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Sono risalito subito a cavallo

BRF4iu5CIAEqXtkCome quel proverbio che si ripete dopo la caduta. E allora ieri sera sono risalito immediatamente sul meraviglioso palco del Festival dei Tacchi degli amici di Cada Die Teatro. E mi ci sono sentito benissimo perché è la mia casa, il posto dove voglio stare, la parola in cui mi riconosco e mentre ascoltavo il religioso silenzio del pubblico che sorrideva delle bassezze, delle brutture e degli ebetismi di questa mafia che sarebbe così patetica se fosse isolata mi sono sentito bene.

Non mi lascio schiacciare dal fastidio, non accetto di imbruttirmi in questa cattiveria che mi continua a bussare offrendosi di difendermi.

(la foto è di Michela Murgia)

‘Ecco come mi uccideranno’: il mio pezzo per L’Espresso

da L’ESPRESSO

All’inizio arriva lo straniamento. E’ questione di qualche secondo. Sentirsi estraneo al resto del mondo, apolide, anaffettivo per difesa, come per ingoiare tutto senza lasciare briciole che possano ferire quelli che ti stanno vicino. Poi aspetti che si posi la povere. E arriva tutto il resto: cerchi che si chiudono, densi come lava.

Sono anni che so che qualcuno mi vuole male, anzi, sono anni che so bene che qualcuno mi vedrebbe volentieri morto. Lo so io, lo sanno quelli che mi accompagnano con la pistola in tasca e non avrebbero mai pensato di farlo in un impolverato camerino teatrale e lo sanno quelli che ci vivono, bene o male, con me.

Ma le parole del pentito Bonaventura hanno uno scatto in più: scrivono la sceneggiatura di ciò che sospettavi, fissano i luoghi, i dialoghi, i tempi e i modi; come se da anni sapessi di fare parte dello spettacolo, e in ritardo solo ieri mi è arrivato il copione e la sceneggiatura non mi piace per niente.

Delegittimato prima che ucciso: questo è il comandamento laico che dovremmo tenere a mente. Totò Riina ai suoi diceva che “quello lì deve finire mascariato” quando si doveva togliere di mezzo un nemico scomodo.

Mascariato, delegittimato, isolato, sospettato per essere lasciato senza le difese delle relazioni oltre che delle scorte, è il metodo che in questa italietta sempre più prepotente si usa nell’antimafia ma anche nel lavoro, nella politica e nelle relazioni sociali.

Un’esibizione di prepotenza scambiata per potere che funziona grazie al mito della durezza e alle convergenze inconsapevoli degli utili idioti: così diventa facile essere intolleranti con le fragilità e al servizio del signorotto di turno.

Non mi sembra solo questione di mafia, qua, no, per niente: è il federalismo delle responsabilità che ha voluto insegnarci che la solidarietà è un vezzo troppo democratico che non possiamo permetterci per non mettere in pericolo le nostre posizioni di rendita e il futuro dei nostri figli.

Dietro la delegittimazione che avrebbe dovuto ammazzarmi prima di ammazzarmi c’è un vizio sociale, mica solo mafioso, e per questo alle mafie funziona perfettamente. L’ho vissuta in tutti questi miei ultimi anni, la delegittimazione, ogni mattina, che ti arriva insieme alla colazione, nel ruolo del minacciato: esposto al cannibalismo perché dovrebbe fare parte dei giochi, mi dicono.

Ma forse varrebbe la pena, forse, al di là del film che in questi giorni mi hanno cucito addosso, riflettere sul metodo che prende piede solo perché intanto stiamo perdendo la capacità della critica, di costruire una chiave di lettura collettiva, di darci da fare per un’alfabetizzazione sociale sulle mafie che non stanno più al sud o lì dove ce le hanno sempre raccontate e non hanno i capi che ci propinano in tivvù ma sono nello scontrino del nostro caffè al bar sotto casa che continua a cambiare gestione, sono nella verdura degli ipermercati così vicini che non hanno abbastanza clienti eppure stanno in piedi lo stesso, stanno nel miracolo dei rifiuti che hanno trasformato la merda in oro e sono il banchetto più ricercato, stanno nelle case incessantemente costruite e desolatamente invendute che trasformano le periferie in cimiteri senza elefanti, stanno in un mercato in cui qualcuno vince sempre perché non ha bisogno di guadagnare soldi ma spenderne per ripulirli.

E così intanto a perdere sono il talento, lo studio, la meritocrazia e tutte quelle altre cose che giocano con le regole che non reggono più.

Poi c’è l’omicidio travestito da incidente. E anche a questo siamo abituati, no? Al Paese dei morti che sono stati suicidati e subito alla svelta tutti a chiudere il caso: come si impacchettano le verità qui da noi, nemmeno al ristorante con il pesce. L’omicidio è una conferma. Conferma dolorosa, sì, ma stava nell’aria.

Dicono i De Stefano, i Papalia e i Tegano che sono uno “scassaminchia”, pensa, succede che basti raccontare per scassare la minchia, così poco, sono talmente smutandati senza il loro solito silenzio tutto intorno per favorirne l’immersione che una parola dietro un sipario li rende subito stupidi e nervosi.

Uno scassaminchia, sarebbe da scrivere sulla carta d’identità come professione. Professione nel senso più antico e decoroso: prefessare ideali nel proprio lavoro e nella propria cittadinanza, lì nei doveri dove su certi temi non esistono contratti a progetto o precariato, anche se l’hanno capito ancora in troppo pochi.

Ti vogliono ammazzare, Giulio. Mi arrivano i messaggi e la solidarietà. Le preoccupazioni, i rodimenti e gli auguri (che non si dovrebbero fare ad un attore). Hai paura? No, non rispondo, gli arlecchini non devono mai prendersi troppo sul serio. Mi investiranno? Impossibile: tutta questa gente intorno è la mia isola pedonale. Mi screditeranno? Possibile, ci divertiremo un sacco a sgretolare tutto questo onore che è solo una metastasi della paura.

E quindi? Quindi c’è un articolo della Costituzione (messa così male, ultimamente) che è l’articolo 4 e dice: Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Insomma non essere scassaminchia è anticostituzionale, eh.

Il federalismo delle responsabilità

Ho parlato forse anche troppo spesso del federalismo, del federalismo della responsabilità che morde questo tempo e credo che lo farò ancora a lungo; questo stato sociale e culturale che vorrebbe essere una comunità ma non ne ha più gli strumenti mi spaventa più della voce alta di qualche prepotente. Credo (e anche questo l’ho ripetuto allo sfinimento) che soprattutto il nord abbia colpe gravissime nello sgretolamento di una solidarietà etica e buona che è stata vista per anni come una debolezza insopportabile. Un Paese disunito difficilmente supera un collasso se non riesce a costruire collettività. E per costruire una collettività bisognerebbe individuare i bisogni comuni. E per trovare bisogni comuni bisognerebbe coltivare una capacità di critica accessibile a tutti. Quindi uguaglianza direi.

Insomma il tema sembra sofisticato ma doveroso, penso. Ne parla Vittorio Andreoli intervistato su HP:

“L’individualismo spietato. E badi che ci tengo a questo aggettivo. Perché un certo individualismo è normale, uno deve avere la sua identità a cui si attacca la stima. Ma quando diventa spietato…”.

Cattivo.
“Sì, ma spietato è ancora di più. Immagini dieci persone su una scialuppa, col mare agitato e il rischio di andare sotto. Ecco, invece di dire “cosa possiamo fare insieme noi dieci per salvarci?”, scatta l’io. Io faccio così, io posso nuotare, io me la cavo in questo modo… individualismo spietato, che al massimo si estende a un piccolissimo clan. Magari alla ragazza che sta insieme a te sulla scialuppa. All’amante più che alla moglie, forse a un amico. Quindi, quando parliamo di gruppo, in realtà parliamo di individualismo allargato”.

E’ interessante provare a ripartire da qui.

Una barba così

Vincenzo-AgostinoÈ stata la società civile a darci sempre la forza di andare avanti dopo la morte di Nino, di continuare a lottare. Ci sono state anche persone che mi hanno detto: “ma chi te lo fa fare?”. Come, chi te lo fa fare? Io spero sempre che la luce che vedo in fondo al tunnel che sto percorrendo diventi un giorno un grande faro, che illumini tutti i misteri rimasti e dia finalmente risposta ai tanti perché che ci sono dietro all’uccisione di Nino e Ida: per arrivare a questo non mi piegherò davanti a nessuno.

Voglio invecchiare con l’ostinazione e la voglia di verità di Vincenzo Agostino, il padre di Nino Agostino (ne abbiamo scritto qui e qui) che ha deciso di cercare una verità lunga come la sua barba che non vuole tagliare fino al giorno in cui riceverà risposte alle sue domande. La sua intervista è un distillato di umanità e dignità. Umano e dignitoso. Mi auguro di invecchiare così.

 

Cervelli in fuga

Che rientrano, per fortuna. La fine della latitanza di Francesco Corallo è un tassello che irrompe in vicende che sono tutte politiche. Come scrive Il Fatto Quotidiano:

Nell’indagine sulla Bplus, durante una perquisizione svolta a Roma dalla Guardia di finanza nel novembre 2011, un computer venne sottratto dal parlamentare Pdl Amedeo Laboccetta che, evocando l’immunità parlamentare, si era presentato negli uffici di piazza di Spagna proprio in soccorso dell’amico Corallo. Il titolare della Atlantis, infatti, per evitare la perquisizione dei finanzieri, aveva sostenuto di essere ambasciatore Fao di un paese dei Caraibi. Mentre gli inquirenti verificavano al ministero degli Esteri se la versione di Corallo fosse vera, nei locali di piazza di Spagna erano intervenuti ben quattro avvocati, tra cui anche l’allora deputata di Fli Giulia Bongiorno. A un certo punto si era presentato anche il deputato Pdl Amedeo Laboccetta, che dopo essersi qualificato, aveva rivendicato la proprietà del computer presente negli uffici portandoselo via. Un gesto che gli costerà un’accusa di favoreggiamento anche a seguito delle numerose contraddizioni emerse tra lo stesso Laboccetta e Corallo che aveva rivendicato il possesso del pc da parte di una sudamericana presente nella casa/ufficio di piazza di Spagna al momento della perquisizione.

Nei documenti sequestrati dalla Gdf, si trovarono anche tracce di un conto off shore intestato aJames Walfenzao, lo stesso fiduciario della società Printemps che acquistò la casa di Montecarlo in cui viveva Giancarlo Tulliani, cognato di Gianfranco Fini.

Sta rientrando anche Aldo Miccichè. Ne parlavamo già ai tempi di A 100 PASSI DAL DUOMO (tu pensa, veggenti?) quando ancora se ne scriveva pochissimo (Gianni Barbacetto e pochi altri). Ora il Tribunale supremo di Caracas ha dato via libera all’estradizione in Italia ”per il delitto di associazione mafiosa” del faccendiere calabrese. A Caracas, Micciché è agli arresti domiciliari e – precisa la Corte – ”vi rimarrà fino al momento della consegna alle autorità italiane”. Il Tribunale ha tra l’altro ritenuto di non applicare la normativa che blocca le estradizioni nel caso in cui la condanna della persona accusata prescrive sulla base della legge dello Stato richiedente o concedente. In questo caso – precisa la Corte – la prescrizione non è infatti avvalorata da alcun elemento. L’estradizione non può essere concessa neppure per quei delitti per i quali gli Stati richiedenti prevedono la pena di morte o l’ergastolo. E, puntualizza ancora la sentenza, ”la privazione della libertà è prevista per un periodo non superiore ai 30 anni”.

Nel Paese dei cervelli in fuga rientrano (si spera) due criminali che sono l’immagine perfetta degli uomini “cerniera” tra mafie, politica e imprenditoria. Chissà che non sia l’occasione buona per conoscerli, studiarli e non temerli.

#untweetpergiulio Grazie

Sono giorni piuttosto intensi per quello che succede, per quello che si scrive e per quello che si legge. Ora voglio ringraziarvi. Ma tutti. Con le braccia così aperte che non basterebbe nemmeno un palco a contenerle. E senza cadere nella malattia di puntualizzare e recriminare. Lo farò rispondendo a tutti. Uno per uno. L’importante ora è che si garantisca sicurezza a me e al collaboratore Luigi Bonaventura (che è la chiave di questa storia), poi aspettare i riscontri e magari riuscire a fare qualche passo decisivo sulle responsabilità. Perché lo sappiamo da tempo che qualcuno mi vuole male ma ora siamo vicini a capire “come”.

Voglio ringraziare quelli che sono scesi per strada con me e per me in tutti questi anni, quelli che lo stanno facendo oggi, il web che mi permette di sentirvi così vicini e voglio ringraziare quelli che vicini ora mi sono anche fisicamente e che stanno sopportando tutto questo e me in tutto questo (che già sono brontolone di natura e figuratevi in questi giorni). Voglio ringraziare gli amici che hanno corso per portarmi un bicchiere di vino senza nemmeno bisogno di parlarci e voglio ringraziare Miriana che mi ama fortificandomi e aiutandomi a non prendermi mai troppo sul serio.

Ora ci si mette al lavoro. Aspettiamo di sapere la reazione delle istituzioni. Si continua a raccontare come possiamo. Cerchiamo di unire i puntini. Ostinatamente. Come gli scassaminchia, eh.

‘Ndrangheta, Ingroia: “Per il pentito Bonaventura sia mantenuto un alto livello di protezione”

Giulio Cavalli sempre più nel mirino della ndrangheta. Lo ha rivelato, in una intervista esclusiva con Fanpage.it, il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura. E l’ex magistrato Antonio Ingroia commenta:
“Le organizzazioni mafiose hanno la memoria lunga, spesso è lo stato che ha la memoria corta. Bisogna tenere sempre la guardia molto alta, gli uomini esposti sono tanti, non solo nella magistratura ma anche nel mondo dell’informazione, della cultura e della politica. In una situazione del genere il pericolo si diffonde, si guarda anche chi denuncia e bisogna tenere in considerazione altri pericoli. Non sono a conoscenza delle modalità di protezione di Bonaventura, certo tocca alle autorità preposte farlo ed è bene che sia tenuto una alto livello di protezione”

Minacce ‘ndrangheta, Sonia Alfano: “Pericolo imminente, più protezione per Cavalli e Bonaventura”

La ‘ndrangheta voleva uccidere Giulio Cavalli, E’ quanto testimonia in esclusiva a Fanpage Luigi Bonaventura, pentito della cosca Vrenna-Bonaventura. Per l’europarlamentare Sonia Alfano il pericolo c’è ed è imminente: “Mi auguro che venga immediatamente verificato dalle autorità competenti quanto dichiarato da Bonaventura, e se corrisponde al vero innalzare il livello di protezione nei confronti di Giulio Cavalli, per il pericolo imminente per la vita di Giulio e per la vita della sua famiglia. Alla luce della spending review sarebbe opportuno tagliare la scorta a politici e giornalisti e altre personalità che godono di tutele sembra più per accompagnamento che
per motivi di sicurezza e darla o innalzarla, nel caso di Cavalli, a persone che rischiano. Le autorità competenti devono verificare immediatamente e agire anche nei confronti di Bonaventura”.