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Si sveglia Staino: «Renzi, mi hai profondamente deluso»

Il direttore dell’Unità, Sergio Staino, rende pubblica la mail che ha scritto venti giorni fa al segretario del Pd Matteo Renzi e da cui emerge la delusione per come il Pd sta affrontando la questione relativa alla sorte del quotidiano e di chi vi lavora. In un passaggio della mail Staino ricorda quando Renzi gli disse ‘Voglio un giornale bello, di tante pagine e non preoccuparti per i soldi… quelli ci sono!’, aggiungendo: “Dirti quindi che sono profondamente deluso, e in prima fila deluso da te, è dir poco. Pensavo che il giornale ti servisse per ravvivare quella base che nel territorio si sta disperdendo nell’astensionismo o, peggio ancora, nel grillismo”.

In un comunicato che accompagna la divulgazione del contenuto della mail, Staino scrive: “Io ti ho sempre apprezzato per quel tuo continuo ripetere ‘ci metto la faccia’, è possibile che questo non valga per l’Unità?”. Staino spiega anche che, se oggi il giornale fosse stato in edicola (non è uscito per lo sciopero dei giornalisti, ndr), il suo editoriale sarebbe stato appunto quella lettera indirizzata al segretario del Pd il 23 dicembre, lettera che “mi sembra rileggendola adesso, mantenga tutta la sua attualità. Due giorni fa – prosegue il comunicato del direttore – la situazione di agitazione al mio giornale è esplosa per una comunicazione a ciel sereno da parte dell’amministratore delegato in cui si annunciava la fine delle trattative su una revisione nei ruoli dei giornalisti e dei rispettivi emolumenti, passando di fatto a una riduzione di personale non specificando né in che numero né in che modo. Questa notizia, di per sé molto spiacevole, è stata però superata ieri 12 gennaio, dall’assemblea dei soci proprietari de l’Unità che ha di fatto rinviato al primo febbraio la dichiarazione di liquidazione della stessa società”.

In particolare – prosegue Staino – il socio di minoranza, cioè il PD, ha proposto una ricapitalizzazione dell’azienda di 5 milioni di euro, 1 milione il PD e 4 milioni la Pessina, socio di maggioranza. Quest’ultimo “ha dichiarato la propria disponibilità a ricapitalizzare a patto che il PD cedesse la golden share de l’Unità che appartiene totalmente al socio di minoranza alla stessa Pessina. Tutto questo perché la Pessina imputa al PD una gestione deleteria dello stesso giornale causata soprattutto da uno straordinario assenteismo nei confronti della presenza del giornale nel partito, nella società e nel territorio. In effetti, come ben sappiamo, anche se storicamente il padrone è sempre e comunque una carogna e quindi anche in questo caso la Pessina non può dichiarare la sua totale innocenza nella crisi gestionale ed economica de l’Unità, è ben vero che il problema principale rimane un problema politico. La lettera che qui riproduco evidenzia in modo molto chiaro quali sono le problematiche più gravi di questa gestione”.

E a Renzi il direttore dell’Unità aveva scritto “perchè credo di essere ormai giunto alla fine delle mie forze. Dopo tre mesi di esperienza alla direzione de l’Unità puoi bene immaginare dove sia finito tutto l’entusiasmo che avevo messo nel fare questo lavoro. Ero abbastanza impaurito perchè immaginavo la quantità di problemi in cui mi sarei ritrovato anche se, devo dirti con sincerità, che mai immaginavo che la quantità fosse così enorme e pesante”.

E quindi l’elenco delle difficoltà. A cominciare da quelle umane:

“Parlare e trattare con il tesoriere del PD Bonifazi e con l’amministratore delegato Stefanelli, ti assicuro è esperienza che non augurerei a peggior nemico. Meglio assai con Massimo Pessina e Chicco Testa che sono persone se non altro trasparenti e razionali. Non parliamo dell’aspetto economico che mi immaginavo grave ma non tale da bloccare ogni pur minima iniziativa di rilancio del giornale. E poi il personale umano e l’isolamento del giornale. Questo è l’aspetto che mi addolora di più: mi sono reso conto – scriveva Staino a Renzi – che non c’è nessuno nel partito che sia interessato a questo foglio. Ho un bel rapporto con i compagni di base più vecchi, ho un buon rapporto con un pò di giovani che si sono avvicinati, ho un buon rapporto con quel che resta dei ‘Giovani Turchi’ e ho un buon rapporto di confronto con alcuni compagni a te non troppo vicini, da Macaluso a Reichlin, a Cancrini, a Cuperlo, Veltroni, Fassino e tanti altri, che lo seguono, lo commentano, mi aiutano. Ma tu e i tuoi? Zero”.

Quindi aggiungeva: “Credo che anche tu sia fra quelli che neanche scorre la prima pagina del giornale”. E ancora: “Pensavo ti servisse uno strumento per ricucire queste forze, per rimetterle in circolo, per far sì che dalla base ti arrivasse quell’ondata di rinnovamento che caratterizzò la tua prima uscita, quella del rottamatore, e che ti avrebbe aiutato a riporre il partito alla centralità del nostro lavoro politico. Per questo ero pronto a fare molti sacrifici, ero pronto a fare un bellissimo giornale mantenendo il livello di spesa dell’attuale o addirittura riducendolo, riducendo il personale (che è un sacrificio politico terribile), riducendo il formato e puntando su un giornale piccolo, brutto e cattivo ma pieno di grande intelligenza e di cose che non si trovano negli altri giornali. Di cose che sono strumenti, conoscenza, elementi di lavoro per chi giorno per giorno nei territori e nelle amministrazioni e nelle aggregazioni culturali e sociali porta avanti il lavoro del partito. Purtroppo non è così. In nessun momento il partito ha dato un segnale nei confronti miei e del giornale”.

Staino scriveva inoltre “speravo che tu mi avresti fatto parlare in piazza del Popolo, almeno due minuti per presentare il rilancio del giornale e dire che il giornale era al tuo fianco ed era lì in piazza a testimoniare la voglia di rinascita. Speravo che tu mi avresti presentato alla Leopolda come nuovo direttore da ascoltare e soprattutto aiutare in questo grosso lavoro. Al contrario, ai diffusori del nostro giornale non è stata neanche data l’autorizzazione per entrare alla Leopolda (nonostante fuori piovesse a diluvio). All’ultima assemblea nessuno ha accennato alla presenza del giornale e a un suo possibile ruolo nel rilancio del partito, al contrario, l’unica volta che è stata nominata l’Unità è stato perché un rappresentante della minoranza ci ha accusati di averli riempiti di vituperi ed offese. E poi adesso. La necessità di un incontro per sapere dove andiamo a finire rinviata di settimana in settimana, sempre cose più importanti de l’Unità, sempre cose più urgenti. È naturale che mi venga una gran voglia di togliere il disturbo”. L’occasione – annunciava Staino – proprio il Cda fissato per oggi (e che c’è stato, ndr) “in cui si sanzionerà l’ennesimo fallimento e l’ennesima chiusura. Cosa ne guadagni questo lo sa solo Dio. Cosa ne guadagni tu, cosa ne guadagna il partito, cosa ne guadagna la sinistra e l’intera società”.

(fonte)

Le case ai terremotati? Si estraggono a sorte. Giuro.

(Ecco il comunicato di Pippo Civati e Beatrice Brignone:)

Abbiamo appreso con sconcerto dalla stampa che a Norcia l’amministrazione comunale ieri ha proceduto all’assegnazione di 20 casette tra gli sfollati che ne avevano diritto e avevano fatto richiesta, attraverso il metodo dell’estrazione a sorte. 14 casette da 40 mq, di cui 2 riservate a soggetti disabili, e 6 da 60 mq, di cui 1 per disabili. I nuclei familiari che hanno fatto richiesta sono in tutto 89.

Il metodo del sorteggio è stato il seguente: il nucleo familiare doveva essere rappresentato da una sola persona, il sorteggio è stato effettuato dividendo i richiedenti in due gruppi, in base alla superficie delle strutture abitative. Non sono stati presi in considerazione al momento dei sorteggiati i nuclei familiari con 5 o più componenti, in quanto non sono previsti in quest’area moduli da 80 mq.

Nel frattempo, la popolazione priva di moduli d’emergenza è costretta a ripararsi dal freddo nei container collettivi da 48 posti, con bagni e zona giorno in comune.

Ci pare un modo di procedere alquanto iniquo e improvvisato e per questo abbiamo presentato un’interrogazione urgente ai Ministri competenti, chiedendo anche un intervento in Parlamento del Commissario straordinario Vasco Errani.

Non è forse più opportuno intervenire nell’immediato per trovare soluzioni abitative ai nuclei familiari rimasti esclusi dal sorteggiodelle venti unità messe a sorteggio dall’Amministrazione comunale di Norcia tra gli aventi diritto? E’ giusto utilizzare il metodo dell’estrazione a sorte per risolvere l’emergenza abitativa dei terremotati?

In questi giorni le popolazioni colpite dal sisma stanno forse affrontando il momento più duro a causa dei disagi dovuti a neve e maltempo e per questo è necessario trovare soluzioni urgenti e indifferibili per consentire a tutti i cittadini di poter affrontare l’inverno rigido in corso. E questo diritto non può essere assolutamente affidato alla sorte.

Caro Laterza, la cultura qui da noi è un chiodo fisso

(scritto per i Quaderni di Possibile qui)

Oggi Giuseppe Laterza, presidente della storica casa editrice fondata da suo padre Vito, in un’intervista a Il Fatto Quotidiano lamenta che “ci sono 5000 cellulari in perenne contatto tra loro per gestire un potere sempre più distante e arrecato” lamentando l’assenza di una politica che sappia “definire i propri valori di riferimento”, che si affidi alla cultura come “dubbio metodico” e chiedendosi dove possano trovare casa (politica) i “2-3 milioni di persone che si informano, vanno a teatro e alle mostre”.

È un’intervista densa, quella di Laterza, che al solito rimarrà confinata nel cassetto delle barbose discussioni intorno alla cultura mentre la politica preferisce avvitarsi sui “rimpatri in pochi giorni” promessi da Salvini o sulle multe di Grillo contro l’autonomia di pensiero dei suoi eletti. Noi siamo un Paese così: piangiamo Bauman da morto, ma da vivo lo leggiamo pochissimo e soprattutto lo citiamo senza praticarlo nell’esperienza politica.

Forse Laterza però ha un limite di visione: in questo Paese sono in molti a esercitare studio e pensiero complesso alla politica e già ci sono comunità politiche che credono nella cultura come metodo ancor più di un dovuto punto di programma. Quando abbiamo pensato a come fare crescere questa nostra piccola comunità che è Possibile, abbiamo convenuto tutti che la capacità di elaborare cultura (anche politica) sia l’elemento fondante per uscire dal pantano del populismo da una parte e del bieco realismo dall’altra. Ma decidere di prendere la politica terribilmente sul serio e di studiare le cause prima di confezionare le soluzioni è un percorso impervio e tortuoso. Forse Laterza non sa che quel “mondo della cultura” che invoca come parte attiva in politica spesso è già attivo ma difficilmente raccontato.

Per essere ospiti di una trasmissione televisiva o per comparire sulle pagine di un quotidiano nazionale è richiesta una spendibilità che è più nazionalpopolare e d’immediata indignazione piuttosto che costruttiva e ragionata. Forse non è un caso che molti dei temi di Possibile siano diventati libri proprio perché “scavalcati” da un’informazione terribilmente innamorata dello spot e dalla provocazione. E sono d’accordo con lei che avremmo solo da guadagnarci. Tutti.

Nave dei veleni, qualcosa si muove. A processo la dottoressa del caso De Grazia.

C’è un’imputata che lega il suo nome indissolubilmente a uno dei misteri più fitti che interessano la Calabria nell’inchiesta per presunte irregolarità nella stesura di relazioni necroscopiche ad Imperia: Simona Del Vecchio.
La dottoressa – ex direttrice di Medicina legale d’Imperia – è a processo davanti al Tribunale di Imperia con l’accusa di aver firmato certificati di morte senza aver ispezionato i cadaveri. Avrebbe firmato almeno quarantasei verbali di visite necroscopiche, secondo la Procura ligure, «nonostante non avesse svolto tali attività e tali fatti non fossero veritieri».
Un nome, quello della dottoressa, che riporta indietro le lancette del tempo a dicembre del 1995 quando alla Del Vecchio venne affidato il compito di effettuare l’autopsia sul corpo esanime del capitano di fregata Natale De Grazia. L’ufficiale era la punta di diamante del pool della Procura della Repubblica di Reggio Calabria che indagava sulle cosiddette “navi a perdere” e proprio mentre si stava recando a La Spezia per approfondire la vicenda morì subito dopo aver consumato un pasto con due carabinieri in missione come lui nella città ligure.
Lì avrebbe dovuto incontrare alcune persone che conoscevano particolari delicati di quel presunto traffico di scorie radioattive, rifiuti industriali e armi che interessavano da vicino la Calabria. Stando a quanto ricostruito in quell’inchiesta coordinata dal sostituto procuratore Francesco Neri, alcune navi sarebbero colate a picco nei mari calabresi con il loro carico di veleni. De Grazia aveva rinvenuto riscontri a quelle ipotesi e quel viaggio, interrotto a Nocera Inferiore il 12 dicembre del 1995, avrebbe potuto restituire un altro tassello ad un’inchiesta scomoda.
Da qui il sospetto su quella morte che portò la procura della Repubblica di Nocera prima e Reggio dopo ad aprire un fascicolo d’indagine delegando appunto la dottoressa Del Vecchio ad effettuare l’autopsia. La relazione della dottoressa – finita ora nei guai ad Imperia – sentenziò che quella morte era dovuta a «cause naturali». Parlò espressamente di «morte improvvisa dell’adulto» dovuta presumibilmente a un infarto. Una tesi ribadita anche successivamente nel corso della nuova inchiesta aperta a Reggio nella quale la stessa dottoressa fu incaricata dal pm come consulente per effettuare la nuova autopsia sul cadavere di De Grazia.
Tesi però mai accettata dalla famiglia del capitano e totalmente ribaltata nel 2013 dalla commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti. Proprio passando in rassegna le relazioni delle due autopsie, il professor Giovanni Arcudi – direttore dell’istituto di medicina legale dell’università di “Tor Vergata” – bollò quel lavoro come: «Le indagini sono state del tutto inappropriate». Nella perizia consegnata alla commissione presieduta da Gaetano Pecorella, il professore sentenziò che la morte del capitano era da riferire a «una causa tossica», escludendo categoricamente le conclusioni a cui era arrivata la dottoressa Del Vecchio.
In altre parole De Grazia, stando a questa valutazione, sarebbe stato avvelenato. Ora alla luce delle accuse di confezionare referti falsi mosse alla dottoressa che effettuò entrambe le autopsie sul capitano medaglia d’oro al merito, più di un dubbio s’insinua sulla vera causa di morte di De Grazia. Un nuovo tassello sulla già complessa vicenda delle navi dei veleni.

(fonte)

I professionisti dell’anti-antimafia

Bravissimo Mario Portanova per Il Fatto Quotidiano:

I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Italia, per far carriera di essere un professionista dell’anti-antimafia.

Ok, chiedo subito scusa per aver indegnamente rimaneggiato il celebre brano di Leonardo Sciascia, tratto dall’altrettanto celebre articolo I professionisti dell’antimafia, pubblicato esattamente trent’anni fa, il 10 gennaio 1987, sul Corriere della Sera. Resta il fatto che i professionisti dell’anti-antimafia, in questi tre decenni, si sono sempre visti garantire direzioni di giornali – magari foraggiati da contributi statali o da mecenati interessati -, programmi televisivi, rubriche, ospitate ai talk show nonché seggi parlamentari e posti da ministro. Anche più dei professionisti dell’antimafia evocati in quell’articolo.

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Chi sono i professionisti dell’anti-antimafia? Sono quelli che per mestiereattaccano sistematicamente i magistrati, che stanno sempre dalla parte dei politici accusati di collusione, anche dopo la sempre invocata “condanna definitiva” (Dell’Utri, Cuffaro…). Sono gli spacciatori di garantismo per l’uso personale di amici e amici degli amici. Sono quelli che fanno paginoni sugli antimafiosi caduti in disgrazia o sulle polemiche giudiziarie (ormai non solo palermitane), ma mai che gli scappi mezza riga sulle vittime di Cosa nostra, della ‘ndrangheta, della camorra: i piccoli commercianti taglieggiati, gli imprenditori usurati, i contribuenti saccheggiati quando gli appalti e i finanziamenti pubblici finiscono alle aziende dei boss con la complicità di una vasta “area grigia”.

Ieri il Corriere della Sera, a firma di Felice Cavallaro, ha celebrato la “profetica lungimiranza” dell’articolo di Sciascia, collegandolo ai tanti guai che oggi colpiscono personaggi e sigle a vario titolo impegnati – o autoproclamatisi tali – nella lotta alle cosche: il giudice Silvana Saguto, l’ex presidente di Confcommercio Palermo Roberto Helg, il presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante, il giornalista Pino Maniaci, fino alle polemiche interne a Libera (per chi vuole approfondire, tutte vicende che ilfattoquotidiano.it ha ampiamente raccontato). Eccoli i “professionisti dell’antimafia” che il grande scrittore siciliano additò addirittura con trent’anni di anticipo. Ma le cose stanno davvero così? Andiamo a rileggere l’articolo originale.

Innanzitutto, Sciascia non usa mai il termine “professionisti dell’antimafia”, che è farina del sacco del titolista del Corriere. E neppure accenna a truffe e malversazioni in nome dell’antimafia. Il brano centrale – in un lungo articolo che prende spunto da un saggio inglese su regime fascista e Cosa nostra – è questo: “I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. Un solo giudice è citato, e in negativo. Si chiama Paolo Borsellino. La sua carriera antimafia finirà cinque anni più tardi, sappiamo come. Cavallaro racconta che poi lo scrittore e il magistrato si incontrarono e si spiegarono, e che Borsellino “non era il bersaglio” dell’articolo.

Anche in questo caso, ognuno può rileggerselo e valutare se il celebrato (oggi, allora non molto) eroe dell’antimafia ne uscisse bene o male. Trent’anni dopo, Nando dalla Chiesa resta convinto che il bersaglio fosse proprio lui, come rimarca oggi su Il Fatto Quotidiano. Aggiungendo che Borsellino, prima di essere assassinato con la sua scorta, “fece in tempo a dichiarare nell’ultimo discorso pubblico, ricordando Falcone, che ‘Giovanni ha incominciato a morire con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia’”.

L’altro bersaglio, non citato per nome, è l’allora sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Descritto nell’esempio di “un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso”. Orlando può piacere o meno, ma ruppe con la Dcstoricamente complice di Cosa nostra in Sicilia (CianciminoLimaAndreotti… il boss-grande elettore Giuseppe di Cristina. Avevano fatto carriera lo stesso, anche più di Orlando). E oggi, trent’anni più tardi, nonostante la “lungimirante profezia” che lo vedeva occuparsi più di “convegni” che di “acquedotti”, i cittadini di Palermo conservano Orlando sulla stessa poltrona, dopo aver sperimentato altri sindaci che certo dell’antimafia non facevano né una professione né una passione. Piuttosto erano politicamente imparentati con Silvio Berlusconi, quello che il mafioso – sotto forma di stalliere – se lo teneva in casa.

Ancora un paio di cose. Dieci mesi dopo l’articolo di Sciascia, il 17 dicembre, lo stesso Corriere della Sera, a firma di Alfio Caruso, commentava così la sentenza di primo grado del maxiprocesso di Palermo, oggi unanimemente riconosciuta come il primo grande colpo dello Stato contro Cosa nostra (che infatti reagirà con le stragi): “Ieri sera, in un punto imprecisato degli Stati Uniti, Tommaso Buscetta è tornato a far parte della mafia vincente”, si leggeva sul quotidiano milanese. “Glielo hanno permesso i giudici che a Palermo, accogliendo le sue confessioni, hanno punito le grandi famiglie dell’onorata società, gli uomini che avevano decretato lutti e terrori per amici e consanguinei del boss dei due mondi”. Più avanti, un cenno “agli inguaribili ottimisti che parlano di sentenza storica”.

Chi aveva istruito quel processo? Borsellino e Falcone (giudice a latere l’attuale presidente del Senato Piero Grasso). Anni più tardi, su Repubblica del 29 ottobre 1993, lo scrittore Corrado Stajano, storica firma delle pagine culturali del Corriere, descriverà così il clima di quegli anni in via Solferino: “Per tutti gli anni Ottanta non mi è stato permesso di scrivere di mafia. Eppure ero tra i pochi a conoscere i fatti e ad avere letto tra l’altro le 8mila pagine dell’ordinanza-sentenza del maxiprocesso”. Un’esclusione che si spiegava “forse perché stavo dalla parte del pool antimafia”, ricordava Stajano, in un’epoca in cui “le direzioni dei giornali esercitavano un controllo micragnoso, assillante” su qualunque notizia potesse “nuocere o spiacere ai governanti”. Questo per dire il contesto, tanto per restare in tema sciasciano. C’era un potere politico che storicamente intrallazzava con la mafia, e per non turbarlo era meglio recintare per bene le cronache palermitane, compresi gli atti vergati dai futuri eroi nazionali Falcone e Borsellino.

Vale poi la pena di aggiungere che altre intuizioni dello scrittore di Racalmuto non hanno avuto alcuna fortuna presso i professionisti dell’anti-antimafia che solo per quelle poche righe mostrano di idolatrarlo. Per esempio l’intervista del 1970 a Giampaolo Pansa – quella sì davvero profetica – sulla “linea della palma”, cioè la mafia, che si spostava progressivamente dalla Sicilia verso il Nord Italia, cosa puntualmente accaduta nell’indifferenza pressoché generale, almeno fino ad anni recenti. Oppure, tanto per dire, la descrizione di un comizio della Democrazia cristiana in Le parrocchie di Regalpetra (1956), dove “la mafia ha qua e là paracadutato i suoi elementi più suggestivi”.

Detto questo, l’articolo di Sciascia lasciò – e lascia ancora, a trent’anni di distanza – il segno fra i variegati antimafiosi che non di rado hanno tutte le sue opere ben allineate nella libreria di casa. Uno di loro, Lillo Garlisi, racalmutese e sciasciano di ferro, oggi editore a Milano con Melampo, all’epoca lo condannò con forza. Ieri, in una discussione fra amici su WhatsApp, ha scritto: “Allora sbagliammo a non cercare di ricucire con Sciascia. La zona grigia trovò l’ideologia che le mancava. Lo regalammo al nemico”.

Forse in quell’articolo di trent’anni fa una parte profetica ci fu davvero. Ha poco a che fare con Borsellino e molto con l’antimafia di oggi. Scriveva Sciascia che, nel momento in cui qualcuno “si esibisce” come antimafioso, difficilmente qualcun altro oserà criticarlo o attaccarlo, anche con ragioni fondate, perché correrebbe “il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno”. E’ il tema centrale individuato da Francesco Forgione, già presidente della Commissione parlamentare oggi guidata da Rosy Bindi, fautore di un contrasto culturale ai clan più sociale e meno legato a icone e santini, nel suo recente libro I tragediatori. La fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti (Rubbettino 2016). “Per troppo tempo”, scrive Forgione, “l’antimafia non ha discusso di se stessa, della sua vita, del suo modo d’essere”. Lasciando così correre le aberrazioni, quando non il malaffare, anche quando qualche segnale poteva essere colto e qualche allarme lanciato. Non ha discusso, argomenta Forgione, proprio per la ragione indicata da Sciascia. Perché mettere in discussione l’operato di certe figure significava “incorrere nell’accusa di sovraesporle al rischio di diventare vittime dei killer mafiosi”. Così ai professionisti dell’anti-antimafia si è lasciato l’intero campo da gioco.

La malsana idea di legiferare sulla verità

Nel confuso dibattito sulla verità (tra l’altro innescato dal potere, pensa te) vale la pena ascoltare il parere giuridico di Carlo Plengino che ne scrive su Il Post:

Si potrebbero fare altri esempi, ma il concetto che mi preme sottolineare mi pare sia chiaro:
il diritto, negli ordinamenti democratici, si tiene ben alla larga dalla verità quale bene giuridico oggetto di tutela.

La ragione è intuitiva: più una comunità si avventura nella impervia strada verso la tutela della verità più decresce il suo tasso di libertà e si dirige inevitabilmente verso il baratro di un totalitarismo ideologico più o meno gentile.

Il dibattito sulle fakenews ha un suo valore sociologico e forse antropologico, e nella società dell’informazione saper distinguere tra un fatto e un’opinione e avere la capacità critica di cogliere l’autorevolezza di una fonte qualificata rispetto al chiacchiericcio, alla propaganda o alla rassicurante disinformazione sono fondamentali.

Sentire però politici, ministri e presidenti d’Authority che pensano di tutelare la verità espungendo la menzogna dai media (o solo da internet?) grazie a formule giuridiche, provvedimenti di legge, o peggio deleghe alle piattaforme della Silicon Valley mi pare inaccettabile e sconcertante.
Nel dibattito sulla disinformazione non si cerchino soluzioni in diritto, ché non si legifera sulla verità.

Quando Pilato chiede a Gesù cos’è la verità, capisce immediatamente di aver fatto una domanda stupida e inutile e se ne va senza aspettare risposta. Risposta che Gesù ovviamente non dà: era in corso un processo, mica stavano chiacchierando al bar o chattando sul web, lui e Pilato.

(l’articolo è qui)

Non si muore di freddo. Si muore di povertà.

Ci pensavo già da ieri ma quello anche avrei voluto scrivere l’ha detto meglio di me Leonardo Palmisano:

«Il freddo? No, la povertà. La povertà di diritti, di case, di lavoro, di calore umano e istituzionale. Viviamo in un Paese che concentra la ricchezza nelle mani di pochissimi strati parassitari della popolazione, che non agisce efficacemente nel contrasto all’evasione fiscale, che non tassa i grandi patrimoni e che, soprattutto, non procede a rinnovare ed aumentare le risorse per l’occupazione e le politiche sociali. Se non ci fossero le reti associative laiche e cattoliche, i senza fissa dimora a morire sarebbero molti di più.

Esseri umani trattati come scarto o sottoprodotto da un governo che investe in armi e relazioni privilegiate con le peggiori dittature mediterranee: Erdogan e Al Sisi. Un governo che dovrebbe subito mettere in campo un piano per il lavoro e che si accontenta di portare tende ai terremotati e di aprire le stazioni per i senzatetto. Non può essere la carità la risposta della politica

(Il suo post è qui sui Quaderni di Possibile. Leonardo è una ricchezza della nostra piccola comunità. Se volete unirvi vi basta andare qui.)

«vivere/ in un mondo prenatale/ dove stare insieme sia/ un immenso esser perduti/ l’un nell’altro, indivisibili…».

È stato un regalo e io di poesia ne leggo poca, pochissima. Chissà poi perché. La poesia mi riporta a un tempo e un modo che mi rincuora. E Salinas è rifocillante.

Se vi capita di essere sommersi leggere Salinas è un balsamo e forse questo libro andrebbe tenuto così, come si tengono in un cassetto le reliquie rinfrescanti contro una voce che tende sempre a uniformare e uniformarsi.

«vivere/ in un mondo prenatale/ dove stare insieme sia/ un immenso esser perduti/ l’un nell’altro, indivisibili…».

Lo potete comprare qui, nella nostra piccola Bottega dei Mestieri Letterari, dove appoggiamo alcuni dei miei libri e i libri che vale la pena leggere. Una piccola libreria a chilometro zero. Il nostro covo di brigantaggio culturale.

Presentazione dell’editore:

La relazione amorosa con l’ispanista americana Katherine Reding fu alla base delle tre principali raccolte di poesie d’amore di Pedro Salinas: “La voce a te dovuta” (1933), “Ragioni d’amore” (1936) e “Lungo lamento”. Dopo “Amore, mondo in pericolo”, con “Il corpo, favoloso” pubblichiamo la seconda e ultima parte di questa grande raccolta che doveva costituire il terzo anello della trilogia amorosa, ma che venne pubblicata integralmente soltanto dopo la morte dell’autore. Se da un lato è sempre difficile sapere con sicurezza quale fosse la reale intenzione del poeta rispetto all’insieme di questi testi, dall’altro è ben evidente che appartengono tutti ad una stessa atmosfera poetica e hanno una medesima scaturigine affettiva, tanto da far ipotizzare che l’interruzione di questo suo progetto, che la sorte renderà poi definitiva, possa essere ricollegata al declino ormai irrimediabile di quel grande suo sogno d’amore. Scriveva Salinas a Katherine il 16 novembre 1935: “Non mi serve a nulla un modo speciale di sentire il mio amore per te se tu non lo senti con me”; fu forse proprio la mancanza di quella condivisione a far sì che il libro perdesse, per il suo autore, il senso di essere concluso e infine pubblicato. Ma forse è anche per questo motivo che oggi possiamo leggere un’opera di grande poesia densissima e sfumata allo stesso tempo, come di un amore che non vuole morire.

Perché a Napoli la camorra spara agli ambulanti. Spiegato bene.

(Lo racconta un ex ambulante, Amadou, intervistato (qui) da Fabrizio Geremicca)

«Gli estorsori si mangiano la mucca, il latte e il burro di latte». Amadou, 52 anni, senegalese di Dakar, usa un proverbio del suo paese e la pronuncia in francese per sintetizzare il dramma degli ambulanti della Maddalena – immigrati ed italiani – taglieggiati dalla camorra. Vicenda che si trascina da anni e che è ritornata di attualità dopo la spedizione punitiva contro un senegalese di mercoledì scorso a mezzogiorno, durante la quale sono rimasti feriti da colpi di pistola tre migranti ed una bimba di dieci anni che passeggiava insieme a suo padre. Amadou accetta di raccontare la realtà del racket grazie ai buoni uffici di Gianluca Petruzzo, il referente campano dell’associazione 3 febbraio, da tempo in prima linea nella difesa dei migranti. Proprio Petruzzo lancia un appello alla mobilitazione a favore degli ambulanti: «I fratelli immigrati che hanno avuto il coraggio di ribellarsi e di non sottostare al pizzo non devono essere lasciati da soli. La città deve stringersi al loro fianco».

Amadou, cosa intende dire con l’espressione che ha usato poco fa?

«La camorra lucra su noi ambulanti tre volte. La prima quando ci vende la merce all’ingrosso che noi poi esponiamo sulle bancarelle. La seconda quando ci impone il pizzo. La terza quando ci costringe ad acquistare a prezzi assurdi le buste per la mercanzia».

Cominciamo dal pizzo. Quanto pagano gli ambulanti della Maddalena?
«Le bancarelle più grandi 150 euro a settimana. Quelle più piccole 80».

Subiscono solo i migranti?

«No, tutti. Italiani ed immigrati».

Come avviene la richiesta estorsiva?
«Passano due o tre persone e dicono al venditore che dovrà pagare la cifra stabilita».

Minacciano?
«Non serve. Si presentano come i referenti del clan e raramente incontrano resistenza. Quando accade, come mercoledì, passano a vie di fatto. Il mio connazionale ferito è a Napoli da poco e non riusciva proprio a capire perché avrebbe dovuto pagare il racket. Non fa parte della nostra mentalità. Gli ambulanti più anziani si sono adattati. Lui no».

Centocinquanta euro a settimana non è poco. Quanto guadagna un ambulante?
«Raramente supera 800 euro al mese. Accade spesso che per pagare la camorra non si riesca a dare i soldi al proprietario di casa».

Lei prima accennava ad una vicenda di buste. Può spiegare cosa accade?
«Gli stessi personaggi che incassano il pizzo impongono agli ambulanti di comperare le buste nelle quali mettere la mercanzia. Estorcono dieci euro per tre buste, laddove una confezione di 50 non costerebbe più di sette euro. Se il pizzo è per tutti, quello delle buste è un trattamento riservato agli ambulanti immigrati. Analogamente non è raro che gli estorsori pretendano di prendere qualcosa dalla bancarella dei migranti e di non pagare».

Gli ambulanti della Maddalena dove acquistano la merce che poi rivendono?
«I grossisti sono personaggi noti della zona. Consegnano la merce ed il saldo avviene dopo una settimana o una decina di giorni. Se nel frattempo l’ambulante ha guadagnato abbastanza per pagare la mercanzia, tutto bene. Se non ci è riuscito, magari perché ha subito il sequestro della bancarella dai vigili urbani, per sdebitarsi deve chiedere soldi in prestito agli altri immigrati, altrimenti sono guai».

Dove sono i depositi della merce che acquistate ed esponete?
«Non li vediamo mai. I grossisti ci danno appuntamento in un punto del quartiere che cambia sempre e ci consegnano la mercanzia stabilita».

Quanto guadagna un migrante sui capi che vende?
«Una borsa comprata all’ingrosso a 10 euro ne frutta 12,50. Una cinta che l’ambulante paga 3,50 euro è venduta a 5 euro. Un paio di scarpe all’ingrosso ci costa 15 euro e lo rivendiamo per 20 euro».

Quanti sono i migranti alla Maddalena?
«Ne sono rimasti una cinquantina, tutti abusivi. Tunisini, marocchini, senegalesi, algerini. Tanti sono andati via proprio per questa faccenda del pizzo. C’è chi ha preferito tornare in Africa e qualcuno è riuscito perfino a scappare senza saldare il conto dell’ultima partita di merce acquistata».

Lei oggi vende ancora per strada?
«No, sono riuscito a tirarmi fuori da questo inferno. Lavoro come lavapiatti in un ristorante. Guadagno 800 euro al mese».

Due e tre cose su Roberto e Luigi. Sparse. E magari sbagliate.

Voglio bene a sia a Luigi De Magistris che a Roberto Saviano, con entrambi ho condiviso dure esperienze personali e (a differenza di entrambi) ritengo il mio giudizio fallibilissimo. Ma un paio di cose forse varrebbe la pena provare a metterle in fila:

Entrambi parlano di se stessi. In questa polemica di Napoli e di camorra se ne sente appena l’odore. Da una parte il sindaco mette sul tavolo la propria storia personale e dall’altra lo scrittore risponde con la propria esperienza come testimonianza. I dati sulla criminalità, il trend dei delitti, le indagini in corso, le sentenze recenti e le relazioni della Direzione Antimafia (o eventualmente i risultati di inchieste personali) non ci sono. Quindi non è una discussione sulla camorra a Napoli, basta saperlo.

De Magistris ha risposto ricalcando gli stessi temi dei peggiori detrattori di Saviano e questo pesa evidentemente al di là del senso e dell’obiettivo della sua uscita. Anche il modo è politica, del resto. Ma risponde non al Saviano tutto tondo (a cui questo Paese non può non esser grato, al di là delle simpatie o antipatie) ma risponde a un’intervista in cui Roberto dice “Questa città non è cambiata. Illudersi di risolvere problemi strutturali urlando al turismo o alle feste di piazza è da ingenui. Nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore diventa connivenza”. Il connivente, ci vuole poco a capirlo, è De Magistris. Entrambi non sono stati esempio di misura, diciamo.

Gli scrittori scrivono e i politici amministrano. Che piaccia o no. E gli scrittori, come Roberto, hanno il diritto di scegliere i propri temi. I loro giudici sono i lettori e il pubblico. Questo significa che chi ha milioni di lettori o spettatori sia inattaccabile e abbia sempre ragione? No, per niente. Significa semplicemente che Roberto e Luigi operano su due campi diversi in cui (spesso e non solo a loro) ci si “infastidisce” (o si diventa servili) nonostante le diverse funzioni. Ci sta: è il ruolo pubblico, appunto. E se qualche personaggio pubblico sceglie (io personalmente lo amo moltissimo) di ruzzolare nella realtà e nella politica accetta gli schizzi, eccome. Che piaccia o no.

Non c’è niente di più deleterio e scemo di parteggiare in questa ultima polemica nell’ottica dei propri interessi personali: l’Unità aveva definito Saviano “mafiosetto” e ora diventa savianista per cercare di demolire De Magistris così come gli antisavianisti diventano improvvisamente “vicini” al sindaco di Napoli. Il nemico del mio nemico è mio amico: come stiamo messi. E anche le difese apologetiche come quella di Montanari mi lasciano perplesso.

La realtà è complessa (ne scrivevo giusto qui) e il mondo non si divide tra chi ha ragione o chi ha torto ma si perde nei rivoli di mille sfaccettature. Una città non ci sta mai in una narrazione univoca. Mai. E nemmeno le persone. Nel nostro Paese ognuno combatte un propria battaglia personale, ognuno ha a che fare con le proprie miserie e prova a rimanere in piedi nonostante le sue paure. Basta con la guerra con chi ha l’antimafia più lunga, la morale più appuntita o l’eroismo più peloso. In Italia ci sono imbecilli sotto scorta e magistrati (e ex magistrati) incapaci. Per dire.

Secondo me De Magistris ha sbagliato a argomentare le proprie accuse cavalcando la delegittimazione popolare che contro Saviano è in atto da sempre. E, come scrive Bolzoni, ha superato un confine. Ma si ama troppo per accorgersene.

Secondo me Saviano ha banalizzato il proprio giudizio su Napoli risultando fastidiosamente assoluto nella visione. Ma si ama troppo per accorgersene.

Di sicuro non prendere posizioni scomode è il modo migliore per stare tranquilli e piacere a tutti. E Roberto ha il coraggio di essere libero.

Di sicuro, ancora una volta, la camorra un po’ gode e ride sotto i baffi.