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‘Ndrangheta: il pentito Mantella racconta l’asse Vibo-Lamezia

Gettano un fascio di luce anche sulle dinamiche criminali sviluppatesi negli ultimi anni sull’asse Vibo-Lamezia Terme le ultime dichiarazioni del pentito vibonese Andrea Mantella. Verbali del tutto inediti, depositati nel procedimento nato dall’operazione antimafia denominata “Andromeda” contro i clan lametini. E’ dinanzi al pm della Dda Elio Romano, affiancato da alcuni investigatori della Squadra Mobile di Catanzaro, che il nuovo collaboratore di giustizia mette a verbale dichiarazioni pesanti che vanno ad “irrobustire” l’impalcatura accusatoria nei confronti delle cosche di Lamezia Terme.

“Già dalla fine degli anni ’90 – ha spiegato l’ex esponente di vertice del clan Lo Bianco di Vibo – durante la mia permanenza nel carcere di Siano, ho conosciuto vari elementi della cosca Iannazzo e nello specifico Francesco Iannazzo, detto “Cafarone”, Giovannino Iannazzo, Pietro Iannazzo, già presidente del Sambiase-calcio, Gino Daponte e Peppino Daponte”. Secondo Andrea Mantella, i Daponte di Sambiase sarebbero stati “da sempre vicini alla cosca Iannazzo”, la consorteria storica del Lametino ritenuta la più potente e quella più legata ai clan vibonesi ed in particolare ai Mancuso di Limbadi e Nicotera. “Una volta uscito dal carcere – ha riferito Mantella – ho conosciuto anche Antonio Davoli con il quale ho intrattenuto rapporti diretti. Gli incontri, con una cadenza di almeno due volte al mese, avvenivano presso l’abitazione di Domenico Bonavota a Sant’Onofrio”. Ad avviso del collaboratore di giustizia vibonese, in tali incontri Antonio Davoli sarebbe intervenuto “in rappresentanza della cosca Iannazzo ed in particolare di Vincenzino Iannazzo”, quest’ultimo ritenuto al vertice dell’omonimo clan di Sambiase.

I legami fra i Iannazzo ed i Vallelunga. Andrea Mantella ricorda quindi di aver incontrato Antonio Davoli anche in alcune proprietà del boss Damiano Vallelunga (foto a destra), ubicate in contrada Ninfo a Serra San Bruno. A convocare Mantella nell’abitazione del boss dei “Viperari” delle Serre, Damiano Vallelunga (poi ucciso nei pressi del santuario di Riace nel settembre 2009), sarebbe stato – a detta dello stesso collaboratore – Domenico Bonavota. “Gli incontri erano stati richiesti – sottolinea Mantella – in quanto la cosca Iannazzo aveva saputo che io ero stato delegato a compiere degli omicidi a Lamezia Terme”. Alla presenza del boss Damiano Vallelunga, Andrea Mantella avrebbe quindi confermato di essere stato avvicinato dalla cosca Giampà di Lamezia Terme, ed in particolare da Vincenzo Bonaddio, per procedere all’eliminazione di Gennaro Pulice (pure lui ora collaboratore di giustizia) e Bruno Gagliardi di Sambiase “che pretendevano di effettuare estorsioni nella zona di Nicastro di competenza della cosca Giampà”.

Gli scambi di favori fra i clan ed i lavori sull’A3. Mantella riferisce poi che dopo la morte del proprio cognato Pasquale Giampà (alias “Boccaccio”) di Lamezia Terme, in varie circostanze i vibonesi avrebbero rifornito di armi i clan lametini. In particolare, lo stesso Mantella avrebbe ceduto diverse armi ad elementi di spicco del clan Giampà di Lamezia Terme. “La cosca Iannazzo – riferisce infine Mantella – aveva inoltre grossi interessi economici con riferimento alle imprese che effettuavano i lavori di ammodernamento dell’autostrada nella zona di loro competenza. In particolare, i Iannazzo gestivano direttamente i lavori che ricadevano nei territori comunali di San Mango d’Aquino, Nocera Terinese, Falerna, Gizzeria, Maida e la zona della Sir sino ai confini con Acconia di Curinga”.

(fonte)

Pino in loop

Io di Pino Daniele ricordo un cd che mi era rimasto incastrato nello stereo della mia auto appena maggiorenne. Potevo normalmente ascoltare la radio ma la scelta sui compact disc mi era inibita dal guasto tecnico. E mi tenevo Pino Daniele in loop. Settimane, mesi di

«Tu dimmi quando, quando
dove sono i tuoi occhi e la tua bocca
forse in Africa che importa

Tu dimmi quando, quando
dove sono le tue mani ed il tuo naso
verso un giorno disperato
ma io ho sete
ho sete ancora»

Quella canzone l’avevo ascoltata velocemente per una vita ma averla lì, incastrata, mi ha costretto a fare attenzione alle parole. Tutte. A riascoltare strofe che mi ero perso.

«E vivrò, sì vivrò
tutto il giorno per vederti andar via
fra i ricordi e questa strana pazzia
e il paradiso, forse esiste
chi vuole un figlio non insiste»

E funzionava Pino Daniele. Funzionava nelle mattine uggiose di nebbia e malinconia e funzionava durante un viaggio sguaiato con l’auto zeppa e funzionava dopo una serata d’innamoramento. Sempre. Come funzionano messe dappertutto le parole e le note che sembrano contenere il filo rosso del ritmo di un’epoca. Com’è la cultura quando si fa arte. Così. Anche incastrata nell’autoradio.

Sacra Corona Unita: quelle strane scarcerazioni

Ne scrive Andrea Tundo per Il Fatto Quotidiano ed è una situazione che sfiora il paradosso. Ed è il caso di tenere gli occhi ben aperti. Ben aperti. Ecco qui:

«Altri sei rispediti in libertà dal tribunale del Riesame. Ed è probabile una nuova ondata di scarcerazioni il 5 gennaio. Non solo, perché nei prossimi giorni potrebbe lasciare il carcere anche Carlo Solazzo, presunto killer del figlio di un collaboratore di giustizia. A conti fatti, quasi la metà (se non detenuta per altri reati) è già tornata a casa, ma il rischio è che succeda a tutti i 58 uomini arrestati lo scorso 12 dicembre con le accuse, a vario titolo, di associazione mafiosa, omicidio, danneggiamento, traffico di armi e droga. L’operazione Omega, come l’ha ribattezzata la procura antimafia di Lecce, ha smantellato una presunta cellula della Sacra Corona Unita attiva nel Brindisino. Ma le esigenze cautelari, sostiene il Riesame, non stanno in piedi. E sulla vicenda ha messo gli occhi il ministero della Giustizia, anche alla luce di una lettera che i pm hanno inviato al gip affinché rimettesse mano all’ordinanza.»

Lascia l’azienda ai suoi dipendenti: «devo tutto a loro»

Altro che Paperon de Paperoni, esistono anche milionari dal cuore d’oro e dal portafoglio meno gonfio a causa della generosità. È questo il caso di Éric Belile, il patron francese del colosso della cancelleria Générale de bureautique che, alla soglia del suo pensionamento, ha deciso di rinunciare a una buonuscita di 4 milioni di euro per donare l’attività a chi gli era stato davvero accanto in tutti quegli anni di lavoro: i dipendenti.

Davanti alla decisione da prendere se vendere la Générale a un manager esterno per una cfra a 6 zeri o se cederla ai suoi sottoposti ad un prezzo di favore, Belile non ha avuto dubbi e ha fatto prevalere le ragioni del cuore a quelle economiche. “Non mi importa di perdere 4 milioni di dividendi in 7 anni” ha spiegato il capo dell’azienda d’oltralpe a Ouest France. “Preferisco avere meno soldi in tasca ma sapere che l’impresa resterà ai miei ragazzi”.

Per consentire ai dipendenti di riscattare la Générale, Belile ha proposto loro un accordo chiaro e vantaggioso: dopo il versamento di una somma iniziale, la “cordata” interna restituirà poco a poco l’intera cifra, prendendo l’importo dai ricavi aziendali. E per far sì che l’impresa rimanga in attivo, l’ex capo si è impegnato a formare e affiancare il personale per i prossimi 5 anni.

Del resto, la qualità dei prodotti della Générale è riuscita a fruttare un fatturato di 8 milioni di euro e a portare a una crescita negli ultimi 12 mesi del 25%. “Devo tutto ai miei dipendenti. Per me è naturale che l’azienda rimanga nelle loro mani: abbiamo sviluppato i progetti insieme. Il mio non è un gesto altruista, è il giusto risarcimento”.

Del resto, vendere a qualcuno di esterno avrebbe significato una sola cosa: “Ci sarebbero stati dei licenziamenti” precisa l’imprenditore. Belile ha capito un concetto essenziale ma poco in voga tra i grandi imprenditori: per fare grande un’azienda, non c’è niente di meglio che puntare sul proprio personale.

(fonte)

Organizzare l’eresia, tesserandosi

(Scritto per i Quaderni di Possibile qui)

Ma perché bisognerebbe iscriversi a un partito politico nei primi giorni di un anno in cui potrebbe accadere di tutto? Ma perché bisognerebbe dare credito ai partiti, alla politica, in un tempo in cui la politica (e i partiti) dovrebbero essere ai minimi storici? E perché non ci si dovrebbe accomodare tra chi aspetta “la sinistra che verrà” o peggio tra chi “tanto non verrà niente”? Per essere eretici, intanto: perché il “non c’è alternativa” (così come il più sottile “aspettiamo l’alternativa”) sono le migliori garanzie dell’esistente, sono il siero prodotto in gran quantità per garantire l’autopreservazione della classe dirigente. Questo, intanto. Ma non solo.

Mentre gli altri esultano perché hanno una banca o una giuria popolare noi siamo una comunità. Una comunità lunga come tutta l’Italia e larga quanto sono larghe le declinazioni dei talenti e delle intelligenze. Possibile è un “ufficio del cambiamento” aperto dal pubblico tutti i giorni tutto il giorno. Possibile è il perimetro in cui si studia, si propone, si scrive, si considerano le posizioni e le soluzioni: si fa politica, insomma. E non la si fa aspettando il big bang; si fa per partecipare al big bang e dargli i colori che riteniamo indispensabili per un Paese più giusto.

Possibile è già un’organizzazione. Un’organizzazione fallibile, come tutte le organizzazioni umane, con un cuore grande e in mare aperto. Un’organizzazione che si traduce concretamente in una “cassetta degli attrezzi” per fare politica: per organizzare una lista alle prossime elezioni della vostra città, per trovare le competenze specifiche su un tema, per avere una spalla in campagna elettorale e per organizzare il coraggio, che ne serve moltissimo. Qui non si discute di processi fondativi: ci si ingegna sul programma di governo dell’Italia che vorremo, ci si confronta su come rendere migliori le città, le regioni. Noi, in fondo.

Possibile non è una tessera del tifoso. In Possibile ogni comitato è autonomo (entro il naturale spazio del Patto Repubblicano da cui Possibile nasce) e di comitati ce ne sono già quasi 200. Se siete una decina di persone con la voglia di applicare la Costituzione siete un comitato Possibile. La politica si commenta, si critica ma soprattutto si pratica. E, credetemi, ne vale la pena.
Nei primi giorni di gennaio abbiamo ricevuto un importante numero di rinnovi e soprattutto di iscrizioni nuovissime. Pensateci. Noi vi aspettiamo.
[ISCRIVITI O RINNOVA L’ISCRIZIONE A POSSIBILE]

Il Presidente della Commissione “Scienze, tecnologie e sicurezza” della Nato? Scilipoti. Giuro.

Leggere per credere:

«Nomina prestigiosa per il Senatore, Domenico Scilipoti. L’esponente di Forza Italia sarà il vice presidente della commissione “Scienze, tecnologie e sicurezza” della Nato, ma anche  membro titolare della commissione Nato-Ucraina, che si occupa della delicata situazione nella regione del Donbass, al confine con la Russia.

Scilipoti, nato a Barcellona Pozzo di Gotto il 26 agosto del 1957, riporta il nome di Messina e della sua provincia a sessant’anni dalla nomina di Gaetano Martino a capo del comitato dei “tre saggi”, che fu formato anche dai ministri degli esteri della Norvegia e del Canada, affinchè redigessero il rapporto sui compiti dell’Alleanza Atlantica.

“Sono orgoglioso di rappresentare l’Italia in un così prestigioso palcoscenico istituzionale – ha commentato Scilipoti – La responsabilità di un incarico internazionale in un momento così delicato per gli equilibri geopolitici mi motiva molto e rende il mio impegno politico ancora più appassionato. Il nostro Paese ha già fatto tanto ma deve poter fare ancora di più nella lotta al terrorismo, portando anzi i valori cristiani a fondamento del dialogo con tutte le parti interessate. Porterò con me gli insegnamenti del popolo siciliano che ha fatto dell’accoglienza e dell’incontro tra culture, una ricetta vincente nella storia passata”.»

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Il processo sulla presunta tangente Eni (197 milioni di euro) si “salva” per un giudice onorario

Il processo Eni-Saipem, uno dei più importanti dibattimenti per corruzione internazionale, con tangenti contestate per 197 milioni di euro, sarà celebrato solo grazie a un giudice onorario. E’ il risultato di una richiesta di astensione presentata dalle difese del gruppo pubblico- tra i quali l’ex ministro della Giustizia Paola Severino – nei confronti del giudice fin qui designato, Oscar Magi, a causa di un suo pronunciamento in un altro processo per corruzione contro Eni, nel 2013. E di un ingorgo negli uffici giudiziari di Milano, dove non è stato possibile formare un altro collegio giudicante. Lo scrive oggi il Corriere della Sera, sottolineando che l’importante procedimento è finito sulle spalle di Maria Cristina Filiciotti, uno dei 2.100 giudici onorari, vale a dire “non in carriera che (facendo altri lavori, specie avvocati), sono ingaggiati a scadenza, pagati a cottimo sul numero di udienze, privi di pensione-malattia-maternità-ferie-tfr alla stregua di precari del diritto”. Il giudice onorario Filiciotti è chiamata a decidere sulla maxitangente pagata, secondo l’accusa, da Saipem Eni nel periodo 2006-2010 per una commessa da 8 miliardi in Algeria.

La difesa di Eni, spiega il Corriere, aveva presentato la richiesta di astensione perché il giudice Magi, nel 2013, nella sentenza di condanna di Saipem per un analogo caso in Nigeria aveva sostenuto che il modello organizzativo della società fosse inadeguato a prevenire le tangenti. Una convinzione che, secondo i legali, avrebbe potuto condizionare questo nuovo giudizio. La richiesta è stata accolta dal presidente del Tribunale di Milano, Roberto Bichi, assieme al coordinatore penale Cesare Tacconi. Da quel momento è però emersa l’impossibilità di formare un altro collegio giudicante. Nella IV sezione penale, oltre a Magi sono out i due colleghi che si sono pronunciati con lui contro Eni; un quarto è da poco diventato presidente di un’altra sezione; un quinto da gip aveva autorizzato alcune intercettazioni del procedimento, cosa che fa scattare un’incompatibilità per legge. Dato che i giudici per ogni sezione sono scesi da nove a sei, è risultato impossibile formare un collegio. Mentre la X sezione, specializzata in corruzione, sta per affrontare il Ruby ter – sulle presunte false testimonianze in favore di Silvio Berlusconi nel processo concluso con la sua assoluzione – e non può sobbarcarsi un altro dibattimento di quella portata. Risultato: il giudice onorario Filiciotti salverà il collegio affiancando le sole due toghe disponibili della IV sezione.

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Gentiloni e la destra che è in lui

Ne scrive Leonardo Palmisano:

A sentirlo, a guardarlo, a valutarlo al primo impatto, Gentiloni non sembra persona di destra. Eppure, a osservare più da presso le politiche messe in campo fino ad ora, soprattutto quelle gestite dal Ministero degli Interni, siamo nel campo della destra piena: un po’ razzista, un po’ populista, un po’ troppo securitaria. Gli italiani scesi in piazza per la fine dell’anno si sono trovati blocchi di cemento e cecchini di Stato sui tetti, mentre nelle periferie le camorre hanno festeggiato in piena libertà con la vendita e l’esplosione clandestina di tonnellate di botti.

Il post è qui, sui Quaderni di Possibile. E Leonardo è un nostro nuovo compagno di viaggio. La ricognizione delle intelligenze e dei talenti continua, se volete partecipare con noi vi basta fare un salto qui.

Perché sui testimoni di giustizia non sia un 2016 bis

(scritto per i Quaderni di Possibile qui)

È successo tutto a cavallo delle feste, coperto dal frastuono dei tappi di spumante e dei canti natalizi, eppure a Reggio Calabria si è consumata una di quelle storie che rimangono incastrate tra i peli della cronaca locale e invece dovrebbe stare sulle prime pagine dei giornali nazionali. Lui è Gaetano Caminiti detto Franco, commerciante reggino, una vita passata a schivare minacce, incendi, tentativi di omicidio, auto saltate in aria, negozio bruciato e un figlio trascinato mezzo morto fuori dalle fiamme. Una vita di minacce quella di Caminiti come succede a molti, troppi, che in questo Paese decidono di denunciare la criminalità organizzata che bussa per diventare socia occulta. Caminiti denuncia, testimonia e contribuisce ad arresti e condanne. Non so voi ma io continuo a credere che gente così, in un Paese ridotto così come siamo messi noi sul tema delle mafie, sarebbe da inserire subito nel prodotto interno lordo della dignità di una nazione.

A Caminiti ad agosto invece decidono di togliere la scorta. “Non c’è più pericolo” gli dicono dal ministero. Se ci pensate dovrebbe essere un momento meraviglioso per chi vive da anni tra le maglie strette della paura quello in cui gli dicono che può stare tranquillo. Ma bisognerebbe fidarsi dello Stato, bisognerebbe. E invece il 29 dicembre, qualche giorno fa, Franco Gaetano Caminiti rientra a casa la sera dopo il lavoro e viene accolto da diversi colpi di pistola mentre stava parcheggiando l’auto. Buchi sulla fiancata, vetri polverizzati: roba da film. Lui si mette al riparo e riesce a scamparla. Cronaca di una fine anno di un uomo che “non corre più pericolo”.

Continuo a credere che (nonostante il morbido silenzio di qualche associazione antimafia che conta) questo Governo (in tutte le sue diverse ma similissime versioni copiative) stia facendo il deserto sui temi della protezione delle persone esposte. Continuo a credere che i responsabili (vice ministro Bubbico in testa) debbano ringraziare l’allentamento della curiosità antimafiosa che negli anni passati sarebbe inorridita per molto meno. Continuo a credere che qualcuno dovrebbe spiegarci, ma spiegarcelo bene, come possa succedere che in Calabria il condannato Scopellitti continui a viaggiare scortato con due auto blindate e Caminiti (ma è uno dei molti nelle stesse condizioni) debba affidarsi alla buona sorte.

Basta. Davvero. Basta. Che non sia un 2016 bis.

Io vorrei un capodanno senza la voglia di ricominciare, ad esempio.

Ho avuto febbre. Passare le feste febbricitanti è come comprarsi un biglietto in prima fila di un film neorealistico su Roma godereccia e magnona attraversata dalle nostre famiglie così larghe da essere slabbrate. Mi sono fermato dallo scrivere perché, sappiatelo, da malato divento un terribile ipocondriaco: ascolto le mie temperature, i miei battiti, i miei mal di gola e l’accelerazione del sangue come uno stonatissimo sommelier attorcigliato alla bottiglia di vino per un tavolo in cui si sono già alzati tutti da un pezzo anche se lui non se n’è accorto.

Stamattina, che è già l’anno prossimo, mi sono detto che forse è il caso di rimettermi in piedi e provare a fare due conti su questo 2016 salutato con la voce troppo alta e i gesti troppo ampi di quando farciamo un ciao con la speranza di non rincontrarci più. Un 2016 che, visto da qui, è stato l’anno degli urli in faccia: gli adulti si urlano in faccia per non ascoltarsi fingendo di non riuscire a parlare. È la fine di ogni comunicazione ma anche di ogni tentativo di elaborazione, è la fine della voglia di analisi: urlarsi in faccia diventa la giungla degli egocentrici schiacciati dall’incapacità di ascolto e dei vendicativi troppo contenti per la demolizione degli altri. Un 2016 in cui nemmeno perdere o vincere sembra essere servito, una cosa così, un anno in cui sono risultati piuttosto ineleganti sia i vincitori che i vinti.

E poi c’è questa voglia matta di ricominciare, questa ansia che ci porta al conto alla rovescia perché si faccia tre due uno zero e si possa credere di avere un nuovo inizio che non debba scendere a patti con l’anno prima. E a me infonde una tenerezza triste questo nostro essere costretti a cercare un anno nuovo per aggrapparsi. Questa Coscienza collettiva di Zeno che ciondola su una sigaretta che sia l’ultima per scacciare le insicurezze che ci si sono accumulate negli angoli delle stanze di casa. Succede per il Capodanno ma succede per ogni nuovo Presidente del Consiglio, per ogni primo giorno della settimana, per ogni rientro dalle ferie, per ogni ultimo giorno prima delle ferie, per ogni colloquio di lavoro andato bene e per ogni colloquio andato male; succede ogni volta che ci promettiamo che sia l’ultima, ogni volta che preghiamo di scansarla. E invece mi sembra un augurio bellissimo quello di arrivare al prossimo anno sperando che non si debba ripartire da zero. O il prossimo lunedì.

Con la voglia di continuare e non di ricominciare.