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Alleanze chiare, amicizie lunghe

“Unite la sinistra”, mi scrivono. E io ogni volta a spiegare che la sinistra si fa, non si dice e che molti di quelli che ce l’hanno sempre in bocca spesso poi hanno fatto cose di destra. Parlare di alleanze senza politica è un fallo di simulazione (ne avevo già scritto qui) e forse varrebbe la pena allearsi con le idee chiare:

Ci vogliamo alleare con tutti coloro che vogliono cambiare completamente l’impostazione del Jobs Act, della Buona Scuola, dello Sblocca Italia. Quindi, non con chi li ha votati. Semplice.

Non è questione di sigle, ma di sostanza. Di scelte, non di posizionamenti. Di sincerità, non di tattica.

Ci vogliamo alleare con le persone che hanno un’idea meno pervasiva del potere, all’insegna di una politica che non si risolve in esso, che è cultura e partecipazione. E trasparenza.

Ci vogliamo alleare con chi vuole applicare la Costituzione e la legge (già in vigore) sulla vendita di armi ai paesi in guerra.

Ci vogliamo alleare con chi vuole dare una misura di civiltà e di efficienza all’accoglienza, nella gestione più consapevole dei flussi migratori.

(continua qui)

Parla Robledo: “Alla Procura di Milano c’è stato un abbraccio mortale tra giustizia e politica”

(fonte)

La ripresa delle indagini su Expo? “È con viva e vibrante soddisfazione che prendo atto del fatto che uffici inquirenti milanesi hanno ripristinato la tradizione di autonomia e indipendenza delle indagini che negli ultimi tempi si era un po’ appannata”. Così commenta Alfredo Robledo, che con un goccio di humor ricalca la formula dei comunicati del Capo dello Stato. Non gli sfugge che gli “uffici inquirenti milanesi” che hanno ripreso a indagare sull’esposizione universale non sono quelli della sua ex Procura, bensì quelli della Procura generale: i vecchi “parrucconi” si dimostrano più dinamici di quelli che una volta erano i pm d’assalto.

Ma dottor Robledo, che cosa vuol dire “appannata”?

È mia opinione che nel 2014 alla Procura di Milano ci sia stato un abbraccio mortale tra magistratura e politica. Il corto circuito è stato fatto scattare da questi rapporti, con il risultato, a mio avviso, di far perdere ai magistrati la loro autonomia e il loro ruolo di controllo, stabilito dalla Costituzione.

Lei nel 2014 è stato esautorato dal procuratore Edmondo Bruti Liberati che le ha prima proibito di partecipare a due interrogatori di un suo indagato, il manager Antonio Rognoni.

Anche il Csm ha valutato illegittimo questo comportamento, senza però che ci sia stata alcuna conseguenza.

Quando poi lei è ricorso al Csm, mandando un esposto in cui denunciava gli attacchi di Bruti, è intervenuto l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

I giornali dell’epoca, riferendosi al procuratore Bruti, titolavano: “Salvate il soldato Ryan”. I soldati obbediscono, i magistrati no.

Il Consiglio giudiziario, articolazione locale del Csm, ha poi dato ragione a lei contro Bruti che per escluderla dalle indagini aveva prima formato l’Area Omogenea Expo e poi le aveva tolto il coordinamento dell’anticorruzione, provvedimento ritenuto dal Consiglio illegittimo.

Il Consiglio giudiziario di Milano ha scritto un giudizio durissimo: “Il provvedimento in esame (…) sostanzialmente si risolve in un esautoramento completo del dottor Robledo dal ruolo di coordinatore del Secondo Dipartimento, senza alcuna considerazione della sfera di autonomia e dignità della funzione semidirettiva del magistrato, ma anche delle reali esigenze organizzative dell’ufficio”… “In conclusione, il provvedimento, che avrebbe dovuto avere finalità esclusivamente organizzative, risulta essere stato utilizzato per risolvere in modo improprio l’esistenza di un conflitto”. Parole dure, eppure il Csm non ha fatto una piega.

Due anni fa, alla Festa del “Fatto Quotidiano” alla Versiliana, lei aveva denunciato che il ricambio in corso di centinaia di dirigenti degli uffici giudiziari avrebbe reso la magistratura più gerarchica e più disponibile verso la politica.

Dissi anche che i membri laici del Csm, scelti dai partiti di destra e di sinistra, avrebbero spesso votato nel medesimo modo, indipendentemente dalla loro estrazione politica e sulla base di accordi tra e con le correnti. E così è stato.

Ma davvero i magistrati oggi sono meno liberi e meno autonomi?

Sono soprattutto i dirigenti delle correnti ad andare incontro alle esigenze della politica, e i cittadini e i magistrati poi finiscono per subirne le conseguenze. Se invece le correnti vogliono ritrovare il loro spirito primario, legato a riferimenti culturali e non a giochi di potere, devono porre fine alle spartizioni correntizie degli uffici. Anche l’Associazione nazionale magistrati deve dire sul punto una parola chiara: fa bene il presidente Piercamillo Davigo a ripetere che uno dei problemi dell’Italia è la corruzione dei politici, ma dovrebbe aggiungere che anche i magistrati non danno certo un bell’esempio, quando si spartiscono le cariche tra correnti.

Si è sentito solo in questa vicenda?

Lo sono stato. E il silenzio dei magistrati e della Associazione è assordante.

Ora i documenti dell’inchiesta sulla piastra spiegano perché, per esempio, i 6 mila alberi di Expo, comprati in un vivaio a 266 euro l’uno, sono stati pagati da Sala alla Mantovani 716 euro l’uno. Contratto affidato nel luglio 2013, senza gara, alla Mantovani per un importo di 4,3 milioni. La Mantovani nel novembre successivo stipula un contratto di subfornitura con un’impresa vivaistica per 1,6 milioni.

Chi è causa del suo Marra pianga se stesso

Si è detto molto e si è scritto moltissimo ma sentire la Raggi che scarica Marra dopo averlo difeso talmente tanto da legare a doppio filo la propria permanenza alla sua fino a poco tempo fa è un’indecenza. Così come, secondo me, è indecente chiamare conferenza stampa un monologo ridotto alla lettura di uno striminzito comunicato. Dice la Raggi che si sente di chiedere scusa a Grillo e ai romani ma forse dovrebbe chiedere scusa anche a chi (nel suo stesso partito) ha tentato di metterla più volte in guardia dallo strano personaggio che si è scelta come braccio destro e, allo stesso modo, forse sarebbe stato il caso di non sparare a palle incatenate contro i giornalisti che raccontavano il passato poco limpido di alcuni uomini scelti nella squadra della Raggi.

Ma non solo: quando si è detto che l’inesperienza (troppo spesso negata) può essere la porta aperta a scalatori e faccendieri anche da queste parti ci sono state scene di isteria. Come scrivevo proprio oggi qui la politica è una dinamica complessa che non accetta pensieri banali che puntano alla pancia: il metodo di difesa scelto oggi da Grillo (ma è scelta di Grillo?) è ugualmente pericoloso poiché ripetere meccanicamente che “questa indagine non c’entra nulla con questa consigliata” significa non considerare politica la scelta delle persone che si mettono al proprio fianco e così alla fine anche Mangano diventa uno stalliere che non ha nulla da spartire con Berlusconi. E la Raggi (come qualsiasi sindaco) potrebbe comunque essere toccata da un’indagine nella sua esperienza amministrativa e se dovesse succedere che si fa? Si butta a mare tutto quello detto fin qui?

Elaborare risposte misurate e il più possibile giuste, educarsi all’autocritica e smetterla di giocare a chi ha l’onestà più lunga misurandola con gli indagati degli altri sarebbe un passo verso la maturità. Bisognerebbe capire che è anche per il bene del M5S. Ma ci vuole scienza per diventare grandi restando giovani.

Solidali pelosi verso la Siria e intanto vendono le bombe

(il mio buongiorno pubblicato questa mattina per Left)

È arrivata direttamente dall’Arabia Saudita la nave Bahri Tabuk, fino a Cagliari per caricarsi 3000 bombe prodotte dalla RWM, azienda tedesca con base a Domusnovas in Sardegna. Diciotto container. Non so se vi sia mai capitato di vedere o se vi riesce di immaginare quanto lunghi siano diciotto container messi tutti in fila.

Un’operazione degna di un film: vigili del fuoco, forze dell’ordine e un riserbo totale. L’operazione di carico, del resto, era in “codice rosso”, assoluta segretezza: un blitz commerciale che impegna uomini della Polizia e della guardia di finanza di guardia al porto fin dalle prime luci dell’alba e poi per le successive dodici ore di operazioni di carico.

Le bombe, per intendersi, sono quelle che vengono poi sganciate sullo Yemen. “Il governo Gentiloni interrompa subito le forniture dei sistemi militari che vengono impiegati dalle forze armate saudite e dai suoi alleati nel conflitto in Yemen, in particolare le bombe aeree che hanno già causato migliaia di morti tra la popolazione civile di quel martoriato Paese” ha scritto la Rete Italiana per il Disarmo alla luce anche della decisione dell’amministrazione Obama di sospendere l’invio a Ryad di “bombe aeree” e di “munizionamento di precisione” pur perdendo centinaia di migliaia di dollari. Gli Usa si preoccupano delle vittime (oltre 4mila secondo le Nazioni Unite), nel Regno Unito il Parlamento interroga il Governo e qui niente. Niente.

Anzi. Una nota stampa del sito di intelligence militare “Tactical News” ha scritto qualche giorno fa che il Vice Principe ereditario e ministro della Difesa saudita, Mohammed bin Salman bin Abdulaziz, ha ricevuto “offerte da Fincantieri per navi militari, tra cui fregate e corvette” e subito il ricordo corre alla visita della ministra Pinotti in Arabia Saudita di poco tempo fa quando la Pinotti addirittura minacciò querele a chi ipotizzava che si fosse parlato di armi. Pensa te.

Però tutti a esprimere solidarietà alla Siria. Ovviamente. Avanti così.

Buon venerdì.

Cose da fare in fretta e bene: la nomina del Commissario Antiracket e Usura

(scritto per i Quaderni di Possibile qui)

Il 31 luglio scorso il Commissario straordinario del Governo per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura, Santi Giuffrè, è andato in pensione. Se ne sono accorti in pochi perché il Governo era troppo impegnato nella battaglia referendaria e un po’ perché l’antimafia di questi tempi sembra essere scivolata nelle retrovie delle priorità del governo e dei partiti. E poi cosa volete che interessi di taglieggiati e usurati in un Paese che rantola tra furbi e scaltri: i mafiosi spostano potere e i voti mentre gli antimafiosi sono solo un peso da tenere a bada, invisibili fino alla loro prossima protesta.

Così succede che, senza Commissario, le vittime devono inventarsi di tutto per trascinarsi in attesa di fondi e di organizzazione della loro protezione. Le mafie scorrazzano veloci e i testimoni di giustizia intanto confidano nel passaggio di qualche amico o parente benevolo: se la politica è fatta di azioni (simboliche e concrete) oggi si potrebbe dire che questo Paese, visto da fuori, ha deliberatamente deciso di farsi sconfiggere dai soprusi della criminalità organizzata.

Si diceva che Renzi avesse promesso in tempi brevi la nomina a Commissario di Domenico Cuttaia, Prefetto di Venezia, ma la designazione non è mai arrivata e poi sappiamo tutti come è andata a finire. Il Presidente del Consiglio Gentiloni ha detto che si aspetta “lealtà e collaborazione” anche dalle forze politiche dell’opposizione e noi l’abbiamo preso in parola: stiamo depositando un’interrogazione parlamentare urgente con cui chiediamo che si faccia quello che avrebbe dovuto essere fatto da tempo. Un Paese che nomina in poche ore ministri e sottosegretari e lascia vacante per mesi la sedia del coordinamento delle iniziative Antiracket e Antiusura è un Paese che non condividiamo: leali e collaborativi esigiamo una risposta e una soluzione.

Il caso Marra. Spiegato bene.

Due articoli che spiegano bene cosa dicono le carte. Il primo è di Repubblica:

“Sussistenza di un concreto ed attuale pericolo di reiterazione di condotte delittuose analoghe a quelle già accertate e ciò anche in considerazione del ruolo attualmente svolto da Marra all’interno del comune, della indubbia fiducia di cui gode il sindaco Virginia Raggi”. Lo scrive il gip nel giustificare la detenzione di Raffaele Marra. Il braccio destro del primo cittadino capitolino è stato arrestato stamattina dai carabinieri del Nucleo investigativo del comando provinciale di Roma, guidati dal comandante Lorenzo D’Aloia,  con l’accusa di corruzione. Avrebbe ricevuto una maxi tangente da 367 mila euro dall’immobiliarista Sergio Scarpellini (anche lui arrestato). Due assegni circolari da 250 mila e 117 mila euro per l’acquisto di una casa in via Prati Fiscali 258, a Roma, intestata alla moglie di Marra, Chiara Perico nel giugno del 2013. All’epoca dei fatti Marra rivestiva il ruolo delicato di direttore del dipartimento partecipazioni e controllo gruppo Roma Capitale.
Ma gli inquirenti sono risaliti anche ad un altro analogo regalo che l’immobiliarista avrebbe fatto sempre a Marra. Un’altra casa. “Nel 2009 Scarpellini aveva venduto a Marra l’appartamento a Roma in via Giorgio Vigolo, angolo via Alberto Moravia, applicando in suo favore il considerevole sconto di mezzo milione di euro”. Una vicenda indicate nelle carte della procura che è prescritta ma tuttavia indicano un rapporto stretto tra i due: “scaturisce con assoluta chiarezza come i rapporti tra lo Scarpellini e Marra abbiano un non solo un carattere di grande confidenza ma implicano anche un reciproco vicendevole aiuto”.

E così, infatti, quando Marra vede la sua carriera in comune al fianco della Raggi minacciata da alcuni articoli del Messaggero non esita a contattare Scarpellini per influenzare l’editore del giornale (operazione che non andrà in porto). “Il Marra non mostra alcuna remora a chiedere un intervento d Scarpellini al fine di orientare in senso favorevole a sè l’opinione pubblica, attraverso i giornali controllati da un amico di Scarpellini”.
Un capitolo importante dell’ordinanza è dedicato agli interessi economici di Scarpellini nel comune di Roma: “Le funzioni svolte dal Marra hanno riguardato settori sensibili per gli interessi imprenditoriali dello Scarpellini. Il gruppo immobiliare ha infatti da tempo stipulato importanti convenzioni urbanistiche che richiedono l’emanazione di provvedimenti amministrativi da parte del comune di Roma e della regione Lazio. Queste convenzioni sono ancora attuali e i relativi procedimenti amministrativi non sono conclusi”. Per Scarpellini si pone un grosso problema. In campagna elettorale i 5 Stelle avevano criticato con asprezza alcuni affitti a prezzi salati pagati per dei palazzi di sua proprietà: “Ostilità mostrata dal movimento 5 stelle nei confronti di Scarpellini, di cui sono espressione diversi articoli di stampa. In questa situazione Marra rappresenta un significativo ed indispensabile punto di riferimento per lo Scarpellini e che abbisogna, ancor di più rispetto al passato in ragione delle mutate condizioni politiche, della sua influenza e capacità di interferenza (è il braccio destro della Raggi, ndr) per salvaguardare e realizzare i propri interessi”.

Le indagini nascono all’indomani di un’inchiesta su Manlio Vitale. “Er gnappa, il soprannome di Vitale, è uno degli storici esponenti della Banda della Magliana. Vitale è sotto intercettazione perché estorce soldi proprio a Scarpellini. “Vitale si reca ogni giovedì – si legge nell’ordinanza – nei pressi del Senato per ricevere dalla persona incontrata (Scarpellini, ndr) una consistente somma di denaro. Dazioni di denaro da ricondurre a un’attività estorsiva”. Per questo vengono intercettate le utenze telefoniche anche delle vittime, Scarpellini e la sua segretaria Ginevra Lavarello. E così, mettendo sotto controllo il cellulare di Scarpellini, gli investigatori scoprono i suoi rapporti con Marra.

E questo de Il Fatto Quotidiano:

L’indagine per corruzione che ha portato in carcere Raffaele Marra, capo del Personale del Comune di Roma, nasce quasi per caso. O meglio dall’intuito dell’investigatore che ascoltando le conversazioni tra un pregiudicato romano, Manlio Vitale considerato dagli investigatori personaggio della Banda della Magliana, e la sua ex compagna, e analizzando alcuni sms, capisce che l’indagine sta imboccando una strada che porterebbe al cuore di uno dei palazzi del potere. E infatti quando questa donna, Caterina Carbone, viene sentita dai carabinieri rivela di aver accompagnato più volte in zona Senato Vitale, detto “Er Gnappa” arrestato lo scorso marzo perché ritenuto il capo di una banda di rapinatori, e ogni giovedì Vitale per prendere “alcune migliaia di euro”. Vittima di quella che agli investigatori sembrava a tutti gli effetti una estorsione è Sergio Scarpellini, il costruttore che per la Procura di Roma è stato corrotto da Marra con la compravendita due immobili: uno venduto dal funzionario e l’altro acquistato. Una storia che era emersa già due mesi fa con la pubblicazione di un’inchiesta de L’Espresso ma che non aveva impedito a Marra di rimanere in Campidoglio difeso anche nelle ultime dal sindaco Virginia Raggi.

“Eh io sto a disposizione, tu diglielo”
Il telefono dell’imprenditore e quello della sua collaboratrice, Ginevra Lavarello, vengono messi sotto controllo. A fine giugno, come si può leggere nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Maria Paola Tomaselli, gli investigatori captano i primi di segnali una relazione pericolosa tra Marra e Scarpellini. È il 30 giugno 2016: Marra scrive alla Lavarello, appare disperato, vuole un aiuto, cerca protezione perché la stampa sta, a suo dire, conducendo una campagna feroce nei suoi confronti perché considerato uomo vicinissimo all’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno (finito a giudizio per corruzione nel mare magnum giudiziario di Mafia capitale) e non gradito nella nuova era del M5s. Il funzionario dice alla donna di chiedere al costruttore di intervenire su Gaetano Caltagirone, tra l’altro editore di diversi quotidiani tra cui Il Messaggero, per realizzare una campagna in sua difesa. In ballo c’è l’incarico di vice capo di gabinetto con delega di firma. Marra, tra il 2009 e il 2010 direttore del Dipartimento del Patrimonio e della Casa del Comune di Roma, parla a ruota libera: “Eh, io sto a disposizione, tu diglielo puoi far pure arrivare, glielo dici ‘lui sta a disposizione’ … tanto lui lo sa che sto a disposizione”. Proprio per quella vicinanza all’ex esponente prima di An e poi di Fdi potrebbe costargli cara.

La sera del 30 giugno, dopo le 22, Marra insiste per chiamare Ginevra Lavarello: vuole che Scarpellini intervenga su Caltagirone e la telefonata avviene mentre l’uomo è negli uffici del Comune: “Sto ancora in Campidoglio, sto ancora in Campidoglio sto…”, “Eh mi immagino, immagino ma un attacco pazzesco ma veramente fuori luogo” replica l’interlocutrice. Marra fa la vittima: “Ma poi senza nessun motivo proprio, nessun motivo, quindi ti telefonavo soltanto per chiederti una gentilezza, se puoi… parlando con Sergio, se Sergio può intervenire con Gaetano … Calata. Per farmi dare una mano sui giornali… cioè capire se…no nel senso proprio per cercare in qualche modo di…tutelare …un po’ la posizione sennò diventa un grande, un gran… molto complicata la questione”.

“Dall’uomo più potente in tre giorni divento l’ultimo coglione”
La donna promette, ma Marra insiste: “Eh, io sto a disposizione tu glielo puoi far pure arrivare, glielo dici ‘lui sta a disposizione’ dici però è una cosa è una cosa senza senso… Eh no in modo tale pure per cercare di aver in qualche modo una visione diversa no, che lui possa dire: ‘ma come adesso lo avete nominato e ora che fate, allora vuol dire che comandano quelli di Milano, comandano quelli di Torino allora questo non conta un cazzo, cioè fate risultare che se mi sposta è un danno enorme alla sua credibilità, alla sua immagine’. Lavarello ascolta e Marra prosegue: “Io stavo… io stavo organizzando tutto, stavo organizzando, avevo accennato a Cinzia quelle che erano le proposte, ora mi fai fuori, dall’uomo più potente in tre giorni divento l’ultimo coglione...”. Solo perché sulla stampa mi hanno, mi hanno sparato a zero quindi secondo me lui dovrebbe cercare di convincere quell’altro a dire: ‘vabbe’ ne prendo … tanto lui lo sa che sto a disposizione per dire vabbe’ facciamo un po’ di fuoco amico e dire non si permetta a togliere un servitore dello Stato cioè poi se volete domani passo io e … oppure se mi mettete in contatto con  qualcuno che mi può aiutare riservatamente meglio ancora, se però ovviamente deve intervenire il capo perché se non interviene lui non succede niente… bisogna farlo parlare direttamente con Caltagirone e credo che lui gli dà una mano”. Lavarello e Scarpellini concordano poi di dire a Marra di aver cercato di contattare l’imprenditore anche perché ragionano su una sua uscita di scena: “Tanto se poi domani lo defenestrano… finito“. Ma queste conversazioni diventano il punto di partenza dell’indagine che porta gli investigatori a scavare nel passato del funzionario e dell’amico costruttore – legati da un “rapporto viziato” ritiene il gip sin dal 2009 fatto di “insistenti regalie” negli anni 2010 e 2013 dallo Scarpellini in favore del Marra scrive il gip –  e gli affari fatti da quest’ultimo in passato e per il presente con il Comune di Roma. Perché come scrive il giudice il rapporto tra i due prosegue “sul medesimo binario” ancora nel luglio del 2016.

(il mio editoriale per Fanpage invece è qui)

Lo scrittore Mathias Énard: «sulla Siria siamo i portinai della viltà»

(di Mathias Énard, dal volume collettivo Bienvenue ! 34 auteurs pour les réfugiéstraduzione di Lorenzo Alunni, fonte)

Sapevamo che quello del Ba’ath siriano era un regime tossico, di assassini e torturatori: l’abbiamo tollerato.

Abbiamo fatto addirittura di più: l’abbiamo rafforzato. Bashar al-Assad veniva invitato a sedersi nella tribuna presidenziale per la sfilata del 14 luglio, a Parigi, a pochi metri da Nicolas Sarkozy, che gli ha calorosamente stretto la mano due anni prima dell’inizio delle manifestazioni a Dera’a.

Sapevamo tutti che il regime di Assad era pronto a massacrare senza esitazioni la sua popolazione civile e quella dei suoi vicini: gli eventi del 1982 noti come «massacro di Hama» (ma che si sarebbero estesi a molte altre città siriane) e i soprusi siriani nei confronti del Libano ce l’hanno dimostrato a sufficienza. L’abbiamo tollerato.

Sapevamo che l’esercito siriano e i suoi sicari, che hanno organizzato la repressione per decenni, non avrebbero esitato un istante a sparare sulla folla, a torturare oppositori, a bombardare città e villaggi: li abbiamo lasciati fare.

Sapevamo che il regime siriano era diventato maestro dell’arte della manipolazione diplomatica regionale, abile a rafforzare temporaneamente i propri nemici, a infiltrarvisi, portando avanti un terribile doppio gioco letale: lo ha dimostrato la storia delle relazioni della Siria con i diversi gruppi palestinesi. È solo un esempio fra i tanti possibili. Li abbiamo dimenticati tutti, questi esempi, o abbiamo fatto finta di dimenticarli.

Sapevamo che tutte le figure politiche siriane non sono altro che una clientela di sicari che sopravvive grazie al sistema dei clan e alle elargizioni della casta Assad. Eppure abbiamo sperato nel cambiamento. Eravamo tutti al corrente che, nella così breve Primavera di Damasco del 2000, i club della democrazia erano stati repressi, che i nuovi leader si erano improvvisamente ritrovati in prigione o che erano stati costretti a lasciare il Paese. Ci siamo rassegnati.

Abbiamo immaginato che l’apertura economica avrebbe portato a un’apertura democratica. Abbiamo visto con chiarezza come tale apertura servisse solamente a distribuire nuovi guadagni per attirare nuovi clienti e rafforzare il clan al potere. Abbiamo venduto auto, tecnologia e fabbriche chiavi in mano, senza il minimo turbamento.

Sapevamo delle faglie che attraversano il territorio siriano; non ignoravamo che il regime di Assad si reggesse essenzialmente sulla minoranza alauita, soprattutto per il suo apparato militare e repressivo; sapevamo della sua alleanza strategica con l’Iran, che risale alla guerra fra Iran e Iraq e alla guerra del Libano, negli anni Ottanta; eravamo testimoni della potenza militare e politica dell’Hezbollah libanese; abbiamo assistito alla strumentalizzazione dei Curdi nelle relazioni fra la Siria e la Turchia nel corso degli ultimi trent’anni: sapevamo di tutto il risentimento dei sunniti siriani poveri, esclusi dal clientelismo e odiati dalle loro stesse élites; avevamo coscienza del peso dell’Arabia Saudita e del Qatar nell’economia europea e della «guerra fredda» che queste due potenze fanno da anni all’Iran.

Ci ricordiamo – o ci dovremmo ricordare – che la mappa del Medio Oriente del XX secolo è nata da accordi segreti firmati da Mark Sykes e François Georges-Picot nel 1916, o piuttosto dalle conseguenze di questi accordi e dalla loro attuazione fra il 1918 e il 1925. Il Libano, la Siria, l’Iraq, la (Trans)Giordania e la Palestina sono nate da queste frontiere, quasi cento anni fa, e da allora tali frontiere sono state messe in discussione direttamente solo una volta, quando la scorsa estate l’Isis ha riunito le province dell’ovest dell’Iraq e quelle del nord e dell’est della Siria, facendo improvvisamente tremare tutte le altre frontiere, in particolare quelle della Giordania e dell’Arabia Saudita.

Sapevamo che il Libano è un Paese fragile, un Paese di cui alcune componenti desideravano la ridefinizione (o l’implosione) geografica e la trasformazione del territorio in una confederazione, per «proteggere le minoranze». I Balcani ci hanno insegnato che nessuno desidera essere una minoranza sul territorio dell’altro quando l’impero sta crollando. Sapevamo inoltre che l’invasione – la distruzione totale – dello Stato iracheno ha portato all’ingiustizia, alla corruzione, all’insicurezza, alla carestia e al crollo dei servizi pubblici.

Da tutto questo, non abbiamo tratto nessuna conclusione.

Quando le manifestazioni si sono trasformate in rivolta, quando la rivolta è diventata rivoluzione, quando le prime granate sono cadute sui civili, quando la rivoluzione si è trasformata in Esercito Siriano Libero, non abbiamo fatto niente.

Sapevamo perfettamente che la soluzione al «problema siriano» e la risposta alla «questione siriana» passava per Mosca e Teheran, e non siamo voluti andare a Mosca né a Teheran.

Abbiamo detto di sostenere i democratici.

Abbiamo mentito.

Abbiamo lasciato morire l’Esercito Siriano Libero e tutte le forze di libertà.

Abbiamo dibattuto del numero di morti.

Abbiamo dibattuto di linee rosse, piazzate da noi, per poi spostarle perché non eravamo sicuri che fossero state realmente superate.

Abbiamo dibattuto del colore della bava nella bocca dei cadaveri.

Abbiamo detto di sostenere le forze democratiche.

Abbiamo mentito.

Abbiamo organizzato conferenze nei palazzi europei.

Lì, abbiamo visto i documenti in mano all’Arabia Saudita, al Qatar e alla Turchia.

Abbiamo continuato a mentire.

Dibattiamo tutti i giorni del numero di morti.

Abbiamo guardato fiorire le tende in Turchia, in Giordania, in Libano.

Contavamo tutti i giorni le tende.

Stanchi di contare i corpi mutilati, ci siamo compiaciuti per il miglioramento delle condizioni di vita dei rifugiati.

Abbiamo visto uomini sgozzati nel deserto, uomini su cui non abbiamo fatto affidamento.

Ci siamo indignati e la nostra indignazione si è trasformata in bombe e attacchi aerei.

Dibattiamo tutti i giorni dell’efficacia delle bombe.

Contiamo i morti e le tende.

Vendiamo aerei.

Impariamo nomi di città, impariamo nomi di città distrutte non appena ne abbiamo imparato il nome.

Mentiamo.

Siamo i geografi della morte.

Gli esploratori della distruzione.

Siamo portinai.

Portinai alla porta della tristezza.

Ogni giorno si bussa alle nostre porte.

Contiamo i colpi alle nostre porte.

Uno dice che «centomila persone bussano alle nostre porte».

L’altro dice che «sono milioni, e spingono».

Spingono per venire a cagare di fronte alle nostre porte chiuse.

Siamo i portinai della viltà.

Non accogliamo nessuno.

Non ci chiniamo davanti a nessuno.

Siamo fieri di non essere nessuno.

#SaveAleppo: cosa possiamo fare (e il senso della politica)

La tragedia di Aleppo è sotto gli occhi del mondo, anche se il mondo sembra preferire parlarne poco e male. Un città distrutta e civili che fuggono sono l’immagine di una sconfitta umana prima che politica. La politica, appunto: ieri con Pippo, Stefano e gli altri ci siamo interrogati a lungo su cosa avremmo potuto fare e come intervenire. Shady Hamadi (che è uno dei bei incontri che la vita mi ha regalato in questo ultimo anno) ne ha scritto qui. Ma noi? Concretamente?

Oltre alle pressioni politiche al governo abbiamo aperto due sottoscrizioni (le trovate qui): una serve, tramite ONSUR, a finanziare l’acquisto di una ambulanza (il costo preventivato è di 3.000 euro) che opererà, non appena possibile, nelle zone più critiche di Aleppo e l’altra per finanziare l’accoglienza in Italia di rifugiati siriani al momento presenti a Beirut, attraverso i canali umanitari già attivati da Mediterranean Hope (si tratta di profughi in situazione di particolare fragilità, portati in Italia in sicurezza e introdotti a percorsi di inclusione).

È poco, lo sappiamo, e terribilmente in controtendenza rispetto a chi ci vorrebbe convincere che restare umani sia debole, stupido e addirittura pericoloso; eppure in poco tempo siamo già vicinissimi all’obbiettivo. Ed è confortante sentirsi parte di una comunità che ci assomiglia, credetemi. Se volete dare un mano lo potete fare qui, se volete partecipare alla nostra comunità qui trovate tutti i modi per esserci. Buona giornata, intanto.

Beppe Sala indagato per appalto Expo

Il sindaco di Milano Giuseppe Sala è stato iscritto nel registro degli indagati dalla procura del capoluogo lombardo nell’ambito dell’inchiesta sulla Piastra di Expo, l’infrastruttura più costosa realizzata nel sito di Rho Pero dalla ditta Mantovani. La notizia emerge dalla richiesta di proroga delle indagini inviata dal sostituto procuratore generale Felice Isnardi, che ha chiesto altri sei mesi di tempo per approfondire la vicenda, dopo aver avocato a sé l’inchiesta. La Procura, al contrario, puntava sull’archiviazione ma il gip Andrea Ghinetti si è opposto. Nell’atto firmato dal sostituto pg Isnardi, da quanto confermato a LaPresse dall’avvocato Federico Cecconi, legale di Antonio Acerbo (indagato insieme al presidente della Mantovani Spa), si parla di possibili “nuove iscrizioni” e della “necessità di sentire altre persone informate sui fatti” e in generale di approfondire ancora le indagini. Da quanto risulta a ilfattoquotidiano.it, invece, tra gli indagati c’è anche un nome più illustre degli altri: quello del primo cittadino Pd di Milano.

Gli investigatori del Nucleo di polizia tributaria, del resto, dopo che la Procura aveva iscritto nel registro degli indagati i primi nomi, avevano scritto tra le altre cose che anche l’allora amministratore delegato di Expo Giuseppe Sala, il responsabile unico all’epoca del procedimento Carlo Chiesa e l’allora general manager Paris non avrebbero tenuto un comportamento “irreprensibile e lineare”. Pur “con gradi di responsabilità diversi – chiariva la Gdf – attraverso le loro condotte fattive ed omissive hanno comunque contribuito a concretizzare la strategia volta a danneggiare indebitamente la Mantovani (impresa che vinse l’appalto con un ribasso di oltre il 40%, ndr) per tutelare e garantire, si ritiene, più che la società Expo 2015 Spa il loro personale ruolo all’interno della stessa”. Sala, poi, come ha messo a verbale l’ex dg di Infrastrutture Lombarde spa Antonio Rognoni, avrebbe detto al manager che “non avevano tempo per potere” verificare la congruità dei “prezzi che erano stati stabiliti da Mantovani” nel corso dell’esecuzione del contratto con l’inserimento di costi aggiuntivi, e “per verificare se l’offerta era anomala o meno”.

L’inchiesta condotta dai pm Paolo FilippiniRoberto Pellicano e Giovanni Polizzi, poi avocata dalla procura generale di Milano, del resto riguarda l’assegnazione alla società Mantovani di un appalto per la realizzazione della Piastra dell’area di Rho Pero, dove si è svolta l’esposizione universale. La base d’asta era di 272 milioni di euro e la Mantovani si era aggiudicata la gara con un ribasso del 42% per 149 milioni di euro. Gli indagati per turbativa d’asta noti fino a ora sono cinque: Piergiorgio Baita (presidente della società Mantovani, già arrestato a Venezia per il Mose), due ex manager Expo già arrestati per altre vicende, Angelo Paris e Antonio Acerbo, e gli imprenditori della società Socostramo, Erasmo eOttaviano Cinque.

Data la mole del materiale raccolto e gli approfondimenti che devono essere ancora effettuati, il sostituto pg Felice Isnardi ha deciso di chiedere che gli vengano concessi altri sei mesi per indagare. Il gip Andrea Ghinetti, a fine ottobre, non avendo accolto la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura, aveva convocato le parti per la discussione della vicenda per poi decidere se archiviare o chiedere un supplemento di indagine o ordinare l’imputazione coatta. Nel frattempo, però, la Procura generale ha avocato il fascicolo e ha ottenuto un mese di tempo per nuove indagini, termine poi scaduto. Da qui la richiesta di proroga. Il fascicolo era stato al centro dello scontro tra l’ormai ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati e l’ex aggiunto Alfredo Robledo, il quale, su decisione del primo, nel 2014 era stato di fatto estromesso dagli interrogatori ‘centrali’ dell’inchiesta. L’indagine sull’appalto più rilevante di Expo, vinto dalla Mantovani grazie ad un ribasso del 42% su una base d’asta di 272 milioni di euro, era partita nel 2012.

(fonte, ne scrive anche repubblica qui)