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Mario Savina recensisce Carnaio

Il libro (edito da Fandango, 2018) di Giulio Cavalli non può lasciarci indifferenti. Sfacciato e preoccupante. La vicenda è quella di DF, luogo che sembra ricordare in maniera piuttosto drammatica la Lampedusa dei giorni nostri, e dei suoi abitanti che verranno svegliati da eventi sconvolgenti.

Prima un cadavere ritrovato da un pescatore, poi altri e altri ancora, fino a raggiungere numeri impensabili: tutti hanno più o meno la stessa età, la stessa provenienza, lo stesso colore della pelle e la stessa corporatura. Le autorità locali chiedono aiuto alla politica nazionale, che li ignora, tanto che, dopo una serie di onde anomale che hanno portato migliaia di cadaveri, i cittadini troveranno una soluzione per mettere a profitto la situazione. I morti diventano oggetti di scambio e fonte di guadagno: a qualcuno potrà ricordare dei temi attualissimi come le stragi in mare, il razzismo verso gli “altri” e l’egoismo dei Paesi occidentali preoccupati solo della propria sicurezza interna.

L’autore richiede ai lettori un grande sforzo per riuscire ad immaginare una situazione in cui ogni singolo posto di DF sia ricoperto da cadaveri, ma allo stesso tempo rende loro la vita abbastanza facile chiedendo di immaginare la ferocia con cui gli abitanti cercano di differenziarsi dagli “altri”. DF non ha più contatti con l’esterno, costretto a risolvere una situazione difficile e complicata.

Copertina del libro Carnaio

Disumano ma molto reale ed attuale. Le vicissitudini di questo romanzo ci rimandano ai centri di accoglienza, a quelle situazione che hanno raggiunto un punto di esplosione e hanno oltrepassato quel limite in cui le domande da porsi sono tante.

Ma la cosa che più stupisce è la violenza degli abitanti e la loro reazione, inizialmente terrorizzati e poi cinicamente disposti a trasformare il tutto in una fonte di profitto. Carnaio sembra voler raccontare quell’uomo che si abitua a tutto, che rinuncia a lottare contro ciò che è ingiusto, che vive e sopravvive per inerzia, per “tirare a campare”. Ma racconta anche ciò che più fa paura a “noi”, quell’onda nera, che improvvisamente e ormai da fin troppo tempo, sommerge tutto quello che incontra sulla propria strada, e ci lascia soli a decidere e lottare con i propri demoni: migliaia di cadaveri nelle coscienze di chi dall’altra parte gira lo sguardo e si lascia il mare alle spalle. “Quando se ne va l’umanità, anche il vero diventa lusso: non è per ignoranza, come potrebbe sembrare, ma per rimescolamento avvelenato delle priorità”.

Mario Savina, analista geopolitico, si occupa di Mediterraneo e Medio Oriente. Ha conseguito la laurea in Lingue e letterature straniere all’Università di Bologna, la laurea magistrale in Sviluppo e Cooperazione internazionale a La Sapienza, dove ha ottenuto anche un Master II in Geopolitica e Sicurezza globale. Attualmente, oltre ad essere redattore del periodico Italiani di Libia, collabora con Geopolitica.info, Amistades, European Affairs e OSMED-Osservatorio sul Mediterraneo.

Il Passaparola dei Libri recensisce Carnaio

Carnaio è un libro crudo e disturbante, talmente assurdo e disumano da rivelarsi realistico e profetico. DF è una piccola città di mare come tante, tanto comune da non meritarsi nemmeno un nome proprio, esteso, riconoscibile. Potrebbe essere un piccolo borgo qualsiasi del Sud Italia o del Sud del mondo: il mare, la pesca, la vita che scorre tranquilla fra tresche più o meno lecite, commissari annoiati perché non succede nulla, politici sempre pronti a catturare l’attenzione… anche se solo a partire dal lunedì mattina.

Eppure tutto questo, dato da sempre per scontato, rapidamente cambia e il mare da amico fidato diventa presto un nemico, nemico della quiete, della bellezza, della vita che scorre tranquilla seppure coi suoi inevitabili dolori. Prima un corpo, poi quattro, poi ottanta, poi migliaia… un continuo miasma di carne umana che viene dal mare trascina in breve la piccola cittadina nell’orrore, nella paura, nella disperazione. I cadaveri che il mare di DF restituisce sono tutti pressoché uguali, quasi costruiti in serie da un destino sciagurato e balordo.

Sono in altre parole carne e la carne si compra a chilo, è roba da macellai, la carne non è corpo né nome. Infatti, sin dall’inizio e per tutta la durata della narrazione, questi corpi sono “quelli”, un termine che segna una precisa e netta linea di demarcazione rispetto a “questi” che sono gli amici, i vicini, i parenti e quanti, in genere, condividono l’orizzonte di attesa e di esperienza degli abitanti di DF. E in questo banale pronome c’è tutta la violenza delle parole che creano grandi distanze, c’è il gusto per l’omologazione, per lo slogan facile e orecchiabile, per il bianco e nero che non sopportano il confronto, il dibattito, la tolleranza.Ci sono insomma sul piatto le responsabilità della politica, le tattiche facili del populismo, la semplificazione scorrevole dei social.

Emergono, solo a sprazzi, inattesi rigurgiti di moralità, quasi antichi echi di una umanità sepolta, ancestrale che però vengono prontamente messi a tacere ricorrendo al tema abbastanza abusato della sfortuna personale: chi non è stato mai apprezzato dal padre, chi non ha avuto in dono un figlio, chi ha subìto lo smacco di un’infanzia difficile. Insomma ognuno ha il suo facile alibi, ognuno ha il suo debito personale, il suo conto in sospeso con la felicità. Per questo Carnaio è anche il libro della solitudine: la solitudine di chi muore lontano trattato come ‘cosa’, la solitudine di DF che viene comunque abbandonata dalle istituzioni e deve arrangiarsi da sé, la solitudine di chi non segue la massa e viene facilmente etichettato come folle, la solitudine di chi smarrisce i propri punti di riferimento e si fa orientare dagli altri solo per non sentirsi perduto.

Lo stile non è semplicissimo, molto spesso si fa ricorso all’indiretto libero che, tradizionalmente, è lo strumento introdotto dalla letteratura di inchiesta della realtà, quel tipo di letteratura in cui l’autore si eclissa a favore dei singoli punti di vista, per far emergere il relativismo brutale della realtà.

Carnaio potrebbe sembrare un libro sui migranti ma in realtà non lo è, è un libro sull’etica, sul senso del limite, sulla labilità dei confini tra accettabile e inaccettabile. Non è in questione solo la tratta dei migranti, ma l’eticità delle sperimentazioni scientifiche, la sostenibilità delle scelte economiche globali, i modelli dissennati di sfruttamento del pianeta. Quanto si è spostata ad oggi questa linea di demarcazione e, soprattutto, quanto è ancora possibile riequilibrarla?

In altre parole, quanto la realtà non è già diventata distopia?

Recensione di Esterina Guglielmino

(fonte)

Uomini che ammazzano donne

Nei primi dieci mesi del 2020 sono 91 le vittime di femminicidio. Una ogni tre giorni. E le misure restrittive imposte dall’emergenza pandemica hanno aggravato il fenomeno

I numeri emergono dal VII Rapporto Eures sul femminicidio in Italia. Nei primi dieci mesi del 2020 sono 91 le vittime di femminicidio. Qualcuno oggi strumentalmente vi dirà che sono meno delle 99 donne dello scorso anno ma in realtà sono diminuite le vittime femminili della criminalità comune (da 14 a 3 nel periodo gennaio-ottobre 2020) mentre risulta sostanzialmente stabile il numero dei femminici di familiari (da 85 a 81) e, all’interno di questi, il numero dei femminici di di coppia (56 in entrambi i periodi); in aumento (da 0 a 4) anche le donne uccise nel contesto di vicinato. Per dirla facile facile: nel 2020 l’incidenza del contesto familiare è dell’89%, superando l’85,8% dell’anno scorso.

La coppia continua a rappresentare il contesto relazionale più a rischio per le donne, con 1.628 vittime tra le coniugi, partner, amanti o ex partner negli ultimi 20 anni (pari al 66,2% dei femminici di familiari e al 48,7% del totale delle donne uccise) e 56 negli ultimi dieci mesi (pari al 69,1% dei femminici di familiari e a ben il 61,5% del totale delle donne uccise). Gli autori sono “per definizione” nella quasi totalità dei casi uomini (94%), con valori che nel corso dei singoli anni oscillano tra il 90% e il 95%. Le misure restrittive imposte dall’emergenza pandemica hanno fortemente modificato i profili di rischio del fenomeno: osservando i dati relativi ai femminicidi familiari consumati nei primi dieci mesi di quest’anno si rileva come il rapporto di convivenza, già prevalente nel 2019 (presente per il 57,6% delle vittime), raggiunga il 67,5% attestandosi addirittura all’80,8% nel trimestre del dpcm Chiudi Italia. Quando, tra marzo e giugno, ben 21 delle 26 vittime di femminicidio in famiglia convivevano con il proprio assassino.

L’omicidio però è spesso solo l’atto finale di una violenza che si consuma. Il femminicidio all’interno della coppia è spesso soltanto il culmine di una serie di violenze pregresse: violenze psicologiche (20%), violenze fisiche (17,7%), stalking (13,3%) e violenze note a terzi (11,1%). Violenze però denunciate solo nel 4,4% dei casi.

Poi c’è la violenza delle parole, sì anche quella. Nel suo rapporto Barometro dell’odio Amnesty International ha analizzato i commenti sui social. Le donne continuano a essere vittime di una società profondamente maschilista e sessista, nei luoghi pubblici, all’interno delle mura domestiche e anche sul web. Guardando al dibattito in modo ampio, su oltre 42.000 post e tweet analizzati, più di 1 su 10 (il 14%) è offensivo, discriminatorio o hate speech. Di questi il 18% rappresenta un attacco personale a un influencer, uomo o donna, tra quelli osservati; nel caso delle influencer, tale incidenza sale al 22%. Un terzo di questi ultimi commenti è sessista e si concretizza in attacchi contro i diritti di genere, la sessualità, il diritto d’espressione. Comuni gli insulti di carattere “morale” che bollano la donna come immorale o “prostituta”, che la classificano per il modo di vestire o per la sua vita sentimentale. A partire dalla presa di posizione di queste donne contro la discriminazione di genere, a favore del diritto all’aborto, o alla parità tra i sessi o alla libera espressione delle proprie scelte sessuali.

Scrive Amnesty: «In sostanza, si aggredisce la donna che si presenta come autonoma e libera nelle proprie scelte, o perché la stessa si esprime a favore della altre categorie fatte oggetto d’odio, come accade con migranti e musulmani. Una vera e propria catena di montaggio dell’odio, che mette insieme idee, comportamenti, identità, scelte che rappresentano i diritti e le libertà delle persone, per farle oggetto di pubblico ludibrio e di discriminazione violenta».

Buona giornata contro la violenza sulle donne. Con i numeri in mano.

Buon mercoledì.

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A proposito di fiducia e di vaccini

Vale la pena di leggere le parole del professor Andrea Crisanti sui «dati di efficacia e di sicurezza» da mettere a disposizione della comunità scientifica

C’è, com’è normale che sia, un gran chiasso intorno ai vaccini anti Covid che stanno arrivando nei prossimi mesi in giro per il mondo. Nel numero di Left in edicola ne parliamo approfonditamente e proviamo a analizzare la situazione uscendo dagli steccati degli annunci e dei complotti (a proposito, è l’occasione buona per regalarsi e regalare un abbonamento, qui) e siamo in quel momento in cui i complottisti e i tifosi tireranno le bombe per minare la credibilità di ciò che accade. Un film già visto.

Nei giorni scorsi si è fatto molto chiasso su una presunta dichiarazione di Crisanti che avrebbe dichiarato di non volersi vaccinare subito, appena disponibile il vaccino, ma di preferire aspettare qualche tempo per esserne sicuro. Ammetto di essere rimasto piuttosto stupito della leggerezza della comunicazione (del resto si pone il solito tema dei medici che spesso hanno più di qualche falla come divulgatori) ma proprio ieri Crisanti ha voluto tornare sul tema e ha scritto parole che vale la pena leggere. In una sua lettera al Corriere della Sera puntualizza di volere «i dati di efficacia e di sicurezza» vengano «messi a disposizione della comunità scientifica» e «delle autorità che ne regolano la distribuzione». Crisanti fa notare, in effetti, le modalità di annuncio delle case di produzione che si sono concentrate sui proclami senza occuparsi «di condividere i dati con la comunità scientifica». «Se le aziende in questione – scrive Crisanti – sono in possesso di informazioni che giustificano annunci che possono apparire rivolti in particolare ai mercati finanziari, queste devono essere rese pubbliche anche in considerazione del fatto che la ricerca è stata finanziata con quattrini dei contribuenti»·

La credibilità e la fiducia è qualcosa che si costruisce operando con trasparenza. Sempre. In tutti i campi. Il fatto che si aspetti (giustamente) un vaccino come un popolo assetato aspetta la pioggia non può essere l’unica spinta per proporlo. E sui dati che devono essere pubblici si discute da mesi anche per quello che riguarda i contagi e le modalità del contagio, che ogni regione gestisce un po’ come gli pare. Su un tema come questo si dovrebbe limitare il più possibile la richiesta di atti di fiducia (e talvolta di fede) e giocare a carte scoperte. Sarebbe la risposta migliore e più solida contro negazionisti e altre corbellerie varie. È un filo sottile, la fiducia.

Buon martedì.

Per approfondire, Left del 20-26 novembre 2020

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La ‘ndrangheta, appunto

Vogliamo occuparci di mafie, mica solo in Calabria? Vogliamo che ritornino nell’agenda della politica? O si aspettano sempre gli arresti, sempre

Si è riusciti a parlare per giorni, settimane, di Calabria senza mai pronunciarla. Non so se avete notato ma le mafie sono scomparse dal dibattito pubblico come se fossero qualcosa di non rilevante in tempo di pandemia (mentre per loro è un momento ghiottissimo) e ora se ne torna a parlare a bomba per l’arresto del presidente del Consiglio regionale calabrese Domenico Tallini, per gli amici Mimmo.

Ora sarà il processo a decidere, noi siamo e restiamo garantisti, ma la parabola di Tallini è interessante perché stiamo parlando di uno che era finito nell’elenco degli impresentabili formulato dalla Commissione antimafia guidata da Nicola Morra. Proprio Morra aveva messo in guardia la presidente Jole Santelli nell’affidare compiti di responsabilità a chi era rinviato a giudizio per diversi profili di corruzione. L’hanno nominato presidente del Consiglio regionale, per dire.

Parliamo di un politico che è sulla scena da 40 anni (a proposito del rinnovamento sempre professato e mai praticato) che esce dalle grinfie del vecchio Udeur e si ricicla, come molti altri, in Forza Italia. Le accuse raccontano che «in qualità di assessore regionale fino al 2014 e quindi candidato alle elezioni per il rinnovo del Consiglio regionale del 2014, e successivamente quale consigliere regionale», Tallini «forniva un contributo concreto, specifico e volontario per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione», si legge nell’ordinanza che ha portato all’arresto del presidente del Consiglio regionale. «In cambio del sostegno elettorale promesso ed attuato da parte del sodalizio», secondo l’accusa il politico di Forza Italia ha garantito alla cosca «le condizioni per l’avvio prima e l’effettivo esercizio poi dell’attività imprenditoriale della distribuzione all’ingrosso dei prodotti farmaceutici».

Tallini, è scritto sempre nell’ordinanza, è intervenuto per «agevolare e accelerare l’iter burocratico per il rilascio di necessarie autorizzazioni nella realizzazione del Consorzio Farma Italia e della società Farmaeko Srl». Inoltre, «imponeva l’assunzione e l’ingresso, quale consigliere, del proprio figlio Giuseppe, così da contribuire all’evoluzione dell’attività imprenditoriale del Consorzio farmaceutico, fornendo il suo contributo, nonché le sue competenze e le sue conoscenze anche nel procacciamento di farmacie da consorziare». In tal modo, si legge ancora nell’ordinanza, «rafforzava la capacità operativa del sodalizio nel controllo di attività economiche sul territorio, incrementando la percezione delle capacità di condizionamento e correlativamente di intimidazione del sodalizio, accrescendo la capacità operativa e il prestigio sociale e criminale».

«Insomma… l’investimento è per voi… mica lo facciamo per noi… no? Fino a mo’ ci abbiamo solo rimesso…però nonostante tutto… anche gratis… Mi devi spiegare meglio com’è impostato tutto il ragionamento», diceva a Domenico Scozzafava, «un formidabile portatore di voti» per il politico di Forza Italia finito ai domiciliari, ma anche uno «’ndranghetista fino al midollo», secondo la magistratura.

Ora al di là del profilo processuale rimane però un punto sostanziale: vogliamo occuparci di mafie, mica solo in Calabria? Vogliamo che ritornino nell’agenda della politica? O si aspettano sempre gli arresti, sempre. Anche perché le mafie intanto in questa disperazione stanno prosperando come non mai. E sarebbe il caso di accorgersene prima che ce lo dica la magistratura.

Buon venerdì.

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Nonostante le figuracce, Zangrillo dà voti agli altri medici. Ma è lui che andrebbe giudicato

Nonostante le figuracce, Zangrillo dà voti agli altri medici. Ma è lui che andrebbe giudicato

In un Paese normale almeno avrebbe la dignità di rimanere defilato. Alberto Zangrillo, il primario di rianimazione e anestesia del San Raffaele di Milano, continua a imperversare nelle trasmissioni televisive (in cui va per dire che troppi suoi colleghi sono in televisione) e sui giornali: non è bastata la catena di brutte figure che ha inanellato in questi ultimi mesi per consigliargli un po’ di pudore. Non è bastata la sua affermazione mostruosa su un virus “clinicamente morto” e che invece è tornato a imperversare e non è bastata la figuraccia rimediata con Silvio Berlusconi che lui descriveva in “ottima salute” mentre il Cavaliere poco dopo avrebbe raccontato a tutto il Paese le sue “enormi difficoltà”.

Niente, niente di tutto questo. Anzi Zangrillo ora addirittura si supera e esce in prima pagina su Libero (e dove, sennò?) per dare voti agli altri medici. Lui, Zangrillo, che giudica l’operato degli altri. Roba da fantascienza. “Il Sars-Cov2 ha messo in linea di produzione una serie di scienziati privi dei necessari parametri per essere definiti e riconosciuti come tali”, risponde Zangrillo alla domanda di Pietro Senaldi sull’esposizione pubblica di medici in questo ultimo periodo. Zangrillo, che probabilmente pensa di essere un tuttologo, si lancia anche a dare consigli alla stampa, ci dice che “non tornerà l’emergenza di marzo”, ritiene “pericolosi” i tamponi fatti per prevenzione (sarà per questo che il suo ospedale li vende privatamente e dietro un lauto compenso come servizio privato) e ci tiene a precisare che molti dei volti che ascoltiamo non sono virologi: “Guardi che Remuzzi, Gattinoni, Richeldi, Bassetti, Lorini, Ippolito e il sottoscritto non sono virologi”, dice al giornalista. Ce ne eravamo accorti, Zangrillo, ce ne eravamo accorti.

Poi difende i membri del Comitato Tecnico-Scientifico: “Mantengo un rapporto di stima e amicizia con molti membri del CTS. Conosco il valore del lavoro silenzioso a supporto del legislatore. Certe inopportune grida di allarmismo estremo non provengono da lì”. Insomma, Zangrillo ci dice che ci sono troppi medici poco affidabili sui media e sparge giudizi senza nemmeno un briciolo di autocritica e lo fa al suo solito: schiacciando l’occhio ai minimizzatori e pronunciando proprio le parole che servono e che tornano utili a una certa politica. È il solito Zangrillo, quello che ha sempre la frase giusta per sovraesporsi e per esprimere giudizi che spesso hanno poco a che vedere con la sua professione. E Libero, ovviamente ce lo propone in prima pagina. Avanti così.

Leggi anche: 1. “Il Covid era in Italia già a settembre 2019”: la scoperta dell’istituto tumori di Milano / 2. Sanità Calabria, Gino Strada: “Contatti con il Governo. Disponibile, ma chiedo garanzie” / 3. Esclusivo TPI – Calabria, la denuncia dell’ex primario: “Abbiamo un laboratorio per processare i tamponi, ma nessuno ci risponde”

4. Come sarà distribuito il vaccino anti-Covid in Italia? La bozza del piano del Ministero / 5. Sapevate che chi gioca a golf può muoversi liberamente in Italia nonostante il lockdown? / 6. Sassoli: “L’Europa deve cancellare i debiti contratti per il Covid. Il Mes? Così non lo prenderà nessuno”

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“Il verbo leggere” recensisce Disperanza

(fonte)

Non lo leggerò: sono già abbastanza depressa di mio. Dopo aver dato un’occhiata alle uscite in libreria segnalate da Il mestiere di leggere, “liquido” subito Disperanza di Giulio Cavalli (Fandango Libri, 2020). Mi dimentico di questo titolo, o almeno, fingo di farlo. Mi ripeto che non ha senso leggere un libro dedicato a verità scomode che conosco già: grazie tante, ma mi sono resa conto da tempo di vivere in tempi crudeli, incerti e disperanti. Che senso ha mettere il dito nella piaga?

Penso che la questione sia chiusa. Illusa. Ormai dovrei saperlo che certi libri ti inseguono, che diventano fantasmi ineliminabili da cui non puoi sfuggire. Passano un paio di settimane. Ascolto Fahrenheit. Eccolo lì, riappare di nuovo, inatteso e indesiderato: Disperanza è il libro del giorno. Resto in ascolto per qualche minuto, solo per qualche minuto: non voglio leggere questo libro. Non voglio fare i conti né con quel groviglio di pensieri neri che non riesco a srotolare, né con le ansie che, come i mostri temuti dai bambini, sono in agguato sotto il mio letto.

Passa ancora qualche giorno. Disperanza appare nella lista degli ebook in offerta. Mi arrendo. Apro il lettore e inizio, quasi controvoglia, a leggere la prima pagina. Mi fermo. Rileggo. Dovevi proprio colpirmi al cuore, a tradimento? La voce di Giulio Cavalli, una voce gentile, si insinua subito sotto la mia pelle:

Nei periodi di buio la disperanza è una compagna molle che mi si attacca addosso, qualcosa contro cui è impossibile combattere perché mi è quasi consolatorio averla. Subisco mattine che mi chiedono solo che sia presto sera, scrivendo per mestiere me la ritrovo negli articoli o nei libri come quel brutto alone che lasciano le tazzine di caffè sui fogli.

La scrittura di Cavalli cattura immediatamente la mia attenzione: è vibrante, poetica, evocativa. Sul serio, come fa a scrivere così bene? Perché scopro solo adesso questo autore? Perché è scivolato fuori dal mio radar di lettrice? In queste pagine ritrovo qualcosa della solitudine di Saviano, un altro scrittore finito sotto scorta perché indagare la realtà e denunciarne le storture è un peccato capitale: lasciate lo sporco sotto il tappeto, per favore.

Che cos’è la disperanza di cui parla Cavalli? Esiste davvero questa parola?Consulto il primo dizionario online a disposizione. Sì, è una parola: è lo stato di chi è privo di speranza (Treccani). La si potrebbe definire come la “sorella minore” della disperazione, più tenue, ma cronica:

(…) qualcosa che insopportabilmente diventa sopportabile per lunghi periodi, uno status che può rimanere appiccicato anche per vite intere.

Proseguo la lettura e vengo presa dall’impulso irrefrenabile di sottolineare alcuni passaggi, di condividerli con qualcuno. Alcune frasi mi bruciano la retina e il cuore: sono troppo vivide, sono terribilmente veritiere. Disperanza è la fotografia impietosa di un tempo, il nostro, scandito dalla precarietà assoluta e dall’individualismo solitario. Queste pagine racchiudono l’essenza di giorni da cui bisogna difendersi:

Non sperare per non rischiare che possa andare peggio: la difesa a questo tempo è qualcosa che andrebbe raccontato con cura. 

(…) 

Esiste in sottofondo una fottuta paura di ascoltare i sintomi della tristezza altrui e poi ritrovarci dentro cose nostre: la speranza e la disperazione sono un campo che non si vuole esplorare per non fare i conti con se stessi.

Lo scrittore descrive la quotidiana disperanza di chi vive sottopensiero, di chi è costretto a ridurre il pensiero a impulso, sempre in riserva nel serbatoio della vitalità, di chi deve convivere con la depressione:

Ma sarebbe sbagliato credere che le persone sottopensiero siano sempre state così e siano per sempre così, è illusorio anche convincersi che i sottopensiero siano gli sconfitti per cause dipendenti dai loro meriti, dalle loro capacità e dalla loro volontà: nonostante questo tempo voglia dividere sconfitti e vincitori con un taglio netto come se ognuno meritasse il proprio destino – o l’assenza di opportunità di avere un destino – per rendere accettabile questa vasta periferia ai bordi delle autentiche possibilità, tutti noi, chi per qualche minuto chi per anni con rari momenti di riemersione, ci siamo ritrovati alla deriva senza un approdo e senza memoria del porto di partenza.

Cavalli mi conduce attraverso i gironi della disperanza, di questo limbo popolato da una varia e travagliata un’umanità: disoccupati ed eterni precari, malati, amanti feriti da amori sbagliati o negati, piccoli rifugiati sopraffatti dalla vita e disperanti disillusi dalla politica.

Il libro, da monologo, si trasforma in una narrazione coraleAscolto le testimonianze dei lettori che hanno deciso di condividere le loro storie, di raccontare la loro disperanza. Cavalli dà voce alle loro fragilità, le accetta e le abbraccia, rifiutando di sottostare alle regole di un mondo che ci vorrebbe sempre vincenti:

E invece bisogna essere forti, bisogna essere vincenti, bisogna essere sempre primi o nel gruppo dei primi, bisogna essere perfetti, belli, empatici, simpaticamente antipatici, eleganti, con la risposta sempre pronta, con le dita affusolate, con i pantaloni corti alla giusta lunghezza, con le camicie inamidate, con il sorriso sempre cortese (…).

La mia parte cinica mi ripete che non c’è niente di nuovo sotto il sole: in tanti si sono fatti paladini delle fragilità e in troppi hanno lucrato sulle sofferenze altrui. Mi rendo però conto che Cavalli non ha niente a che spartire con i venditori di dolore: possiede un’empatia rara. Non sbandiera la sofferenza: la mette in scena dandole dignità ed importanza, scegliendo con cura ogni parola. Forse ripete cose che so già, ma quelle cose hanno bisogno di venire ripetute e metabolizzate: io stessa credo nel diritto di essere fragili, eppure sono la prima ad avere una fottuta paura di mostrare le mie fragilità.

Riemergo da questa lettura immersiva, coinvolgente. Questo libro ora mi sembra terribilmente necessario. Il Covid ha reso ancora più evidente il disagio interiore che cova nelle budella della nostra società, ma non ha dato legittimità alla fragilità. Nei primi mesi di questa tempesta, abbiamo gridato che era giunto il momento di cambiare le cose, invece adesso non vediamo l’ora di tornare alla nostra disperante normalità. Il problema è che, al termine della burrasca, dovremo fare i conti con i relitti, con le nostre ferite emotive: ferite che andranno in suppurazione, se non impareremo a riconoscerle e a curarle.

Dovremmo prenderci cura di noi stessi e degli altri, ma ci manca la cassetta degli attrezzi per farlo. Disperanza potrebbe essere un punto di partenza, ma la voce di Cavalli, per riuscire a mettere in moto la speranza, dovrebbe arrivare anche a chi rinnega la fragilità. Chi condanna i disperanti non si rende conto che tutti gli esseri umani sono fragili: tutti noi abbiamo bisogno di aiuto per sopravvivere a questi tempi incerti.

La vergogna del San Raffaele di Milano: con centinaia di morti al giorno sminuisce la pandemia

Accadono cose di cui sfugge il senso, di cui non si coglie il nesso e che raccontano perfettamente la guerra tra uomini di scienza che si gioca sui metodi di narrazione piuttosto che sui dati scientifici. Sarebbe poco male, una battaglia interna che sicuramente poco appassiona se non fosse che da mesi, sotto questi duelli tra virologi e professionisti, ci sta un Paese che inevitabilmente costruisce le proprie tesi e le proprie paure proprio sulle parole di quelli che improvvisamente sono diventati divulgatori scientifici. E la divulgazione scientifica è una cosa sera, terribilmente seria, importante quasi quanto un nuovo vaccino o una nuova cura.

Per questo sarebbe curioso chiedere a qualcuno del Gruppo San Donato e dell’università Vita-Salute San Raffaele il senso del loro comunicato stampa in cui prendono le distanze da un tweet del medico Roberto Burioni, che sembra non dire nulla di particolare. Partiamo dall’inizio. Burioni twitta: “Alcuni dicono che i pronto soccorso sono affollati da persone in preda al panico, e può essere vero. Ma quelle centinaia di persone che finiscono ogni giorno al cimitero a causa di Covid-19, sono spinte dal panico? Basta bugie. Basta bugie. Basta Bugie”.

L’intento appare perfino scontato: mentre abbiamo passato mesi a sentire esimi virologi che ci dicevano che il virus fosse “clinicamente morto” oppure che fosse una semplice influenza (in capo a tutti proprio quel professor Zangrillo del San Raffaele di Milano per cui Burioni lavora) forse sarebbe il caso di rendersi conto che la sottovalutazione del virus (e la conseguente morbidezza sull’attenzione che occorre tenere per non fomentare l’epidemia) è un rischio reale e enorme.

Il Gruppo San Donato risponde con un comunicato in cui dice: “Pur riconoscendo l’autonomia di espressione, il Gruppo San Donato e l’università Vita-Salute San Raffaele lo invitano a considerazioni più rispettose della verità e del lavoro altrui”. Ora: i Pronto Soccorso sono affollati, lo dicono i numeri e basta una veloce ricerca su internet per valutare il livello di stress. Si affollano anche i ricoveri ordinari e straordinari. Si incrementa, purtroppo, anche il numero dei decessi quotidiani.

Quindi quali sarebbero le “considerazioni” poco “rispettose della verità” esattamente? Qual è il punto che ha fatto saltare i nervi all’azienda tanto da costringerli a prendere carta e penna? Non è una domanda da poco perché un cittadino qualsiasi, un osservatore esterno, rimane incastrato proprio su questo punto. E sarebbe importante saperlo, no?

Leggi anche: Il San Raffaele smentisce Burioni che dice che ogni giorno ci sono centinaia di morti: “Considerazioni infondate, non conosce situazione”

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Fallisce la crociata di Zuccaro contro le Ong (appoggiata da Travaglio e Di Maio): ora il PM andrà a processo?

“Non lasciamo solo Zuccaro” intitolava il Blog Delle Stelle, sì, proprio lui, il magazine politico del Movimento 5 Stelle che si era schierato a testa bassa al fianco del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro nella sua ennesima battaglia contro le Ong. Furono i grillini e furono i salviniani a cadere nel solito giochetto infimo della politica quando si appoggia alla magistratura per annaspare e trovare conferma delle proprie tesi. Il pensiero politico breve e debole ha sempre bisogno di un’indagine, di un rinvio a giudizio, di qualche carta processuale per certificare la propria visione del mondo.

Nel 2017 fu Zuccaro a denunciare il tentativo delle Ong di «destabilizzare l’economia italiana» attraverso il massiccio sbarco di migranti sulle nostre coste al fine di «trarne vantaggi». Zuccaro aveva anche aggiunto che, a suo avviso, «alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti» perché, disse, «so di contatti» e inoltre si tratta di un «traffico che oggi sta fruttando quanto quello della droga». Si alzò un gran polverone e le parole del procuratore vennero agitate come una sciabola per affettare la discussione su diritti e immigrazione, le parole di Zuccaro vennero sventolate ai quattro venti, lui ebbe anche l’onore di essere audito dal Parlamento, i Zuccaro boys infestavano i social tutti fieri di avere scoperto che i “buoni erano cattivi” e quindi, per la proprietà inversa, i presunti “razzisti” sarebbero stati quelli che ci avrebbero salvato. Peccato che di quelle pesantissime affermazioni non rimase niente, non ci fu una controprova, non ci fu niente e tutto finì nel dimenticatoio per un anno, anche se ormai il rumore di fondo era stato generosamente sparpagliato e il governo Conte (il primo Conte, quello che non si era ancora travestito da “buono”) quando salì in carica nel 2018 con la sua formazione gialloverde poté ripetere le tesi di Zuccaro come condimento delle proprie decisioni politiche.

Arriviamo quindi al 2018, marzo, quando Carmelo Zuccaro torna a occuparsi dell’emergenza migranti nel Mediterraneo e lo fa a modo suo: mette sotto indagine il comandante della nave Open Arms, Marc Reig Creus, il capo della missione della Ong, Ana Isabel Montes Mier, e il coordinatore Oscar Camps. L’accusa ovviamente è di associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina. La Ong Proactiva Open Arms, secondo il teorema Zuccaro, opera nel disprezzo più totale degli accordi internazionali e del codice di comportamento firmato con il governo italiano, cercando in tutti i modi di far sbarcare migranti sulle nostre coste. Open Arms aveva soccorso 218 migranti al largo delle coste della Libia rifiutandosi di consegnarli alla cosiddetta “Guardia costiera libica” per via delle violenze e dei maltrattamenti che avrebbero potuto subire in quello che tutta la comunità internazionale ritiene un porto “non sicuro”. I migranti vennero poi fatti sbarcare nel porto di Pozzallo, in provincia di Ragusa, dopo l’autorizzazione da parte del governo italiano.

Cosa accadde poi? Il teorema di Zuccaro venne smontato dal Gip di Catania che nel confermare il sequestro aveva fatto cadere l’accusa di associazione a delinquere tenendo in piedi l’accusa di immigrazione clandestina e di violenza privata. Il fascicolo passa al Gip di Ragusa per competenza territoriale e viene disposto il dissequestro immediato della nave perché, scrive il Gip, l’Ong aveva agito «in uno stato di necessità» regolato dall’articolo 54 del codice penale (in cui si scrive di chi è «costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave»).

Ben due anni dopo quei fatti ora arriva la decisione del Tribunale di Ragusa che ha deciso il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste per il reato di violenza privata e perché non punibile per stato di necessità per il reato di favoreggiamento. L’ha deciso il Gup al termine dell’udienza preliminare. Open Arms, in una sua nota, scrive che «ancora una volta è stato dimostrato che il nostro agire è sempre stato dettato dal rispetto delle Convenzioni internazionali e dal Diritto del Mare, quello che ci muove è la difesa dei diritti umani e della vita, principi fondativi delle nostre Costituzioni democratiche».

E quindi? Quindi per l’ennesima volta molto rumore per nulla. Per l’ennesima volta sulla pelle dei migranti (e degli elettori e della dignità della politica) si è consumata una battaglia che non aveva basi giuridiche eppure ha dato l’occasione di sentenziare giudizi che si sono rivelati infondati. Ancora una volta è andata male a chi cercava un appiglio per poter essere feroce con il supporto della legge fingendo di non sapere che il gancio non c’è, fingendo di non sapere (come accade tutt’ora) che la “Guardia costiera libica” è il viatico di sofferenze che non hanno nulla a che vedere con i diritti e fingendo di non sapere di avere appaltato proprio a loro quel pezzo di Mediterraneo. La polvere si è posata e non è rimasto niente, niente di più del vociare sconsiderato di cui nessuno pagherà pegno.

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