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Nel merito. Ecco come con la nuova riforma si elegge un Presidente della Repubblica di parte.

(Leonardo come molti altri sta facendo un ottimo lavoro e sul suo blog per smontare le bugie del sì e gliene va dato merito. Purtroppo tra le storture di questa campagna (ma forse di quasi tutte) c’è anche l’immane quantità di energie usate per rispondere alle bufale e quella sulla garanzia di un Presidente della Repubblica che non sia solo di una parte sembra essere una di quelle che funzionano di più. Allora leggete, ritagliate e conservate questo post:)

Ma insomma questa riforma è tutta da buttare? Diciamo che ci sono cose assurde e altre quasi accettabili, che uno sarebbe tentato di mandar giù. L’elezione del presidente della Repubblica, dai, in fin dei conti potrebbe anche funzionare… Poi però accendi la tv, vai su internet, e ascolti gli imbonitori del sì, la loro retorica da fustino dixan fuori tempo massimo: lo stesso dettaglio che a te sembrava quasi passabile, cercano di vendertelo come una mountain bike col cambio shimano. Siori e Siori ci vogliamo rovinare! L’articolo 83 della nuova Costituzione è un baluardo contro qualsiasi deriva autoritaria!

Nientemeno?

Con l’articolo 83 della nuova Costituzione sarà matematicamente impossibile eleggere un Presidente della Repubblica che non sia al di sopra delle parti.

No, scusa, ripeti.

Con l’articolo 83 sarà ma-te-ma-ti-ca-men-te impossibile eleggere…

Hai detto matematicamente?

Ma-te-ma-ti-ca-men-te.

E va bene, vediamo questa matematica.

L’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi della assemblea. Dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dell’assemblea. Dal settimo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti (dall’articolo 83 della Costituzione riformata).
L’attuale presidente della Repubblica è stato eletto il 31 gennaio 2015 con 665 voti su 1009. Siccome era la quarta votazione, il quorum necessario era appena sceso da 673 (due terzi dell’assemblea) a 505 (la metà più uno). Quindi la coalizione di governo, coi suoi 610 grandi elettori, avrebbe potuto eleggerlo da sola. In futuro invece di una coalizione potremmo avere un partito solo (se si continua a puntare sul maxipremio di maggioranza). Aumenta quindi il rischio che i capi del governo, forti della maggioranza alla Camera, facciano nominare al Quirinale un inquilino su misura – in fondo anche stavolta la sensazione è che Mattarella lo abbia scelto Renzi, litigandoci con Berlusconi: figuriamoci nel giorno in cui un post-Renzi guidasse un monocolore. Di fronte a questo grosso rischio, che alcuni chiamano deriva autoritaria e io chiamo presidenzialismo, gli imbonitori del Sì scuotono la testa: ma come, non avete visto il nuovo fiammante articolo 83? Di qui in poi sarà matematicamente impossibile imporre un candidato senza concertarlo con la minoranza.

Ma-te-ma-ti-ca-men-te.

Sarà. Senz’altro le discussioni si ridurranno, com’è ovvio che succeda in un’assemblea che si riduce di un terzo: dai mille-e-qualcosa di adesso a 730 (cento senatori più 630 deputati). Mettersi d’accordo è più facile quando siamo in meno: è anche più difficile mimetizzarsi nella folla, come fecero i misteriosi 100 che impallinarono Prodi nel 2013. Dunque durante i primi tre scrutini la maggioranza necessaria sarà di 487 grandi elettori, contro i 673 di adesso. Al quarto, se bastasse la maggioranza più uno come adesso, diventerebbero 366 anziché gli attuali 505. Ma con la nuova regola dei tre quinti, baluardo matematico contro la deriva autoritaria, ne serviranno 438. Se qualcuno d’ora in poi vi chiede la definizione matematica di baluardo democratico, ebbene, pare che in un’assemblea di 730 elettori essa si assesti intorno a 438-366=72. Settantadue voti. Un decimo dell’assemblea stessa. (Tre quinti meno un mezzo fa appunto un decimo). Ha un senso?
Magari persino sì, un senso ce l’ha. Ma sapete cosa c’è di buffo? Mentre i nostri nuovi padri costituenti decidevano che il voto di un decimo dell’assemblea è una garanzia democratica, negli stessi palazzi, a volte persino nelle stesse stanze, si stava pensando seriamente di assegnare a chi otteneva almeno il 40% dei suffragi il 54% dei seggi: quella simpatica legge che chiamiamo “Italicum”, sulla quale Renzi decise di chiedere la fiducia al parlamento, e che è tuttora legge della repubblica (certo, hanno detto che la cambieranno. Ma prima bisogna mettere la crocetta sul Sì). Tra il 40% (252 seggi) e il 54% (340) c’è una differenza di 88 seggi. Ok, non ci eleggi un presidente della Repubblica, con 340 seggi. E chissà che situazione puoi trovare al senato. Ma intanto ricordiamo che l’Italicum voleva regalare 88 seggi al primo partito, per una questione di “governabilità”. L’italicum sparirà, e cosa prenderà il suo posto? Non si sa.

Però quest’estate a Orfini piaceva il modello greco (quello che nel frattempo è stato abbandonato anche in Grecia). Un maxipremio al primo partito, senza ballottaggio. Nel parlamento greco (300 seggi), il maxipremio era di 50: un sesto dell’assemblea. Non è servito né a evitare crisi di governo, né governi di coalizione, né referendum inutili. Ma pensiamo a una cosa del genere in Italia: un centinaio di seggi alla Camera da regalare al primo arrivato per la “governabilità”. Capite dove voglio andare a parare? Con una legge del genere, che forse è quella che è stata promessa a Cuperlo, non sarà poi così difficile per un partito trovare quei 438 voti necessari a eleggere come presidente della repubblica un caro vecchio amico non necessariamente super partes (anche Cuperlo – lo dico con simpatia, non sarebbe poi così male Cuperlo).

E comunque, se anche non riuscisse a trovarli, c’è sempre il settimo scrutinio. Da lì in poi il quorum dei tre quinti va ricalcolato sul numero di elettori che si presenta effettivamente a Montecitorio: se non entrano, il quorum diminuisce. Viene in pratica introdotto il silenzio-assenso. A cosa serve? A prima vista sembra una foglia di fico offerta alle minoranze per coprirsi coi loro elettori nel momento in cui cedono a un’offerta irrifiutabile. Mettiamo che abbiano tuonato davanti alle telecamere per giorni e giorni: “Noi Cuperlo mai!” Mettiamo che alla fine abbiano deciso, in cambio di qualcosa, di accettare pure Cuperlo. Non c’è bisogno di votarlo: basta uscire dall’aula e abbassare il quorum. Funzionerà? In altri tempi magari avrebbe funzionato, ma adesso come si fa? Uscire dall’aula ti espone ancora più che restare dentro. All’interno almeno il voto è segreto. Là fuori ci sono le telecamere, appunto, e se proverai a dire che tu non hai votato, che tu ti sei astenuto, ti rideranno in faccia. E un Cuperlo eletto in seguito al ritiro di un’intera delegazione di deputati o senatori non avrà molti motivi per considerarsi “presidente di tutti”. Oggi tutto è discusso, tutto è condiviso, tutto è drammatizzato. È curioso che questa nuova generazione di padri costituenti non se ne sia resa conto: sono quelli che hanno l’iphone, mica il telefono a gettone. Eppure.

Ci sono poi altre possibilità di abbassare artificialmente il quorum: abbiamo già visto che un sindaco-senatore può essere in qualsiasi momento destituito dal suo consiglio comunale. Il voto decisivo per eleggere Cuperlo potrebbe saltar fuori dal consiglio comunale di Vipiteno! Se la situazione è grave si potrebbe anche mandare all’aria un consiglio regionale. Vengono sempre in mente quei vecchi conclavi in cui la mortalità dei cardinali impennava.

Ricapitolando: i riformatori sostengono che nessun partito, anche qualora trionfasse alle elezioni, potrebbe nominarsi un presidente della repubblica senza il consenso di almeno parte della minoranza. Questo perché anche dal quarto scrutinio in poi non basterebbe metà dell’assemblea (366 seggi), ma servirebbero i tre quinti (438). In realtà è difficile capire cosa potrebbe succedere, finché non sappiamo che legge elettorale sarà approvata; e che in caso di legge elettorale alla greca, con maxipremio, quei 438 seggi potrebbero davvero essere a portata di mano del partito di maggioranza. Neanche la possibilità di abbassare il quorum ulteriormente, a partire dal settimo scrutinio, non calcolando gli elettori assenti, sembra una garanzia di pluralità: tutto il contrario. E quindi insomma neanche qui c’è nulla che mi spinga a votare Sì.

Zaccaria, ex Presidente Rai: «Troppo Renzi in tv. E la riforma è sbagliata»

(La mia intervista a Roberto Zaccaria per Fanpage)

Roberto Zaccaria è professore ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico nell’Università di Firenze, dove insegna Diritto costituzionale generale e Diritto dell’informazione. Già Presidente Rai dal 1998 al 2002 in questi mesi tiene numerose conferenze per ribadire la propria contrarietà alla riforma costituzionale.

Professore Zaccaria, il clima del dibattito referendario sembra scaldarsi…

Sto guardando un po’ i telegiornali, come danno le notizie. Ogni giorno c’è una cosa nuova: ieri c’era il sì degli artisti oggi c’è l’endorsement della stampa estera sulla riforma costituzionale. Tutti che temono che scatti la crisi ma il problema è Renzi: è lui a paventarla. L’impostazione deviata del dibattito nasce dall’impostazione di partenza. Anche il tg3, che una volta rappresentava una posizione alternativa rispetto alle posizioni governative, inserisce dopo la notizia del Papa che perdona l’aborto l’endorsement della stampa estera….

Perché vota no a questa riforma?

Il mio no è abbastanza semplice, per due motivi: prima di tutto perché questa riforma è nata in Parlamento e si è sviluppata come un’ipoteca inaccettabile del governo; questo è un elemento che la deforma dal punto di vista del metodo e porta già un giudizio negativo; poi nel merito la soluzione ai problemi che vengono indicati è sbagliata perché il superamento del bicameralismo è giusto in linea di principio ma viene superato in un modo contraddittorio che ne determina un peggioramento. Poi c’è il collegamento della riforma con la legge elettorale che mi fa dire in modo preciso che questo disegno diventa pericoloso perché innesta un meccanismo che deforma il sistema di governo favorendo l’esecutivo. E questo è contrario ai nostri principi costituzionali.

Dice Renzi che chi vota no è a favore della casta…

Una deformazione, appunto: ogni volta c’è bisogno di trovare uno slogan tra l’altro collegato a elementi inesistenti nel testo. In questa riforma non c’è nulla che riguardi la casta: c’è forse qualche accenno che riguarda il calmieramento delle retribuzioni dei politici ma a noi hanno insegnato che queste iniziative si possono tranquillamente fare con delle leggi ordinarie. E poi mi ha lasciato di stucco sentire Renzi definire ”accozzaglia” i sostenitori del no dicendo che questi non costituiscono un’alternativa: anche questa frase non ha nessuna connessione con il voto sulla riforma costituzionale poiché le riforme costituzionali non configurano alternative ma costituiscono le tracce e le fondamenta della casa comune.
L’alternativa si fa in occasione delle elezioni politiche: allora certamente se ci fosse in quel caso una coalizione che tiene insieme centro destra e centro sinistra sarebbe molto discutibile. Qui non c’entra nulla. Così come non c’entra la casta, non c’entra la stabilità, non c’entra la semplificazione. Sono tutti slogan venduti per cercare di catturare qualche elemento di consenso.

Si dice che a questo Paese serva governabilità…

Innanzitutto anche questo non c’entra nulla con la riforma Costituzionale: nella riforma c’è solo la fiducia che viene data da una sola camera piuttosto che da entrambe ma i governi nel nostro Paese non sono quasi mai (tranne i governi Prodi) caduti per problemi di fiducia. Il problema della governabilità sta nella capacità di creare coalizioni stabili, questo è un problema che si risolve con formule politiche e non con la Costituzione. A meno che non si passi a un governo presidenziale.

Dice Renzi che finalmente il Paese potrebbe avere un Senato della Autonomie…

Per una trentina d’anni i costituzionalisti avevano proposto di creare una Camera delle Regioni ma in quel caso si collegava con un sistema di autonomie molto marcate, molto forti e allora così avrebbe un senso. Nel momento in cui scegli di ridurre le autonomie e di ricentralizzare invece il Senato delle Autonomie è una contraddizione. Inoltre il progetto di Senato è molto fragile con una modalità di convocazione delle sedute troppo intermittente: un organismo di alta specializzazione fa a pugni con convocazioni così saltuarie e le stesse norme costituzionali pretendono tempi molto stretti. Si parla di cinque giorni, dieci giorni. Per fare questo ci vorrebbe un Senato insediato tutta la settimana.

Da persona della televisione come vedi la gestione del governo della comunicazione referendaria?

Penso ci sia un’invasione (intesa come presenza esorbitante) del governo non tanto negli spazi dedicati al referendum (che vengono più o meno gestiti con metodo aritmetico anche se con qualche tecnica subdola) ma soprattutto il governo è sempre presente al di là del fatto che ci siano reali notizie. In tutti i telegiornali la prima, seconda o al massimo la terza notizia è il governo che ci comunica qualcosa, tra l’altro sempre con lo stesso testimonial: non è che di legge di stabilità parla
Padoan o troviamo Poletti intervistato di lavoro; c’è solo e sempre il Presidente del Consiglio sia che si parli di referendum sia che si parli di altro. Questa misura (noi abbiamo presentato un ricorso all’AGCOM) è colma, basta leggere i dati. Si parla di un minimo del 40% di presenza a un massimo del 60%. Percentuali bulgare. Soprattutto sapendo quanto pesano le televisioni nel mondo dell’informazione.

Cosa dice di questi scenari apocalittici che vengono prospettati in caso della vittoria del no?

Io penso che l’intromissione di capi di Stato esteri siano inaccettabili. Noi non ci permetteremmo; i nostri capi di Stato non si sarebbero mai permessi. Che la stabilità sia un valore è scontato, perfino ovvio, ma gli USA non decidono anche loro tra democratici e repubblicani? E poi quando si tratta di scegliere la Carta Costituzionale il discorso sulla stabilità è del tutto improprio: è stato erroneamente tirato dentro proprio da chi conduce la campagna referendaria.

Vincenzo De Luca: il Governo prigioniero di un Ras

La furbata è servita. Il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca potrà diventare commissario della Sanità della sua regione. Ma per fare passare questa norma senza provocare troppe polemiche, si è trovato un escamotage. Il commissario della Sanità sarà infatti soggetto a verifiche ogni sei mesi: insomma, una specie di tagliando. È questo il contenuto del testo riformulato dell’emendamento alla manovra presentato in commissione Bilancio alla Camera, accantonato martedì in seguito a numerose critiche. Emendamento che è stato approvato con 18 voti favorevoli e 12 contrari, con l’assenza di Forza Italia.

La formula è quella di consentire al presidente della Regione di diventare commissario della propria sanità regionale ma a patto che ogni sei mesi si verifichi che il suo operato sia conforme ai piani di rientro e che la performance sui livelli essenziali di assistenza sia positiva.

Il testo precisa che “i tavoli tecnici, con cadenza semestrale, in occasione delle periodiche riunioni di verifica, producono una relazione ai ministri della Salute e dell’Economia e delle finanze, da trasmettersi al Consiglio dei ministri, con particolare riferimento al monitoraggio dell’equilibrio di bilancio e dell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza”.

Molto critica con l’emendamento, la grillina Silvia Giordano, che intervenendo in commissione Bilancio alla Camera ha detto: “Questa è una marchetta bella e buona perché i voti di De Luca vi fanno di un comodo impressionante, abbiate l’onestà di ammettere che volete solo i suoi voti”. C’è poi la Lega Nord che ha minacciato, per voce di Barbara Saltamartini, di occupare la sala del Mappamondo, dove si sono svolti i lavori.

Il cosiddetto emendamento De Luca ha fatto infuriare le opposizioni perché in questo si è visto un favore politico del governo al presidente della Regione Campania in cambio di un appoggio robusto al Sì in vista del referendum del prossimo 4 dicembre. Proprio nel Sud infatti il Sì risulta in difficoltà.

Di fatti, dopo una battaglia in commissione, e dopo che il ministro Beatrice Lorenzin aveva espresso parere contrario, l’ordine è stato diramato da palazzo Chigi: forzate, fatelo passare. L’ordine dei lavori ha poi previsto una discussione serale, dopo i tg, quando i riflettori sono spenti. Basta un sì, insomma, a Roma sull’emendamento, in Campania nelle urne.

E i pezzi da novanta piombano, per l’ultimo miglio, nel feudo del governatore. Giovedì Luca Lotti è a Salerno mentre il ministro del lavoro Giuliano Poletti si confronterà con Stefano Caldoro a Napoli. A Napoli invece arriva sabato il fiore dei sindaci di fede renziana: Dario Nardella, Matteo Ricci, Giorgio Giuseppe Falcomatà e Antonio Decaro, il sindaco di Bari diventato presidente dell’Anci proprio per rastrellare voti al Sud. Il Mattino parla anche di un’altra tappa di Matteo Renzi, di qui al 4 dicembre, sempre nella Campania di De Luca.

(fonte, Huffington Post)

Nel Merito. I fatti e i miti del referendum. Di Nadia Urbinati.

(di Nadia Urbinati)

In questa campagna referendaria abbiamo dismesso i panni della discussione e il dibattito si riduce al chi sta con Renzi e chi sta contro Renzi. Così la Costituzione diventa oggetto plebiscitario, o semplice programma elettorale.
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Ne è valsa la pena?
Perché questa quasi-guerra fratricida? Qual è la ragione così urgente che ha mosso la dirigenza del Partito Democratico e del Governo a imporre una campagna referendaria su questa riforma della Costituzione, così frettolosa, così imperfetta, e soprattutto così divisiva? Perché decenni di manicheismo da guerra fredda tra comunisti e democristiani non hanno diviso così fortemente il paese come questo referendum che cade in un tempo post-ideologico? Propongo due ordini di risposte a queste domande, uno che cerca di capire la filosofia di questa proposta di revisione, e uno che cerca di valutare l’impatto di questa campagna referendaria sulla cittadinanza.
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Fatti e Miti
Hanno detto i suoi promotori che è la storia a chiedere questa riforma; lo chiedono trenta (per Renzi settanta) anni di tentativi di cambiare la nostra democrazia, troppo pluralista e assembleare, troppo orizzontale e poco attenta alla governabilità. Ma nessuno sa esattamente che cosa questo significhi, anche perché la storia siamo noi, e quindi è il presente, questo presente, che vuole questa riforma. Figlia di questo presente, la filosofia sulla quale riposa questa riforma è poco amante dell’intermediazione, del pluralismo e di quella complessità che – ce lo siamo dimenticato? – è la società liberale e democratica stessa a generare. Questa filosofia riposa su due miti: velocità di decisione e semplificazione per aiutare la velocità. E si impone, o cerca di imporsi, con un metodo che è ad essi coerente: insofferente per il dissenso, violento nel linguaggio, dominatore nell’uso monopolistico dei mezzi di informazione, e plebiscitario nella forma del consenso chiesto ai cittadini. Per chi mastica un poco di filosofia politica lo scenario è Schmittiano.
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Da che cosa sono supportati i miti della velocità e della semplificazione? Non da prove fattuali, ovviamente. Certo, non sul fronte della “velocità” di decisione; anche perché questo governo di coalizione ha dimostrato di riuscire in pochi giorni a sopprimere diritti del lavoro che resistevano almeno dal 1970. Velocissimo è stato anche il precedente governo Monti nell’approvare la riforma delle pensioni e addirittura nell’inserire la norma del pareggio di bilancio nella Costituzione. La velocità in queste riforme amate dai “mercati” (e molto poco digeribili per quei democratici che assegnino a questa parola un valore superiore a quello della sigla di un partito) è stata possibile la Costituzione vigente. Quindi perché?
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E che dire del mito della “semplificazione”? Se semplificare comporta approntare mezzi per l’attuazione celere delle decisioni, allora il problema è risolvibile con regolamenti nuovi, sia parlamentari che della burocrazia. Perché andare ai poteri fondamentali dello Stato? Perché, probabilmente, il mito della semplificazione è coerente a una visione dirigistica del potere politico, che sta davvero stretta a una costituzione democratica com’è la nostra.
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Semplificare può voler dire molte cose e nulla. L’argomento piace molto ai populisti di tutti i continenti e tempi: e sta per superamento della fatica del dover cercare mediazioni e consensi, secondo il mito molto dirigistico di snellire le rappresentanze, di sfoltire i protagonisti dei processi decisionali, per contenere i tempi di decisione e togliere ostacoli a chi decide. È un mito ben poco democratico, e non perché la democrazia significa perdere tempo, ma perché, come scriveva Condorcet, non si fida di chi vuol dare più potere all’organo di decisione, il governo: un argomento di cui “sono lastricate le strade verso la tirannia”. Senza bisogno di andare così lontano come Condorcet, possiamo tuttavia nutrire seri dubbi che una semplificazione decisionale sia sicura per chi crede nel potere di controllo, limitazione e monitoraggio, ovvero sorveglianza. Chi propone questa riforma non ha un’idea molto positiva della democrazia, ritenendola troppo esosa in termini di tempo e troppo esigente in termini di controllo. Ecco perché ci propone una riforma che depotenzia la democraticità della nostra Costituzione.
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Resa meno democratica, ovvero meno rappresentativa delle diverse istanze, territoriali o politiche, e più interessata a localizzare la sede apicale della decisione trascinando gli organismi collettivi invece di essere da questi trascinato: non a caso nella proposta di revisione ha un posto di rilievo il principio della temporalità stabilita dal Governo, che può predeterminare i tempi di discussione del Parlamento e chiedere che esso sospenda i suoi ordinari lavori per occuparsi prima e subito dei suoi decreti. L’implicita ammissione è che colpa della lentezza e della complessità sia il Parlamento, e tutti gli “organi assembleari” come con fastidio chiamano la democrazia rappresentativa i dirigisti. Contro l’“assemblearismo” è in effetti da settant’anni che gli insoddisfatti della democrazia tuonano nel nostro paese, a partire proprio dalla Consulta.
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Distanza dei cittadini e poteri accentrati
La revisione della Costituzione pone inoltre problemi molto seri quanto al rapporto tra istituzioni e cittadini. Su questo aspetto pochi si sono soffermati e propongo qui alcune riflessioni.
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Le ragioni per non sostenere questa proposta di revisione sono di vario genere: da quelle relative al merito (a come ridisegna il Senato, le funzioni delle Regioni e la relazione tra i poteri dello Stato) a quelle più direttamente politiche o di prudenza politica. Su queste seconde non si discute mai abbastanza. La Costituzione di uno stato democratico dovrebbe avere uno sguardo lungo, essere pensata in relazione non all’oggi ma a qualunque tensione o problema possa succedere domani. Questa prospettiva ha reso la Costituzione italiana vigente un’ottima Costituzione, capace di reggere molti stress: gli anni di piombo, impedendo che le istituzioni si facessero convincere dal canto delle Sirene che chiedevano governi di emergenza, sospensione dei diritti e stato di polizia; e poi l’assalto da parte della corruzione dei partiti prima e del patrimonialismo berlusconiano poi. Se l’opinione, anche politica, ha spesso tentennato, le istituzioni hanno tenuto la barra diritta perché la Costituzione ne disegnava i poteri e le funzioni in maniera tale che nessuna di esse potesse prendere sopravvento o avere un potere superiore.
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Se la nostra democrazia ha tenuto e la stabilità è stata garantita nel corso degli anni nonostante i diversi governi (un problema da attribuirsi semmai al sistema elettorale) è stato perché le istituzioni hanno tenuto. E questo è dimostrato dal fatto che il declino di legittimità dei partiti e degli attori politici non ha scalfito la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, perché queste non hanno dato l’impressione di essere dominate completamente dai partiti. Vi è da temere che un Senato composto per voto indiretto alimenti nei cittadini l’impressione che la loro incidenza sulle istituzioni sarà più debole mentre il potere di decisione degli attori politici più opaco e fuori dal loro controllo. Il rischio è che le istituzioni siano a poco a poco percepite come proprietà di chi le occupa; che la distanza tra istituzioni e società aumenti. E con essa che cresca il senso di illegittimità delle istituzioni.
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Inoltre, pensata in funzione di neutralizzare esecutivi ingombranti (scritta in funzione anti-fascista), la Costituzione del 1948 si presenta come molto ben corazzata contro i nuovi populismi. Decentrare il potere e spezzarne la tendenza alla concentrazione (con un governo che impone i tempi e l’agenda al Parlamento) è mai come in questo tempo essenziale a fermare i tentativi di assalto che possono venire dalle forze nazional-populiste. Questo non è il tempo migliore per una Costituzione che concentra i poteri e indebolisce i controlli e il ruolo delle opposizioni.
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Negli Stati Uniti ci si preoccupa in questi giorni degli effetti che potrà avere l’accumulo di potere e l’allineamento sotto un unico partito di tutti i poteri dello Stato: la Casa Bianca, il Congresso, il Senato e la maggioranza della Corte Suprema. Indubbiamente la governabilità e la velocità delle decisione saranno facilitate con l’amministrazione Trump e la sua maggioranza granitica. Ma siamo convinti che questo sia desiderabile?
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Una campagna velenosa
Chi si è schierato con Renzi, leggiamo spesso sui quotidiani, ha rischiato il linciaggio morale. D’altro canto chi si è schierato contro Renzi ha perso amici e si è trovato/a classificata con i Casa Pound o gli anti-sistema e con i populisti di tutte le risme. Una guerra di parole e dichiarazioni fratricida, come non si era visto neppure con la proposta di riforma lanciata dal Governo Berlusconi. Forse perché la lotta è ora tutta a sinistra o tra chi in modi diversi si sente vicino al Partito Democratico, questa campagna ha avuto il sapore di una piccola guerra civile, di una guerra civile di parole. Ricordiamo il caso Roberto Benigni, il primo a scatenare questa guerra.
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Rispondendo alla domanda di Ezio Mauro se non avesse paura di passare per “renziano” confessando di votare Sì al referendum costituzionale, Benigni la scorsa primavera ha rivendicato il diritto di votare come pensa e non per conformarsi a chi non si conforma. E il diritto di votare implica il diritto di schierarsi: “Non voglio rimanere neutrale, lavarmene le mani dicendo che faccio l’artista, voglio essere libero. E la libertà non serve a nulla se non ti assumi la responsabilità di scegliere ciò che credi più giusto”. Risposta pertinente perché coerente ai due principi aurei della democrazia liberale e non plebiscitaria: votare con la propria testa e non con quella del leader, e rivendicare il valore del voto che è e non può che essere partigiano. Voto schierato non voto plebiscitario. È questa la distinzione che oggi è difficile fare e mantenere. All’origine della difficoltà vi è stata la decisione di Renzi di identificare il Sì con la sua persona e il suo governo, trasformando il No automaticamente in un giudizio sulla sua persona e in una causa di instabilità politica. Chi non sta dalla sua parte è messo nell’“accozzaglia” degli sgradevoli.
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Questa trappola ci ha impedito di battagliare da “partigiani amici”, come direbbe Machiavelli, e ci ha fatto essere “partigiani nemici”. I primi sono quelli che si schierano nella libera competizione delle idee per favorire o contrastare un progetto politico. I secondi sono quelli che personalizzano la lotta politica mettendo nell’arena pubblica non le ragioni pro e contro un progetto, ma le rappresentazioni colorite delle tipologie di chi sta da una parte e dell’altra. I primi si rispettano come gli avversari di una battaglia legittima, i secondi si offendono e creano le condizioni per un risentimento che sarà difficile da dimenticare.
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È da anni, da quanto Berlusconi “scese in campo”, che la lotta politica ha preso la strada dello stile teatrale, della rappresentazione estetica – con forme mediatiche che hanno lo scopo di colpire le percezioni per mobilitare le emozioni e rendere la contesa radicale, non dialogica. Di creare identificazioni non forti nelle convinzioni ideali ma forti nella vocalizzazione e nella pittorica rappresentazione. Come se ogni battaglia fosse l’ultima, come se la catastrofe e il diluvio seguissero a una vittoria o a una sconfitta. È questo stile populista del linguaggio estetico e tutto privato (ingiudicabile con la ragione pubblica) che ha corroso negli anni la nostra abitudine alla lotta partigiana, trasformandola in un Colosseo, uno spettacolo che vuol vedere il sangue che colora di rosso l’arena.
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Le ragioni a favore o contro sono spessissimo passate in secondo piano. Questo succede soprattutto oggi che siamo in dirittura di arrivo. Per cui i blog e i social network assalgono chi si schiera con il Sì come fosse un rinnegato, e offendono mortalmente chi vota No come fosse un nazi-fascista, un “falso” partigiano. A chi vota Sì è affibbiato il titolo di lacchè del potere, a chi vota No è appiccicata l’immagine della “palude”. Chi vota No sarebbe per la conservazione e chi vota Sì sarebbe per l’innovazione e intanto non si riesce a spiegare senza essere sbeffeggiati e sbeffeggiare che cosa si vuole preservare e che cosa si desidera innovare.
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Siccome i sacerdoti del Sì non possono vantare, proprio come quelli del No, alcuna privilegiata saggezza, sarebbe stato opportuno mettere sul tappeto le questioni reali implicate in questa battaglia sulla nostra Costituzione: il carattere di questa nuova versione della Costituzione e gli effetti che potrebbe generare, soprattutto se accoppiata con l’Italicum (una legge dello Stato il cui peso ingombrante è stato accantonato da Renzi, con la promessa verbale a Gianni Cuperlo di rivederla dopo il 4 dicembre). Dicevano i teorici e i politici settecenteschi che hanno teorizzato e/o scritto le costituzioni che queste devono essere scritte per i demoni, non per gli angeli. E come Peter sobrio che scrive le regole per Peter ubriaco, le carte di regole e di intenti servono proprio per esorcizzare e contenere il potere, in particolare quello istituzionalizzato, nell’eventuale occorrenza che venisse tenuto da mani sconsiderate. Come Benigni, anche altri sostenitori del Sì riconoscono che il nuovo Senato è pasticciato; diversi, anche nel Pd, si preoccupano degli effetti combinati della riforma con l’Italicum, che contrariamente a quanto succede per i sindaci premia non chi ha raggiunto il cinquanta per cento, ma il quaranta per cento. È legittimo farsi queste domane e voler discutere di queste questioni. È legittimo che i cittadini democratici si preoccupino di sapere quando potere resterà a loro, quanta forza avrà la loro voce.
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E invece, il clima è da mesi rovente, rabbuiato dalla retorica del plebiscito. Il manicheismo fa spettacolo ma non fa prendere decisioni sagge – la deliberazione democratica deve poter contare sul fatto che si entra in una discussione con un’idea e se ne può uscire con un’altra. Ma in questa campagna referendaria abbiamo dismesso i panni della discussione: ciascuno alla fine resta dell’idea che aveva all’inizio, mentre gli incerti e gli indifferenti saranno probabilmente colpiti da una battaglia più personalizzata che ragionata. Chi sta con Renzi e chi sta contro Renzi. Tutti ci siamo fatti e ci facciamo conformisti. A questo si giunge quando la Costituzione è fatta oggetto plebiscitario, o usata come un programma elettorale – per contare nemici e amici. Di costituzionale vi è davvero poco. Figuriamoci se questo fosse stato il clima dei Costituenti! Avremmo avuto la guerra civile non settant’anni di vita civile.
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Quale che sia l’esito, dopo il 4 dicembre 2016 il nostro sarà un paese più diviso.Cui prodest?
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sbilanciamoci.info, 21 novembre 2016

‘Ndrangheta: parla la pentita Loredana Patania, tremano in molti

(L’articolo di Giuseppe Baglivo, qui)

Quasi cinque ore di deposizione oggi per la collaboratrice di giustizia Loredana Patania, chiamata a deporre da un sito riservato nel processo nato dall’operazione antimafia denominata “Romanzo criminale” in corso dinanzi al Tribunale collegiale di Vibo Valentia. Una Loredana Patania che per buona parte della deposizione, per come sottolineato in aula anche dalla presidente del Collegio Lucia Monaco, è andata “a ruota libera”, complici i problemi di collegamento che hanno impedito un perfetto ritorno dell’audio, ma anche da un atteggiamento della stessa collaboratrice di giustizia volto a non far terminare le domande alle parti (prima al pm della Dda di Catanzaro, Andrea Mancuso, quindi agli avvocati degli imputati ed infine alla stessa presidente del Tribunale) e che ha reso più complicato del previsto l’intero esame e perte del contro-esame. Tante le cose riferite da Loredana Patania, alcune frutto di supposizioni personali per come ammesso dalla stessa nel corso del contro-esame, altre per averle vissute, a suo dire, in prima persona.

I retroscena dei fatti di sangue e gli schieramenti mafiosi in “campo”. Loredana Patania ha indicato in Cosimo Caglioti di Sant’Angelo di Gerocarne l’esecutore materiale dell’omicidio di Michele Mario Fiorillo di Piscopio avvenuto nel settembre del 2011 nella Valle del Mesima. Sui terreni di quest’ultimo, Fortunato Patania – indicato dalla collaboratrice di giustizia come persona molto “rispettata e ben voluta a Stefanaconi poichè legato al capobastone dell’epoca ovvero a Nicola Bartolotta, detto “U Pirolu” – avrebbe ripetutamente fatto pascolare le proprie pecore ed a nulla sarebbero servite le denunce. “Il mandante di tale fatto di sangue – ha dichiarato la Patania – era Salvatore Patania con l’ausilio della madre Giuseppina Iacopetta”. E’ l’inizio della faida con il clan dei Piscopisani, con Loredana Patania che ha delineato gli “schieramenti” contrapposti. Da un lato i Patania contro i Piscopisani a loro volta alleati su Vibo Valentia con Andrea Mantella e Francesco Scrugli, dall’altro lato gli stessi Patania schierati contro il clan di Stefanaconi di Emilio Bartolotta e Franco Calafati a sua volta alleato con i Bonavota di Sant’Onofrio.

I Patania avrebbero invece goduto dell’appoggio del boss Pantaleone Mancuso, detto “Scarpuni”, il quale avrebbe voluto eliminare Scrugli e Mantella per riprendere il controllo sulle estorsioni nella città di Vibo Valentia ed allo stesso tempo, a detta della collaboratrice di giustizia, uccidere Domenico Cugliari, detto “Mico i Mela”, di Sant’Onofrio, zio “dei fratelli Pasquale, Domenico, Nicola e Salvatore Bonavota”. A tale ultimo agguato si sarebbe però opposto Salvatore Patania, intenzionato a vendicare prima la morte del padre Fortunato Patania (ucciso nel settembre del 2011 dai Piscopisani per vendicare l’omicidio avvenuto due giorni prima ai danni di Michele Mario Fiorillo, zio di Rosario Fiorillo, detto “Pulcino”, ritenuto elemento di spicco del clan dei Piscopisani). Secondo Loredana Patania ci sarebbe stato anche un incontro fra Giuseppe Patania e “U Tartaru” di Piscopio, ovvero Nazzareno Fiorillo, in cui il primo avrebbe detto al secondo che i Patania non si sarebbero fermati con gli omicidi sin quando non gli avrebbero consegnato la “testa” dei mandanti e degli esecutori dell’omicidio di Fortunato Patania.

Quindi il racconto del tentato omicidio nel febbraio del 2012 ai danni di Francesco Scrugli a Vibo Valentia, sparato da un killer macedone (Vasvi Beluli) assoldato dai Patania ed appostato con una carabina di precisione in una casa popolare del quartiere S. Aloe a pochi metri dalla Questura ed anche l’intenzione da parte degli stessi Patania di attentare alla vita di Scugli in ospedale a Vibo dove era stato ricoverato una volta ferito. Francesco Scrugli è stato poi ucciso nel marzo del 2012 a Vibo Marina in un agguato in cui sono rimasti feriti pure Rosario Battaglia di Piscopio e Raffaele Moscato (oggi collaboratore di giustizia). Per tale fatto di sangue, Loredana Patania è stata condannata a 6 anni di reclusione per aver ceduto a Giuseppe Patania una delle pistole usate per l’agguato.

Giuseppina Iacopetta (madre dei fratelli Patania e moglie dell’assassinato Fortunato Patania, in foto a sinistra) appresa la notizia dell’uccisione di Scrugli, a detta di Loredana Patania, si sarebbe invece inginocchiata a terra dicendo: “Nato mio, giustizia è fatta”. Sarebbe stata proprio Giuseppina Iacopetta, secondo Loredana Patania, a volere “la guerra” con gli altri clan, tanto da “invitarmi – ha ricordato la collaboratrice di giustizia – a bussare a casa di Franco Calafati per fargli aprire la porta. Nell’abitazione sarebbero dovuti poi entrare dei sicari per ucciderlo, ma io mi sono rifiutata”.

Il ruolo di Matina, la sparizione di Penna ed i contrasti sulle estorsioni. Giuseppe Matina, alias “Gringia” (soprannome che, a detta di Loredana Patania, sarebbe stato dato al marito dall’allora maresciallo della Stazione di Sant’Onofrio, Sebastiano Cannizzaro) sarebbe stato invece un componente del clan capeggiato da Emilio Bartolotta e da Franco Calafati ed avrebbe partecipato alla sparizione per lupara bianca dell’assicuratore, nonchè all’epoca segretario cittadino dell’Udc, Michele Penna, quest’ultimo intenzionato a formare un autonomo clan. O almeno così credevano i Patania che anche per questo decretarono la morte (eseguita dal kilelr Arben Ibrahimi su mandato dei Patania) di Giuseppe Matina, con Loredana Patania che dopo l’omicidio del marito si sarebbe trasferita con i bambini prima a casa di suo cugino Giuseppe Patania e poi a casa della zia Giuseppina Icopetta.

Inganni, tradimenti e voltafaccia sarebbero stati all’ordine del giorno, con i Patania che sarebbero stati intenzionati a trovare ad ogni costo il corpo di Michele Penna (in foto a sinistra) perchè, secondo Loredana Patania, “in cambio i miei cugini ritenevano di poter ricevere favori sul piano giudiziario dal maresciallo Cannizzaro che era impegnato pure lui a ritrovare il corpo di Michele Penna per consegnarlo ai genitori e dar loro la possibilità di una degna sepoltura”. Tre gli episodi delittuosi narrati invece dalla collaboratrice di giustizia per contrasti sorti – a suo dire – sulla spartizione dei lavori di metanizzazione a Stefanaconi: l’esplosione di una bomba al fioraio Lopreiato, la bomba messa al distributore di carburanti dei Patania nella Valle del Mesima e la bomba al negozio di generi alimentari “Franzè” a Stefanaconi. Secondo Loredana Patania a non mettersi d’accordo per la spartizione dei lavori di metanizzazione sarebbero stati “i Patania, Domenico Franzè, della “Società minore”, (“alleato – secondo la Patania – a Nicola Bartolotta, alias U Pirolu”), Giovanni Franzè e i Bartolotta a loro volta alleati ai Bonavota che sarebbero rimasti senza la loro parte di tangente”.

Per la bomba alla “Valle dei Sapori”, Giuseppe Matina (marito di Loredana Patania) sarebbe stato invece pesantemente minacciato di morte da Salvatore Patania, mentre Fortunato Patania avrebbe partecipato a Sant’Onofrio ad una riunione con i Bonavota “alzando la voce per sapere da Franco Calafati chi si era permesso di danneggiargli la stazione di carburanti poichè aveva intenzione di ucciderlo in piazza davanti a tutti”.

La bomba alla “Valle dei sapori”, le estorsioni sull’A3 e l’omicidio di Nino Lopreiato. Secondo Loredana Patania a mettere la bomba alla “Valle dei Sapori” (stazione di carburanti con annesso bar, albergo e ristorante) dei Patania sarebbero stati “Nazzareno e Vittorio Loschiavo su mandato dei Bonavota”. I sospetti dei Patania sarebbero però caduti su Giuseppe Matina, marito di Loredana Patania, che sarebbe stato indicato come l’autore dell’attentato – a dire della pentita – dal “maresciallo Sebastiano Cannizzaro”. Mancati accordi fra i Patania ed i Bonavota sulle estorsioni da praticare sul tratto dell’A3 -ricompreso fra gli svincoli di Sant’Onofrio e delle Serre – avrebbero ulteriormente alimentato lo scontro. In tale contesto ed alla sparizione di Michele Penna sarebbe legato per Loredana Patania pure l’omicidio di Antonino Lopreiato, ucciso a Stefanaconi nel 2008 ed i cui mandanti sono stati indicati dalla collaboratrice di giustizia in “Domenico Cugliari, detto Mico i Mela”, Franco Calafati ed Emilio Bartolotta”. Quindi i riferimenti a: “Riccardo Cellura che da Carugo, in provincia di Como, procurò falsi distintivi delle forze dell’ordine usati anche in occasione del tentato omicidio a Piscopio da parte dei Patania-Caglioti ai danni di Rosario Fiorillo detto “Pulcino”; ad “Antonio Mazzeo residente a Carugo, che dal Nord mandava a Stefanaconi le armi ai cugini Patania”; ed a Nazzareno Fortuna, detto “Cacazza“, di Stefanaconi, “che era il prestanome dei Patania ed il vero traditore della famiglia, ovvero colui che – ha spiegato Loredana Patania – passava poi di nascosto tutte le informazioni ai Piscopisani”.

Infine i riferimenti all’allora comandante della Stazione dei carabinieri di Sant’Onofrio Sebastiano Cannizzaro e all’allora parroco di Stefanaconi Salvatore Santaguida. Secondo Loredana Patania, la zia Giuseppina Iacopetta si sarebbe recata diverse volte in Chiesa con la scusa di confessarsi con don Santaguida ma in “realtà per passare informazioni che il sacerdote trasferiva poi al maresciallo Cannizzaro. Sono stata perseguitata dal maresciallo – ha dichiarato la Patania – con il sequestro della casa, il ritiro della patente e continue microspie. Una microspia venne messa anche nell’auto di Giuseppe Patania, ma i Patania sapevano della presenza della cimice”. Accuse che la difesa di Sebastiano Cannizzaro (avvocati Aldo Ferraro e Pasqualino Patanè) e Salvatore Santaguida (avvocato Enzo Galeota) proveranno a smontare nella prossima udienza fissata per il 30 novembre. Nel corso dell’esame, in ogni caso, Loredana Patania ha ammesso di aver fatto uso di sostanze stupefacenti. “Ho fumato cocaina – ha dichiarato – mentre il mio attuale compagno Daniele Bono, pure lui inserito nel clan Patania, all’epoca faceva uso di cocaina. Ora viviamo insieme in una località protetta – ha concluso la Patania – e pure lui ha deciso di collaborare con la giustizia. Non parliamo mai però dei processi e delle dichiarazioni che dobbiamo rendere o abbiamo reso”. Parola di collaboratrice di giustizia. Se crederla o meno spetterà al Tribunale, oggi più volte costretto invano a cercare di fermarla nelle sue dichiarazioni “a ruota libera”. Il contro-esame fissato per la prossima udienza si preannuncia a dir poco interessante.

Gli imputati. Ad essere accusati del reato di associazione mafiosa sono: Giuseppina Iacopetta, ritenuta al vertice della cosca dopo l’uccisione del marito, Fortunato Patania, freddato nel settembre 2011 durante la faida con i Piscopisani; i figli Salvatore, Saverio, Giuseppe, Nazzareno e Bruno Patania; Andrea Patania; Cosimo e Caterina Caglioti; Nicola Figliuzzi; Cristian Loielo; Alessandro Bartalotta; Francesco Lo Preiato; Ilya Krastev. L’ex maresciallo dei carabinieri, già alla guida della Stazione di Sant’Onofrio, Sebastiano Cannizzaro, è invece accusato di falso e concorso esterno in associazione mafiosa. Tale ultimo reato viene contestato anche a don Salvatore Santaguida, parroco di Stefanaconi.

Cronache d’impero: in onore del premier all’istituto Neruda in scena il balletto della “Buona scuola”

img_0017Nella palestra della scuola “Pablo Neruda” il balletto dei giovanissimi studenti in onore di Matteo Renzi (seduto in prima fila) è in corso da qualche minuto e la rappresentazione per qualche attimo resta sospesa a metà strada tra spontaneità e riverenza al capo del governo. Ma ad un certo punto l’equilibrio si rompe: sulle trascinanti note di “Viva la vida” dei Coldplay i ragazzini innalzano una scritta colorata, “La buona scuola”. Matteo Renzi, studenti, la ministra Stefania Giannini, maestri e professori applaudono la coreografia encomiastica, che rappresenta l’istantanea più curiosa – ma non l’unica – della cerimonia che si è svolta ieri mattina alla scuola elementare e media “Neruda” di Roma in occasione della firma da parte del governo di un protocollo di intesa con Banca europea degli investimenti, Cassa depositi e prestiti per investimenti nell’edilizia scolastica per un valore di 530 milioni di euro in occasione della Giornata per la sicurezza nelle scuole.

Cerimonia breve che in piccole dimensioni ha riproposto la quintessenza del “renzismo”: capacità operativa su tante questioni e al tempo stesso insopprimibile impulso a mettere in “scena” qualsiasi cosa e a farlo sempre e comunque nel segno dell’auto-elogio. Narrazione che, a giudicare da quasi tutti i risultati elettorali degli ultimi due anni e dai sondaggi, sembrerebbe segnare qualche smagliatura. Come conferma la vicenda di ieri. Avendo deciso di usare una scuola per l’annuncio dell’accordo, c’era un precedente che avrebbe dovuto pesare. Erano le prime settimane del governo Renzi e il 5 marzo 2014 l’ingresso del presidente del Consiglio nella scuola elementare Raiti di Siracusa fu salutato da una canzoncina encomiastica: «Facciamo un salto, battiam le mani/ ti salutiamo tutti insieme presidente Renzi». Qualcuno arrivò ad evocare nientedimeno che il duce, sta di fatto che da quel giorno fu vietato alle telecamere delle tv di accompagnare Renzi nelle sue visite sempre più sporadiche alle scuole, comunque sempre elementari e medie.

Ieri mattina il ritorno. Pretesto doppio: l’accordo con la Bei ma anche la prima giornata nazionale per la sicurezza nelle scuole.I preliminari prevedono una serie di balletti. Protagonisti una ventina di ragazzi. Ma diversi di loro hanno decisamente più di 14 anni e infatti si scoprirà più tardi che fanno parte della «organizzazione» del Ministero dell’istruzione, dell’Università e della ricerca. Poi interviene la ministra Giannini che, ricordando il valore concreto e simbolico della giornata, sostiene: «C’è un Paese che rivede l’orizzionte, la luce, la speranza». Poi tocca alla preside Brunella Martucci, protagonista della bella impresa di aver aperto dopo 30 anni una scuola in un quartiere periferico. Appena vede alcuni bambini che si allontanano dalla cerimonia, li riprende: «State qui! Sennò si porta la giustificazione! Non facciamo brutta figura». Poi parla il presidente del Consiglio. Simpaticamente e brevemente. In vista del momento più atteso: Renzi che, seduto ai banchi, firma il protocollo di intesa, attorniato da bambini sorridenti. Uscendo un papà ricorda una canzone di Giorgio Gaber: «Vedo bambini cantare, in fila li portano al mare, non sanno se ridere o piangere, batton le mani».

(da La Stampa)

Intanto l’ex assessore di Scopelliti si prende 9 anni per mafia

(Lucio Musolino per Il Fatto Quotidiano)

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Nove anni di carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso e 2.100 euro di multa. L’ex consigliere e assessore comunale all’Ambiente Pino Plutino è stato condannato anche dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria al termine del processo “Alta tensione 2“. Adesso manca solo il sigillo della Cassazione per confermare quanto sostiene la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria e cioè che l’uomo di fiducia dell’ex sindaco e governatore Giuseppe Scopelliti è un componente della famiglia mafiosa Caridi federata con la potente cosca Libri.

La sentenza è arrivata intorno alle 19 dopo una lunga camera di consiglio. In sostanza, i giudici della Corte d’Appello hanno confermato l’impianto accusatorio del pm Stefano Musolino che, in primo grado, aveva ottenuto la condanna di Plutino a 12 anni di carcere.

Arrestato nel 2012, l’ex assessore comunale sarebbe stato il referente politico dei Caridi al Comune di Reggio. Su di lui, il clan avrebbe fatto confluire i voti non solo degli affiliati, alterando la libera competizione elettorale per le comunali del 2011. Plutino, infatti, è il cugino di Domenico Condemi, considerato il boss del quartiere San Giorgio Extra e condannato a 20 anni di carcere.

Secondo gli inquirenti, l’ex assessore condannato era “il referente della cosca Caridi-Borghetto-Zindato e cresciuto politicamente attraverso queste dinamiche”. Secondo la Procura, da questa inchiesta, è venuta fuori quella che definiscono la ‘ndrangheta “fluida” capace di infiltrarsi nelle istituzioni e che chiede di essere riconosciuta come “sistema di potere“.

La Corte d’Appello ha assolto il fratello del boss, Filippo Condemi, “per non aver commesso il fatto”. Cadono le accuse anche per il poliziotto Bruno Doldo processato per rivelazione del segreto d’ufficio. Al termine del processo, così come era avvenuto in primo grado, i giudici hanno ritenuto che Doldo (all’epoca anche arrestato) fosse innocente e, soprattutto, non fosse quell’”agente della Digos” di cui si parla nelle intercettazioni effettuate durante le indagini.

Paolo Maddalena (vice presidente Emerito della Corte Costituzionale): «È una grande sciocchezza, meglio il niente al male. Questa riforma segna la fine della democrazia.»

(intervista a Paolo Maddalena di Giacomo Russo Spena)

“Macché semplificazione e tagli a sprechi, le ragioni della riforma vanno indagate altrove: Renzi si è piegato alla volontà dei poteri forti, Jp Morgan ci ha dettato le modifiche costituzionali”. Dalla voce non sembra stia parlando un ottantenne. Ragiona, analizza e spiega le motivazioni per le quali sta sostenendo la campagna del NO al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre. Paolo Maddalena, vice presidente Emerito della Corte Costituzionale, è uno dei massimi esperti in materia. Lo contattiamo telefonicamente, combattivo, ha desiderio di sviscerare nel dettaglio la riforma per convincere soprattutto gli indecisi al voto.

La riforma voluta dal presidente Matteo Renzi riduce il numero dei senatori, stabilisce nuovi rapporti tra Stato e Regioni, oltre a semplificare l’annosa questione della burocrazia e cancellare carrozzoni come il Cnel… Cosa non la convince?

Sono spot propagandistici, senza alcuna logica. La riduzione dei costi e la semplificazione non si raggiungono col soffocamento del Senato, uno degli organi massimi dell’espressione della sovranità popolare. Tra l’altro la Ragioneria di Stato ha smentito i numeri del governo e, con la riforma, si risparmierebbero soltanto 51 milioni. Ci sono altri modi per racimolare soldi. Anche la questione dello snellimento dell’iter legislativo è mendace. Agli esami degli atti i tempi si allungheranno.

Beh, però si pone fine alla “navetta” tra i due rami del Parlamento…

Su molte materie rimane obbligatorio l’esame di una e dell’altra Camera. In caso di divergenze di vedute tra Camera e Senato, il conflitto dovrà essere risolto dai due presidenti e, qualora non trovassero un accordo, la questione andrebbe fino alla Corte Costituzionale dove trascorrerà almeno un anno dalla sentenza. Un iter così, lo capisce chiunque, è lungo e assurdo.

Insisto, i fautori del Sì dicono che il Senato interverrà su poche leggi e soprattutto c’è l’occasione di superare il bicameralismo paritario, come già avviene in Francia e Germania. Lei è per difendere a priori il bicameralismo?

In dottrina il bicameralismo può essere imperfetto, alcune materie possono passare soltanto alla Camera e non al Senato. Il governo, invece, con tale riforma fa un pasticcio, il provvedimento è scritto male e pieno di incongruenze. Il Senato sarà formato da nominati, ovvero da sindaci e consiglieri regionali senza vincolo di mandato, tanto valeva eliminarlo del tutto e rimanere con una Camera Alta. Infine, la questione dei tempi di approvazione di una legge: è una questione di volontà politica, non di bicameralismo paritario. Quando la maggioranza ha deciso – si pensi all’introduzione del pareggio di Bilancio in Costituzione – ha modificato la Carta in poche settimane. Quando si vuole, le leggi vengono varate velocemente, anche adesso.

Quindi è falso che si sta ricalcando il modello del Senato tedesco?

La Camera dei Lander funziona diversamente. Nel testo della riforma si parla di “Senato delle Autonomie” ma nel dunque non ha competenze specifiche sui territori anzi schiaccia le autonomie locali.

Il pensiero di molti si può riassumere col giudizio: “Dopo anni di immobilismo, siamo di fronte a una riforma pasticciata ma sempre meglio di niente”. Come replica?

È una grande sciocchezza, meglio il niente al male. Questa riforma segna la fine della democrazia.

Veramente, come denuncia il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, siamo al rischio di una deriva oligarchica? Non le sembra di esagerare?

Renzi ha annientato i contrappesi creando un esecutivo forte. Ha tolto poteri al presidente della Repubblica il quale sarà, a conti fatti, eletto solo da 220 parlamentari, e ha ridotto le garanzie costituzionali alla Consulta. Nell’albero istituzionale ha tagliato le foglie facendo restare esclusivamente il tronco dell’esecutivo.

La legge elettorale – che prevede un rafforzamento dell’esecutivo – è uscita però dalla contesa referendaria e si ipotizza una modifica dell’Italicum.

Che si raggiunga una nuova legge elettorale entro il 4 dicembre è escluso da tutti, non c’è tempo. E l’Italicum è strettamente collegato con la modifica del titolo V: rischiamo un Senato esautorato di potere e una Camera con un premio di maggioranza “drogato”. Mi spiego meglio. Secondo l’Italicum, il ballottaggio si può vincere col 20/25 per cento del consenso degli elettori e ciò – considerando l’alto tasso di astensionismo – significa che il 10/15 per cento dei cittadini italiani vanno a costituire una maggioranza assoluta. Ribadisco, siamo alla distruzione della democrazia.

Ma la Costituzione si può modificare ed è migliorabile oppure dovrà rimanere così vita natural durante?

La nostra Carta è ottima e ha bisogno soltanto di piccoli ritocchi. Qui si fa una modifica che trasforma la forma di governo: passiamo da una democrazia parlamentare a un governo presidenziale. Sul piano giuridico è un grave errore perché oligarchia e democrazia sono forme di Stato diverse.

Scusi, governo presidenziale non è ben diverso dal dire oligarchia? Pensiamo agli Usa o la Francia, sono democrazie funzionanti…

Il problema è stabilire sempre il contrappeso al potere: negli Usa c’è il bilanciamento col Congresso se noi invece il Parlamento lo riduciamo ad un Senato di nominati ed esautorato di potere e ad una Camera che rappresenta una maggioranza del 10 per cento degli italiani, mi spiega dove sono i contrappesi?

Se vince il NO la situazione rimarrà così per anni, lo sa?

Non è vero, se vince il NO si mette in moto finalmente una forma di partecipazione popolare perché la gente sta capendo il quadro politico: siamo succubi di finanza, banche e multinazionali. E anche della Germania. Si capirà che l’Italia deve cambiare politica e riappropriarsi di se stessa. Noi stiamo svendendo il nostro territorio e la sovranità. Gli ultimi governi, dal 2011 in poi – i cosiddetti governi presidenziali – hanno perseguito le medesime politiche: al proprio interno il dominio dell’esecutivo e all’esterno l’assoggettamento ai diktat di Bce e Troika. Rischiamo di diventare come gli ebrei sotto la schiavitù di Babilonia.

La battaglia per la difesa della Costituzione si intreccia con l’Europa dell’austerity e per un ritorno alla sovranità popolare, sta dicendo questo?

Questa riforma, come tutte le leggi di Renzi, come il TTIP, come il CETA, e come molti regolamenti e direttive europee sono tutte a favore della finanza e contro gli interessi del popolo. E’ un passaggio di una storia che inizia negli anni ’80, si vuole capovolgere l’ordine sociale italiano. Non conta il valore della dignità umana, l’uomo diventa merce. Pensiamo allo Sblocca Italia: a favore della finanza, distrugge l’ambiente e regala i nostri territori ai profitti delle lobby.

Insomma, professor Maddalena, crede veramente che le Istituzioni europee, la Bce e le agenzie di rating abbiano fatto pressioni al governo Renzi per varare la riforma costituzionale?

JP Morgan l’ha chiesto esplicitamente con un documento del 2013, di 16 pagine: i governi del Sud Europa sono troppo antifascisti e democratici e vanno cambiati a vantaggio di un esecutivo forte col quale i mercati possono dialogare. Il Mercato è formato da un denaro fittizio – creato ad hoc da politici servitori – che ammonta a 1,2 quadrilioni di dollari, 20 volte il Pil di tutti gli Stati del mondo. Il processo di una finanza sana che passa per il percorso finanza-prodotto-occupazione-profitto-finanza, è sostituito da finanza-finanza. Qual è l’obiettivo finale?

Qual è?

Appropriarsi dei beni esistenti, soprattutto dei Paesi più deboli e periferici. E noi, ogni giorno, stiamo svendendo pezzi importanti del nostro territorio oltre a privatizzare beni comuni e diritti basilari. Ci impoveriamo. L’articolo I della nostra Costituzione dice che siamo una “Repubblica democratica fondata sul lavoro”, tra i recenti dati su disoccupazione e precarietà, possiamo affermare che stiamo spogliando il lavoro dalla sua funzione e sostituendolo col massimo profitto. E’ immorale e contro l’etica repubblicana.

Per difendere la nostra Costituzione bisogna rompere con l’Europa?

La tematica è controversa. Noi dobbiamo accettare la sfida europea ma non a prezzo della nostra miseria perché gli attuali manovratori di Bruxelles stanno privilegiando la Germania. L’Europa, a trazione tedesca, viaggia a due velocità: o si contrastano le disuguaglianze e si costruisce un’Europa più equa o andremo verso la nostra fine.

(17 ottobre 2016, fonte)

Siria, ad Aleppo crollano gli ospedali

Violenti bombardamenti hanno colpito due ospedali nella giornata di sabato ad Aleppo, in Siria. Oltre cento i morti tra i civili, compresi 17 bambini.
Due ospedali della città di Aleppo, in Siria – uno dei quali specializzato in medicina pediatrica – sono stati bombardati nella giornata di sabato dalle forze filo-governative di Bashar al-Assad. Secondo l’Osservatorio siriano per i Diritti dell’uomo i raid hanno provocato la morte di almeno 107 civili, compresi 17 bambini. Le strutture colpite sono state distrutte: “Non ci sono più ospedali in piedi” nei quartieri controllati dai ribelli, ha dichiarato al settimanale francese l’Express Joël Weiler, dirigente della Ong Médicins du Monde. Un’informazione confermata anche dall’Organizzazione mondiale della sanità.

“A partire dal mese di gennaio – ha aggiunto l’attivista – abbiamo contato 126 attacchi contro strutture ospedaliere, nonostante la Convenzione di Ginevra protegga i combattenti feriti. Non abbiamo più personale, né materiali. Le ultime razioni alimentari sono state distribuite giovedì: la volontà è ormai di affamare la gente. Sono mesi che denunciamo questo scandalo, non so più quali parole utilizzare per definirlo”.

Dal punto di vista umanitario, infatti, Aleppo è ormai sull’orlo del baratro: “Entro Natale, in ragione dell’intensificazione delle operazioni militari, potremmo assistere alla fuga verso la Turchia di 200mila persone, il che rappresenterebbe una catastrofe”, ha dichiarato l’emissario Onu per la Siria, Staffan de Mistura.

Le stesse Nazioni Unite hanno inoltre ricordato di aver “condiviso con tutte le parti in conflitto e con tutti gli stati coinvolti un piano umanitario dettagliato per fornire aiuto agli abitanti di Aleppo-Est, necessario anche per evacuare i malati e i feriti. Occorre che questo piano sia adottato e che ci venga garantito un accesso immediato e sicuro all’area in questione”.

È stata anche avanzata l’ipotesi di instaurare un’amministrazione autonoma da parte degli insorti a Aleppo-Est. Idea che però è stata immediatamente rispedita al mittente dal ministro degli Affari esteri siriano, Walid Mouallem: “Quale governo al mondo – ha dichiarato – accetterebbe una soluzione del genere?”.

La strada per un mondo migliore passa attraverso le scelte individuali. L’era delle guerre del petrolio, dei morti per carbone, dei disastri petroliferi, è al tramonto. Utilizza anche tu energia rinnovabile per la tua casa, grazie a LifeGate, e risparmia attivandola da solo online, clicca qui.

(fonte)

Il Financial Times ha detto che con il no l’Italia esce dall’euro? Falso.

Lo spiega perfettamente Carlo Maria Mele qui:

«A leggere i titoli, Münchau, accodandosi a quanti rappresentano scenari drammatici in caso di bocciatura della riforma costituzionale voluta dal governo Renzi, metterebbe in guardia dai rischi di una vittoria del No, affermando che in quel caso l’Italia si ritroverebbe nel caos più totale, e addirittura fuori dalla moneta unica.

Il Financial Times: “Se vince il no l’Italia fuori dall’euro” [Stampa]
Italia fuori dall’Euro se vince il No” [Repubblica]
FT: Con vittoria del No in dubbio l’Italia nell’Euro [Il Messaggero]
Munchau: Con vittoria del No possibile uscita dell’Italia dall’Euro [Sole 24 ore]

Eppure a leggere l’articolo originale, quello del Financial Times, il quadro cambia.
Scrive Münchau che a una bocciatura della riforma potrebbe far seguito “una sequenza di eventi tali da sollevare dubbi sulla partecipazione dell’Italia all’Euro Zona”, ma precisa subito che “le cause sottostanti a questa possibilità estremamente allarmante non hanno niente a che fare con il referendum in sé”. La causa più importante sarebbe invece l’andamento (deludente a dir poco) dell’economia italiana da quando il paese ha adottato l’euro, nel 1999.
Seguono altre motivazioni della crisi in atto e dei suoi possibili sviluppi a breve termine, tra cui l’incapacità della Ue di costruire una vera Unione economica e bancaria dopo la crisi del 2009, scegliendo invece per l’imposizione dell’austerità.»