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Mafia e Expo: il filo che da Milano porta a Messina Denaro

Ci sarebbe un filo rosso che porta da Milano a Castelvetrano, o dovunque si trovi Matteo Messina Denaro. Un legame che, secondo i pubblici ministeri della procura lombarda che indagano sulle infiltrazioni di Cosa nostra a Expo, sarebbe rappresentato da Giuseppe Nastasi, imprenditore originario del paese del boss latitante. Per lui ieri l’accusa ha chiesto nove anni di carcere nel processo abbreviato nato dall’operazione Giotto. Gli contestano i reati di associazione a delinquere finalizzata all’agevolazione della mafia e riciclaggio. Ed è proprio l’imprenditore che, intercettato mentre parla col suo braccio destro Liborio Pace (pure lui accusato di essere trait d’union con Cosa nostra siciliana, in particolare con la famiglia di Pietraperzia), si mostra preoccupato per la latitanza di Messina Denaro.

«Lì – dice Nastasi riferendosi a Castelvetrano – si sono scantati, se Mimmuzzo si mette a parlare… ma non parla Mimmo (…) Eh, ma sono terrorizzati, eh? Vediamo… insomma che hanno arrestato uno, quello più vicino diciamo… Un bordello c’è al mio paese». Mimmuzzo sarebbe Domenico Scimonelli, imprenditore attivo nel settore della viticoltura e dei supermercati. Secondo la direzione distrettuale di Palermo è l’ultimo anello della catena di postini che ha permesso le comunicazioni del boss latitante. L’intercettazione che la procura di Milano ha depositato nell’inchiesta su Expo è stata registrata la sera del 23 agosto del 2015. Venti giorni prima Scimonelli è stato arrestato nell’ambito dell’operazione Ermes e sarà condannato a maggio con rito abbreviato a 17 anni di carcere per associazione mafiosa. Nastasi e Pace parlano a bordo di un’Audi dei timori in merito alle possibili rivelazioni che Scimonelli potrebbe fare agli inquirenti rispetto alla latitanza di Messina Denaro. «Ma a quanto pare – risponde Pace – questo è cristiano muto». «No, Mimmo è a posto», replica Nastasi.

Quest’ultimo, come emerge nell’ordinanza di arresto, è ritenuto vicino alla famiglia di Partanna, la stessa di cui Scimonelli sarebbe tra i vertici, nonché fedele alleata dei Messina Denaro. Un legame, quello tra Nastasi e Cosa nostra, che sarebbe garantito in particolare dal rapporto di amicizia con Nicola Accardo, ritenuto elemento di spicco della famiglia. Quando Accardo va a Milano, Nastasi lo aiuta per il trasferimento dall’aeroporto, gli trova e gli paga l’albergo, gli indica ristoranti. Disponibilità ricambiata quando l’imprenditore torna in Sicilia per le feste. Favori e cortesie che per gli inquirenti non si giustificano solo con un rapporto di amicizia. Ma anche di affari.

Ed è ricco il business che Nastasi avrebbe gestito grazie all’Expo di Milano. L’imprenditore è accusato di essere il reale gestore del consorzio di cooperative Dominus scarl, che all’esposizione universale ha realizzato i padiglioni di Francia, Guinea, Qatar e Birra Poretti, l’auditorium e il palazzo dei congressi. Appalti che in tre anni, dal 2013 al 2015, hanno permesso di ricavare 18 milioni di euro, pagati dalla società Nolostand, una delle controllate da Fiera Milano. Nolostand è stata commissariata e, assieme a Fiera Milano, ha chiesto 800mila euro di danni di immagine come parti civili (un milione la richiesta del Comune di Milano).

Nelle 70 pagine di informativa del Gico della Guardia di finanza depositate ieri dalla procura meneghina, si parla anche di un altro imprenditore con cui Natasi sarebbe entrato in contatto. Si tratterebbe di Antonio Giuliano Mafrici, di origini calabresi ma residente e attivo nella zona del Canton Vallese, al confine con la Svizzera. Secondo quanto annota la Finanza, l’imprenditore di Castelvetrano e il braccio destro Pace vanno a fare visita a Morici il 24 agosto del 2015 nella sua casa a Pedimulera, paesino del Piemonte nella provincia del Verbano-Cusio-Ossola. Intercettato in auto, mentre torna a Milano, Nastasi direbbe che Mafrici «si è messo a disposizione». L’imprenditore emigrato in Svizzera recentemente è finito nelle cronache perché arrestato per corruzione. L’accusa era di aver pagato delle tangenti per ottenere l’appalto per la ristrutturazione di alcune gallerie sulla strada del Sempione. Mafrici in carcere c’è rimasto solo 40 giorni. Il tribunale amministrativo svizzero ha dato ragione a lui nel ricorso presentato dalle imprese che erano arrivate seconde. E lo scorso luglio l’imprenditore è tornato a guidare la ditta che ha fondato nel 1993, la Interalp Bau, impresa di costruzioni che negli ultimi anni si è aggiudicata diversi appalti pubblici in Svizzera.

Infine, altro elemento presentato dai pm di Milano a sostegno delle accuse a Nastasi è un’altra intercettazione. Nastasi e Pace, prima di essere arrestati, sarebbero andati a casa di un avvocato, manifestandogli l’intenzione di farlo entrare nella cerchia degli uomini vicini a Matteo Messina Denaro. Colloquio che sarebbe stato ascoltato dai militari della Finanza. La procura lombarda ha chiesto la condanna a nove anni per Nastasi. La sentenza dovrebbe arrivare il 3 febbraio, mentre Pace e altri tre imputati sono a processo con rito ordinario.

(fonte)

Messico, hanno ucciso Isidoro Baldenegro López, il leader ambientalista vincitore del Goldman Prize che si batteva contro la deforestazione

Dopo anni di resistenza pacifica Isidro Baldenegro López, leader della popolazione indigena locale che cercava di fermare il disboscamento, è stato ucciso.

Isidro Baldenegro López amava la sua gente, la comunità degli indios messicani tarahumara, e amava le foreste della sua terra, e per questo è stato ucciso. Baldenegro, 51 anni, è stato ammazzato a colpi di arma da fuoco lo scorso 15 gennaio nel suo villaggio, Coloradas de la Viergen.

L’omicidio
Secondo le prime ricostruzioni l’attivista ambientale, che era da poco tornato nel suo villaggio per visitare uno zio dopo un lungo periodo di esilio forzato a causa delle numerose minacce contro di lui e la sua famiglia, è stato ucciso con sei colpi di pistola da un uomo poi identificato come Romero Rubio Martínez, ancora latitante.

Chi era l’uomo morto per le foreste e la giustizia
Isidro Baldenegro López era un contadino e leader della comunità degli indios tarahumara, ma sarebbe più corretto dire rarámuri, come si definiscono tra loro, che significa “colui che cammina bene”, in riferimento a uno dei tratti peculiari di questo popolo, la corsa. I rarámuri vivono in maniera tradizionale nell’aspro ambiente della Sierra Madre, dove si sono rifugiati dopo la colonizzazione spagnola, nella regione messicana del Chihuaua. Baldenegro ha dedicato la sua vita alla difesa dei diritti del suo popolo e delle antiche foreste della Sierra Madre, minacciate dalla deforestazione illegale e dai narcotrafficanti che coltivano piantagioni di marijuana sulle montagne disboscate. Taglialegna, allevatori e narcos hanno ormai distrutto quasi il 99 per cento delle foreste vetuste della regione, di fatto controllata dai violenti boss criminali locali. Baldenegro era perfettamente consapevole dei rischi che la sua missione comportava, quando era solo un ragazzo ha infatti assistito in prima persona all’assassinio di suo padre, ucciso proprio perché si oppose alla deforestazione. Eppure, nonostante le ripetute minacce di morte, Baldenegro ha scelto di rimanere e continuare difendere le foreste e i luoghi ancestrali che la sua comunità abitata da centinaia di anni.

Isidro Baldenegro López (left), 2005 Goldman Environmental Prize Winner, North America (Mexico), with elders of the Tarahumara community, Coloradas de la Virgen, Chihuahua, where he opposes illegal logging operations.

La lotta non violenta di Baldenegro
Nel 1993 Baldenegro istitutì un movimento di resistenza popolare non violenta per contrastare il disboscamento, ottenendo anche il sostegno di organizzazioni non governative locali e internazionali. Nel 2002, attraverso sit-in e marce pacifiche, spinse il governo a sospendere temporaneamente l’abbattimento di alberi nella zona. L’anno successivo mobilitò invece un immenso corteo di protesta, composto perlopiù da donne i cui mariti erano stati uccisi dai narcos, ottenendo uno speciale ordine del tribunale che vietava la deforestazione nella zona. Dopo questo successo, nel 2003, Baldenegro fu improvvisamente arrestato con l’accusa, in seguito rivelatasi falsa, di possesso di armi e droga. L’arresto contribuì comunque ad accrescere la popolarità di Baldenegro e a dare risalto alla sua lotta. I 15 mesi di carcere non piegarono l’uomo che subito dopo la scarcerazione fondò un’organizzazione di giustizia ambientale. Nel 2005 Baldanegro ha vinto il Goldman Environmental Prize, la più alta onorificenza che dal 1990 premia gli attivisti di tutto il mondo che si dedicano alla salvaguardia della natura, per la sua battaglia non violenta per proteggere le antiche foreste dal disboscamento.

Assassinato come Berta Cáceres
L’omicidio di Baldenegro riporta inevitabilmente alla mente quello di Berta Cáceres, leader del Consiglio delle organizzazioni popolari e indigene dell’Honduras (Copinh) che da anni si batteva per difendere i diritti della sua comunità e per proteggere le terre ancestrali del suo Paese dalla deforestazione e dallo sfruttamento, assassinata nel marzo 2016. Anche Berta Cáceres era stata insignita del Goldman Environmental Prize, Baldenegro è dunque il secondo premiato ucciso in meno di 12 mesi.
“Siamo profondamente addolorati per la morte di Isidro Baldenegro – ha commentato Susan R. Gelman, presidente della Goldman Environmental Foundation. – Chiediamo alle autorità di punire gli autori di questo insensato gesto di violenza e chiediamo alla comunità internazionale, che si è radunata in difesa di Isidro durante la sua prigionia nel 2003, di riunirsi ancora per onorare e proteggere la sua eredità”

Lo sterminio degli ambientalisti in America Latina
Questi due omicidi, i più noti ma non certo gli unici, ci ricordano i pericoli che devono affrontare gli attivisti ambientali in certe aree del pianeta. Secondo la ong britannica per la difesa dei diritti umani Global Witness, nel 2015 almeno 122 attivisti sono stati assassinati in America Latina durante il tentativo di proteggere le risorse naturali locali, minacciate dalla costruzione di dighe, miniere, località turistiche e dal disboscamento. Il 2015 è stato in assoluto l’anno più letale mai registrato per gli attivisti ambientali a livello globale, con almeno 185 morti. C’è qualcosa di donchisciottesco in queste persone che, armate solo del loro senso di giustizia, sfidano enormi multinazionali e organizzazioni criminali, eppure non sono dei visionari, sono semplicemente persone normali (con un coraggio straordinario) che vogliono vivere in pace, senza che il proprio ambiente venga distrutto. Siamo sicuri che la lotta pacifica di Baldenegro sarà fonte di ispirazione per tante persone che lottano per proteggere l’ambiente e i diritti dei popoli indigeni, augurandoci che i governi, troppo spesso complici di queste violenze, sappiano proteggere i loro cittadini consentendogli di esprimere il loro dissenso.

«Come è lassù?» «Non c’è più niente»: un reportage per capire di più su Rigopiano

(un reportage da incorniciare dell’Ansa)

Quando finalmente sono arrivati lassu’, a 1.200 metri, in molti sono scoppiati in lacrime: 20 ore di fatica bestiale arrancando tra muri di neve e un vento gelido per trovare un pugno di macerie. Vigili del fuoco, poliziotti, carabinieri, uomini del Soccorso Alpino e della Guardia di Finanza, medici, paramedici e volontari della Protezione Civile hanno impiegato una notte intera per raggiungere l’hotel Rigopiano, una notte infernale e assurda, fatta di dolore e ingegno per risolvere i problemi.
Il loro viaggio e’ cominciato verso le 18 di ieri, quando l’allarme lanciato da Giampiero Parete, uno dei due sopravvissuti, e’ arrivato nelle centrali operative. “C’e’ un hotel completamente isolato in una frazione di Penne”, e’ stata la prima comunicazione. Le colonne si sono mosse dall’Aquila e da Pescara, ma subito ci si e’ resi conto che salire i tornanti che da Penne portano nel cuore del Gran Sasso, sarebbe stata un’impresa. Da Penne all’hotel, infatti, sono meno di 25 chilometri, massimo mezz’ora di macchina in condizioni normali. Ma non oggi: usciti dal paese, ogni 500 metri la neve aumenta di 20 centimetri. Imboccato il bivio per Fivirola, l’ultimo paesino prima dell’hotel, il silenzio e’ totale, come il manto bianco che avvolge tutto e che raggiunge il metro d’altezza. I mezzi passano a fatica, alcuni con le catene montate a tutte e quattro le gomme, ma passano. Attorno alle 19 le avanguardie gia’ sono in contrada Cupoli, quattro case e un bar dove abitano anche alcuni dei dipendenti dell’albergo: mancano solo 11 km al Rigopiano ma la neve raggiunge i due metri e i telefoni cellulari non prendono: i soccorritori parlano tra loro e con le rispettive centrali soltanto via radio.
Ed e’ qui che inizia l’odissea, quella vera. Fatti i due primi tornanti, il muro di neve ai bordi della provinciale copre completamente i cartelli stradali; la strada e’ ridotta ad un’unica carreggiata: se passa qualcuno nel verso opposto bisogna fare centinaia di metri in retromarcia nella neve e, in diversi punti, gli alberi crollati per la troppa neve riducono ancora l’asfalto percorribile. Si decide cosi’ di fermare i mezzi pesanti, si va avanti solo con le campagnole. Ad aprire la strada e’ una turbina, una macchina che serve a strappare la neve dall’asfalto e spararla di lato.
Attorno alle 22 i mezzi imboccano l’ultimo tratto di strada, i 9 km dal bivio di Rigopiano all’albergo. E dietro la prima curva l’avanzata s’arresta: la macchina incontra alberi e rami sulla sua strada. Se prosegue, la fresa – che impiega un’ora per fare 700 metri – si rompe e addio hotel. Tocca ai vigili del fuoco con le motoseghe, aprire la strada. Sotto la neve che continua a cadere e con almeno 5 gradi sotto zero. Cosi’, non s’arriva. Quattro uomini del Soccorso Alpino della Guardia di Finanza e del Soccorso Alpino civile, a mezzanotte, si sganciano. Con gli sci con le pelli di foca ai piedi cominciano a salire, lentamente, tra la bufera di neve. Quattro ore d’inferno. “Siamo arrivati stamattina verso le 4 – racconta il maresciallo della Gdf Lorenzo Gagliardi – abbiamo dovuto utilizzare gli sci d’alpinismo per scavalcare i muri di neve. In alcuni punti non si vedeva neanche dove fosse la strada”. E quando arrivano su capiscono che la situazione e’ drammatica. Ma e’ ancora buio pesto e non possono rendersi conto di quel che li’ attendera’ poche ore dopo. Riescono, pero’, a raggiungere i due sopravvissuti, Fabio Salzetta e Giampiero Parete, che solo per un caso si trovavano fuori al momento dell’arrivo della slavina.


Qualche chilometro dietro, intanto, si continua ad avanzare lentamente. La luce dell’alba consente agli elicotteri di alzarsi in volo e finalmente si capiscono le dimensioni della tragedia e le difficolta’ di chi deve cercare di salvare piu’ vite possibili. Quelle auto incolonnate tra gli alberi, in un mare di neve, sembrano le vecchie carovane dei pionieri che attraversavano l’Alaska in cerca di oro. Attorno alle 8 del mattino la turbina si ferma: e’ finito il gasolio. Le riserve ci sono ma sono un paio di chilometri indietro. Cosi’ una ventina di vigili del fuoco prede una tanica a testa e torna indietro a piedi nella neve, fa rifornimento dagli altri mezzi e torna indietro, consentendo alla macchina di ripartire. E arriva anche ‘il bruco’, un mezzo cingolato che puo’ trasportare fino ad otto persone.
E’ quasi mezzogiorno quando la colonna imbocca l’ultimo chilometro, il piu’ difficile. Gli alberi crollati sono ovunque e una nuova slavina rallenta ancora l’avanzata. “Mai vista cosi’ tanta neve. Mai trovata una situazione cosi’ difficile” racconta esausto chi scende. Finalmente i mezzi riescono ad aprirsi il varco giusto, ma gli ultimi 300 metri vanno fatti a piedi. Per forza. Viene cosi’ creato un ‘parcheggio’ spazzando via centinaia di metri cubi di neve.
E, con la neve alle ginocchia, i soccorritori arrivano finalmente all’hotel e, 20 ore dopo aver cominciato, possono finalmente iniziare il loro lavoro. Verso le 15 qualche mezzo comincia a scendere dall’hotel, a breve arrivera’ il cambio. Dentro ci sono facce distrutte, stralunate, sconvolte. Come e’ lassu’? “Non c’e’ piu’ niente”.

Intanto i 28 milioni di euro di sms per i terremotati non si vedono ancora

(ne ha scritto Ilario Lombardo per La Stampa)

Nel giorno in cui la terra è tornata a tremare con forza nelle zone dell’Italia centrale, già fiaccate da uno sciame infinito, si viene a scoprire che i 28 milioni di euro donati dagli italiani per i terremotati di Marche, Lazio e Abruzzo sono ancora fermi nel conto aperto presso la Tesoreria Centrale dello Stato. Il Movimento 5 Stelle ha chiesto conto al governo di questi soldi raccolti attraverso sms e bonifici bancari durante il question time alla Camera, in un botta e risposta tra la deputata Laura Castelli e il neo-ministro dei Rapporti con il Parlamento Anna Finocchiaro.

E così veniamo a sapere che, per una logica che appare puramente burocratica, i soldi ci sono ma non si possono toccare: il «protocollo d’intesa per l’attivazione e la diffusione dei numeri solidali», firmato con le società di telefonia che raccolgono gli sms solidali, e disponibile sul sito della Protezione civile, prevede un percorso preciso che sembra non tener conto del freddo, della neve, delle esigenze del territorio, dei bisogni della popolazione, del terrore delle nuove scosse. Come ricorda Finocchiaro in aula, prima si deve predisporre un’analisi dei danni nelle singole regioni e poi si sottopone a un comitato di garanti, che deve verificare il rispetto delle norme nell’utilizzo dei fondi.

Alla fine, i soldi dovrebbero arrivare. «Una procedura incredibilmente lenta che stride rispetto all’emergenza – spiega Castelli – il paradosso è che la solidarietà resta ostaggio della burocrazia». In effetti, la particolare conformazione montuosa del territorio, la prevedibilità della stagione rigida dalla quale non si scappa, avrebbe dovuto rendere la macchina della solidarietà più flessibile per mettere a disposizione i 19 milioni di euro raccolti (in due tranche, al 30 novembre 2016) via sms tramite il numero 45500, e i quasi 8 milioni arrivati con bonifico bancario al 10 gennaio 2017. Il primo terremoto, di questa lunga serie che ha sconvolto il cuore del Paese, è del 24 agosto. Se si tiene conto solo di questo evento, quello più indietro nel tempo, e delle prime donazioni via cellulare chiuse il 9 ottobre, si contano 15 milioni fermi da oltre tre mesi.

E tre mesi valgono come tre anni per chi non ha una casa e vede la neve sommergere le macerie senza che dia l’illusione di dimenticare. Per dire, altre forme di raccolta fondi, promosse da aziende private, hanno già prodotto risultati concreti e visibili. Il 29 gennaio, salvo proroghe, si chiuderà la terza donazione tramite sms, che, partita il 31 dicembre, ha già fruttato oltre un milione di euro. Sono 2 euro per ogni messaggio. Servono per ricostruire case, scuole, per salvare allevamenti e colture. L’importante è farli arrivare presto a chi sono destinati.

La grammatica dello stupro 2.0. Su Facebook.

(L’articolo di Maurizio De Fazio per l’Espresso)

Sono tutti gruppi Facebook chiusi, a iscrizione e l’unico modo per introdursi è quello di fingersi uno di loro. Un “vero maschio” che parla come un giornale porno anni ‘70 e per cui la parità tra i sessi è la più grande mistificazione. Eccoci precipitati nel gorgo dell’ultra-misoginia 2.0. Il gruppo Cagne in calore conta oltre 18 mila iscritti. Christian C. B., un libero professionista di Reggio Emilia che come tanti nemmeno prova a camuffare il suo nome e cognome autentico, come se non ci fosse nulla di sbagliato in quello che fa, scrive: “Come dorme la mia dolce metà! Cosa ne dite?”. E posta una foto della sua compagna immortalata a sua insaputa mentre sonnecchia, in mutandine, con le lenzuola scostate. Si accende la rituale canea di commenti. Sostiene un certo Danilo: “Se vuoi vengo a darti una mano, e mentre me la faccio (…): vedrai che dopo i primi colpi comincia a godere come non ha mai goduto”.

A inizio anno è stato rimosso il gruppo francofono Babylone 2.0: migliaia di uomini vi condividevano foto delle loro presunte conquiste, corredate da testi oltraggiosi e sessisti. La notizia ha fatto il giro del mondo. Ma di gruppi simili ne esistono a decine soltanto in Italia. Nascono e rinascono in continuazione. Uomini che umiliano le donne sfruttando l’effetto gogna sconfinata dei social network. Uomini che bersagliano le donne con epiteti rancidi e vili. Quando le nostre mogli, figlie, amiche sono al mare o in palestra, in ufficio o alla stazione, un numero considerevole di insospettabili sta lì a fotografarle di nascosto per riversare le immagini sul loro Facebook parallelo.

Scatti normalissimi, spesso a figura intera e col viso scoperto; istantanee di quotidianità rubate anche dalle pagine social, che rimbalzano di bacheca in chat e infine su Whatsapp. Basta poco per trasformare un semplice selfie in un pretesto di lapidazione morale.

In un gruppo dal nome tragi-grottesco (Seghe e sborrate su mie amiche)  Giovanni S. un ragazzo piemontese dall’aria perbene, posta l’immagine di una ragazza comune in jeans e canotta che commette però l’impudenza di sorridere: “Labbra da pompinara da riempire” è il suo pensiero istantaneo. Come se la sua unica colpa fosse quella di essere una donna: una merce sempre in fregola e sempre in saldo sotto la scorza di fuorviante normalità. Qualche tempo fa lo stesso Giovanni aveva condiviso un articolo sul suo account personale Facebook che sensibilizzava contro la violenza sulle donne. Oppure sono scatti privati, inviati in buona fede ma dati poi in pasto con l’inganno a una marea di sconosciuti.

Gigi P. da Palermo ama scambiare momenti intimi della sua fidanzata “con chi mi fa vedere la propria”. Lo contattiamo. Quanti anni ha la tua ragazza? “Venti”, e ci sfodera un ricco album di suoi primissimi piani anatomici. “Ma lei lo sa?”. E lui: “Ovvio che no. Pubblico in giro le foto che lei mi manda per eccitarmi”. Pure Flavio F., un impiegato di Torino, vorrebbe scambiare “figurine di famiglia” con noi: “Ti mando foto della mia amante, della mia ex o delle mie amiche. Dipende da come mi contraccambi”. Nel gruppo Zozzoni e Zozzone quasi hot (7 mila iscritti) tale  Frank Jo Jo C., che nella vita gioca a calcio a livello professionistico, inserisce uno scatto della moglie a bordo piscina e un po’ si strugge: “Sto cercando di coinvolgerla con un altro uomo, ma non è facile”. Gli viene in soccorso Pierpaolo (“Dammi il numero così la chiamo”). Ma Frank non si dà pace: “è troppo seria purtroppo”.

Certe volte la molla scatenante è invece una turpe vendetta da consumare gettando fango su qualche vecchia fiamma. Qui siamo dalle parti del “revenge porn”, come nel drammatico caso di Tiziana Cantone. In La esibisco, foto amatoriali e avvistamenti (un’altra stanza Fb blindata amministrata da Sabatino B, autotrasportatore di Civitavecchia e Pietro M, catanese con tatuaggi e sopracciglia ad ali di gabbiano) si produce, ad esempio, Claudio: “E che ne dite di questa che per otto anni me la sono scopata? Se c’è qualcuno interessato, in privato posso dire dove può trovarla”. La cessione di un diritto feudale.

Ci spostiamo nel gruppo Mogli e fidanzate Napoli esibizioniste e troie, 15 mila fedelissimi. Ralph M. mette all’asta sua sorella e i convenuti intraprendono la consueta geolocalizzazione del tesoro. Perché il fine ultimo è la caccia reale alla preda. Si cerca perciò di carpire le generalità dell’ignara protagonista di turno: le sue abitudini, il suo indirizzo. E dall’abuso verbale alla violenza fisica, il passo può essere breve.

Andrea P. è un habitué del gruppo Giovani fighette per porci bavosi (11 mila membri) e carica il file jpeg di una ragazza castana in costume sul letto: “Altra bella fighetta” è il suo contrassegno da gentleman. Daniele minaccia: “Io la rompo una cosi”. Un altro: “Per i capelli: bocca aperta, pene fino in gola”. E la fantasia di stupro è servita. L’abisso è vicino anche in Scatti per le strade italiane e non. Riccardo V. sciorina il suo atout: una ragazza di spalle in supermini jeans al supermercato. Si infuriano tutti. Giulio: “Una zoccoletta”. Uno sulla settantina: “Merita di essere sbattuta per bene a pecora”. Claudio: “Sto arrivando troia”. Nel frattempo, Marco da Napoli: “Mia cognata riposa inconsapevole di non essere sola” et voilà due immagini dell’attempata parente intenta nella siesta pomeridiana. Tanto basta a fomentare gli animi. E c’è chi vomita oscenità da bagno pubblico all’indirizzo fotografico di ragazzine che paiono minorenni.

L’articolo 167 del codice della privacy prevede la reclusione da uno a sei mesi per chi pubblica foto senza consenso. Ma di fatto viene garantita l’impunità a questi nuovi primitivi che vedono “zoccole e vacche” ovunque. Tante donne soffrono in silenzio, e l’umiliazione del cyberbullismo a sfondo sessuale si mescola alla paura e alla frustrazione. Denunciare alla polizia postale sembra inutile, e su Facebook nessuna grande campagna di pulizia e polizia interna è in corso. L’importante, si sa, è rispettare i suoi “standard specifici”. La dignità femminile non fa parte dell’algoritmo.

La dolce vita di Alfano jr: 200mila euro senza firmare un solo documento

(da Repubblica)

Quattro anni in Poste. E nessun documento firmato. È quanto emerge dal rapporto che la guardia di finanza ha consegnato nei giorni scorsi alla procura presso la Corte dei Conti. L’indagine riguarda l’assunzione e la carriera record di Alessandro Alfano, il fratello del potentissimo Angelino, ex ministro della Giustizia nel governo Berlusconi, ex ministro dell’Interno nei governi Letta Renzi, ora ministro degli Esteri nel governo Gentiloni, nonché ex segretario politico del Pdl e ora leader di Ncd.

La carriera record del fratello del Ministro. Alessandro, una laurea triennale in economia conseguita a 34 anni, ha bruciato le tappe nella carriera da dirigente in Postecom. Il suo stipendio è passato dal 2014 al 2016 da 160 a 200 mila euro. Ora però un’inchiesta della Corte dei Conti – affidata al nucleo valutario della guardia di finanza – cerca di capire se le promozioni di Alfano jr (a cominciare dall’assunzione), siano avvenute per meriti professionali. O per meriti di parentela causando, se dimostrata questa ultima ipotesi, un danno erariale. “Siamo di fronte a un ri-uso politico di scarti di inchiesta giudiziaria“, si era difeso il ministro Alfano.

I dubbi sull’assunzione. Ma le carte giudiziarie sembrano raccontare un’altra storia. Il consigliere d’amministrazione di Poste Italiane, “dottor Antonio Mondardo aveva manifestato la propria perplessità all’allora ad Massimo Sarmicirca le motivazioni che avevano portato all’assunzione di Alessandro Alfano, senza che il cda fosse portato a conoscenza dell’esigenza di dover ricoprire tale ruolo, e che per tale carica fosse prevista l’assunzione del citato dirigente”. Nel luglio del 2016, dopo essere stato sfiduciato dal direttivo regionaleAntonio Mondardo, 51 anni, tesoriere della Liga Veneta-Lega Nord, aveva tentato il suicidio.

L’ex ad Sarmi sbugiardato dal collaboratore. Ma c’è dell’altro, perché lo stesso Sarmi, sentito nel febbraio scorso a sommarie informazioni dai finanzieri, avrebbe mentito: “Sapeva che Alessandro Alfano era il fratello del ministro?”, gli chiede la finanza. “No, non mi sembra che all’epoca si era preso in considerazione questo legame”, risponde Sarmi. A sbugiardarlo ci pensa il suo stesso braccio destro in Poste, Claudio Picucci. “Lei aveva informato Sarmi che Alessandro era il fratello del ministro?”, domandano gli investigatori. “Sicuramente sì, anche perché il nome era altisonante”, afferma Picucci. “E chi aveva presentato il cv di Alessandro Alfano?”, incalzano gli inquirenti. “Ritengo (l’allora, ndr) l’ad di Poste, Sarmi”. “Di sua iniziativa – precisa Picucci- (Sarmi, ndr) mi inviò il curriculum non per soddisfare un’esigenza immediata, ma per tenerlo in considerazione nel caso in cui fossero emerse necessità”.

Le intercettazioni del faccendiere. Ci sono poi le intercettazioni della procura capitolina su un uomo vicino ad Angelino Alfano, il faccendiere Raffaele Pizza, arrestato il 6 luglio. In una delle conversazioni intercettate nel gennaio del 2015, Pizza si vantava con Davide Tedesco, storico collaboratore del ministro Alfano, di aver facilitato, grazie ai suoi rapporti con l’ex amministratore di Poste, Sarmi, l’assunzione del fratello del ministro in una società del Gruppo, Postecom. Pizza diceva: “Lui come massimo (di stipendio, ndr) poteva avere 170 mila euro e io gli ho fatto avere 160 mila. Tant’è che Sarmi stesso gliel’ha detto ad Angelino, ‘Io ho tolto 10 mila euro d’accordo con Lino’ (Pizza, ndr), per poi evitare. Adesso va dicendo che l’ho fottuto perché non gli ho fatto dare i 170 mila”.

Primo stipendio, 160mila euro. E così Alfano jr entra in Postecom nel 2013 con uno stipendio lordo da 160 mila euro l’anno. Diventano 180 quando Alessandro Alfano, nel gennaio del 2015, passa a un’altra società del gruppo, Poste Tributi. E infine l’ultima promozione per il fratello del ministro porta la data del maggio 2016, passaggio in Poste italiane e salario (lordo) da 200 mila euro.

La Russia depenalizza la violenza domestica: «fa parte della nostra cultura»

Il parlamento russo ha approvato in prima lettura un disegno di legge per depenalizzare alcune forme di violenza domestica, provocando reazioni di forte sdegno da parte degli attivisti.

Lo scopo della legge, proposta dalla parlamentare Yelena Mizulina, è quello di degradare da penali ad amministrativi i reati riguardanti abusi domestici che provochino lesioni considerate meno gravi (ovvero che non necessitino cure ospedaliere o congedi dal lavoro), sia da parte di genitori nei confronti dei figli, che tra coniugi.

La parlamentare è la stessa che pochi anni fa aveva sostenuto la campagna per criminalizzare le relazioni omosessuali, aggravando notevolmente la situazione della comunità Lgbtq russa.

Il disegno di legge ha avuto il suo primo passaggio alla Duma, il parlamento russo, mercoledì 11 gennaio, con una maggioranza schiacciante di voti favorevoli, visto che 368 deputati su 450 hanno votato a favore di quella che è stata soprannominata la “legge sugli schiaffi”. Solo un deputato ha votato contro, mentre un altro si è astenuto.

Secondo la proposta di legge, se un cittadino dovesse essere coinvolto per la prima volta come colpevole in un reato legato alla violenza domestica non sarebbe condannato da codice penale, ma pagherebbe soltanto una multa o farebbe servizio presso una comunità. Nel caso invece in cui reati di questo genere si ripetessero, verrebbe considerata una pena detentiva.

Una delle frasi che più ha dato fastidio a chi si oppone alla legge è quella della stessa deputata Mizulina, riportata dal Moscow Times: “Le pene per i reati non dovrebbero essere in contraddizione con il sistema di valori della società. Nella cultura tradizionale russa, le relazioni padre-figlio sono costruite in base all’autorità dei genitori. Le leggi dovrebbero sostenere queste tradizione famigliari”.

Secondo quanto riporta la Bbc, i dati ufficiali sulla violenza domestica in Russia sono molto limitati, ma le stime sulla base di studi regionali suggeriscono che circa 600mila donne russe debbano affrontare abusi fisici e verbali tra le mura domestiche, e che ogni anno in 14mila perdano la vita per le ferite inflitte da mariti o partner, quasi 40 al giorno.

Anche le Nazioni Unite hanno in passato criticato la nazione per la sua incapacità di promuovere i diritti delle cittadine, e hanno sostenuto la necessità di adottare una legislazione in difesa delle donne, così come di istituire centri di supporto per le vittime di violenza domestica.

(fonte)

La dignità da restituire ai poveri. Il ristorante per i senzatetto di Ernesto Pellegrini, ex presidente dell’Inter.

(Giangiacomo Schiavi per Il Corriere della Sera)

La dignità da restituire ai poveri. Uno sforzo per non lasciarli soli. Il ricordo delle fatiche, dei sogni, delle speranze, dei genitori, ortolani nella Milano tra le due guerre. C’era la fame, ma c’era tanta solidarietà. E sempre la porta aperta, per chi aveva bisogno e portava ogni giorno la sua croce,  sulla terra, nei campi, nella stalla. Ernesto Pellegrini ce l’ha scritta in faccia la sua storia. Una storia piena di ricordi, piccole e grandi felicità, qualche tristezza e momenti di gioia accanto a  persone semplici, che non si dimenticano. Come Ruben. Un uomo della sua giovinezza uscito dal mondo dei vinti, un contadino, un bracciante che dava una mano alla sua famiglia e riceveva in cambio una paga, un tetto, un pasto caldo.

Oggi questo nome è scritto in grande, all’ingresso di un ristorante.  Ruben a Milano è un luogo che offre un po’ di umanità alle persone costrette dalla crudeltà degli eventi a diventare ombre. Si paga un euro. Prezzo simbolico per dare accessibilità a chi nelle tasche ha poco o niente.

Pellegrini l’ha inventato per un debito personale e umano con una persona sfortunata, a quell’uomo della sua infanzia sfrattato dalla società quando i campi coltivati della sua famiglia furono espropriati.Mentre il giovane Ernesto lavorava a Milano e cominciava la sua carriera di imprenditore delle mense, Ruben si trovò senza più nulla, dormiva in una baracca, al freddo, solo come un cane. Un giorno d’inverno lo trovarono morto e il titolo della Notte, il giornale del pomeriggio, diceva così: Barbone muore assiderato.

“Quando l’ho letto ho pensato a come era diventata disperata la sua solitudine.  Mi ero ripromesso di aiutarlo, ma non ce l’ho fatta per tempo. Non era un barbone, ma un uomo schiacciato dalla vita e dagli eventi…”.  A lui è dedicato il ristorante a un euro, Rubén: per non lasciare solo chi ha perso il lavoro, è malato, disoccupato, separato, senza una casa. A chi fa parte della categoria: nuovi poveri. Che qui possono trovare un luogo amico, dove portare figli e familiari senza doversi vergognare. Perche Ruben non è la mensa dei disperati.  E’un ristorante vero, dove il prezzo è un regalo.

Ernesto Pellegrini dalla vita ha avuto molto. E’ diventato un marchio di successo. La sua azienda ha compiuto cinquant’anni e dà lavoro a 8mila persone. E’ stato presidente dell’ Inter. Ha vinto scudetti e coppe. La sua bacheca è ricca di trofei professionali e sportivi.  Ma si commuove ogni volta che parla di Ruben. Perché il ristorante solidale nel quale i commensali vengono inviati dalle parrocchie, dalla Caritas, dai centri del volontariato, è il suo ritorno alle origini, all’amicizia, alla solidarietà concreta che ha imparato da bambino.

Ruben e il suo ideatore, Ernesto Pellegrini, con la sua famiglia, è la buona notizia che abbiamo scelto per l’anno 2016. Perché nei giorni dell’emergenza freddo in cui si guarda con attenzione al mondo degli ultimi, a chi vive con un cartone addosso scomparendo dalla vista delle persone, chi si occupa di loro con umanità e serietà merita un riconoscimento e una stretta di mano. Pellegrini è un uomo schivo, di fede, che non ama farsi pubblicità. Ma il suo gesto, il suo altruismo, fanno bene anche a noi. Merita di essere premiato con i colleghi che la Civitas casertana e   giornalisti campani e cattolici hanno scelto tra quelli che mettono in evidenza le positività che ci sono nel nostro Paese.

Il 21 febbraio, alle 16, nella biblioteca del seminario in piazza Duomo, a Caserta,  con Luigi Ferrajuolo che coordina il premio, ci saranno anche padre Lombardi, Safiria Leccese, Jozsef Eric e Arturo Mari,  comunicatori e narratori che cercano di vedere la speranza dietro le notizie. E ogni  tanto trovano persone come Pellegrini, che aiutano a scrivere in prima pagina anche del bene.

Benetton, la violenza e le terre dei Mapuche

Succede nella provincia di Chubut, in Argentina. La comunità Mapuche di Cushamen è stata vittima delle violenze della polizia contro i manifestanti che mercoledì chiedevano l’annullamento della compravendita dei loro terreni (abitati da secoli) tra lo Stato e la Benetton.

La denuncia arriva da numerosa comunità internazionali (tra cui Amnesty International) che lamentano  “un’azione da parte della polizia che non trova nessuna correlazione con la realtà” per la brutalità con cui su è rovesciata sui cittadini inermi. “Opacità, la mancanza di trasparenza e di responsabilità non possono essere i principi che attraversano la gestione della polizia” ha dichiarato Mariela Belski, direttore esecutivo di Amnesty International Argentina in un comunicato.

I Mapuche da due anni protestano per un accordo che gli ha scippato le terre in cui vivevano da secoli a favore di Luciano Benetton che in Patagonia, con l’aiuto della politica, si è già comprato qualcosa come un milione di ettari di terreno.

Ma questa notizia, vedrete, difficilmente la leggerete dalle nostre parti. Troppa pubblicità in ballo e poi da noi le violenze da quelle parti interessano pochissimo. Anche se vengono perpetrate in nome di un colonialismo tutto italiano.

Qui trovate la notizia e, se volete, qui c’è la pagina Facebook della comunità in lotta.

‘Ndrangheta, il pentito Patania: «Ho assoldato io i killer per uccidere Scrugli»

Vasvi Beluli e Arben Ibrahimi, i killer venuti dall’ex Jugoslavia, sono stati assoldati da Giuseppe Patania per vendicare la morte del padre, Fortunato Patania, e uccidere Francesco Scrugli, esponente di spicco dei “Piscopisani” ed indicato come uno dei responsabili di quell’agguato. E’ questo l’aspetto principale emerso nel corso dell’udienza del processo antimafia denominato “Romanzo criminale” contro il clan dei Patania di Stefanaconi.

La confessione. Giuseppe Patania, detto Pino, ha risposto alle domande del pm della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, Andrea Mancuso, autoaccusandosi di aver assoldato i due killer macedoni per compiere l’omicidio di Francesco Scrugli avvenuto nel marzo del 2012 a Vibo Marina. “Ho assoldato Vasvi Beluli e Arben Ibrahimi – ha sostenuto – per uccidere Scrugli. Un omicidio che ho organizzato insieme a Daniele Bono. La mia famiglia e i miei fratelli non erano al corrente”. Oltre al collaboratore di giustizia Daniele Bono, nella sua confessione, Giuseppe Patania ha anche chiamato in causa un altro killer, il sardo Mauro Uras. Secondo quanto dichiarato, Patania avrebbe quindi agito per vendicare l’omicidio di suo padre. “Ero lì, al distributore di benzina, nella Vallata del Mesima, quel giorno che hanno ammazzato mio padre e tra i killer ho riconosciuto Scrugli”. Pino Patania ha quindi dichiarato di essersi recato personalmente a Roma per prendere i due killer e portarli in Calabria. A loro avrebbe quindi consegnato le armi, una pistola calibro 9 ed una calibro 45. “Sono stato io ad andare a prendere i due killer a Roma ed ho consegnato loro 10 mila euro la mattina dopo l’omicidio”

Killer-pentiti. Che i Patania avessero assoldato i killer venuti dall’ex Jugoslavia per sparare contro i “Piscopisani” nell’ambito della cruenta faida che ha insanguinato il Vibonese a cavallo tra il 2011 ed il 2012, era un fatto già noto. Il particolare era emerso, infatti, nel corso delle deposizioni di Vasvi Beluli e Arben Ibrahimi che oggi sono collaboratori di giustizia e che da pentiti hanno raccontato la faida e gli omicidi commessi nei minimi dettagli. Nel corso del loro esame si è appreso che i Patania avrebbero promesso ai due killer-pentiti sino a 10mila euro per compiere gli agguati nel Vibonese contro il clan dei Piscopisani e altri gruppi mafiosi di Stefanaconi. Fatti di sangue commessi nel 2012 anche con carabine di precisione piazzate in un immobile a pochi metri dalla Questura di Vibo Valentia.
L’esame di Salvatore e Nazzareno Patania. Nell’udienza di oggi, oltre a Giuseppe Patania, hanno chiesto ed ottenuto di essere sottoposti ad esame da parte del pm Andrea Mancuso anche gli altri due suoi fratelli, Salvatore e Nazzareno Patania. Dalla loro deposizione è emerso in particolare il rapporto difficile che entrambi avevano con la collaboratrice di giustizia Loredana Patania. “E’ mia cugina – ha detto Salvatore Patania in aula – ma non ho mai avuto un bel rapporto con lei e non mi sono mai interessato di lei, neanche dopo l’omicidio di suo marito, Giuseppe Matina”. Sulla stessa posizione il fratello Nazzareno che, al contrario di Salvatore, ha confermato la presenza della collaboratrice di giustizia a casa della madre dei Patania, Giuseppina Iacopetta, dopo l’agguato che costò la vita a Matina. “E’ stata a casa di mia madre per dieci o quindici giorni”.  I rapporti con Loredana Patania non erano buoni. “Non mi piaceva il suo carattere – ha affermato Nazzareno Patania – e per questo non siamo andati neanche al suo matrimonio”. E che la pentita avesse frequentato per un periodo la casa di Giuseppina Iacopetta è stato confermato in aula da Pino Patania. “Dopo l’omicidio – ha spiegato – è rimasta a casa mia per una decina di giorni, poi io sono partito per portare il fratello a Milano e quando sono rientrato lei era a casa di mia madre dove è rimasta per altri dieci o quindici giorni prima di ripartire per la Lombardia”.
Gli imputati. Ad essere accusati del reato di associazione mafiosa sono: Giuseppina Iacopetta, ritenuta al vertice della cosca dopo l’uccisione del marito, Fortunato Patania, freddato nel settembre 2011 durante la faida con i Piscopisani; i figli Salvatore, Saverio, Giuseppe, Nazzareno e Bruno Patania; Andrea Patania; Cosimo e Caterina Caglioti; Nicola Figliuzzi; Cristian Loielo; Alessandro Bartalotta; Francesco Lo Preiato; Ilya Krastev. L’ex maresciallo dei carabinieri, già alla guida della Stazione di Sant’Onofrio, Sebastiano Cannizzaro, è invece accusato di falso e concorso esterno in associazione mafiosa. Tale ultimo reato viene contestato anche a don Salvatore Santaguida, parroco di  Stefanaconi.

 

(Mimmo Famularo per Zoom24)