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A proposito di grandi opere: a Venezia il Mose sta affondando. Davvero.

(di Fabrizio Gatti per l’Espresso)

Costato più di cinque miliardi di euro, mostra segni di cedimento prima ancora di entrare in funzione. E ora la grande opera che doveva salvare la Laguna deve essere salvata a sua volta.

La domanda vale i cinque miliardi e mezzo di euro che abbiamo speso: alla fine il Mose proteggerà Venezia? Insomma, funzionerà? Mancano appena duecento milioni alla conclusione dei lavori. E altri quattro anni prima dell’entrata in esercizio delle barriere contro l’acqua alta, dopo l’avviamento sperimentale che secondo il cronoprogramma dei cantieri è stato ulteriormente spostato al 2018. Ma già si vedono i primi acciacchi. Mentre la Serenissima affonda con costanza di pochi millimetri l’anno, le colossali strutture in cemento armato che dovrebbero proteggerla stanno già sprofondando nella sabbia al ritmo di quattro centimetri l’anno: una subsidenza record limitata alle zone dei cantieri di Lido, Malamocco e Chioggia che il progetto delle dighe mobili prevedeva in un secolo, non in pochi mesi.

Anche le prove delle prime paratoie già posizionate tre anni fa al Lido stanno facendo cilecca: per due volte o non si sono alzate completamente o non si sono riposizionate correttamente sul fondale. L’efficacia dell’infrastruttura è garantita per cent’anni, ma a Malamocco è bastata una mareggiata per mettere fuori uso per sempre la porta della conca che dovrebbe garantire il transito delle navi quando la bocca mare-laguna è chiusa: era troppo leggera per quel tipo di impiego, adesso ne devono progettare una nuova. Perfino alcune delle parti in acciaio inossidabile stanno dimostrando qua e là di essere al contrario un po’ troppo ossidabili.

Dal punto di vista giudiziario e amministrativo, il Mose dovrebbe essere ormai al sicuro. Dopo gli arresti e lo scandalo, la nomina degli amministratori straordinari Luigi Magistro, Giuseppe Fiengo e Francesco Ossola ha rimesso sui binari della legalità il Consorzio Venezia nuova, l’azienda concessionaria dell’opera costituita da imprese private. Ma per capire se il Mose sia davvero un sistema affidabile, servirebbe ora una sorta di commissariamento tecnico: una verifica affidata a enti internazionali per tutti i punti critici che stanno venendo letteralmente a galla.

Se ne parla molto in questi giorni a Venezia, a cinquant’anni dalla disastrosa marea del 4 novembre 1966 quando lo stesso ciclone autunnale dopo aver messo sott’acqua Firenze e la Toscana, investì la laguna. Se ne parla anche perché per molto tempo è stato vietato. Finché nel Consorzio e nella Regione Veneto regnavano i boiardi della tangente che gonfiavano le spese e derubavano lo Stato e tutti noi, chi dissentiva, anche con prove alla mano, veniva obbligato ad affrontare costosi processi per diffamazione. Ne sanno qualcosa Vincenzo Di Tella, Gaetano Sebastiani e Paolo Vielmo, progettisti colpevoli di aver osato suggerire all’allora sindaco Massimo Cacciari, contrario all’opera mangiasoldi, un progetto alternativo. I tre ingegneri sono stati poi assolti e raccontano oggi la loro esperienza in un libro appena pubblicato: “Il Mose salverà Venezia?”. Cinquant’anni e cinque miliardi e mezzo dopo, nessuno può rispondere con sicurezza.

L’impatto ambientale

I veneziani nati nel 1966 hanno cominciato a sentire parlare di “Moduli sperimentali elettromeccanici”, cioè di Mose, sui banchi di scuola. La difficoltà e i prevedibili costi esorbitanti dell’opera venivano giustificati con la necessità di nascondere la barriera per non compromettere il paesaggio lagunare, già guastato dall’inquinamento del petrolchimico di Porto Marghera. Da lì la scelta delle 78 paratoie sottomarine agganciate a cerniere: barriere cave da tenere coricate sul fondo e da riempire d’aria compressa, perché possano risalire e fermare l’ingresso del mare in laguna quando le previsioni meteo annunciano acqua alta.

Quell’idea discreta di progetto nella realtà è diventata una colata di 616 mila tonnellate di cemento armato che hanno stravolto il paesaggio nei tre punti di contatto tra laguna e mare: a Lido, Malamocco e Chioggia. Sono le basi sommerse, i fianchi visibili e le banchine che devono reggere e azionare le paratoie: ventisette cassoni di profondità attraversati da tunnel asciutti per i controlli e le manutenzioni e otto strutture di spalla, alte come palazzine, più un’isola artificiale. Non bastasse, il lato verso il mare è tagliato da chilometri di scogliere artificiali per dissipare l’energia e l’altezza delle onde quando soffia scirocco. Cemento e recinzioni arrivano fin dentro l’oasi delle dune degli Alberoni e la riserva naturale di Ca’ Roman.

I piedi di argilla

I disegnatori del Mose avevano previsto una leggera subsidenza, cioè un abbassamento delle strutture in cemento armato dovuto al compattamento del sottosuolo su cui poggiano. «Per ridurre i cedimenti assoluti e differenziali cui sono soggetti i cassoni – hanno scritto nel progetto -il terreno deve essere preventivamente consolidato tramite infissione di pali nei primi 19 metri al di sotto del piano di fondazione». In laguna però non si raggiunge mai la roccia: ci sono soltanto sabbia e caranto, un sedimento composto da limo e argilla. «Si prevede che i cedimenti dei cassoni siano compresi tra 30 e 50 mm a fine costruzione della barriera – ipotizzano quindi i progettisti – e che crescano nel tempo, presumibilmente fino a valori compresi tra 60 e 85 mm, a 100 anni da fine costruzione». Sono valori assoluti: cinque centimetri fino alla fine dei lavori, tra sei e otto centimetri e mezzo per tutto il secolo di operatività.

Quest’anno Luigi Tosi e Cristina Da Lio dell’Istituto di scienze marine del Cnr hanno pubblicato con altri due ricercatori uno studio sulle misurazioni inviate dai satelliti della rete Cosmo-Skymed e Alos Palsar. Riguardano il Delta del Po e la Laguna di Venezia. Gli scienziati rilevano intanto un movimento dei punti fissi a terra in Veneto di circa 2 centimetri all’anno verso Nord e 1,7 verso Est dovuto alla deriva tettonica della crosta terrestre. Ma la parte più delicata per il futuro di Venezia è legata al costante abbassamento del suolo: mentre in tutta la laguna viene indicato un rateo costante di circa due-tre millimetri all’anno, in tre punti si arriva a 40 millimetri l’anno: «I principali spostamenti», spiega Tosi, «sono localizzati alle tre insenature della laguna dove le strutture del Mose in costruzione provocano un ampio consolidamento dei depositi superficiali, costituiti prevalentemente da sabbia non consolidata. Un fenomeno dovuto al carico delle strutture».

Tecnici del Consorzio e periti esterni stanno ora cercando di capire cosa fare. I cassoni di cemento armato sono già tutti posati. Ma soltanto alla bocca del Lido sono state installate le prime paratoie. A Malamocco attendono in banchina il montaggio delle grosse cerniere, mentre a Chioggia i lavori sono più indietro. Se la subsidenza continua di questo passo, in appena tre anni verrà superata la previsione di progetto che doveva valere per l’assestamento iniziale e tutto il secolo di operatività. Le conseguenze sono facilmente ipotizzabili: con l’affondamento incontrollato dei cassoni nella sabbia e il contemporaneo innalzamento del livello del mare, le maree eccezionali e le onde potranno facilmente scavalcare le barriere. Ma ci può essere di peggio. Una velocità diversa di assestamento tra le parti oltre i margini di tolleranza metterebbe in crisi i giunti che collegano i tunnel sottomarini a tenuta stagna: il loro allagamento metterebbe fine a questo rocambolesco e costosissimo tentativo di fermare l’acqua alta.

Il collaudatore tuttofare

Modificare in corsa il progetto? Impossibile. Gli ideatori del Mose (e i governi che lo hanno finanziato) hanno scelto di ignorare la legge sulla salvaguardia di Venezia che come requisiti richiedeva «gradualità, sperimentalità, reversibilità” delle opere. Considerare graduali e reversibili in laguna oltre seicentomila tonnellate di cemento rinforzato da chilometri di ferro è piuttosto complicato: anche in caso di successo delle barriere mobili, chi tra cento anni dovrà adeguare o demolire la struttura, penserà molto male di noi. Perché per la rimozione e lo smaltimento dei cassoni dovrà spendere cifre molto vicine a quelle di costruzione. Per prevenire ulteriori incidenti di percorso, diventa fondamentale la severità dei collaudi già in corso.

Purché siano fatti da professionisti distaccati e con competenze specifiche: continua invece la prassi di frazionare i collaudi in tante commissioni che non dialogano tra loro e di premiare con incarichi di collaudatori funzionari amministrativi del ministero delle Infrastrutture, senza nessuna preparazione in ingegneria. A giurisprudenza non si insegnano i fenomeni di risonanza e instabilità dinamica: uno studio francese commissionato anni fa dal Comune dimostrava addirittura che con onde sopra i due metri e un periodo di 8 secondi le paratoie di Malamocco, così come sono state concepite, comincerebbero ad agitarsi senza controllo, lasciando passare la marea e mettendo a rischio l’intera struttura.

«Anche se in un contesto rinnovato di correttezza amministrativa dovuto ai commissari del Consorzio», dice Vincenzo Di Tella, per anni progettista della società “Tecnomare” del gruppo Eni, «il potere politico deciderà di accettare il fatto compiuto e portare a compimento il progetto, per avere una utilità dalla grandissima quantità di risorse spese. Noi crediamo invece che per poter essere completato e messo in esercizio, il Mose dovrebbe comunque essere finalmente verificato da esperti qualificati per tutti gli aspetti tecnici per i quali esistono tuttora dubbi di funzionalità, sicurezza e costi futuri. Non si tratta di un’opera civile tradizionale, ma di un sistema innovativo e complesso, per la cui funzionalità non esistono esperienze precedenti».

La concezione sottomarina della struttura aumenta di molto i costi di manutenzione: sono partiti da una stima di 40 milioni l’anno, che imprevisti hanno già fatto raddoppiare. Si comincia dalle prime paratoie posate nel 2013. Ancor prima di entrare in funzione, entro il 2018 vanno tutte sostituite e avviate alla revisione quinquennale. «Chi dovrà spendere 40 milioni all’anno di manutenzione del Mose?», chiedeva nel novembre 2006 l’allora sindaco Massimo Cacciari, supplicando lo stop e la revisione del progetto. Sono passati dieci anni. E manca ancora la risposta.

Siria, Turchia, Trump, Putin: uno scenario possibile

(l’articolo di Gianandrea Gaiani dal numero di pagina99 in edicola il 10 dicembre)

Quando Donald Trump si insedierà alla Casa Bianca, il 20 gennaio, l’esito della guerra in atto in Iraq e Siria potrebbe essere già stato scritto. Gli assedi di Aleppo e Mosul, concettualmente simili alle battaglie medievali pur se combattuti con armi moderne, sembrano poter determinare importanti sviluppi nelle campagne del governo siriano e dei suoi alleati contro le formazioni antigovernative, per lo più jihadiste, e nella controffensiva dell’Iraq per riconquistare i territori espugnati dall’Isis nel 2014. Sul fronte siriano gli sviluppi militari sembrano più rapidi.

La penetrazione delle truppe di Damasco nei quartieri orientali di Aleppo occupati dal 2012 dai miliziani e già per metà riconquistati dai governativi, sembra preludere a una rovinosa sconfitta delle opposizioni armate sostenute finora soprattutto da Turchia e monarchie del Golfo (ma anche dagli Usa) che includono “ribelli moderati” le cui milizie hanno però un peso limitato e sul campo combattono al fianco di ex qaedisti, salafiti e fratelli musulmani riuniti nel cosiddetto Esercito della Conquista.

Il tracollo dei ribelli ad Aleppo sta già determinando un effetto domino sui fronti minori, incluso il sobborgo di Damasco di Khan al-Shih, evacuato da un migliaio di miliziani con i loro famigliari in base a un accordo che ne ha permesso il trasferimento a Idlib, e tornato dopo quattro anni in mano ai governativi. La sconfitta dei ribelli ha ragioni militari ma anche politiche. Sul campo di battaglia le truppe siriane rafforzate dai consiglieri (e dai contractors) russi come dalle milizie sciite iraniane, afghane e irachene, dai pasdaran di Teheran e dagli Hezbollah libanesi sfruttano l’intesa di fatto raggiunta tra Damasco, Ankara e Mosca che ha visto rallentare se non interrompersi il flusso di rifornimenti, in gran parte provenienti da Arabia Saudita e Qatar, che dal confine turco raggiungevano le milizie jihadiste nell’area di Aleppo.

La Turchia, che non ha mai lesinato aiuti a chiunque combattesse Bashar Assad, incluso lo Stato Islamico, sembra aver ridimensionato le proprie ambizioni: dopo che l’intervento russo ha impedito di raggiungere questo obiettivo, Ankara ha la necessità di costituire una “zona cuscinetto” per proteggere i suoi confini meridionali dai miliziani curdi siriani alleati dei cugini turchi del Pkk. Non è un caso che mentre le forze siriane avanzano ad Aleppo quelle turche si espandano nel nord della Siria dal 24 agosto a spese dell’Isis ma soprattutto impedendo l’affermarsi di un territorio autonomo curdo a ovest dell’Eufrate la cui costituzione non sarebbe gradita neppure ad Assad. Ogni intesa con Erdogan va però considerata precaria come hanno dimostrato anche le dichiarazioni rilasciate dal presidente turco a fine novembre in cui ha affermato che l’esercito turco sarebbe entrato in Siria «per porre fine alla tirannia del presidente Bashar el Assad».

Mosca ha espresso stupore e chiesto chiarimenti ma le tensioni sociali provocate dalle purghe post golpe e dall’islamizzazione forzata cella Turchia, unite al tracollo della lira potrebbero influire sulle iniziative di Erdogan, considerato sempre di più una “mina vagante” anche in Europa e in ambito Nato. In termini strategici la caduta di Aleppo non porrà fine alla guerra civile ma ridurrà le capacità dei ribelli permettendo di liberare importanti forze militari siriane e alleate per riconquistare le regioni meridionali, la provincia di Idlib e soprattutto per attaccare le regioni orientali in mano allo Stato Islamico inclusa la “capitale” dell’Isis, Raqqah, già minacciata dalle Forze Democratiche Siriane che riuniscono curdi e milizie cristiane e sunnite. Conseguire la disfatta dei ribelli siriani prima dell’insediamento di Trump faciliterebbe un’intesa globale russo-americana incentrata proprio sullo sforzo bellico comune contro l’Isis in Siria.

Presumibilmente più lenti saranno invece i progressi nella battaglia di Mosul. Le forze irachene hanno ripreso diversi quartieri e dicono di aver ucciso un migliaio di miliziani dei circa seimila presenti in città secondo le stime del Pentagono. Baghdad imputa la lentezza dell’avanzata all’accanita resistenza nemica e alla volontà di ridurre le vittime civili ma pesa anche il fatto che l’esercito iracheno deve impiegare come punta di lancia i reparti scelti della polizia federale e dell’esercito che dopo sei settimane di battaglia sono esausti e devono rimpiazzare caduti e feriti il cui numero resta imprecisato. Altri reparti non danno molte garanzie di tenuta sotto il fuoco nemico di fronte a perdite elevate e l’Isis ha sempre dimostrato la superiorità dei suoi miliziani sugli avversari in termini di coraggio e capacità tattiche.

(continua qui)

Vibo: il funerale del boss Carmelo Lo Bianco è privato. Ma il consenso è pubblico.

Si sono svolti all’alba, in forma strettamente privata, con la sola partecipazione dei congiunti più stretti e il divieto di cortei con autovetture o persone, i funerali di Carmelo Lo Bianco, detto “Sicarro”, deceduto venerdì sera all’età di 71 anni nell’ospedale di Catanzaro dove si trovava ricoverato da qualche settimana per problemi cardiaci. A seguire il corteo dei soli familiari del boss, i poliziotti della Questura di Vibo chiamati a garantire l’ordine e la sicurezza pubblica così come disposto dal questore di Vibo Valentia, Filippo Bonfiglio. Carmelo Lo Bianco stava scontando ai “domiciliari” per motivi di salute una condanna definitiva a 10 anni di reclusione per associazione mafiosa rimediata nel processo nato dall’operazione “Nuova Alba” scattata nel febbraio 2007 contro la quasi totalità dei componenti del clan Lo Bianco, da oltre 30 anni egemoni nella città di Vibo Valentia.

Nel 2005, Carmelo Lo Bianco era finito anche nell’inchiesta “Ricatto” dell’allora pm della Procura di Vibo Valentia, Giuseppe Lombardo (oggi pm di punta della Dda di Reggio Calabria), e dell’allora comandante della Stazione di carabinieri di Vibo, Nazzareno Lopreiato. Carmelo Lo Bianco era accusato di concussione per aver chiesto ad un imprenditore di Pizzo Calabro, in concorso con un impiegato dell’Asp di Vibo, delle somme di denaro ed una barca in cambio dello sblocco delle liquidazioni per dei lavori effettuati in alcuni ospedali dell’Azienda sanitaria vibonese. Il Tribunale di Vibo nel 2009 riqualificò per Lo Bianco il reato di concussione in quello più grave di estorsione, disponendo la trasmissione degli atti alla Procura di Vibo affinchè esercitasse nuovamente l’azione penale. Trasferito però il pm Fabrizio Garofalo (nel frattempo subentrato al pm Giuseppe Lombardo nella titolarità del processo “Ricatto”), la Procura di Vibo non ha più esercitato l’azione penale nei confronti di Carmelo Lo Bianco, con il fascicolo lasciato a “dormire” in qualche cassetto della Procura.

Il preoccupante consenso sociale del boss a Vibo Valentia. Fanno discutere, invece, o almeno dovrebbero far discutere se a Vibo Valentia esistesse una società civile degna di tal nome, le esternazioni di diverse persone che – anche attraverso l’uso dei social network – alla notizia della morte di “Sicarro” si sono affrettate a rendere pubbliche le loro condoglianze per la scomparsa del boss, esaltandone le doti di “uomo di rispetto” con anto di “carisma” ed “educazione”. Eppure Carmelo Lo Bianco, alias “Sicarro”, oltre che del grave reato di aver diretto e promosso un’associazione mafiosa (cercando di mantenere ben ferme le distanze dal clan Mancuso di Limbadi), è stato riconosciuto colpevole di uno dei reati più odiosi che possa esistere: il sequestro di persona. O meglio: il riciclaggio di denaro proveniente da ben due sequestri di persona compiuti a metà anni ’80 in provincia di Reggio Calabria. Nonostante ciò, in molti non hanno inteso prendere le distanze dal personaggio, segno del consenso sociale di cui – purtroppo – godeva il boss in alcune fasce della popolazione, diretta conseguenza della deriva socio-culturale in cui da oltre 30 anni è sprofondata la città di Vibo Valentia, incapace di distinguere ciò che è bene da ciò che è male, complice soprattutto la quasi totale assenza di una classe politica locale che – specie negli ultimi anni – non ha trovato di meglio che spalancare le porte di partiti e movimenti pure ai mafiosi, arrivando addirittura a celebrare personalità politiche che con la mafia per anni hanno camminato “a braccetto”.

(di Giuseppe Baglivo, fonte)

Quindi la sera leoni e al mattino Gentiloni

(scritto per i Quaderni di Possibile qui)

Alla fine è Gentiloni il nuovo Presidente del Consiglio. L’ex ministro è stato designato dal Presidente della Repubblica Mattarella come traghettatore verso una nuova legge elettorale (magari non incostituzionale, questa volta, se vi riesce, grazie) e poi le prossime elezioni politiche. Una designazione figlia delle consultazioni del Capo dello Stato con tutti i gruppi parlamentari e, parallelamente, con le inusuali consultazioni di un Renzi dimissionario eppur ciondolante nei suoi molteplici ruoli. Attenzione: il segretario del PD (che è Renzi) ha tutto il dovere e il diritto di trovare una soluzione condivisa con il partito che guida, peccato che del coinvolgimento del suo partito non s’è vista traccia (rimbomba ancora il monologo spacciato per direzione nazionale) e che la scelta di Palazzo Chigi piuttosto che il Nazareno come sede dei suoi incontri non sia stata un grande idea (lo scrivevano ieri anche insospettabili renziani, per dire).

Comunque alla fine è il giorno di Gentiloni: l’ex rutelliano sale al Quirinale con un curriculum che comprende, solo negli ultimi anni, un terzo posto alle primarie per scegliere il candidato sindaco del PD su Roma (terzo su tre, eh) e un coinvolgimento mai chiarito su uno smercio d’armi italiane verso l’Arabia Saudita che altrove avrebbe fatto gridare allo scandalo. Ma Gentiloni, sia chiaro, ha in questo momento la qualità indispensabile per poter ambire al ruolo di Presidente del Consiglio poiché non fa ombra a Renzi eppure lo rappresenta. Ieri ho letto (non so dove e me ne scuso) che Gentiloni Presidente del Consiglio è un po’ come quando l’allenatore viene espulso e rimane il secondo in panchina filocollegato con la tribuna.
Il governo ombra (che non fa ombra) di chi aveva promesso (nel suo discorso in Senato già il 20 gennaio di quest’anno) di abbandonare la politica è l’ennesimo errore di Renzi che sembra non voler capire che i trucchetti non funzionano più e ormai si scorgono in fretta. Avrebbe potuto starne fuori e poi provare a ricominciare (che è un suo diritto, eh, ricominciare ma al netto delle promesse non mantenute) e invece è più forte di lui: a Gentiloni l’improbo compito di smentirci.

India: la compagnia mineraria punta la montagna sacra dei Dongria Kondh

(da greenreport.it)

La battaglia dei Dongria Kondh, un piccolo popolo tribale dell’India, che in molti hanno paragonato a quella dei Na’vi che nel film Avatar lottano contro le compagnie minerarie terrestri per salvare il loro pianeta Pandora, non è ancora finita. Survival International denuncia che «Una compagnia mineraria sta cercando nuovamente di aprire una miniera nella montagna sacra dei Dongria Kondh, nonostante il verdetto negativo della Corte Suprema e la forte opposizione della tribù».

Si tratta dell’Odisha Mining Corporation (Omc) – in passato associata alla multinazionale britannica Vedanta Resources che sembra avr rinunciato all’affare – che sta cercando ancora una volta di aprire una miniera di bauxite nelle colline di Niyamgiri che sono sacre per i Dongria Kondh, che dipendono dalle risorse montane e che gestiscono quest’ambiente da millenni. Ѐ il loro territorio ancestrale: una zona collinare coperta di dense foreste, gole profonde e ruscelli impetuosi. Essere un Dongria Kondh vuol dire coltivare le fertili vallate delle colline, raccoglierne i prodotti, venerare il dio della montagna, Niyam Raja, e le colline da lui governate, come la Montagna della Legge Niyam Dongar, alta 4.000 metri. Per un decennio 8.000 Dongria Kondh hanno vissuto sotto la minaccia dei progetti della Vedanta Resources, che avrebbe voluto estrarre dalle loro colline bauxite per un valore stimato di 2 miliardi di dollari. La multinazionale mineraria, con il consenso del governo dello Stato e di quello indiano, progettava di aprire una miniera a cielo aperto che avrebbe violato Niyam Dongar, interrotto il corso dei fiumi e segnato la fine dei Dongria Kondh come popolo.

Nel 2013 i Dongria Kondh convocarono 12 consultazioni nei loro villaggi e tutte respinsero il progetto minerario, dopo questa prova di unità e la mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale, il governo di New Delhi negò le autorizzazioni necessarie al colosso minerario Vedanta Resources e Survival ricorda che «Fu una vittoria eroica alla Davide e Golia contro la compagnia quotata alla borsa di Londra e l’azienda statale Omc». Una vittoria celebrata in tutto il mondo dai popoli autoctoni e dagli ambientalisti, che videro nella lotta dei Dongria Kondh un esempio da seguire per impedire alle multinazionali di colonizzare, devastare e distruggere i loro territori ancestrali nel nome di uno sviluppo che porta solo inquinamento, soprusi e miseria.

Survival spiega che «A febbraio di quest’anno, la Omc aveva chiesto alla Corte Suprema il permesso di tenere nuovamente lo storico referendum con cui i Dongria avevano rifiutato all’unanimità le attività minerarie su larga scala nelle loro colline sacre. A maggio la richiesta è stata respinta dalla Corte Suprema». Ma il giornale economico indiano Business Standard ha recentemente rivelato che l’Omc sta preparandosi a fare un nuovo tentativo di avviare attività estrattive, dopo aver ottenuto il via libera dal governo dello stato indiano dell’ Odisha.

Il leader Dongria Lodu Sikaka è molto preoccupato ma annuncia battaglia: «Siamo pronti a sacrificare le nostre vite per la Madre Terra, non la abbandoneremo. Lasciate che il governo, gli uomini d’affari e le compagnie discutano e reprimano le nostre idee quanto vogliono; noi non lasceremo Niyamgiri, la nostra Madre Terra. Niyamgiri, Niyam Raja, è la nostra divinità, la nostra Madre Terra. Noi siamo i suoi figli».

A Survival sottolineano che «Per i popoli indigeni come i Dongria, la terra è vita. Soddisfa tutti i loro bisogni materiali e spirituali. Fornisce cibo, case e indumenti, ed è il fondamento della loro identità e del loro senso di appartenenza. Il furto delle terre indigene distrugge popoli auto-sufficienti e i loro stili di vita differenti. Provoca malattie, impoverimento e suicidi». E l’Ong internazionale che difende i popoli autoctoni annuncia che sarà al fianco degli indigeni indiani: «Solo la coraggiosa resistenza dei Dongria per difendere le colline sacre è riuscita a fermare una miniera che avrebbe devastato l’area: un’ulteriore prova del fatto che i popoli indigeni sanno prendersi cura dei loro ambienti meglio di chiunque altro. Sono i migliori conservazionisti e custodi del mondo naturale, e proteggere i loro territori è una soluzione efficace per contrastare la deforestazione e altre forme di degrado ambientale».

Intanto, il lavoro.

18% in meno di contratti a tempo indeterminato avviati e +10,8% di licenziamenti rispetto al 2015. Ecco i dati del terzo trimestre 2016 secondo il Ministero del Lavoro. Ecco i dati:

(grazie a Francesco Seghezzi)

Intanto, di là negli USA, la squadra di Trump

(l’AGI sul suo sito mette in fila il governo Trump in formazione)

Ecco chi ha già detto Sì

​Stephen Bannon, 62 anni, ex banchiere di Goldman Sachs, ex patron del sito ultraconservatore e populista Breitbart News, ha guidato negli ultimi mesi la campagna elettorale di Trump, contribuendo a rintuzzare gli attacchi di chi, come lo Speaker della Camera, Paul Ryan, guardava con sospetto la stella nascente. Ma per anni è stato l’uomo, che dalla piattaforma di Breitbart News, ha soffiato sul fuoco dei movimenti più estremi nel panorama politico americano e ferocemente ostile ad Hillary Clinton e allo stesso establishment repubblicano. Sarà lo stratega della linea politica, l’uomo di fiducia del Presidente per le grandi questioni americane e internazionali. La sua prima intervista dopo la nomina ha fatto scalpore: citando Satana e Dart Fener, Bannon ha affermato che “il potere è oscurità”

Reince Priebus – capo dello staff del Presidente
Presidente del partito repubblicano, Reince Priebus, 44 anni, il 20 gennaio diventerà capo dello staff. Laureato in legge alla University of Miami, ha lavorato come avvocato in Wisconsin, dove la sua famiglia si era trasferita dal New Jersey quando aveva 7 anni. Dopo aver perso nel 2004 un’elezione al Senato del Wisconsin, nel 2007 è stato eletto presidente del partito repubblicano dello Stato, il più giovane nella storia. Sin dalla prima ora tra i pochissimi esponenti del Grand Old Party (Gop) non ostili a Trump. La nomina a Chief of staff, ruolo che di fatto gestisce la Casa Bianca, l’accesso al presidente e i rapporti col resto dell’amministrazione e con il Congresso, avrà effetto da mezzogiorno del 20 gennaio 2017 quando Trump si insedierà alla Casa Bianca come 45esimo presidente degli Stati Uniti. Priebus è stato per Trump un ponte con l’establishment e il partito, quando si era creata una frattura tra i vertici Gop e la sua campagna elettorale. Fu lui a organizzare l’incontro pacificatore con lo Speaker della Camera, Paul Ryan.

Jeff Sessions – ministro della Giustizia
Jeff Sessions, 69enne dell’Alabama, ha ricoperto lo stesso incarico a livello statale ed è stato il primissimo sostenitore di Trump alla Camera alta del Congresso, quando ancora il controverso candidato repubblicano era guardato dall’alto in basso dai maggiorenti del partito. Presto è diventato uno dei più ascoltati consiglieri di Trump. E’ un conservatore molto radicale ma rispettato da compagni di partito e avversari per la sua competenza giuridica e la sua integrità. Convinto antiabortista, vuole combattere contro l’immigrazione clandestina e la parità tra coppie etero e omosessuali. Inoltre è favorevole al taglio della spesa pubblica e a una lotta senza quartiere alla criminalità.

Elaine Chao – ministro dei Trasporti
Elaine Chao, 63 anni, è immigrata da Taipei (Taiwan) negli Usa quando aveva 8 anni. La sua famiglia era fuggita dalla Cina dopo l’avvento al potere dei comunisti nel ’49. Repubblicana, nel 1989 viene scelta dal presidente George H. W. Bush come vice ministro dei Trasporti: è la prima volta che una donna, e per di più di origine asiatica, ricopre un incarico del genere. Nel 2001 è nominata dal presidente George Bush Jr ministro del Lavoro. Nel comunicato del team di transizione, si spiega che Chao è stata scelta alla guida dei Trasporti perché “porta con sé esperienza senza pari e comprensione del ruolo”. Il dipartimento dei Trasporti sarà centrale per il massiccio piano di investimenti per la ricostruzione delle infrastrutture annunciato da Trump in campagna elettorale.

Tom Price – ministro della Salute
Deputato repubblicano della Georgia, 62 anni, Tom Price è stato uno dei grandi oppositori della riforma sanitaria di Barack Obama. E’ dunque, come spiegato nel comunicato del team di transizione, “eccezionalmente qualificato per gestire il nostro impegno ad abrogare e sostituire Obamacare, e offrire un’assistenza sanitaria a buon mercato e accessibile per ogni americano”. Chirurgo ortopedico, eletto al Congresso nel 2004, Price è contrario all’aborto e al controllo delle armi ed è presidente della commissione Budget della Camera. Si è schierato a favore dell’estensione del Patriot Act, la legge contro il terrorismo arrivata in risposta all’11 settembre (che violava la privacy dei cittadini e che è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema nel 2007).

Mike Pompeo – direttore della Cia
Mike Pompeo, 52 anni, eletto in Kansas ma nativo della California, chiare origini italiane (i suoi antenati venivano dalla Campania), ha lavorato in uno studio legale e ha fondato una società aerospaziale di successo. Ha avuto un avvicinamento più tortuoso al presidente eletto: diede l’endorsement a Trump senza troppa enfasi dopo aver appoggiato alle primarie Marco Rubio. Più che con il magnate, ha uno stretto rapporto con il suo vice, Mike Pence. E’ favorevole all’abolizione del trattato nucleare con l’Iran, “tanto disastroso con il principale Stato sostenitore del terrorismo al mondo”.

Michael Flynn – consigliere per la Sicurezza nazionale
Il 57enne Michael Flynn è stato advisor di Trump durante la campagna elettorale, dimostrandosi un “perfetto surrogato” – per usare un’espressione del Politico – contro la democratica Hillary Clinton, attaccata per aver messo a rischio informazioni classificate con l’utilizzo di un server di posta privato quando era segretario di Stato. I democratici lo accusano di essere islamofobo e simpatizzante del presidente russo Vladimir Putin. Registrato tra gli elettori democratici, vanta 33 anni di carriera militare, con posizioni di primo piano, dalla guida di missioni Nato in Afghanistan e in Iraq fino alla direzione della Dia (Defence Intelligence Agency) dal 2012 al 2014, quando è stato licenziato dal presidente Barack Obama.

Kathleen T. McFarland – vice-consigliere per la Sicurezza nazionale
Kathleen T. McFarland, nata a Madinson, nel Wisconsin, 65 anni fa, ha mosso i primi passi sotto Richard Nixon, come collaboratrice di Henry Kissinger, per poi fare carriera durante l’amministrazione di Ronald Reagan. Esperta di politica estera e di difesa, fiera oppositrice del presidente Barack Obama, è un volto noto della Fox News, emittente conservatrice, dove ha tra l’altro condotto il programma DefCon3. Nel 2013, dopo l’accordo tra Washington e Mosca che indusse il presidente siriano, Bashar al-Assad, ad accettare di smantellare il suo arsenale chimico, proclamò che Vladimir Putin meritava il Premio Nobel per la Pace.

Nikki Haley – ambasciatore Usa all’Onu
Nikki Haley è il nuovo ambasciatore Usa alle Nazioni Unite. Governatore della Carolina del Sud, 44 anni, di origini indiane e di famiglia sikh immigrata dal Punjab, è la prima donna ad assumere un ruolo di rilievo nella nuova amministrazione del presidente eletto Donald Trump, in fase di formazione. Sposata, con due figli, dal 2010 governatore del South Carolina, sarebbe sponsorizzata dal genero di Trump, l’influente Jared Kushner. La Haley viene indicata come un’esponente dell’ala più intransigente e conservatrice del Partito repubblicano ed era stata inserita anche in una ristretta rosa.di candidati per il ruolo di segretario di Stato.

Steven Mnuchin – ministro del Tesoro
Steven Mnuchin, 53 anni, laureato a Yale, fa parte di una delle famiglie di origine ebraica più in vista della finanza newyorkese. Ex banchiere di Goldman Sachs, oggi numero uno della finanziaria Dune Capital e presidente finanziario della campagna elettorale di Trump. Mnuchin, dopo aver accumulato milioni di dollari con Goldman Sachs si è dato alla produzione di film e ha fondato una società che ha finanziato, tra l’altro, la produzione di successi del botteghino come ‘Avatar’ e ‘American Sniper’.

Wilbur Ross – segretario al Commercio
Trump sceglie il miliardario Wilbur Ross per la poltrona chiave dell’economia Usa, quella di segretario al Commercio. Il settore è tra i più delicati visto il rivoluzionario piano di Trump per scardinare il libero scambio, eliminando alcuni dei principali trattati, tra cui il Nafta e il Tpp. Wilbur Ross (del New Jersey, 79 anni, patrimonio personale di 2,9 miliardi di dollari creato ristrutturando imprese dell’acciaio, del carbone, delle telecomunicazioni) è noto col soprannome di “Re della bancarotta”, perché si è arrichito ristrutturando e rivendendo le compagnie in difficoltà usando le leggi sul fallimento.

James Mattis – capo del Pentagono
James Mattis, soprannominato “Mad Dog”, cane pazzo, il generale in pensione ha sempre detto di vedere nell’Iran una minaccia e di non condividere l’accordo del luglio 2015 sul suo programma nucleare, proprio come Trump. Mattis gode della stima dell’intero corpo dei Marines, di cui ha fatto parte per 44 anni, spesso guidando le truppe in guerra come nel sud dell’Afghanistan nel 2001 e in Iraq dal 2003, dove si distinse nella durissima battaglia di Falluja dell’anno dopo. Nel 2010 approdò alla guida del Central Command, posto da cui controllava tutte le forze americane in Medio Oriente. Da uomo di prima linea, però, il generale a quattro stelle ha usato a volte un linguaggio fin troppo diretto, in stile George Smith Patton: nel 2005 a una conferenza a San Diego affermò che “è un gran divertimento sparare a uomini che schiaffeggiano le loro donne per cinque anni perché non portano il velo”, come in Afghanistan. Nel 2003 alle sue truppe impegnate in Iraq aveva detto: “Siate gentili, siate professionali ma dovete avere un piano per uccidere chiunque incontriate”.

Ben Carson – ministro dell’Edilizia e dello Sviluppo Urbano
Il 65enne Ben Carson, originario di Detroit, è il primo nero a entrare nell’amministrazione di Trump. Medico in pensione, è stato direttore di Neurochirurgia Pediatrica al Johns Hopkins Hospital dal 1977 al 2013. E’ famoso per aver separato nel 1987 una coppia di gemelli siamesi con un intervento chirurgico entrato nella storia della medicina. E’ autore di tre bestseller, fra cui l’autobiografia ‘Mani Miracolose’. Già candidato alle primarie repubblicane, seguace della chiesa avventista, Carson aspirava al ministero dell’Istruzione per poter realizzare le sue idee creazioniste, che mettono in discussione la teoria evolutiva. La sua nomina all’edilizia è stata duramente criticata dai democratici per la mancanza di esperienza nel settore: dovrà gestire l’agenzia da 48 miliardi che sovraintende all’edilizia pubblica, compreso il delicato dossier delle case popolari.

Linda McMahon per le piccole e medie imprese
L’ex amministratore delegato della World Wrestling Administration (Wwa) Linda McMahon scelta come capo della Small Business Administration, ovvero come ministro per la piccola e media impresa. “Linda ha un incredibile background ed è ampiamente riconosciuta come una delle più importanti executive e consulente d’affari a livello globale”, ha dichiarato Trump in una nota, ricordando come la futura ministra abbia trasformato un piccola azienda in un’impresa con 800 dipendenti in uffici nel mondo. La McMahon è cofondatrice, insieme al marito Vince McMahon, del franchise di wrestling Wwe. Ha lasciato la guida della società nel 2009, per tentare senza successo due corse al Senato, nel 2010 e nel 2012.

Al Lavoro Andrew Pudzer
Il ministro del Lavoro sarà Andrew Puzder, Ad della colosso dei fast-food ‘CKE Restaurant’. Puzder è uno dei maggiori finanziatori e sostenitori della prima ora di Trump ma soprattutto è tra i maggiori critici dell’innalzamento a livello federale della retribuzione minima dell’orario di lavoro a 15 dollari. Puzder, che nella sua catena di fast-food, tra i marchi più noti Hardee’s e Carl’s Jr, paga i suoi dipendenti 7,25 dollari l’ora, ritiene che alzare la paga minima a 15 dollari farà aumentare i costi delle società, quindi a ricaduta per i consumatori e alla fine questo porterà al taglio di posti di lavoro perché meno gente sarà disposta a pagare di più per lo stesso panino.

​Seema Verma, neo amministratore dei Centers for Medicare and Medicaid Services, l’agenzia federale che gestisce la salute pubblica.

RUOLI IN VIA DI DEFINIZIONE

L’ad della Exxon, Rex Tillerson, Segretario di Stato​
Il 64enne texano Rex Tillerson è a un passo dalla poltrona di Segretario di Stato. Presidente e ceo del colosso petrolifero Exxon, è considerato molto vicino a Vladimir Putin. Nel 2011, come riferisce il Wall Street Journal, il petroliere concluse un accordo del valore potenziale di 500 miliardi di dollari tra Exxon e la compagnia petrolifera statale russa, OAO Rosneft ma tutto saltò per le sanzioni inflitte dall’amministrazione Obama a causa dell’annessione nell’aprile del 2014 della Crimea da parte di Mosca.Putin fu comunque così riconoscente da conferire a Tillerson l’Ordine dell’Amicizia, la più alta onorificenza russa che può essere conferita ad un cittadino straniero che ha contribuito a migliorare i rapporti tra Mosca ed un’entita’ o stato straniero

Ex ambasciatore Usa all’Onu John Bolton
Il falco John Bolton, 67 anni, ex ambasciatore all’Onu, neo-conservatore, ha ricoperto vari incarichi nell’amministrazione Reagan e sotto i due presidenti Bush padre e Bush figlio. Acceso sostenitore dell’invasione dell’Iraq nel 2003, nel 2005 fu nominato ambasciatore all’Onu. Durò solo un anno, poi il Congresso non convalidò il secondo mandato. Negli ultimi anni ha svolto attività di lobbista nell’area iper conservatrice e su posizioni fortemente filo-israeliane.

Il petroliere Harold Hamm favorito per il ministero dell’Energia
Al dicastero dell’Energia, snodo strategico per l’annunciato ritorno agli idrocarburi e al carbone, dovrebbe andare Harold Hamm, 70 anni, Ceo di Continental Resources. un miliardario del petrolio dell’Oklahoma, ex consigliere per l’energia di Mitt Romey durante la campagna presidenziale del 2012. Secondo Forbes il suo patrimonio nel 2016 ammonta a 13,1 miliardi di dollari. È fra i principali responsabili dell’affermazione dello shale gas, grazie al quale ha fatto fortuna in North Dakota e ha rivoluzionato l’economia del Paese. Inoltre è uno strenuo oppositore dell’oleodotto Keystone, che dovrebbe pompare greggio attraverso il Nord America, dai giacimenti dell’Alberta, in Canada, alle raffinerie del Texas.

Joe Arpaio favorito per la carica di ministro dell’Interno
Joseph Michael ‘Joe’ Arpaio, sceriffo di Maricopa County in Arizona, 84 anni, deciso a utilizzare il pugno di ferro contro l’immigrazione illegale. Famoso per le proposte-choc e le inchieste sul certificato di nascita di Barack Obama, appare il favorito alla carica di capo dell’Homeland Security. Unico ostacolo sembra essere la sua età.

A proposito di post-verità (e di Del Turco che no, non è stato assolto)

(ne scrive Alberto Vannucci per Il Fatto Quotidiano e sì, vale la pena leggerlo)

L’hanno chiamata post-verità, è l’ultima frontiera di una politica destrutturata. Prodotto di strategie di chirurgica divulgazione di notizie fraudolente, amplificate nella loro propagazione dai social network. Rappresentazioni menzognere impermeabili a qualsiasi smentita, persino quella del fact-checking, il controllo dei fatti tipico del giornalismo tradizionale, che giunge in ritardo risultando così impotente. Nel tempo accelerato delle nuove tecniche di comunicazione la pseudo-realtà artefatta e illusoria ha già centrato il suo obiettivo: fissare nella mente dei destinatari, specie quelli appartenenti a specifiche cerchie emotivamente affini (simpatizzanti, militanti, “amici di”, etc.), un’immagine o una convinzione sulla quale qualsiasi contro-informazione ancorata alla verità scivola come acqua.

La post-verità ha già plasmato il mondo a propria immagine e somiglianza. Siamo di fronte a forme di abuso della credulità popolare già note come leggende metropolitane, che vedono incrementare esponenzialmente la propria velocità e potenza diffusiva grazie ai flussi continui di informazioni generate dai nuovi media. Altra novità contemporanea è il loro impiego scientemente programmato da politici opportunisti per manipolare le opinioni pubbliche e il consenso.

Donald Trump, il candidato più bugiardo nella storia d’America, non è stato eletto nonostante, ma grazie alle sue menzogne, che nessun ragionamento razionale è riuscito a smontare o confutare. Circa il 77 per cento delle sue affermazioni sono risultate false o non del tutto veritiere, durante la campagna elettorale si è calcolata la media record di una sua bugia ogni 3 minuti e 15 secondi.

Una recente vicenda italiana – in parte eclissata dal cataclisma referendario – mostra un’applicazione autoctona, non priva di originalità, di questo meccanismo sofisticato di disinformazione. Nel caso italiano, o meglio abruzzese, la strategia della post-verità non è stata utilizzata per ottenere voti, ma per la riabilitazione di un politico corrotto. Stranamente poi il suo canale originario di diffusione, ancor prima della circolazione in rete, è stata proprio la stampa tradizionale – a dimostrazione che le classifiche sulla “libertà di stampa” che collocano l’Italia in una posizione sconfortante non sono poi così ingannevoli.

Alla vigilia del referendum costituzionale quasi tutti i principali quotidiani nazionali e locali – tra le poche eccezioni proprio Il Fatto Quotidiano – danno notizia dell’apparente assoluzione di Ottaviano Del Turco, ex-segretario socialista, ex-membro della direzione del Pd ed ex-presidente della Regione Abruzzo, arrestato nel 2008 per le tangenti ricevute da un imprenditore operante nel settore sanitario. Almeno, l’innocenza del politico ingiustamente crocifisso dalla magistratura è la post-verità inoculata nel discorso pubblico.

Difficile interpretare altrimenti i titoli che la Repubblica, La Stampa, Il Corriere, Il Sole 24 Ore, Il Giornale dedicano al caso, in buona sostanza: “La Cassazione annulla la condanna a Del Turco”. A corroborare questa interpretazione la generosa concessione di spazio alle tesi dell’avvocato difensore: “Spero che questo incubo termini e che a Ottaviano Del Turco sia restituita interamente la piena dignità: è un galantuomo che non ha mai preso nemmeno un euro di tangenti, è una ‘riserva’ della Repubblica”.

Lo stesso “post-corrotto” si concede un’intervista autocelebrativa su La Stampa, in cui rievocando “l’infamia che mi ha travolto” proclama: “Mi hanno restituito l’onore. Doveva schiacciarmi una montagna di prove. Si è ridotta a una montagna di fango. E uno schizzo mi è rimasto addosso. Ma io sono innocente”. Soltanto un’attenta esegesi dei testi giornalistici permette di ricostruire meglio la natura maleodorante dello “schizzo di fango”.

E’ la verità giudiziaria della vicenda, massima approssimazione della verità fattuale cui si è giunti al termine di un lungo e difficile procedimento. E non è cosa da poco. Si tratta della condanna di Del Turco e complici, resa definitiva dalla Cassazione, per cinque tangenti, corrispondenti a un totale di 850mila euro, riscosse dietro “indebita induzione” – corrispondente al vecchio reato di concussione – e del rinvio a un altro processo d’appello per ridefinire la pena da scontare e rigiudicare l’accusa di associazione a delinquere. Già incombe la prescrizione, magica rete di salvataggio per tutti i criminali in colletto bianco d’Italia, e questo forse spiega l’esultanza dei protagonisti.

Ma soltanto nel mondo rovesciato del malaffare italiano, dove la post-verità dei corrotti si sposa con l’acquiescenza di una stampa connivente (o collusa) e con una cittadinanza indifferente (o confusa), può accadere che il politico colpevole conclamato di un grave reato di quasi-concussione, col quale si è depredata la sanità abruzzese per centinaia di migliaia di euro, celebri pubblicamente la propria condanna definitiva come “restituzione dell’onore” e dichiari di volerla festeggiare “a Collelongo, il mio paese, dove tanti in strada mi hanno abbracciato commossi”. E così, in questo abbraccio solidale al corrotto, si realizza anche simbolicamente il trionfo della post-verità all’italiana.

E intanto Dell’Utri continua a raccontare bugie

Dice Dell’Utri che la sua fuga in Libano sia una leggenda metropolitana. Dice Marcello (in un’intervista rilasciata a Giovanni Bianconi del Corriere della Sera) che i giudici hanno sbagliato nell’indicare lui come garante di rapporti mafiosi per conto di Silvio Berlusconi e attraverso il partito politico Forza Italia. Parla, continua a parlare, godendo di un’immunità etica e intellettuale che ha rimosso in fretta ciò che è stato per non disturbare i tanti figli di quell’epoca che ancora infestano ampi strati di classe dirigente di questo Paese.

Dimentica, Dell’Utri, le ragioni della sua condanna: nella sentenza si dice che ha “consapevolmente e volontariamente fornito un contributo causale determinante che senza il suo apporto non si sarebbe verificato, alla conservazione del sodalizio mafioso e alla realizzazione, almeno parziale del suo programma criminoso, volto alla sistematica acquisizione di proventi economici ai fini della sua stessa operatività, del suo rafforzamento e della sua espansione”. Inoltre “la sistematicità nell’erogazione delle cospicue somme di denaro da Marcello Dell’Utri a Gaetano Cinà sono indicative della ferma volontà di Berlusconi di dare attuazione all’accordo al di là dei mutamenti degli assetti di vertice di Cosa nostra”.

Ma lui niente. Lui pontifica. Ancora. E mentre rilascia l’intervista ammette di essersi buttato in politica “per difendersi” e ammette che si sarebbe fatto arrestare prima se avesse saputo di una condanna così breve da scontare. Questo è un Paese che rimuove a una velocità impressionante e alleva tra le proprie lacune di storia e di memoria infingardi di bassa leva che vengono innalzati a sapienti. Marcello Dell’Utri è l’esempio tattile di una lotta alla mafia dei colletti bianchi che anche quando vince in tribunale non riesce poi a declinarsi nella società civile ma il problema non è tanto lui, il sopravvalutato Marcello, ma le scorie che lasciano impuniti in giro. E poi diventano anche ministri, quelle scorie.

(poichè su Dell’Utri ho dedicato le energie di un mio recente lavoro vi consiglio, se volete, di leggerne il libro che ne è uscito: si intitola ‘L’amico degli eroi’ e lo trovate in versione tascabile qui)

Il vero CNEL è l’Agcom

(Vincenzo Vita sull’Agcom, da Il Manifesto del 7 dicembre 2016)

“Delibera l’archiviazione dell’esposto…” In quest’ultimo caso, che risale al 24 novembre scorso, il diniego dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni riguarda l’esposto del Comitato del NO al referendum sulle revisioni costituzionali sulle violazioni della par condicio. Ripetizione seriale. Esibizione ennesima di una fuga dalle responsabilità, al cui confronto Don Abbondio appare un eroico gladiatore. Dagli atti e dalle omissioni dell’Agcom si ricava l’impressione di una malattia ormai incurabile. Cosa è avvenuto?

Facciamo un passo indietro. L’Autorità trae origine dalla legge 249 del 1997. Fu una scelta netta e impegnativa. Si immaginò di sottrarre al governo o alle maggioranze parlamentari l’indirizzo e la regolazione di un sistema in corso di “integrazione multimediale” secondo il linguaggio dell’epoca. Tant’è che si vergò nel testo un organismo “convergente”: composto da nove consiglieri suddivisi tra infrastrutture e reti da una parte, servizi e prodotti dall’altra. In breve, l’Agcom avrebbe dovuto presiedere a telefonia, connessioni, piattaforme, poste, editoria e radiodiffusione. Divenne una best practice in Europa, dove solo la Finlandia aveva un’omologa entità.

Si superava la figura del Garante monocratico, deciso dalle leggi sull’editoria (1981) e sulla radiotelevisione (1990), con un incipit legato solo alla carta stampata per divenire in un secondo tempo comprensivo anche dell’etere. Ecco, dunque. Entrava in scena un potenziale protagonista di un universo in continua mutazione, tale da richiedere un soggetto vigilante aperto e innovativo. Troppe leggi spesso ridondanti –le uniche decisive invece mai fatte, come l’antitrust e il conflitto di interessi- complicavano la vita invece di semplificarla. L’Autorità disponeva non a caso di un ampio potere di regolamentazione (sostitutiva di una formazione non stop) e pure di un forte ruolo di magistratura dotata di facoltà sanzionatorie, per rispondere alla velocità digitale e introdurre un adeguato contropotere nell’architettura generale.

Il prossimo anno ricorrerà il ventennale dell’Agcom. E’ tempo di bilanci. Senza giudizi sommari, perché non tutto e non tutti hanno deluso. Il Governo Monti, per di più, decise la riduzione da nove a cinque componenti, compromettendo così il funzionamento soprattutto della parte dell’editoria e della radiotelevisione, meno legata ai binari indicati dall’Unione europea assai rigidi al contrario nel campo delle telecomunicazioni. Tale taglio inutilmente burocratico ha pesato certamente sulla routine dell’ultima compagine, incapace di garantire davvero il pluralismo e la rappresentazione mediatica delle opinioni. Senza personalizzare, ovviamente, c’è da chiedersi se proprio l’esperienza del referendum, nella quale il Presidente del consiglio ha fatto il bello e il cattivo nel tempo televisivo senza ostacoli, non induca ad un serio ripensamento. Neppure la migliore intenzione giustifica il vuoto pneumatico. Ma, proprio per evitare un mero giudizio sulle persone (non si vuole mettere in causa la buona fede del Presidente Cardani, al di là delle critiche), è il perimetro normativo da riconsiderare. Insieme alla stessa composizione e alla fonte di nomina.

Si discute della legge elettorale, dopo l’evidente insuccesso dell’Italicum. Ebbene, la vigilanza sull’imparzialità dei media non è meno importante della discussione sui meccanismi di voto. Anzi. Proprio i candidati non espressi dai “potenti” hanno un’unica opportunità: essere conosciuti attraverso un’informazione corretta.

Il Manifesto, 07 Dicembre 2016