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Tenere il punto. Fermo.

Per ottenere questo, oltre tutto, la strada è assai semplice: basta che ognuno faccia la sua parte, nella distribuzione dei ruoli che l’assetto istituzionale prevede: assicurare la decadenza; sanzionare la ineleggibilità; nessuna grazia a posteriori, neanche di tipo semplicemente risarcitorio o consolatorio; garantire l’esecuzione della pena nelle forme previste dalla legge. E, per favore, ci sia risparmiata almeno questa volta la farsa penosa di un ricorso dilatorio (infondato e inutile) alla Consulta, che svelerebbe, forse ancor più drasticamente di quanto non farebbe una qualche forma di “assoluzione”, di quale pasta sia fatto il cosiddetto tessuto politico italiano.

Dopo aver detto “sì” per vent’anni o, ancor più frequentemente, “nì”, – vero simbolo del malcostume nazionale, – si decida per favore di dire con chiarezza “no”: non si può discutere; non si può accettare; non si può fare. L'”agibilità politica” è una nozione che lo Stato di diritto ignora. Infatti: o c’è, perché le condizioni, giuridiche e politiche dell’interessato, la consentono; o, se le condizioni, giuridiche e politiche dell’interessato, non la consentono, non c’è. Non può essere reinventata a posteriori, sulla base del principio, in ogni caso molto dubbio, che il consenso popolare sottrae al controllo e ai rigori della legge.

Un’Italia in risalita, non solo nei mercati e nello spread, ma come tono pubblico generale, civiltà del confronto, libertà del pensiero e, se mi è consentita la parola forte, dignità nazionale (troppe volte evocata solo per lasciarla trascinare nel fango), può partire solo dal punto fermo che ipotizziamo. L’occasione ce l’ha offerta anche questa volta la magistratura; ma spetta ai politici e alle istituzioni di portarla rapidamente fino in fondo.

Non sarà facile, anche restando dentro i limiti rigorosamente fissati dalla “semplice” applicazione delle leggi (come io ipotizzo). Siccome la battaglia è decisiva, – e questo lo sa bene anche il principale protagonista della faccenda, – tutti i mezzi verranno usati, dal rovesciamento dell’attuale governo (esempio supremo di confusione delle sfere) a intraprese anche più dure. Sotto la scorza mediatico-plutocratica emergerà più chiaramente in questa fase finale il caudillo potenzialmente eversore. Verrà evocata senza mezzi termini la guerra civile; ne saranno messe in opera concretamente le premesse, magari attraverso l’alleanza con altre forse eversive incistate ormai da anni nel degradato sistema italiano.

Per fare fronte allo scarto d’irrazionale che s’introduce qualche volta e poi permane a tratti nella storia, l’esperienza insegna che l’unico strumento adatto alla bisogna, – si pensi al Novecento, – è l’assoluta fermezza: l’eloquente dimostrazione, fin dal primo momento, fin dalle prime battute, che l’eversione, il rovesciamento delle parti, lo stupido arrangiamento, il compromesso che posticipa al passaggio successivo l’inevitabile catastrofe, non hanno neanche una minima possibilità di fare il primo passo avanti.

Asor Rosa, qui.

Non voglio imparare ad avere paura

Oggi a Roma c’era il caldo torrido. Il caldo torrido che entra di gran lena nella scena delle parole precostituite come fioreamore o pioggiatorrenziale o macabrascoperta. In realtà forse non era nemmeno torrido ma sono piuttosto abbastanza torrido io ogni volta che tiro la testa fuori dalla porta di casa con tutte queste notizie di morti ammazzati che mi dovrebbero ammazzare e alla fine non riesco nemmeno a farci il callo. Sarò pavido, o forse, semplicemente fatico a diventare abitudinario.

Ho percorso qualche metro, lo ammetto, qualche metro, dal confine della proprietà privata di me stesso e quel limite da cui poi devo consegnarmi alla protezione del mio stato. Roba da film russo, se ci pensate, scritto così. Ma a viverla non ha il sapore dello spionaggio, no, quanto piuttosto il peso dell’obbligo della lista della spesa: mi sento come uno di quei pensionati che ogni mercoledì esce con il foglietto scritto dalla moglie e non può fallire nemmeno un prodotto per sopravvivere, solo che c’è la mia vita, in fondo, nella mia lista della spesa, eh.

Ora vi racconto quanto gli spaventati cronici vedono l’epica nelle cose inutili. Almeno per togliersi di dosso il mito, che proprio mi è insopportabile per anarchia naturale, il mito. Oggi esco dal recinto naturale non bonificato e noto un’auto che avevo notato ieri, l’altro ieri, l’altro altro ieri e l’altro l’altro l’altro ieri: notare le auto parcheggiate fuori casa è una malattia. Una mania. Una stortura da perditempo con tanto tempo a disposizione per coltivare le storture. Lo scrivo senza poesia: avere paura ti trasforma in un maniaco dei particolari, in un ossessionato guardaspalle di te stesso e in un sospettoso cronico.

Rischio tutti i giorni di diventare una persona peggiore. Mi salvano i miei figli, i miei amori e l’obbligo di concimare l’orto dei miei sorrisi. Io non voglio imparare ad avere paura, non voglio convincermi che sia una convivenza forzata nella gioia e nel dolore, no. Non voglio nemmeno spendere centimetri di occhi per memorizzare i colori del parcheggio sotto casa. Voglio sorridere come questa sera in cui mi ripenso a centellinare le targhe come i brontoloni, quelli tutto il pomeriggio appesi alle reti dei cantieri. Sono vivo, smutandando il mito gonfiabile con incollata la mia faccia.

Se cominciassimo a proteggere chi protegge le donne?

Il Governo nel 2009 ha tagliato loro i fondi destinati per tutelare e assistere le donne vittime di violenza. Il nostro paese sta attraversando un periodo storico in cui la violenza sulle donne sta aumentando in modo vertiginoso.

Quest’anno hanno subito danni da vandalismo due centri antiviolenza e un giardino dedicato alle vittime di violenza.

A Firenze il Centro Artemisa ha subito un incendio al portone d’ingresso. Non sono state fiamme a sorpresa: molte operatrici avevano già denunciato minacce da mariti ed ex compagni delle donne protette.

Ad Olbia, poco fa, il Centro Prospettiva Donna ha avuto il gentile dono di un piede di porco che cercava di aprire l’ingresso per accedere all’archivio.

Che dignità di protezione alle donne possiamo avere se non riusciamo a difendere chi le difende?

Ecco sì, ci siamo capiti

Malvino oggi lo scrive come non si potrebbe scrivere meglio:

Le sentenze vanno rispettate, sempre, anche quando sono considerate ingiuste, perciò, da quando la Corte di Cassazione ha stabilito che l’espressione «paese di merda» configura il reato di vilipendio alla nazione, io mi limito a pensarlo, e, anche se ritengo che non ci sia definizione più efficace per esprimere il degrado morale, culturale e politico in cui versa l’Italia, la evito, e mai – mai, ripeto – verrei qui a scrivere che «questo è un paese di merda»: mi costa enorme sacrifizio, ma la legge è legge, e dinanzi ad essa mi inchino. Tuttavia, anche se vanno rispettate, le sentenze possono essere criticate, ed io qui potrei avvalermi di tale diritto, spiegando perché, a mio modesto avviso, «paese di merda» sia definizione che all’Italia va proprio a pennello, chiamando illustri autori in favore della mia tesi, vuoi sulla forma, vuoi sulla sostanza, e però ci rinuncio, anche perché al post dovrei dare necessariamente un titolo che contenga l’espressione, e questo potrebbe dare l’impressione, almeno al lettore malizioso, che, per capzioso aggiramento, io voglia violare la legge sopravanzando il legittimo diritto. Perciò mi risolvo a titolare: Ci siamo capiti.

Il resto (da leggere) è qui.

Pentiti di pentirsi

Se anche Carmine Schiavone dichiara che non si pentirebbe più forse sarebbe davvero il caso di porsi una domanda. Porsi domande richiede esercizio: bisogna smettere di credere di avere sempre la risposta giusta, bisogna lasciare perdere chi propina la risposta unica e bisogna non dipendere da una risposta in particolare.

Parliamo di Falcone, di Borsellino, ci commuoviamo in comunione legalitaria davanti al film su Peppino Impastato, amiamo gli antimafiosi, tutti, anche quelli con passati mafiosi e presenti paramafiosi (come Massimo Ciancimino), ci terrorizziamo per i delitti, commemoriamo gli ammazzati (dimenticando gli assassini perché si, va beh, quelli sono particolari da studiosi, probabilmente, ci convinciamo, come un condono), resistiamo alle sfilate, leggiamo i libri meglio se minacciati (almeno la quarta di copertina e la prefazione per avere un’infarinatura generale come per un’interrogazione di mafiosità), siamo solidali con tutti, e intanto non notiamo le pericolose sfumature nel mezzo.

Le sfumature nel mezzo sono le zone di pascolo di mafie e antimafie: il recinto in cui guardare. Nelle sfumature di mezzo ci stanno i testimoni di giustizia che rimangono parcheggiati nel limbo oppure i pentiti che si pentono di essersi pentiti, come appunto Carmine Schiavone ma anche molti altri.

I pentiti e i testimoni di giustizia sono roba che scotta. Dentro (sarebbe il caso di dirselo, una volte per tutte) ci sono millantatori, falsi pentiti ancora al soldo delle cosche (ne avevamo parlato in questa puntata di Radio Mafiopoli e in questa, eh), e separare il grano buono dal cattivo non è cosa banale. Eppure noi siamo lo Stato che per primo ha colto l’importanza della protezione di chi si pente e chi denuncia proprio dai tempi di Falcone e Borsellino e non è difficile capire il peso del messaggio che passa con l’adeguata vicinanza a chi trova la forza di denunciare.

Qualcuno storcerà il naso a leggermi, oggi, perché i testimoni di giustizia (coloro che denunciano un reato a cui hanno assistito e di cui sono stati vittime) sono diversi dai collaboratori (coloro che hanno commesso un reato e se ne pentono) per spessore morale della loro vita precedente. Certo, va bene. Ma il punto che interessa è un altro: la protezione. Dice il dizionario:

Opera protettrice e di assistenza nei confronti di chi è in condizione di inferiorità, di debolezza o di ciò che è minacciato nella propria integrità.

Ma non siamo un paese per deboli, noi. No. Di questi tempi.

In Siria i bambini dormono a lungo

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Non stanno dormendo come dormono i bambini. No. Questi sono morti e succede in Siria, che non è nemmeno così lontana a puntarla con il dito sul mappamondo o su una cartina geografica. “Centinaia di morti e di feriti, tra cui donne e bambini, sono il risultato del barbaro uso di gas letali da parte del regime di Assad nell’area del Ghouta, a est di Damasco“, denunciano i Comitati locali di coordinamento siriani. Assad si difende dicendo che sono solo invenzioni e forzature dei ribelli mentre il suo amico Putin dichiara di avere dei dubbi. Putin. Dei dubbi. La comunità internazionale intanto ha avviato un’indagine per toccare con mano la situazione: se veramente si tratta di un attacco con gas nervino sarebbe il massacro più grave degli ultimi 25 anni. Venticinque, anni. Non dormono i bambini in Siria come dormono i bambini a ferragosto, qui. Dormono più a lungo e più lunghi stesi per terra come sanno stare stesi in poco spazio solo i bambini, in tutte le parti del mondo. Ma la narrazione della guerra civile (che sia Siria o Egitto o comunque qualsiasi Paese che richieda un’infarinatura di storia e politica di quelle parti) è fastidiosa e riservata solo ai “saccenti”. Non è una vicenda da srotolare tranquillamente sulla spiaggia o durante l’aperitivo: chissà perché da quelle parti del mondo i bambini morti puzzano meno dei nostri. E nemmeno i protocattolici tutti impegnati nella legge anti-anti-omofobia riescono ad intenerirsi.

Questo silenzio mi allontana dalla politica che vorrei più dello stipendio del parrucchiere del Senato. Sono strano, si vede, io.

Mafia capoccia: a Roma le cosche pascolano

ostiaPartendo dagli stabilimenti balneari di Ostia, annichilita da più di 100 arresti e dall’emersione di intrecci e alleanze mafiose, la penetrazione delle mafie a Roma grazie a decenni di silenzio

Di Pietro Orsatti e Silvia Cerami

Anticipazione del servizio in uscita sul prossimo numero de I Siciliani giovani e pubblicato in contemporanea da AntimafiaDuemila e sul blog di Pietro Orsatti.

I marmi dell’Eur, la tenuta del Presidente della Repubblica, i dormitori costruiti dai palazzinari, pochi chilometri e il mare di Ostia, il lido di Roma. Il Kursaal de I Vitelloni e il Plinius sono mezzi vuoti, i proprietari degli stabilimenti balneari non festeggiano. Pochi passi per attraversare il canale dei Pescatori e via verso il salotto buono. A segnarlo villa Papagni affacciata sul Tirreno, con i suoi putti e stucchi pacchiani, che un imprenditore e qualche suo amico amministratore sognavano di trasformare in casinò. E alle spalle Ostia che non vuol più essere borgatara, con i wine bar dell’happy hour, le vetrine griffate e persino l’area pedonale. Qui si fa lo “struscio” tutto l’anno, ma oggi no. Anche se si è in piena stagione. Nessuno si fa vedere, nessuno ha voglia di parlare. Come se fosse un set abbandonato, dove resta solo l’attesa, la tensione.

Due operazioni a meno di quindici giorni di distanza l’una dall’altra hanno portato ad un centinaio di arresti. Colpito il clan degli “zingari” vicino ai Casamonica, che dalla periferia est della Capitale sono scesi a prendersi Ostia, pezzi della vecchia Banda della Magliana, ex Nar riciclati nella criminalità organizzata, addirittura uomini di spicco della famiglia di Cosa nostra dei Caruana-Cutrera. Famiglie a cui da vent’anni non si può dire di no, gli Spada, i Fasciani, i Triassi. Una triade che ha creato una “pace armata” per spartirsi gli affari. E poi le ispezioni all’ufficio tecnico del Municipio, affacciato proprio sulla spiaggia dei Triassi, gli indagati, i vertici sospesi per appalti e concessioni a favore dei clan. E quella parola, Mafia, che a Roma si ha da sempre difficoltà a pronunciare. Invece ora si sussurra, gira fra i tavolini dei bar, negli sguardi delle persone.

La guerra che nessuno voleva vedere

«Dallo scorso anno era evidente che si era alzato il livello, che c’era chi puntava più in alto e gli equilibri rischiavano di saltare», racconta uno “sbirro” che da anni osserva l’evolversi della Roma criminale. Da quando, con due esecuzioni spietate, Francesco Antonini e Giovanni Galleoni sono stati ammazzati. Gli investigatori ritengono, oggi, proprio dagli Spada. Due quarantenni cresciuti all’ombra della Banda della Magliana, quella che si dava per estinta negli anni ’90 e che invece c’è ancora.

«Non era un regolamento di conti di poco peso, ma l’inizio della guerra». E la guerra non è solo a Ostia, ma sta insanguinando, da quasi tre anni, tutta la Capitale: da Tor Sapienza a Tor Bella Monaca, daBoccea alla Cassia e alla Flaminia, giù fino alla Laurentina e alla PontinaPiù di 60 morti in 30 mesi. A Ostia però gli equilibri, le alleanze e i confini, sono ravvicinati e visibili. Microcosmo dove è possibile tutto e tutto avviene davanti agli occhi di questa città nella città. «I fatti, meglio sarebbe dire i cadaveri che insanguinano la Capitale, danno ragione a chi sostiene l’esistenza in Roma di una criminalità organizzata operante secondo gli stilemi delle associazioni mafiose». Non l’hanno scritto oggi. Si leggeva già nel 1991 nel capitolo dedicato a Roma della relazione della commissione Antimafia presieduta da Gerardo Chiaromonte.

“Baficchio” e “Sorcanera”, come erano chiamati nel giro Antonini e Galleoni, sono morti a meno di un chilometro a ovest dalla Rotonda della dolce vita, nel territorio degli “zingari” di piazza Gasparri. Qui il sole brucia i cassonetti già anneriti dalle fiamme, tende enormi nascondono terrazzi scrostati dalla salsedine, tutte le saracinesche sono serrate. I bagnanti sono poco più in là, ma oggi le strade sono deserte. Un pit bull ringhia dietro gli ondulati, solo una vecchia vestita di nero si affaccia dalla porta sormontata da un capitello con aquila e leone di un negozio abusivo trasformato in abitazione. Meglio restare a casa, meglio nascondersi. Agli angoli delle strade solo le sentinelle: marsupio in vita e occhi attenti. Controllano chi entra e chi esce. Non per lo spaccio, non per due giornalisti, non per verificare l’arrivo delle Forze dell’Ordine, ma per il timore che, visto il numero e la qualità degli arresti delle ultime settimane, ai nemici venga la tentazione di pareggiare i conti. Qui a ‘Ostia Nuova’, nel quartiere degli Spada, si sorveglia per paura.

«È dagli anni ’80 che non si respirava un clima del genere sul litorale, ma nonostante i morti per strada, i negozi e i capanni incendiati, nessuno si è allarmato più di tanto. Fino a quando non sono scattati i blitz. Allora tutti a mostrare preoccupazione, non per il quartiere, ma per l’immagine di Ostia e per il quieto vivere». Non ha peli sulla lingua il cinquantenne nato e cresciuto a due passi dal mare, ma che vive da trent’anni metà della sua vita a Roma in un ministero. Trenino e metro, la mattina. Metro e trenino la sera. E poi via a passo spedito e testa bassa, fino al confine del Bronx attorno a piazza Gasparri, lì a due passi dal teatro di Affabulazione, uno dei primi luoghi occupati a Roma già negli anni ’70 e da sempre fortino nell’abbandono di Ostia Ponente. «Se ne sono accorti, finalmente. C’è la mafia. Ci sono i tossici e si spara, ma la mafia non è solo qui nel ghetto, non ha solo la faccia coatta. Gira con il vestito buono e fa affari con tutti».

Gli affari dietro gli ombrelloni

Scommesse clandestine, estorsioni, usura, ma non solo. A Ostia si fanno gli affari, quelli grossi. Basta guardare poco più in là. Dietro due palazzoni popolari appiccicati e la piscina abusiva pericolante, ecco l’hotel quattro stelle, il lungomare. Con il cartello “divieto di balneazione” e il bagnino pronto a sorridere ai bambini in acqua. Quattordici chilometri di concessioni e di stabilimenti in grado di fruttare 60 milioni di euro a stagione.

Pochi metri a destra il porto turistico di Roma. Quello che «porterà ricchezza». Oltre 900 posti barca, 2000 posti auto, possibilità d’attracco per mega yacht da settanta metri. Un centinaio di milioni di euro spesi. E poi bar, locali, negozi di lusso. Oggi i pochi che sono aperti vendono vestitini “made in China”, di barche non se ne vedono molte, ma si pensa ad ampliarlo lo stesso. Il raddoppio lo vogliono i balneari e gli imprenditori del cemento, anche se il porto è stato un fallimento e infatti è fallito con tanto di libri in tribunale. Storia storta fin dall’inizio. I calcinacci per costruirlo furono svelati da una mareggiata, stavano lì sotto la sabbia. Quanto al direttore, Mauro Balini, «sin dalle prime conversazioni registrate sulla sua utenza – scrive il Gip nell’ordinanza dell’operazione “Nuova Alba” che ha portato a più di 50 arresti il 26 luglio scorso e dove dopo anni si contesta per la prima volta il reato di associazione mafiosa – è stato possibile avere conferma dell’esistenza di un ambiente economico-finanziario inquietante, all’interno del quale agivano appartenenti alla criminalità organizzata interessati ai rilevanti movimenti di capitali e ai grossi investimenti che si stavano realizzando nel territorio di Ostia Lido».

Ed è lui si legge «a mantenere importanti rapporti con elevate personalità anche militari; è Balini a trattare con Cmc Ravenna; con Epd Limited London; con Italia Navigando, avvalendosi di significativi intermediari. Accedere a lui equivale ad accedere ai piani alti, e scalzare i suoi abituali collaboratori equivale ad inserirsi nel circuito degli affari presentabili».

È grande il mondo guardato attraverso la rete di affari del porto di Roma che emergono dall’inchiesta. La Cmc Ravenna, con partner e attività in mezzo mondo, è una coop che i occupa di edilizia, trasporti, logistica portuale, gestione dei rifiuti. Un colosso, come lo sono Epd London (azienda ad alta tecnologia inglese) e Italia Navigando, società del Gruppo Invitalia, l’Agenzia Nazionale per l’Attrazione degli Investimenti e lo Sviluppo d’Impresa, che si occupa di investimenti e promozione dei porti turistici nel nostro Paese.

Il porto, che è porta di accesso via mare a Roma e via privilegiata, e nascosta, per armi e droga. Il 30 per cento della coca passa da queste coste. Un affare da decine di milioni di euro al mese, cifre colossali, perché ogni carico che entra sulla piazza romana rende fino a quattrocento volte il prezzo pagato dagli importatori che lo fanno arrivare dalla Colombia, dalla Bolivia, dal Venezuela, dalle coste dell’Africa, passando per Gioia Tauro e il lido della Capitale.

Alle spalle l’Idroscalo con i cantieri super esclusivi, tra le carcasse d’auto e i divani abbandonati, nella terra di nessuno dove è stato massacrato Pier Paolo Pasolini. Il monumento per ricordarlo l’hanno dovuto chiudere dentro la riserva della Lipu, che troppe volte l’avevano distrutto.

Da sempre una zona che fa gola a tanti. Un’area tutta da rivoluzionare. Pontile, porto turistico, persino un lungomare artificiale da costruire. Erano i tempi entusiastici dell’ex sindaco Gianni Alemanno per il mega progetto “Waterfront”. Previsti investimenti faraonici, che il Lido è «un monte d’oro», spiegava l’allora presidente del Municipio, Giacomo Vizzani. Oggi al X Municipio si tagliano pure i fondi per gli insegnati di sostegno per il disavanzo lasciato dalla scorsa amministrazione, ma che importa.

Il porto da gestire e da ampliare significa soldi, tanti soldi che le organizzazioni criminali vogliono controllare. Soldi da mettere accanto agli affari che da sempre fanno ricca Ostia, quelli degli stabilimenti balneari. E quindi non stupisce leggere nelle carte dell’inchiesta in corso, che un esponente dellafamiglia Giacometti, sodalizio già entrato nel 2004 nell’inchiesta Anco Marzio, che contestò l’associazione mafiosa, poi rigettata dal tribunale di Roma – avrebbe contattato «una persona presentatagli dal senatore Luigi Grillo», proprio per accedere all’affare delle concessioni balneari, data la preoccupazione per la nuova normativa europea, che impone dal 2015 l’affidamento delle spiagge demaniali solo attraverso gare pubbliche.

La porta di Roma

Ostia, bocca per sfamare il corpo di Roma. Con le mafie tradizionali, i colletti bianchi e i delinquenti locali che si sono mossi in libertà per decenni, reinvestendo il denaro di Cosa nostra, camorra e ’ndrangheta. Dividendosi il controllo, spartendosi i soldi.

Ostia con il suo “sindaco ombra”, “Don” Carmine, a capo dei Fasciani. Già strozzino con la Banda della Magliana, vanta amicizie trasversali: dalla camorra di Michele ‘o Pazzo’ Senese, al mondo eversivo degli ex Nar di Gennaro Mokbel, passando per Paolo Papalini, il fratello presidente dell’Assobalneari. Quello che ha concesso le concessioni per gli stabilimenti e firmato “determinazioni dirigenziali” per “lavori di somma urgenza” che appaltano 14 milioni di opere senza gara. “Don” Carmine, fuori e dentro del carcere, è sempre riuscito a gestire i suoi affari, soprattutto il narcotraffico.

L’élite di Cosa Nostra

E poi i fratelli “er Mafia”, Vito e Vincenzo Triassi, considerati luogotenenti della famiglia Caruana-Cuntrera, i Rotschild della mafia. La presenza dei Cuntrea – Caruana a Ostia, già certa negli anni ’70, ma oggi con un peso ben maggiore, non è un dato di poco conto. È gente di cerniera fra i siciliani e i cugini della Cosa nostra americana. Originari dell’agrigentino e già molto attivi nel contrabbando nell’immediato Dopoguerra, con probabili collegamenti con la rete messa in piedi da Lucky Luciano e dai corsi e i marsigliesi, spostarono il baricentro del proprio business trasferendosi fra Canada, Venezuela e Brasile prima dello scoppio della prima guerra di mafia negli anni ’50. Diventarono quindi asse portante del narcotraffico fra Sicilia e Usa, anticipando perfino la ‘ndrangheta nell’affare della cocaina, tanto da aprire un rapporto preferenziale con i narcos colombiani del cartello di Calì. Implicati poi nella Pizza Connection e in altri traffici internazionali, rientrarono negli anni ’70 in Sicilia (mantenendo le basi all’estero) e insediando una famiglia di Cosa nostra proprio a Ostia. Coinvolti nella French Connection, su cui indagarono fra gli altri Giovanni Falcone e Ciaccio Montalto, giocarono probabilmente un ruolo negli eventi che portarono all’assassinio del giudice francese Pierre Michel nel 1981.

Per misurare il loro peso criminale è importante osservare quale ruolo ricoprirono nella seconda guerra di mafia. In prima battuta si schierarono con i palermitani di Stefano Bontade e degli Inzerillo per poi saltare sulle barricate dei corleonesi guidati da Totò Riina. Una delle famiglie che ha pagato meno la dittatura dei “viddani” di Corleone e anzi ha accresciuto il proprio business con la “mattanza”. Oggi vederli centrali, se pur in ritirata a davanti all’offensiva degli Spada e soprattutto dei Fasciani, fa pensare. Fa pensare soprattutto perché Ostia è una delle porte di accesso per il traffico europeo della cocaina e ancora dell’eroina. Perché hanno cercato e trovato alleanze con pezzi della vecchia Banda della Magliana..

“Alba Nuova” e le altre inchieste che stanno interessando il litorale romano sembrano colpire tutti, ma i Cuntrea – Caruana, pur accusando in qualche modo il colpo, da una uscita di scena anche per via giudiziaria dei rivali Fasciani e Spada hanno tutto da guadagnare. Anche perché difficilmente si sono prestati a essere braccio dei colletti bianchi locali. Ostia conta, ma è solo un tassello di una trama ampia e complessa, una particolarità che il pentito di Cosa nostra Gaspare Spatuzza descrive con inquietante esattezza: «La cosa che ho notato che rispetto alla mafia, la mafia palermitana o siciliana che sia, a Roma hanno tutta un’altra mentalità, nel senso che non si vogliono sporcare le mani direttamente; il romano cerca di farsi proteggere le spalle; agire in seconda fila e però investire più…per avere più proventi possibile. Quindi cerca di non apparire ed esporsi (…) Sono ancora più criminali della manovalanza….perché fin quando sei sulla sfera ‘braccio armato’ e ‘braccio operativo’, diciamo, viene più facile localizzarli, ma dietro le quinte…». :

I “pudori” delle istituzioni

Timidamente intanto si comincia a prendere atto della escalation militare e affaristica delle mafie che insanguina non solo sul litorale, ma tutta la Capitale. Timidamente, anche se oramai, dopo decine di morti in “regolamenti di conti”, è impossibile non parlare di guerra di mafia. Dal centro alla periferia. Dai romani della “Banda” fino agli “scissionisti” e i Casalesi, dalla ‘ndrangheta a Cosa nostra che investono in attività commerciali e immobili di pregio in centro, ai Casamonica e alle loro enclave diventate fortini, fino ad arrivare agli stranieri che operano attraverso una sorta di rete di subappalti criminali. Una timidezza che porta il Prefetto Giuseppe Pecoraro al termine della riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza a parlare di «fatti e comportamenti riconducibili alla criminalità organizzata», salvo poi nascondere la mano con un pilatesco «non parliamo di colletti bianchi, non mi sento di includerli».

La banda mai diventata ex

Si ha la sensazione di essere precipitati nel passato. Ostia, Roma. Per tornare verso il centro si percorre la Cristoforo Colombo. Qui a poche centinaia di metri dalla zona residenziale bene dell’Ardeatino, con le finestre vista parco e i palazzi in cortina, qualche giorno fa un uomo è entrato in un centro estetico. «C’è Cinzia?», ha domandato. La donna, Cinzia Pugliese, si è presentata e l’uomo con tutta calma ha estratto una pistola e l’ha gambizzata. Il procuratore Giuseppe Pignatone parla di un possibile collegamento con il clan Fasciani. E la Pugliese non era certo una sconosciuta. Per anni infatti avrebbe avuto una relazione con Angelo Angelotti, ucciso il 28 aprile dello scorso anno a Spinaceto durante una rapina. Angelo Angelotti, uomo di spicco della vecchia Banda della Magliana, quello che avrebbe organizzato l’imboscata nel 1990 in via del Pellegrino a Enrico De Pedis, il capo, “Renatino”.

«La Banda della Magliana esiste ancora, ha usato e continua ad usare i soldi di chi è morto o è finito in galera. Forse non ha più bisogno di sparare. O almeno, di sparare spesso», raccontava nel 2010 davanti alle telecamere un altro ex della Banda, Antonio Mancini. Oggi è difficile dargli del millantatore o dell’allarmista.

Il colonialismo digitale e l’ultimo libro dell’ultima libreria

Su Doppiozero si è aperto un dibattito partendo dal libro Contro il colonialismo digitale di Roberto Casati e vale la pena leggere tutti gli interventi e possibilmente allargare il campo della discussione e gli interpreti (trovate tutto qui).

Il punto di partenza è un mondo (e una scuola, una cultura e le loro leggi) che ha a che fare con nativi digitali disabituati alle occasioni di concentrazione e di lettura come per la nostra infanzia. Si parla molto di libri, ebooks e di editoria calante in questi anni ma quasi sempre dalla voce dei produttori (siano scrittori o editori) e sempre troppo poco dei consumatori. L’eccessiva fascinazione del cartaceo o del digitale mi ha sempre destato qualche sospetto (sono del 1977, ho vissuto l’epoca del vinile poi cd poi mp3) ma credo che un cambiamento (che non debba per forza essere un’apocalisse) sia da leggere il prima possibile. Anche in questo siamo un paese che deve riuscire a svecchiarsi senza depauperarsi per forza e che non può accontentarsi delle lavagne elettroniche.

Scrive Dino Baldi:

In una parte significativa del suo pamphlet Casati affronta il tema dell’utilizzo delle nuove tecnologie nell’educazione. Se questa parte fosse tutto il libro applaudirei senza riserve o quasi. La scuola anche su questo fronte attraversa un periodo delicato, di disorientamento, confusione e qualche illusione. Nel libro di Casati, il rifiuto di quella che viene chiamata “innovazione automatica” e del principio, contrario ad ogni buon senso logico e pedagogico, secondo il quale la scuola deve replicare il mondo esterno e assecondare i gusti dei discenti anche sul piano del nuovo digitale, è giusto e ben argomentato. Allo stesso modo la rivendicazione della scuola come ambiente protetto (o per meglio dire “altro”) nel quale il mondo esterno viene interpretato, discusso, messo alla prova per imparare a farci i conti da pari a pari e non a subirlo acriticamente, è io credo il punto focale di qualunque riflessione in proposito, ben oltre i confini di un dibattito sulle tecnologie. Gli interventi legislativi che ad oggi regolamentano il digitale scolastico (per ultimo il decreto Profumo, sulla scia di decreti analoghi degli anni passati) tendono a far passare l’idea che l’innovazione a scuola sia una mera questione di travaso da fuori a dentro. Scarseggiano riflessioni non accademiche sulla didattica, che devono essere di necessità critiche, e quindi sul ruolo degli strumenti nei diversi ambiti, dei formati, dell’ecosistema a tendere; mancano ragionamenti sul valore dell’autorialità e del “progetto” editoriale, rispetto alla sciagurata convinzione che fuori, nella rete, ci sia già tutto quello che serve e basti solo impacchettarlo (e questo al di là della polemica sul libro di testo, che è perlopiù strumentale da qualunque parte venga condotta); mancano infine dibattiti maturi e ampi (non di nicchia) sulle opportunità che il digitale offre anche in questi ambiti, al di là delle sperimentazioni dei privilegiati. Sarebbe, questa, una discussione non inutile e anche piuttosto nuova, se fatta uscire dalla cerchia degli addetti ai lavori, per la quale il libro di Casati pone ottime basi.

La discussione è aperta, eh.