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Le risposte che mancano su MPS. Spiegate bene.

(il pezzo di Massimo Giannini)

Abbiamo messo in sicurezza il risparmio”. Anche Paolo Gentiloni ricalca le orme di Matteo Renzi. Anche il nuovo premier, dopo aver varato il decreto salva-Mps, tira un sospiro di sollievo, come fece il vecchio premier il 22 novembre 2015, dopo aver varato il decreto salva-Etruria. Sollievo malriposto. Allora come oggi. Il salvataggio della banca più antica del mondo avrà costi enormi, ancora incalcolabili.

I 20 MILIARDI stanziati sono nuovi debiti pubblici.

Dall’anno prossimo peseranno sulle tasche di tutti i contribuenti. È giusto sacrificarsi per Siena. Ma a patto che si faccia luce sull’infinita catena di errori commessi in questi anni (magari proprio con quella famosa commissione d’inchiesta che Renzi lanciò a sproposito il 23 dicembre 2015). E a patto che si fissi almeno un punto fermo: chi ha sbagliato, una volta tanto, tolga il disturbo. A pagare il conto finale non può essere sempre e solo Pantalone. Pantalone siamo noi. Vorremmo almeno sapere, con qualche domanda, chi dobbiamo “ringraziare”.

IL TESORO.
In una lunga intervista al Sole 24 Ore, il ministro Padoan ripercorre a modo suo il calvario di Mps. Nulla c’è ancora di chiaro, sulle modalità con le quali saranno “coperti” gli obbligazionisti della banca, e quali saranno, anche in questo caso, i sommersi e i salvati. Per il resto, il ministro dice: “Non sono affatto pentito di aver sostenuto, nel rispetto del ruolo di tutti, l’operazione di mercato”. Ma non era forse già chiaro a luglio che la “strada privata” avrebbe portato a un vicolo cieco? Si può considerare il licenziamento di un amministratore delegato come Fabrizio Viola, deciso con una telefonata fatta “per conto” dell’allora premier Renzi il 7 settembre, una mossa “nel rispetto del ruolo di tutti”? O qui non c’è forse una clamorosa invasione di campo della politica, che invece di salvare la banca quando le condizioni lo consentivano si è avventurata in un’improbabile “operazione di mercato”? Padoan aggiunge: do il “pieno sostegno all’attuale management della banca”, compreso l’ad Marco Morelli. Considerato che in questi anni Mps ha bruciato 17 miliardi di patrimonio, non è il momento di attuare anche in Italia il metodo Obama, che nel 2009 varò il “Tarp”, un piano di intervento dello Stato nelle banche da 700 miliardi di dollari, che aveva come condizione l’azzeramento totale di tutti i vertici e la nomina di manager pro tempore scelti dallo Stato? Padoan si lamenta perché “nel nostro Paese non sono sanzionate abbastanza le responsabilità di singoli manager che hanno prodotto danni rilevanti a investitori, azionisti, risparmiatori”. Giusto, ma allora perché non presenta una legge che introduce e inasprisce queste sanzioni? Lui è il governo: ha l’obbligo politico e morale di parlare e di agire come il ministro del Tesoro, non come un cittadino qualunque.

LA BCE.
La Banca centrale europea ha avuto un ruolo cruciale, fa il suo mestiere. Ma il suo “accanimento terapeutico” nei confronti di Siena merita qualche chiarimento. Dopo gli stress test del 23 giugno, la Vigilanza europea guidata dalla francese Danièle Nouy impone la ricapitalizzazione da 5 miliardi entro il 31 dicembre. In base a quale criterio, solo 4 giorni fa, la Bce chiede per lettera al Monte di aumentare la ricapitalizzazione a 8,8 miliardi? Cosa è cambiato, in questo frattempo? E in base a quale principio Francoforte impone a Mps la stessa copertura patrimoniale (il Cet1, fissato all’8%) che nel 2015 applicò alle banche greche, mentre nelle stesse ore riduce dal 10,7 al 9,5% l’analogo parametro richiesto alla Deutsche Bank (la banca europea con il portafoglio più “zavorrato” dal peso dei titoli tossici)? Mario Draghi, giustamente, ha fatto della cosiddetta “accountability” la sua religione. Ma la necessità di “rendere conto” del proprio operato, a Francoforte, deve valere per tutti.

LA BANCA D’ITALIA.
Via Nazionale ha avuto un ruolo importante. Non tanto per quello che ha fatto, quanto per quello che non ha fatto. Sul fronte “esterno”: il governatore Visco siede nel board di Francoforte, e l’italiano Ignazio Angeloni siede in quello della Vigilanza europea. Perché sono mancate comunicazioni puntuali tra l’Eurotower e Palazzo Koch? Sul fronte interno: la direttiva sul bail in (che scarica i costi dei fallimenti bancari su azionisti, obbligazionisti e correntisti oltre i 100 mila euro) viene approvata dalla Ue nel 2014, e in Italia viene introdotta per la prima volta un anno dopo con il “decreto di risoluzione” su Banca Etruria, Marche, Cariferrara e Carichieti. Perché Bankitalia (che solo in seguito si dichiarerà contraria a quelle norme, applicate in modo retroattivo su tutti i risparmiatori) non fa una campagna per sensibilizzare l’opinione pubblica e convincere i governi a modificarla? E poi, più in particolare sull’affare Mps: perché il governatore ripete dal gennaio 2013 che la banca “non ha problemi di tenuta “, mentre nei due anni successivi Viola è costretto a chiedere aumenti di capitali per ben 8 miliardi? Perché in estate non si oppone alla cacciata dello stesso Viola, decisa da Renzi il 6 luglio dopo una colazione di lavoro a Palazzo Chigi con il presidente di Jp Morgan, Jamie Dimon? Perché in autunno non si oppone al rinvio dell’aumento da 5 miliardi, che Renzi decide di spostare a dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre, per evitare di dover mettere la faccia su un sicuro fallimento? Queste risposte sarebbero necessarie. Al contrario di quello che avviene per le ispezioni (sulle quali pure ci sarebbero tante domande da fare) non si viola nessun segreto d’ufficio.

LA CONSOB. 
La commissione che vigila sulle società e la Borsa non può chiamarsi fuori dalle responsabilità. Stendiamo un velo pietoso sui derivati Alexandria e Santorini, che cinque anni fa nessuno vide e nessuno bloccò. Anche negli ultimi mesi su Mps sono accadute anomalie che una Vigilanza seria avrebbe potuto e dovuto intercettare. Almeno due delle emissioni obbligazionarie a rischio (“Lower Tier 2”, a scadenza 2020) risultano vendute ai clienti al dettaglio della banca durante la gestione di Giuseppe Vegas. Se questo è vero, perché la Consob non le ha valutate e non le ha bloccate? E se invece non è vero, perché non smentisce e non chiarisce esattamente chi e quando ha autorizzato che cosa?

I VERTICI MPS.
Il “groviglio armonioso”, a Siena, ha radici antiche. L’inizio della fine, com’è noto, comincia con Giuseppe Mussari, che compra Antonveneta dal Santander per oltre 9 miliardi, la cifra folle che fa esplodere i conti. Questa ormai è storia. La cronaca di questi ultimi mesi presenta zone d’ombra non meno inquietanti. Da settembre, dopo la famigerata “telefonata di licenziamento” di Padoan, ai vertici Mps siede Marco Morelli, già dirigente della banca ai tempi di Mussari. Insieme a Jp Morgan e Mediobanca (finora curiosamente rimasta “al riparo” da critiche) è proprio Morelli a farsi garante della cosiddetta operazione “di mercato”, cioe del reperimento dei 5 miliardi di capitali privati. Ed è proprio Morelli a ventilare fino all’ultimo la possibilità che grandi fondi esteri intervengano nella ricapitalizzazione, nel ruolo di “anchor investor”, convincendo il Tesoro a rinviare fino all’ultimo un intervento pubblico su Mps che si poteva e si doveva fare almeno sei mesi fa.

Dunque: quando e con chi ha parlato Morelli, tra i rappresentanti del fondo sovrano del Qatar? Quali sono stati i suoi interlocutori nel fondo gestito da George Soros? E quali offerte concrete aveva in mano, quando il 7 dicembre il cda della banca ha chiesto alla Bce una proroga al 20 gennaio 2017, per il closing dell’operazione? È il minimo che si possa chiedere a un manager che ha un compenso fisso di 1,4 milioni, superiore a quello del suo pari grado di Bnp Paribas. Per gestire la peggiore delle grandi banche europee, guadagna più di quello che guida la migliore. Come direbbero un Longanesi o un Flaiano: ah, les italiens…

Giulio Regeni, tutte le bugie di Mohamed Abdallah

(B. Maarad per l’Espresso)

Il suo nome è stato presente fin dall’inizio. Mohamed Abdallah ha sempre fatto parte del caso Regeni. E’ stato uno dei primi testimoni a farsi avanti. Ha fornito però versioni contrastanti. Cambiavano in base all’andamento delle indagini. Dalla sua totale estraneità al suo pieno coinvolgimento. E oggi Mohamed Abdallah, il capo del sindacato autonomo degli ambulanti, continua a nascondere la verità.

Il nome di Abdallah spunta la prima volta in una dettagliata ricostruzione del caso fatta dal quotidiano Almasry Alyoum il 26 febbraio, un mese dopo la sparizione di Giulio. Il sindacalista si è presentato alla redazione del giornale a raccontare la sua versione dei fatti accompagnato da un collega. “L’ho incontrato più di dieci volte”, ha raccontato. “Sono andato con lui al mercato di Ahmed Hilmy, dove abbiamo incontrato alcuni ambulanti, e poi l’ho accompagnato a New Cairo dove ne abbiamo conosciuti altri”.

In questa versione Abdallah dice di aver visto Giulio Regeni più di dieci volte, nelle future diventeranno solo sei. Ma non è questo il punto debole di questa prima testimonianza. Mentre infatti il suo collega, Rabie Yamani, esprime la sua vicinanza a Regeni, mostrando anche un sms con cui avevano concordato un appuntamento per il 17 gennaio che poi Giulio avrebbe annullato, Adallah si tiene distante. “Prima che ripartisse per le vacanze di Natale mi aveva proposto di partecipare a un bando promosso da una fondazione inglese. Da quel momento non mi sono più sentito tranquillo e ho quindi cominciato ad allontanarmi da lui”.

In realtà, già nel servizio pubblicato da Almasry, veniva citata la testimonianza dell’amico di Giulio, Amrou Asaad, che riferiva il tutto in modo completamente diverso: “Prima di partire, Giulio aveva proposto agli ambulanti di partecipare a questo bando per una somma di circa 10mila sterline. Dopo il suo ritorno però ha ignorato l’argomento perché, mi ha spiegato, era rimasto deluso da uno dei responsabili del sindacato che ne voleva approfittare”. Non è tutto. Abdallah, nonostante avesse espresso questa sua sensazione negativa, ha assicurato ai cronisti di non essersi rivolto alla polizia: “Non sono una spia. Anche se dovessimo trovare un cadavere, ci gireremmo dall’altra parte”. E’ un modo egiziano per dire “ci facciamo i fatti nostri”.

Ha voluto però andare oltre, forse nel tentativo di distogliere l’attenzione: “Giulio parlava e scherzava con tutti. Magari qualcun altro ha avuto la mia sensazione. La metà degli ambulanti sono informatori della polizia”. La prima smentita è già nelle righe successive. Ci pensano gli agenti di polizia che controllano il mercato dove Abdallah ha detto di essersi recato con Giulio più volte: “Impossible, se fosse venuto qua l’avremmo visto. Inoltre abbiamo le telecamere che registrano tutto, non lo possiamo nascondere”. Abdallah ha mentito più volte già nella sua prima dichiarazione. E’ emblematico il commento pubblicato da un lettore: “Ho la sensazione che quello che si fa chiamare Mohamed Abdallah abbia qualche collegamento diretto con l’omicidio di Regeni. Il movente c’è sicuramente. Nessuno può indagare meglio con questa persona?”.

Le indagini vanno avanti (o comunque si finge) senza considerare il ruolo di Abdallah. C’è maggiore impegno a inscenare lo scontro a fuoco con la banda di quelli che sarebbero poi stati indicati come i responsabili del sequestro del ricercatore italiano. Il tentativo di depistaggio fallisce il 24 marzo. Una settimana dopo, l’8 aprile, fallisce anche il primo vertice a Roma tra gli inquirenti italiani e quelli egiziani.

Il nostro Governo decide di richiamare l’ambasciatore italiano al Cairo. I rapporti diplomatici si fanno sempre più deboli. Un mese dopo torna alla ribalta il nome di Abdallah. La prima settimana di maggio la procura italiana riceve infatti i tabulati della chiamate di cinque utenze, tra queste quella del sindacalista. Anche in questo caso lui si dice completamente estraneo ai fatti. “Non so nulla riguardo alle intercettazioni, non so nemmeno se sia legale il fatto che l’Egitto le abbia consegnate all’Italia”.

La prima vera svolta arriva con il vertice in Italia del 9 settembre. Emergono due aspetti fondamentali: la polizia egiziana aveva indagato Giulio e, soprattutto, lo aveva fatto a seguito di un esposto del 7 gennaio firmato da Mohamed Abdallah. Da tenere presente le tempistiche, Regeni ha lasciato il Cairo il 20 dicembre, con la proposta del bando, e ci è tornato il 2 gennaio, con la bocciatura del finanziamento da 10mila sterline. Cinque giorni dopo scatta la denuncia. In ogni caso, Abdallah smentisce categoricamente. L’11 settembre giura sulle pagine di ‘Shorouk e Tahrir’ di “non aver firmato alcun esposto o fatto telefonate o inviato messaggi”.

Dice però di più: “Mi sono pentito di non averlo fatto, perché la ricerca di Giulio non era sugli ambulanti ma sul loro rapporto con la polizia”. E si dice addirittura “disponibile a sacrificarsi per il bene del Paese”. Insomma “se la procura ha deciso che io ho fatto quell’esposto, mi prendo la responsabilità. Non voglio che sia incolpata la polizia per un omicidio che non ha commesso. Sono pronto a essere una vittima per l’Egitto se questo servirà a chiudere il caso e a ristabilire i rapporti con l’Italia”.

Qualche giorno dopo, in nuove versioni, Mohamed Abdallah conferma di aver denunciato Regeni per “amor di patria”. O magari semplicemente ha dato il via al suo sacrificio. Il tutto viene confermato nelle dichiarazioni rilasciate all’ Huffington post arabo martedì sera.

V come voucher: ecco i numeri (ragionati)

Un lavoro enorme di Davide Serafin per Possibile. Una risposta a chi dice che per valutare i voucher bisogna aspettare i numeri. Come scrive Davide (qui):

I numeri, alcuni, importanti, ci sono già. Non serve aspettare. Avete qualche dubbio, cari ministri? L’INPS ha già fatto un importante lavoro di raccolta e analisi dei dati. Li abbiamo messi insieme e interpretati.

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(potete scaricarlo qui)

 

Rapita Afrah Shawqi, giornalista d’inchiesta

Una giornalista irachena, Afrah Shawqi, nota per i suoi articoli contro la corruzione, è stata rapita la notte scorsa dalla sua casa di Baghdad da uomini armati e se ne sono perse le tracce. Lo ha reso noto la polizia, precisando che i responsabili dell’azione indossavano divise militari e avevano il volto coperto. L’episodio è avvenuto nel quartiere di Saydiya. Secondo la polizia, gli uomini armati hanno ammanettato i figli della giornalista e si sono anche impossessati di gioielli e altri oggetti di valore. Il primo ministro, Haidar al Abadi, ha fatto sapere di avere dato istruzioni alle forze di sicurezza di «prendere misure immediate per risolvere il caso e fare ogni sforzo per salvare la vita» della giornalista.

Proprio ieri su un giornale locale era uscito un articolo in cui la Shawki criticava un dipendente del ministero dell’Interno che aveva picchiato il preside di una scuola nella città di Nassiriya davanti agli insegnanti e agli allievi per una questione riguardante sua figlia. Il premier Abadi ha ordinato di «perseguire qualsiasi gruppo coinvolto nel rapimento della giornalista, o che mini la sicurezza della gente e terrorizzi i giornalisti»

(fonte:Ansa)

«Mangio io la torta TAV»: e l’imprenditore si prende 7 anni per mafia

«Ce la mangiamo io e te la torta dell’alta velocità», aveva detto in una delle telefonate intercettate dagli investigatori. Alla fine, invece, l’imprenditore Giovanni Toro, 49 anni, di Castelletto Ticino, ha rimediato 7 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo il Tribunale di Torino ha favorito la ‘ndrina di San Mauro Marchesato distaccata in Piemonte, smantellata dai carabinieri del Ros e dalla Dda di Torino con l’operazione «San Michele» nell’estate 2014.

Condannati altri cinque imputati (e altri undici erano stati condannati un anno fa in abbreviato). I pm avevano chiesto pene per un totale di 74 anni. Per l’impresario la richiesta era stata di 11 anni.

In base all’impianto accusatorio Toro si era interessato agli affari dell’Alta Velocità in Val di Susa per conto della cosca crotonese «Greco», interessata a estendere radici criminali in Piemonte. L’uomo, già arrestato nel 2014 assieme a altre 25 persone nell’ambito di un’inchiesta nata come stralcio della più vasta operazione «Minotauro» del 2011, si è sempre detto innocente. Per gli inquirenti era invece uomo chiave. Nelle carte dell’indagine ci sono espliciti riferimenti all’interesse delle cosche per gli appalti Tav, tanto da registrare diversi summit preparatori in casa madre calabrese, per decidere e organizzare la spartizione della torta milionaria. È lo stesso Toro a confermarlo in una intercettazione: «Ricordati queste parole… che ce la mangiamo io e te la torta dell’alta velocità». E al telefono diceva anche: «No Tav? Se arrivano li schiaccio con il rullo».

Secondo i pm, nel 2012 l’imprenditore di Castelletto aveva ottenuto vantaggi e commesse lavorative dai suoi contatti con la ‘ndrangheta («nei cui confronti manteneva relativa autonomia») aveva permesso a ditte indicate dalla ‘ndrina di partecipare ad appalti assegnati alla Toro srl e di scaricare rifiuti residui di lavorazioni edili e stradali aggirando le normative. E aveva esercitato pressioni e minacce contro alcuni concorrenti che volevano pignorare beni a un amico imprenditore.

(fonte, La Stampa)

Un giornalista da non mandare mai in pensione (ma dargliela, la pensione): Riccardo Orioles

Chi si occupa di mafia in Italia prima o poi ha letto Riccardo Orioles e anche se non ne ha mai notato la firma in fondo a un pezzo l’ha letto comunque perché Riccardo ha istruito, formato e consigliato generazioni di giornalisti: già redattore nella redazione de I Siciliani di Pippo Fava, Riccardo è un giornalista militante, merce rara in questo Paese di genuflessi, che crede in un giornalismo etico che indaghi, racconti e denunci.

Da oggi è online una petizione per Orioles:

“Per questo Vi chiedo di far accedere Riccardo Orioles alla “Legge Bacchelli”, norma che ha istituito un fondo a favore di cittadini illustri che versino in stato di particolare necessità. Sarebbe l’unico modo per far usufruire di un contributo vitalizio utile al suo sostentamento. Il giornalista milazzese gode di tutti i requisiti per accedere all’aiuto: la cittadinanza italiana, l’assenza di condanne penali irrevocabili, la chiara fama e meriti acquisiti nel campo delle scienze, delle lettere, delle arti, dell’economia, del lavoro, dello sport e nel disimpegno di pubblici uffici o di attività svolte. Come lo scrittore Riccardo Bacchelli, per il quale è stata approvata la legge n.440 dell’8 agosto 1985.

Mi piacerebbe che le Istituzioni riconoscessero in vita il valore di un intellettuale come Orioles, e non lo faccia ipocritamente solo dopo la sua morte”.

Si può firmare qui. E ne vale la pena.

 

Eni e quelle due valigie piene di soldi

(ne scrivono in pochi, qui Il Fatto Quotidiano)

Victor mi disse che 50 milioni in banconote da 100 dollari erano stati portati al ‘chairman’ di Eni. E per ‘chairman’, lui, intendeva Scaroni. Mi raccontò di denaro ancora fascettato, in buste di cellophane, come dire che proveniva direttamente da una banca. Occupava due trolley – continuò – ed era stato portato prima a casa di Casula, ad Abuja, poi fu trasportato con un ‘aereo dell’Eni’ fuori dalla Nigeria, nel settembre 2011, ma io so che l’aereo Eni in quel periodo non aveva fatto voli in Nigeria. Però so anche che c’è un aereo privato che Eni affittava dal console onorario in Congo, Fabio Ottonello”. E’ Vincenzo Armanna, il dirigente Eni che si occupò della trattativa sul giacimento Opl 245 nel 2011, che racconta ai pm milanesi della presunta mazzetta destinata a Paolo Scaroni, precisando di non avere prove dirette. Il sospetto che una tranche da 50 milioni fosse destinata a tornare in Italia, “al management” Eni, fu confermato da un agente dell’intelligence nigeriana (“Victor”) che raccontò: “Ho saputo che 50 sono andati agli italiani, a persone dell’Eni o comunque vicine”. Armanna riferisce che l’ex ministro del Petrolio Dan Etete (vero titolare della concessione sul giacimento Opl 245) all’hotel Bristol di Parigi gli disse: “Boy, you know for whom is this money, is for Paolo Scaroni”. Ovvero: “Ragazzo, tu sai per chi sono questi soldi, sono per Scaroni”.

IL PREZZO. Le accuse di Armanna verso Scaroni sono durissime: “Casula (Roberto, alto dirigente Eni, anch’egli indagato, ndr), con l’endorsement di Scaroni, e in un caso Scaroni in prima persona, hanno provato a far lievitare artificiosamente il prezzo finale di acquisizione del blocco, per permettere il pagamento della esorbitante ‘parcella’ di Emeka Obi”.

L’obiettivo: “Fare in modo che il denaro transitasse interamente nei conti dell’intermediario – che fosse Evp o Petrol Service – cosicché da un lato Malabu (la società dietro cui c’era Etete, ndr) fosse ricattabile e condizionabile e, dall’altro, fosse generata la ‘provvista’ necessaria a soddisfare gli interessi illeciti delle parti nascoste prima dietro Evp e dopo Petrol service. Evp diventava lo strumento attraverso cui Scaroni e Casula potevano costringere e ricattare Dan Etete”.

La Petrol Service è riconducibile all’“intermediario” Gianfranco Falcioni che avrebbe dovuto ricevere soldi su un conto svizzero della Bsi Lugano, ma la banca considera il bonifico sospetto e rimanda indietro i soldi a JpMorgan. “Lo schema di intermediazione che aveva come perno Petrol Service – spiega Armanna – determinava preoccupazioni maggiori, era ingiustificabile, se non in quanto funzionale a una ripartizione illecita che coinvolgesse altri italiani. Si trattava di uno tra i principali fornitori di Eni Nigeria, nonché del console onorario”.

IL CONFRONTO. Su richiesta di Armanna i pm convocano l’attuale ad dell’Eni Claudio Descalzi, anche lui indagato, per un confronto. I toni sono tranquilli, al punto che i pm sono costretti spesso a chiedere di alzare il tono della voce, nel timore di non riuscire a registrare. Il confronto s’incentra su due questioni. La prima: Armanna sostine di aver incontrato con Descalzi il presidente nigeriano Jonathan Goodluck, alla presenza del ministro del Petrolio Alison Madueke Diezani, nella “Presidential Villa”, per discutere del ruolo svolto da Emeka Obi. Descalzi nel giugno 2016 nega: “Mai parlato con il presidente dell’intermediazione di Obi e Armanna non ha partecipato a incontri tra me e il presidente”. Eccoli, uno di fronte all’altro.

Descalzi: “Sono andato a rivedere tutto, passaporto, viaggi, agenda… nel maggio 2010 non ero in Nigeria. In aprile, giugno e luglio non sono andato. Sono andato in agosto, ma è stato un incontro plenario, con la delegazione presidenziale, la delegazione Eni con Scaroni e tutti gli altri. Come funzionavano gli incontri? Andavamo nella sala d’attesa, usciva il presidente, mi portava nel suo ufficio, stavamo dieci o quindici minuti. Finito. Ok? È un presidente. Difficilmente sarei andato a un incontro con il presidente per parlare di un intermediario, con un ministro e altre persone. Prima di tutto perché non vedo un presidente nigeriano che – lo dico senza razzismo – si mette a parlare con dei bianchi di cose così sensibili. Ma il problema è che non è mai successo. Magari Armanna ha fatto questo incontro con qualcun altro”.

Armanna: “Dan Etete si lamentava del fatto che noi non chiudessimo il deal. Bisignani e compagnia erano convinti che il deal si sarebbe chiuso entro l’estate del 2010. Non so se te la ricordi questa parte. Dan Etete ci attribuiva il fatto che perdevamo un sacco di tempo e andò a lamentarsi con Goodluck… l’incontro fu fatto su pressione violentissima di Etete… la motivazione era che non voleva Obi e ci portò tutti al cospetto del presidente. Ci fu una parte molto veloce, all’inizio, dove si parlò meno di 10 minuti e dopo Claudio, con il presidente, come sempre, se ne andavano da soli…”.

D:“Mi ricorderei di aver fatto un contro con il presidente… Non confuto la sostanza però io l’incontro non l’ho fatto… posso averlo incontrato da solo ma non in plenaria…”.

A: “Io invece me lo ricordo perché è stato l’unico incontro a cui ho partecipato…”.

D: “Si vede che alla mia età…”.

A:“All’inizio è stato un incontro molto sereno, poi è saltato fuori che il problema più grosso erano i 200 milioni che voleva Obi. L’obiettivo dell’incontro era capire chi era il portatore di interessi nei confronti di Obi. Il ministro del Petrolio? L’attorney general? Eravamo noi? L’unica cosa certa era che non era il presidente. Il linguaggio non era così diretto ma la sostanza era questa. L’intermediario non è dei nigeriani, è degli italiani. E la risposta è stata “non è degli italiani”. (…). Eravamo seduti in un salone, poi si entra dentro una sala, dove sono andati loro e io non sono mai stato”.

D:“Non è che era Casula e non io?”.

A: “Siete un po’ diversi…”.

D:“Sono pelato…”.

A:“Ti ricordi che la ministra si rifiutava di vederci”.

D: “Non volevamo vederla noi, perché era meglio stare lontani…”.

A: “Sì, per il marito, era un po’ vorace”.

D: “Non metto in dubbio che l’incontro ci sia stato… non metto il dubbio il contesto e il contenuto… ma da febbraio ad agosto e fino al 2012 io in Nigeria non ci sono stato”.

La seconda questione riguarda gli eventuali colloqui tra Armanna e Descalzi in relazione al trasferimento di denaro sul conto svizzero della società Petrol Service.

D: “Questa cosa mi stupisce più della prima. Se mi avesse detto una cosa del genere sarei saltato sulla sedia. La cosa deve essere denunciata perché altrimenti avevamo problemi gravissimi”.

A:“Ti portai all’attenzione che queste informazioni io l’ho avuta da Stefano Puiatti, eh? Non l’ho scoperta da sola. Puiatti lo dice a me e a Ciro Pagano”.

D:“Che questi voglio portare i soldi…”.

A: “Mandare i soldi a Petrol service”.

D:“In Svizzera?”.

A:“In Svizzera”.

D:“Attraverso questo signore?”

A:“No, direttamente sui suoi conti… firmato dal ministero delle Finanze (nigeriano, ndr) … sono andati lì, sono andati a Beirut, sono tornati… andavano e tornavano. Divertentissimo. Quindi ti raccontai, se ricordi, che stavano replicando lo schema Obi … andammo a fumare e io ti dissi che non sapevo che fumavi…”.

D:“Beh (ride)”.

A:“per farti ricordare…”.

D:“Non lo so se fumavo o non fumavo. Fumavo, sì. Poi ho smesso. Però una roba del genere me la sarei ricordata. Sarei intervenuto”.

Erri De Luca: «i politici non si appropino di Gesù: lui fuggiva dal potere per cui loro si dannano»

(Intervista di Nicola Mirenzi per Huffington Post)

In principio, è una contraddizione: “Cristo è incompatibile coi poteri del mondo, con le ricchezze accumulate, con i privilegi”. Eppure, la celebrazione della sua nascita non procura scuotimenti. È un rito pacificato, assorbito dalla routine delle luci, degli alberi addobbati, delle offerte luccicanti di comete in vetrina: “Dall’imperatore Costantino in poi – racconta Erri De Luca all’Huffington Post – i poteri hanno liberamente interpretato il Cristo, censurando gli aspetti sconvenienti ai loro interessi. Lui non voleva il potere fasullo di un’ora di supremazia, di primato sugli altri, di acclamazione a furor di popolo. Non voleva quel potere per il quale si dannano i politici e i potenti di ogni età”.
Scrittore, laico, ex militante della sinistra estrema, studioso dei libri sacri: Erri De Luca non festeggia il Natale da vari anni, “da quando è morta mia madre”, dice, perché per lui è una “festa collegata alla sua presenza”.

Sente, anche da laico, lo scandalo dell’apparizione di Cristo nel mondo?
È rimasto lo stesso scandalo di prima: l’incarnazione di una divinità che attraversa tutti gli stadi dell’esperienza fisica, dalla nascita alla morte. Non scandalo, ma esempio resta la sua condotta processuale di fronte al tribunale romano. Non rinnega, né sfuma le sue convinzioni e la sua missione. È condannato per questo. Un oscuro prefetto di Roma, tale Ponzio Pilato, suicida sotto l’imperatore Caligola, è diventato indegnamente celebre per aver presieduto al dibattimento.

Chi è Gesù Cristo per lei?
Nella mia gioventù politica si prendeva in considerazione Che Guevara, simbolo di un’epoca che aveva smesso di offrire l’altra guancia all’offesa. Beati gli ultimi, la più politica frase di Cristo, andava praticata nel nostro tempo, non era rinviabile. Gli ultimi dovevano essere beati subito. Ho conosciuto in quel tempo qualche realizzazione del genere.

Cristo non aveva nulla da suggerire alla vostra contestazione?
In Gerusalemme, in quella Pasqua della sua cattura, aveva in pugno un popolo che lo acclamò al suo ingresso sulla cavalcatura regale e lo seguì nel Tempio a sgomberare i mercanti. Ma lui non volle essere capo di una rivolta contro l’occupazione militare straniera. Aveva una missione che doveva compiersi sul patibolo romano. La mia gioventù politica preferiva i combattenti.

Ma Cristo diceva: “Sono venuto a portare non pace, ma spada” (Matteo 10,34). Era un combattente.
Rinunciò a scatenare una rivolta in più in quella terra che oppose il più ostinato contrasto all’impero romano. Per secoli il monoteismo ebraico si è scontrato in armi con il politeismo di Roma, con la pretesa di divinità del suo imperatore. Di croci a migliaia erano state riempite le alture e le valli, con i corpi degli oppositori, perseguitati per la loro resistenza. Cristo voleva rinnovare le radici della fede nel Dio unico e solo. Era un messaggio interamente ebraico, incomprensibile ai romani. Non si rivolgeva al loro potere. Pretendeva di ignorarlo.

L’idea di amarsi gli uni gli altri è inconciliabile con la nuova ragione del mondo, quella di competere gli uni contro gli altri?
Amare il proprio vicino è un precetto che risale al Levitico, Libro Terzo dell’Antico Testamento. Cristo lo interpreta approfondendo la fraternità fino al sacrificio, perché amare è un’esperienza sovversiva, procura insurrezione interna in chi lo prova. Competere invece dura poco, il concorrente finisce presto fuori concorso. Cristo è incompatibile coi poteri del mondo. Date a Cesare quello che è di Cesare: dategli la tassa che esige, la moneta con il suo profilo inciso, perché è tutto quello che gli spetta, un pezzo di metallo che presto avrà un modesto valore numismatico.

Se non nell’al di là, che paradiso si può promettere in terra?
La terra, il pianeta, è un prodigio del sole, un posto di meraviglie impossibili da enumerare. La nostra presenza di recente lo va degradando a Purgatorio, con reparti di Inferno. Siamo contemporanei delle più intense e assortite intossicazioni sconosciute, diffuse dal sistema di sviluppo, che gode per questa nobile funzione di piena impunità. Prima di questo avvento moderno, la terra era il Paradiso della vita animale e vegetale. Dove altro cercarlo? Ancora qui, ancora adesso, e in nessun aldilà.

Non si rischia di ridurne l’alterità e il contrasto avvicinandolo troppo a noi?
La spada alla quale si riferiva prima, citando Matteo, non è la guerra, quella c’era già e non servivano supplementi. Leggo invece l’estrazione di una spada simbolica, che assegna i meriti e pareggia i torti, la spada di un’autorità morale che produca conversioni e ravvedimenti. Da questo punto di vista Papa Francesco è la spada sguainata di una chiesa nuova.

Francesco è andato a Lampedusa, dove arrivano i migranti, predicando di stare dalla loro parte. Molti italiani impoveriti, però, si riconoscono nelle parole: “Prima noi”.
Prima veniamo noi è un ragionamento che proclama l’evidenza: ovvio che prima vengono i residenti, i nativi, infatti sono loro i primi che possono andare a raccogliere il pomodoro, assistere agli anziani, tenere piccoli esercizi commerciali aperti ventiquattr’ore. Dopo di che, in loro assenza, rifiuto, rinuncia, arriva la supplenza dei secondi. Si tratta di supplenti, non di usurpatori di posti. Non è razzismo dire: “Prima noi”. È accanimento su qualunque soggetto più debole, in condizione di inferiorità. Il razzismo è ripudio di razza anche se fornita di censo. Da noi invece l’emigrato arabo è sospetto, l’emirato arabo è invece riverito nel più servile dei modi.

La sinistra – dalla cui storia lei viene – potrebbe imparare qualcosa da Cristo?
Vanno in Chiesa la domenica, mi sembra, gli ultimi capi di governo a guida PD. Quello che serve alla sinistra è dare sostanza di azione alla trinità laica espressa dalla Rivoluzione Francese: libertà, uguaglianza, fraternità. Su questo si misura o abdica una forza progressista.

C’è qualcosa anche da dis-imparare da Cristo e dal cristianesimo?
Ognuno ha imparato da Cristo, senza riuscire a ripetere la lezione, scordandola, balbettandola, contraddicendola nel momento della verifica. Proveniamo da una lunga tradizione che porta il suo nome e che ha dovuto molte volte scusarsi di averlo nominato invano. Io disimparo per inadeguatezza, per disattenzione, per un mucchio di deficit, che in latino vuol dire ciò che manca. Resto un lettore di storie sacre, perché quei libri hanno innalzato la forza della parola a strumento di creazione. “E disse”: è il verbo più frequente della divinità dell’Antico Testamento. La parola è l’azione più significativa della vita di Cristo.

Camorra: Donato Pagliuca si pente e racconta i rapporti su Mondragone

Donato Pagliuca

Si è pentito Donato Pagliuca. In effetti la sua decisione di collaborare con i magistrati della Dda emerge dall’ultimo fermo di pg, eseguito dai carabinieri della Compagnia di Mondragone, al comando del capitano Lorenzo Chiaretti, a carico di Antonio Razza, Vittorio Vitale e Giovanni Pellegrino.

E’ la prima volta che le sue esternazioni sono alla base di un provvedimento giudiziario i cui destinatari sono gli estorsori del clan di Mondragone. Nel contempo abbiamo appreso che già con l’ordinanza in danno dei 52 appartenenti e fiancheggiatori della nuova cosca zonale, emessa nel maggio scorso, la Dda ha depositato in un secondo momento le dichiarazioni del neo pentito Donato Pagliuca.

Qui in calce pubblichiamo le esternazioni del pentito rese nell’aprile scorso, che hanno consentito agli inquirenti di determinare il ruolo di Antonio Razza e di Vittorio Vitale sul fronte della gestione dei proventi delle estorsioni agli imprenditori delle slot machine.

Ma c’è di più. Donato Pagliuca chiarisce anche i rapporti con il clan di Sessa Aurunca. Vittorio Vitale, secondo Pagliuca, era il tramite dei Mondragonesi con i Sessani. “Se sussistevano problemi sarebbe stato lui a chiedere l’intervento per delle azioni armate”.

(fonte)

Auguri Possibili

(scritto per i Quaderni di Possibile qui)

Il più bel regalo della mia vita mi è capitato, non me l’ha portato nessuno. O forse me l’hanno portato tutti i casi e le persone della vita che mi hanno educato all’osservazione e alla comprensione. Il più bel regalo che mi sia capitato è stato il bullone per stringere la voglia di cambiare: succede senza avvertimenti, in un momento in cui ti scrolli di dosso il cemento della convinzione che non ci siano alternative e che la porta dell’ufficio dei cambiamenti sia chiusa a orario continuato, accessibile solo a una squadra in cui non si può essere arruolati. Quando mi è salita la sensazione di poter partecipare poi non ho più potuto farne a meno.

Non so se capita anche a voi, ma io sono cresciuto con la perdurante sensazione che mi volessero convincere che l’annichilmento fosse il modo migliore per stare tranquilli: l’inazione come protezione naturale per la serenità nostra, dei nostri figli, della nostra famiglia e delle nostre posizioni. C’è da dire che i conservatori sono davvero i consulenti più confortevoli che possano capitare e ci si mette anni a capire che quel loro conservare non si riduce al mantenimento dello status quo ma è soprattutto il costante logorio nello smussare le speranze: il menopeggismo del “non c’è alternativa”, una volta inoculato, stordisce meglio di un bicchiere di buon vino, copre più caldo della lana e sclerotizza le voglie. È il bromuro della speranza che ti consiglia di ridurne le dimensioni e così avere la soddisfazione di averla già raggiunta. Il miglior regalo della mia vita è stata la consapevolezza.

Quando da giovanissimo, in un paesello a forma di buco all’ombra della barriera autostradale di Milano sud, dissi di volere fare teatro come mestiere mi dicevano che no, che non era possibile. Quando mi capitò di essere sul palcoscenico con Dario Fo quegli stessi bisbigliatori che mi avevano irriso erano in prima fila a recriminare l’amicizia, applaudendo gaudenti come sorridono i terrorizzati. Quando pensai che il teatro, quel teatro che portavo in scena, dovesse raccontare la mafia che non esisteva tutta intorno mi dissero che però stavo esagerando, che forse era il caso di accontentarsi dei palchi che mi ero guadagnato. Ancora intenti a raccontarmi che non si debba mica cercare; che l’impegno vero consiste nell’accontentarsi nel modo migliore possibile. Tutta una vita rincorso da chi ti dice di fermarti, poi ti irride, poi ti combatte e poi ti raggiunge.

«Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci.» diceva Gandhi, uno che di possibilità se ne intendeva. Ecco, io l’augurio che ci farei, se potessi lasciare qualcosa sotto l’albero, è quello di rimanere vigili, appuntiti e lucidi per non farci acquietare. Ci auguro di trovare sotto l’albero quel bullone lì per sbloccare la sazietà di chi abita un Paese con la disperazione di non poterci mettere mano. E ci auguro di riuscire a regalare politica, che è la cassetta degli attrezzi migliore che si possa avere in casa.

Buon Natale.

(se volete essere dei nostri, noi siamo qui)