione di Eni in Egitto, paese di importanza storica e strategica per la società, e confermano la determinazione nel perseguire l’attività esplorativa del paese, dopo le importantissime scoperte di Nooros, Zohr and Baltim South West, effettuate nel 2015 e nel 2016.

(fonte)

Populismo, una definizione scientifica.

Diego Ceccobelli, ricercatore in Comunicazione Politica presso la Scuola Normale Superiore, definisce il populismo in un pezzo per Valigia Blu:

A prescindere da questa galassia di definizioni, gli scienziati politici sono abbastanza concordi nel considerare quella proposta dallo scienziato politico olandese Cas Mudde come “la” definizione di populismo. In ambito accademico, pertanto, con il termine populismo si intende:

Una ideologia dal cuore sottile, la quale considera la società essenzialmente divisa in due gruppi omogenei, le persone oneste [pure] contro le elite corrotte e che ritiene che la politica debba essere un’espressione della volonté générale (volontà generale) del popolo.

Questo vuol dire che né la presenza (o meno di) personalizzazione, popolarizzazione (ossia politica pop) o demagogia hanno alcuna relazione sostanziale con il concetto di populismo.

Nel dibattito scientifico, populiste sono unicamente quelle forze politiche che sviluppano un programma e messaggi nei quali il popolo, visto come una unità unica e indivisibile (rifiutando quindi il concetto di pluralismo) e portatore di valori positivi, viene opposto alle élite (politiche, economiche, finanziare, etc.) considerate come corrotte (contrapponendosi quindi al concetto di elitismo, ossia l’opposto di populismo).

(continua qui)

Le risposte che mancano su MPS. Spiegate bene.

(il pezzo di Massimo Giannini)

Abbiamo messo in sicurezza il risparmio”. Anche Paolo Gentiloni ricalca le orme di Matteo Renzi. Anche il nuovo premier, dopo aver varato il decreto salva-Mps, tira un sospiro di sollievo, come fece il vecchio premier il 22 novembre 2015, dopo aver varato il decreto salva-Etruria. Sollievo malriposto. Allora come oggi. Il salvataggio della banca più antica del mondo avrà costi enormi, ancora incalcolabili.

I 20 MILIARDI stanziati sono nuovi debiti pubblici.

Dall’anno prossimo peseranno sulle tasche di tutti i contribuenti. È giusto sacrificarsi per Siena. Ma a patto che si faccia luce sull’infinita catena di errori commessi in questi anni (magari proprio con quella famosa commissione d’inchiesta che Renzi lanciò a sproposito il 23 dicembre 2015). E a patto che si fissi almeno un punto fermo: chi ha sbagliato, una volta tanto, tolga il disturbo. A pagare il conto finale non può essere sempre e solo Pantalone. Pantalone siamo noi. Vorremmo almeno sapere, con qualche domanda, chi dobbiamo “ringraziare”.

IL TESORO.
In una lunga intervista al Sole 24 Ore, il ministro Padoan ripercorre a modo suo il calvario di Mps. Nulla c’è ancora di chiaro, sulle modalità con le quali saranno “coperti” gli obbligazionisti della banca, e quali saranno, anche in questo caso, i sommersi e i salvati. Per il resto, il ministro dice: “Non sono affatto pentito di aver sostenuto, nel rispetto del ruolo di tutti, l’operazione di mercato”. Ma non era forse già chiaro a luglio che la “strada privata” avrebbe portato a un vicolo cieco? Si può considerare il licenziamento di un amministratore delegato come Fabrizio Viola, deciso con una telefonata fatta “per conto” dell’allora premier Renzi il 7 settembre, una mossa “nel rispetto del ruolo di tutti”? O qui non c’è forse una clamorosa invasione di campo della politica, che invece di salvare la banca quando le condizioni lo consentivano si è avventurata in un’improbabile “operazione di mercato”? Padoan aggiunge: do il “pieno sostegno all’attuale management della banca”, compreso l’ad Marco Morelli. Considerato che in questi anni Mps ha bruciato 17 miliardi di patrimonio, non è il momento di attuare anche in Italia il metodo Obama, che nel 2009 varò il “Tarp”, un piano di intervento dello Stato nelle banche da 700 miliardi di dollari, che aveva come condizione l’azzeramento totale di tutti i vertici e la nomina di manager pro tempore scelti dallo Stato? Padoan si lamenta perché “nel nostro Paese non sono sanzionate abbastanza le responsabilità di singoli manager che hanno prodotto danni rilevanti a investitori, azionisti, risparmiatori”. Giusto, ma allora perché non presenta una legge che introduce e inasprisce queste sanzioni? Lui è il governo: ha l’obbligo politico e morale di parlare e di agire come il ministro del Tesoro, non come un cittadino qualunque.

LA BCE.
La Banca centrale europea ha avuto un ruolo cruciale, fa il suo mestiere. Ma il suo “accanimento terapeutico” nei confronti di Siena merita qualche chiarimento. Dopo gli stress test del 23 giugno, la Vigilanza europea guidata dalla francese Danièle Nouy impone la ricapitalizzazione da 5 miliardi entro il 31 dicembre. In base a quale criterio, solo 4 giorni fa, la Bce chiede per lettera al Monte di aumentare la ricapitalizzazione a 8,8 miliardi? Cosa è cambiato, in questo frattempo? E in base a quale principio Francoforte impone a Mps la stessa copertura patrimoniale (il Cet1, fissato all’8%) che nel 2015 applicò alle banche greche, mentre nelle stesse ore riduce dal 10,7 al 9,5% l’analogo parametro richiesto alla Deutsche Bank (la banca europea con il portafoglio più “zavorrato” dal peso dei titoli tossici)? Mario Draghi, giustamente, ha fatto della cosiddetta “accountability” la sua religione. Ma la necessità di “rendere conto” del proprio operato, a Francoforte, deve valere per tutti.

LA BANCA D’ITALIA.
Via Nazionale ha avuto un ruolo importante. Non tanto per quello che ha fatto, quanto per quello che non ha fatto. Sul fronte “esterno”: il governatore Visco siede nel board di Francoforte, e l’italiano Ignazio Angeloni siede in quello della Vigilanza europea. Perché sono mancate comunicazioni puntuali tra l’Eurotower e Palazzo Koch? Sul fronte interno: la direttiva sul bail in (che scarica i costi dei fallimenti bancari su azionisti, obbligazionisti e correntisti oltre i 100 mila euro) viene approvata dalla Ue nel 2014, e in Italia viene introdotta per la prima volta un anno dopo con il “decreto di risoluzione” su Banca Etruria, Marche, Cariferrara e Carichieti. Perché Bankitalia (che solo in seguito si dichiarerà contraria a quelle norme, applicate in modo retroattivo su tutti i risparmiatori) non fa una campagna per sensibilizzare l’opinione pubblica e convincere i governi a modificarla? E poi, più in particolare sull’affare Mps: perché il governatore ripete dal gennaio 2013 che la banca “non ha problemi di tenuta “, mentre nei due anni successivi Viola è costretto a chiedere aumenti di capitali per ben 8 miliardi? Perché in estate non si oppone alla cacciata dello stesso Viola, decisa da Renzi il 6 luglio dopo una colazione di lavoro a Palazzo Chigi con il presidente di Jp Morgan, Jamie Dimon? Perché in autunno non si oppone al rinvio dell’aumento da 5 miliardi, che Renzi decide di spostare a dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre, per evitare di dover mettere la faccia su un sicuro fallimento? Queste risposte sarebbero necessarie. Al contrario di quello che avviene per le ispezioni (sulle quali pure ci sarebbero tante domande da fare) non si viola nessun segreto d’ufficio.

LA CONSOB. 
La commissione che vigila sulle società e la Borsa non può chiamarsi fuori dalle responsabilità. Stendiamo un velo pietoso sui derivati Alexandria e Santorini, che cinque anni fa nessuno vide e nessuno bloccò. Anche negli ultimi mesi su Mps sono accadute anomalie che una Vigilanza seria avrebbe potuto e dovuto intercettare. Almeno due delle emissioni obbligazionarie a rischio (“Lower Tier 2”, a scadenza 2020) risultano vendute ai clienti al dettaglio della banca durante la gestione di Giuseppe Vegas. Se questo è vero, perché la Consob non le ha valutate e non le ha bloccate? E se invece non è vero, perché non smentisce e non chiarisce esattamente chi e quando ha autorizzato che cosa?

I VERTICI MPS.
Il “groviglio armonioso”, a Siena, ha radici antiche. L’inizio della fine, com’è noto, comincia con Giuseppe Mussari, che compra Antonveneta dal Santander per oltre 9 miliardi, la cifra folle che fa esplodere i conti. Questa ormai è storia. La cronaca di questi ultimi mesi presenta zone d’ombra non meno inquietanti. Da settembre, dopo la famigerata “telefonata di licenziamento” di Padoan, ai vertici Mps siede Marco Morelli, già dirigente della banca ai tempi di Mussari. Insieme a Jp Morgan e Mediobanca (finora curiosamente rimasta “al riparo” da critiche) è proprio Morelli a farsi garante della cosiddetta operazione “di mercato”, cioe del reperimento dei 5 miliardi di capitali privati. Ed è proprio Morelli a ventilare fino all’ultimo la possibilità che grandi fondi esteri intervengano nella ricapitalizzazione, nel ruolo di “anchor investor”, convincendo il Tesoro a rinviare fino all’ultimo un intervento pubblico su Mps che si poteva e si doveva fare almeno sei mesi fa.

Dunque: quando e con chi ha parlato Morelli, tra i rappresentanti del fondo sovrano del Qatar? Quali sono stati i suoi interlocutori nel fondo gestito da George Soros? E quali offerte concrete aveva in mano, quando il 7 dicembre il cda della banca ha chiesto alla Bce una proroga al 20 gennaio 2017, per il closing dell’operazione? È il minimo che si possa chiedere a un manager che ha un compenso fisso di 1,4 milioni, superiore a quello del suo pari grado di Bnp Paribas. Per gestire la peggiore delle grandi banche europee, guadagna più di quello che guida la migliore. Come direbbero un Longanesi o un Flaiano: ah, les italiens…

Giulio Regeni, tutte le bugie di Mohamed Abdallah

(B. Maarad per l’Espresso)

Il suo nome è stato presente fin dall’inizio. Mohamed Abdallah ha sempre fatto parte del caso Regeni. E’ stato uno dei primi testimoni a farsi avanti. Ha fornito però versioni contrastanti. Cambiavano in base all’andamento delle indagini. Dalla sua totale estraneità al suo pieno coinvolgimento. E oggi Mohamed Abdallah, il capo del sindacato autonomo degli ambulanti, continua a nascondere la verità.

Il nome di Abdallah spunta la prima volta in una dettagliata ricostruzione del caso fatta dal quotidiano Almasry Alyoum il 26 febbraio, un mese dopo la sparizione di Giulio. Il sindacalista si è presentato alla redazione del giornale a raccontare la sua versione dei fatti accompagnato da un collega. “L’ho incontrato più di dieci volte”, ha raccontato. “Sono andato con lui al mercato di Ahmed Hilmy, dove abbiamo incontrato alcuni ambulanti, e poi l’ho accompagnato a New Cairo dove ne abbiamo conosciuti altri”.

In questa versione Abdallah dice di aver visto Giulio Regeni più di dieci volte, nelle future diventeranno solo sei. Ma non è questo il punto debole di questa prima testimonianza. Mentre infatti il suo collega, Rabie Yamani, esprime la sua vicinanza a Regeni, mostrando anche un sms con cui avevano concordato un appuntamento per il 17 gennaio che poi Giulio avrebbe annullato, Adallah si tiene distante. “Prima che ripartisse per le vacanze di Natale mi aveva proposto di partecipare a un bando promosso da una fondazione inglese. Da quel momento non mi sono più sentito tranquillo e ho quindi cominciato ad allontanarmi da lui”.

In realtà, già nel servizio pubblicato da Almasry, veniva citata la testimonianza dell’amico di Giulio, Amrou Asaad, che riferiva il tutto in modo completamente diverso: “Prima di partire, Giulio aveva proposto agli ambulanti di partecipare a questo bando per una somma di circa 10mila sterline. Dopo il suo ritorno però ha ignorato l’argomento perché, mi ha spiegato, era rimasto deluso da uno dei responsabili del sindacato che ne voleva approfittare”. Non è tutto. Abdallah, nonostante avesse espresso questa sua sensazione negativa, ha assicurato ai cronisti di non essersi rivolto alla polizia: “Non sono una spia. Anche se dovessimo trovare un cadavere, ci gireremmo dall’altra parte”. E’ un modo egiziano per dire “ci facciamo i fatti nostri”.

Ha voluto però andare oltre, forse nel tentativo di distogliere l’attenzione: “Giulio parlava e scherzava con tutti. Magari qualcun altro ha avuto la mia sensazione. La metà degli ambulanti sono informatori della polizia”. La prima smentita è già nelle righe successive. Ci pensano gli agenti di polizia che controllano il mercato dove Abdallah ha detto di essersi recato con Giulio più volte: “Impossible, se fosse venuto qua l’avremmo visto. Inoltre abbiamo le telecamere che registrano tutto, non lo possiamo nascondere”. Abdallah ha mentito più volte già nella sua prima dichiarazione. E’ emblematico il commento pubblicato da un lettore: “Ho la sensazione che quello che si fa chiamare Mohamed Abdallah abbia qualche collegamento diretto con l’omicidio di Regeni. Il movente c’è sicuramente. Nessuno può indagare meglio con questa persona?”.

Le indagini vanno avanti (o comunque si finge) senza considerare il ruolo di Abdallah. C’è maggiore impegno a inscenare lo scontro a fuoco con la banda di quelli che sarebbero poi stati indicati come i responsabili del sequestro del ricercatore italiano. Il tentativo di depistaggio fallisce il 24 marzo. Una settimana dopo, l’8 aprile, fallisce anche il primo vertice a Roma tra gli inquirenti italiani e quelli egiziani.

Il nostro Governo decide di richiamare l’ambasciatore italiano al Cairo. I rapporti diplomatici si fanno sempre più deboli. Un mese dopo torna alla ribalta il nome di Abdallah. La prima settimana di maggio la procura italiana riceve infatti i tabulati della chiamate di cinque utenze, tra queste quella del sindacalista. Anche in questo caso lui si dice completamente estraneo ai fatti. “Non so nulla riguardo alle intercettazioni, non so nemmeno se sia legale il fatto che l’Egitto le abbia consegnate all’Italia”.

La prima vera svolta arriva con il vertice in Italia del 9 settembre. Emergono due aspetti fondamentali: la polizia egiziana aveva indagato Giulio e, soprattutto, lo aveva fatto a seguito di un esposto del 7 gennaio firmato da Mohamed Abdallah. Da tenere presente le tempistiche, Regeni ha lasciato il Cairo il 20 dicembre, con la proposta del bando, e ci è tornato il 2 gennaio, con la bocciatura del finanziamento da 10mila sterline. Cinque giorni dopo scatta la denuncia. In ogni caso, Abdallah smentisce categoricamente. L’11 settembre giura sulle pagine di ‘Shorouk e Tahrir’ di “non aver firmato alcun esposto o fatto telefonate o inviato messaggi”.

Dice però di più: “Mi sono pentito di non averlo fatto, perché la ricerca di Giulio non era sugli ambulanti ma sul loro rapporto con la polizia”. E si dice addirittura “disponibile a sacrificarsi per il bene del Paese”. Insomma “se la procura ha deciso che io ho fatto quell’esposto, mi prendo la responsabilità. Non voglio che sia incolpata la polizia per un omicidio che non ha commesso. Sono pronto a essere una vittima per l’Egitto se questo servirà a chiudere il caso e a ristabilire i rapporti con l’Italia”.

Qualche giorno dopo, in nuove versioni, Mohamed Abdallah conferma di aver denunciato Regeni per “amor di patria”. O magari semplicemente ha dato il via al suo sacrificio. Il tutto viene confermato nelle dichiarazioni rilasciate all’ Huffington post arabo martedì sera.

V come voucher: ecco i numeri (ragionati)

Un lavoro enorme di Davide Serafin per Possibile. Una risposta a chi dice che per valutare i voucher bisogna aspettare i numeri. Come scrive Davide (qui):

I numeri, alcuni, importanti, ci sono già. Non serve aspettare. Avete qualche dubbio, cari ministri? L’INPS ha già fatto un importante lavoro di raccolta e analisi dei dati. Li abbiamo messi insieme e interpretati.

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(potete scaricarlo qui)

 

Rapita Afrah Shawqi, giornalista d’inchiesta

Una giornalista irachena, Afrah Shawqi, nota per i suoi articoli contro la corruzione, è stata rapita la notte scorsa dalla sua casa di Baghdad da uomini armati e se ne sono perse le tracce. Lo ha reso noto la polizia, precisando che i responsabili dell’azione indossavano divise militari e avevano il volto coperto. L’episodio è avvenuto nel quartiere di Saydiya. Secondo la polizia, gli uomini armati hanno ammanettato i figli della giornalista e si sono anche impossessati di gioielli e altri oggetti di valore. Il primo ministro, Haidar al Abadi, ha fatto sapere di avere dato istruzioni alle forze di sicurezza di «prendere misure immediate per risolvere il caso e fare ogni sforzo per salvare la vita» della giornalista.

Proprio ieri su un giornale locale era uscito un articolo in cui la Shawki criticava un dipendente del ministero dell’Interno che aveva picchiato il preside di una scuola nella città di Nassiriya davanti agli insegnanti e agli allievi per una questione riguardante sua figlia. Il premier Abadi ha ordinato di «perseguire qualsiasi gruppo coinvolto nel rapimento della giornalista, o che mini la sicurezza della gente e terrorizzi i giornalisti»

(fonte:Ansa)

«Mangio io la torta TAV»: e l’imprenditore si prende 7 anni per mafia

«Ce la mangiamo io e te la torta dell’alta velocità», aveva detto in una delle telefonate intercettate dagli investigatori. Alla fine, invece, l’imprenditore Giovanni Toro, 49 anni, di Castelletto Ticino, ha rimediato 7 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo il Tribunale di Torino ha favorito la ‘ndrina di San Mauro Marchesato distaccata in Piemonte, smantellata dai carabinieri del Ros e dalla Dda di Torino con l’operazione «San Michele» nell’estate 2014.

Condannati altri cinque imputati (e altri undici erano stati condannati un anno fa in abbreviato). I pm avevano chiesto pene per un totale di 74 anni. Per l’impresario la richiesta era stata di 11 anni.

In base all’impianto accusatorio Toro si era interessato agli affari dell’Alta Velocità in Val di Susa per conto della cosca crotonese «Greco», interessata a estendere radici criminali in Piemonte. L’uomo, già arrestato nel 2014 assieme a altre 25 persone nell’ambito di un’inchiesta nata come stralcio della più vasta operazione «Minotauro» del 2011, si è sempre detto innocente. Per gli inquirenti era invece uomo chiave. Nelle carte dell’indagine ci sono espliciti riferimenti all’interesse delle cosche per gli appalti Tav, tanto da registrare diversi summit preparatori in casa madre calabrese, per decidere e organizzare la spartizione della torta milionaria. È lo stesso Toro a confermarlo in una intercettazione: «Ricordati queste parole… che ce la mangiamo io e te la torta dell’alta velocità». E al telefono diceva anche: «No Tav? Se arrivano li schiaccio con il rullo».

Secondo i pm, nel 2012 l’imprenditore di Castelletto aveva ottenuto vantaggi e commesse lavorative dai suoi contatti con la ‘ndrangheta («nei cui confronti manteneva relativa autonomia») aveva permesso a ditte indicate dalla ‘ndrina di partecipare ad appalti assegnati alla Toro srl e di scaricare rifiuti residui di lavorazioni edili e stradali aggirando le normative. E aveva esercitato pressioni e minacce contro alcuni concorrenti che volevano pignorare beni a un amico imprenditore.

(fonte, La Stampa)