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L’odio della Lega verso le donne

Se per caso aveste bisogno di un’ulteriore prova (ce ne sono a decine, eh) dell’odio per la Lega verso le donne (che devono essere madri e lì stare, senza pretendere nulla di più) allora vale la pena fare un salto a Udine dove il sindaco Pietro Fontanini, leghista doc, volendo allargare la sua giunta comunale da 10 a 11 assessori (sempre a proposito di quella tiritera del taglio dei costi, sì, ciao) si è accorto che le quote di genere lo costringono a nominare una donna.

Non sia mai. E così in Consiglio regionale spunta un emendamento alla legge regionale 22/2010 che gli permetterebbe di aggirare l’ostacolo. Siccome siamo un Paese strano, in cui non ci si nasconde e non ci si vergogna nemmeno, dicono che tra i consiglieri regionali la proposta sia amichevolmente chiamata proprio emendamento Fontanini in onore del suo beneficiario.

Recita l’emendamento: «L’assessore nominato ai sensi del comma 39 bis non è incluso nel computo della rappresentanza di genere prevista dalla normativa vigente. È consentito inoltre derogare alle quote di rappresentanza di genere nella giunta comunale in assenza di analoga adeguata rappresentanza nel consiglio comunale e qualora lo statuto non preveda la nomina ad assessore di cittadini non facenti parte del consiglio comunale».

Peccato che la normativa sulla rappresentanza di genere sia nazionale e non certo regionale. Ma anche su questo gli amici di Fontanini hanno pronta la contromossa: lo statuto speciale del Friuli Venezia-Giulia.

Insomma, se ci pensate fanno di tutto, brigano, disfano, si arrabattano, inventano, osano, rischiano. L’importante è non dovere nominare una donna. Tutto qui. Del resto per loro, si sa, la donna è buona solo da madre. Mica da assessora.

Buon giovedì.

L’articolo L’odio della Lega verso le donne proviene da Left.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2019/06/20/lodio-della-lega-verso-le-donne/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Chi voto

Me lo chiedete in tanti. E poiché amo le preferenze le uso sempre con attenzione e parsimonia. Sulla mia scheda ci saranno i nomi di Civati, Druetti e Rinaldi. Due donne e un uomo. E il simbolo di Europa Verde. Perché i miei figli il venerdì scendono in manifestazione e mi chiedono di preparagli un mondo migliore con gli strumenti che ho a disposizione.

A voi auguro un buon voto antifascista. E di lasciare perdere la manfrina del voto utile. Ma davvero.

Le donne cominciano ad essere vittime quando non hanno ascolto

Tra le favolette che sarebbe il caso di smettere subito di raccontare c’è anche quella che “le donne non denunciano” che, per esperienza personale, mi ricorda le alienanti tavole rotonde in cui qualche prefetto dichiarava l’inesistenza del fenomeno mafioso “perché non ci sono denunce”.

Antonietta Gargiulo, la moglie del carabiniere Luigi Capasso che ieri ha ucciso le due figlie e ha tentato di uccidere la moglie, aveva depositato due esposti in cui raccontava la paura per quel marito “aggressivo e violento” che, come troppo spesso succede, non sopportava l’idea di una separazione da colei che riteneva una sua personale proprietà. Era andata anche dal suo capo, il comandante dei carabinieri di Velletri, per raccontare la difficile situazione. Dicono i comunicati ufficiali che «si è tentata la strada della ricomposizione bonaria», che la donna «temeva che l’uomo potesse perdere il lavoro» e che non erano emersi fatti penalmente rilevanti. Eppure Antonietta aveva anche cambiato la serratura del suo appartamento.

Forse sarebbe il caso di uscire una volta per tutte da questa narrazione medievale per cui la donna deve tornare a casa e cercare di fare pace, come se fossimo davvero in una di quelle fiction sui carabinieri che si vedono in prima serata: le donne cominciano a morire quando hanno la sensazione che le loro denunce non vengano prese sul serio. Al di là della vicenda di Latina (sarà il processo ad accertare le responsabilità, sempre che non ci sia troppa corporazione) sono frequenti i casi in cui le paure delle ex mogli e delle donne vessate sono sottovalutate da istituzioni colpevolmente superficiali. Forse sarebbe il caso di parlarne una volta per tutte.

Buon giovedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/03/01/le-donne-cominciano-ad-essere-vittime-quando-non-hanno-ascolto/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Se il marito picchia la moglie ogni tanto «non si può parlare di maltrattamenti in famiglia»

(Notizie dal Medioevo contemporaneo. Se non sei stata ammazzata non sei nessuno, femmina!)

Nella sua requisitoria, il pubblico ministero aveva sottolineato le «continue aggressioni fisiche» e le «umiliazioni morali» che la donna era stata costretta a subire. Aveva parlato di calci, pugni e schiaffi, di lancio di oggetti e di offese quasi quotidiane. Ma al momento della sentenza, il giudice ha stabilito che si era trattato di «atti episodici» avvenuti in «contesti particolari» e non in grado di causare nella vittima «uno stato di prostrazione fisica e morale». E ha aggiunto che non ci sarebbero stati «atti di vessazione continui tali da cagionare un disagio incompatibile con normali condizioni di vita». In parole povere, se le aggressioni non sono «frequenti e continue» non si può parlare di «maltrattamenti in famiglia». Soprattutto se non c’è una sopraffazione sistematica della vittima. La quinta sezione penale del Tribunale di Torino ha così accolto la tesi dell’avvocato difensore Vincenzo Coluccio, che assisteva un 41enne disoccupato finito sotto processo con l’accusa di aver maltrattato la moglie per anni.

Referti medici e liti

«Non c’è collegamento — ha spiegato il legale in aula — tra i referti medici portati dall’accusa e le liti o le presunte aggressioni». Tesi che ha trovato conferma nella sentenza pronunciata dal giudice: «Dall’esame della persona offesa e dei testi non è emersa una situazione tale da cagionare un disagio continuo e incompatibile con le normali condizioni di vita». Risultato: il 41enne imputato è stato assolto, anche in virtù del fatto che le aggressioni sono state ritenute configurabili come «atti episodici» avvenuti in «contesti particolari». E questo anche se la donna, a quanto risulta, è corsa in ospedale nove volte in otto anni perché aveva il naso rotto o una costola incrinata. Però, scrive il Tribunale nelle motivazioni della sentenza, «non tutti gli episodi sono riconducibili ad aggressioni da parte dell’imputato». Episodi che la moglie ha ricollegato genericamente a una lite, ma per i quali non è stata in grado di fornire, a parte per l’ultimo, una descrizione dettagliata. «Tali fatti non paiono perciò riconducibili, proprio perché traggono origine da situazioni contingenti, a un quadro unitario di un sistema di vita tale da mettere la vittima in uno stato di prostrazione fisica e morale». I litigi in casa erano all’ordine del giorno e anche la donna si scagliava a volte contro il marito. Tant’è che sia i figli della coppia sia i vicini di casa non sono stati in grado, in alcune occasioni, di indicare chi tra marito e moglie avesse usato violenza per primo nei confronti del coniuge. L’imputato è stato comunque condannato a sei mesi di reclusione per l’abbandono della casa familiare e per il «mancato contributo al mantenimento dei figli minorenni».

«Sconcerto e preoccupazione»

In una «revisione del giudizio in appello» spera la senatrice Francesca Puglisi (Pd), presidente della Commissione parlamentare contro il Femminicidio: «La sentenza del Tribunale di Torino — spiega la parlamentare — suscita sconcerto e preoccupazione. La minimizzazione della violenza all’interno di un rapporto affettivo non solo rischia di pregiudicare la richiesta di giustizia da parte delle vittime, ma costituisce fattore disincentivante rispetto alle istanze di tutela. Fermare la violenza si può e si deve. Spero in una revisione del giudizio in appello».

(fonte)

Il “pizzino” di Neri Parenti alle donne che hanno intenzione di denunciare le molestie

Dunque. Le Iene mandano in onda un servizio in cui dieci ragazze accusano (con tanto di racconto e particolari) il regista Fausto Brizzi di averle molestate in provini che poco hanno a che vedere con il potenziale talento recitativo di ognuna di loro.

Nella giornata di ieri comincia a eruttare una lava di giudizi più o meno sconsiderati da persone più o meno considerevoli. Non mi interessa ora qui analizzarli tutti (ne avremo il tempo, Brizzi è solo il primo nome di una lunga serie) ma vale la pena riprenderne uno, uno solo, che è un paradigma.

A parlare è Neri Parenti, intervistato da Radio Capital. Leggete bene:

“Com’è possibile che 10 persone accusino un regista in maniera anonima?” “Io questo sinceramente non me lo spiego”. E poi:“Anche sul discorso di cercare la notorietà in realtà se tu fai un’intervista a volto coperto la notorietà non ce l’hai e poi questo per la tua carriera professionale non è un aiuto. Io una di quelle signorine non la prenderò mai per i miei film”.

Primo: le donne che denunciano non sono donne. Non si riesce nemmeno a nominarle come “presunte vittime” (perché se Brizzi è “presunto molestatore” non si capisce perché chi denuncia dovrebbe essere “signorina”). La fallocrazia (non solo cinematografica, in questo Paese, ma che sta un po’ dappertutto) è bene condensata nel “signorine”.

Secondo: dispiace per il patetico tentativo banalizzante di Neri Parenti ma le denunce contro Brizzi non sono “anonime” come si sforza di raccontare. Tra le ragazze (comunque facilmente rintracciabili nel caso di un’azione penale dello stesso Brizzi) ci sono la modella Alessandra Giulia Bassi e l’ex miss Italia Clarissa Marchese che hanno raccontato la propria esperienza con nome, cognome e faccia. Gli devono essere sfuggite, povero Neri Parenti: del resto le distrazioni pro domo sua sono una costante tra i furbi di questo Paese.

E infine: “Io una di quelle signorine non la prenderò mai per i miei film” è il manifesto dell’ipocrisia e del corporativismo di quel mondo. Non si capisce esattamente quali siano i motivi che spingano il re dei cinepanettoni a giudicare queste donne inabili al percorso cinematografico (forse la mancata riservatezza sulle palpatine subite?) ma racconta perfettamente perché le donne hanno paura di raccontare e denunciare. Neri Parenti non poteva pensare a una frase più chiara per mandare l’avvertimento del “chi parla pagherà”. Una frase che è come una testa di cavallo lasciata fuori dalla porta. Una cosa così.

Bravo, Neri Parenti. Bravo. Complimenti. Bis.

Buon martedì.

(continua su Left)