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Casapound invoca il rispetto della legge (per gli altri): ora finalmente hanno ordine e disciplina

Palazzo occupato, così Casapound ha ottenuto ciò che voleva: ordine e disciplina

Ordine e disciplina, finalmente. I prodi membri di Casapound, quelli che vorrebbero fare i fascisti fingendo di non essere fascisti e autoconvincendosi che il fascismo abbia fatto “anche cose buone” (come un orologio rotto che segna l’ora esatta due volte al giorno) alla fine hanno ottenuto due dei punti principali della loro scarna propaganda elettorale: ordine e disciplina. Per ordine e per disciplina dovranno smammare dal palazzo che hanno abusivamente occupato a Roma in via Napoleone III.

Del resto, pensateci bene, ve li vedete quelli che fanno gli eroi che con il pugno alzato mentre cacciano gli stranieri delle baracche che poi vanno a ristorarsi in una baracca ben più lussuosa, nel pieno centro della città di Roma, dando così un pessimo esempio? No, dai. Anzi, volendo ben vedere, se i coraggiosi di Casapound fossero stati più svegli di quello che sono avrebbero organizzato una bella manifestazione, magari in piena quarantena e con le mascherine abbassate, per “liberare Roma” dalla loro presenza abusiva. Sai che begli applausi.

Ordine e disciplina, certo, e nell’ordine c’è il rispetto della legge che loro invocano per gli altri ma poi si dimenticano tutte le volte di applicare a se stessi e così saranno sicuramente soddisfatti dell’indagine condotta dalla Digos della Questura di Roma, la Procura della Repubblica capitolina che contesta i reati di associazione a delinquere finalizzata all’istigazione all’odio razziale e occupazione abusiva di immobile nei confronti, tra gli altri, dei vertici del loro movimento Gianluca Iannone, Andrea Antonini e Simone Di Stefano. Oltre ad altre tredici persone.

Ordine e disciplina, dicono, e siamo sicuri che sapranno spiegarci per bene come possano ritrovarsi in “emergenza abitativa” la metà degli occupanti abusivi del loro palazzo che sono dipendenti pubblici, regolarmente e comodamente pagati, che stanno abusando della pazienza degli italiani. E il grande capo Gianluca Iannone siamo sicuri che ci potrà spiegare come possano essere in “emergenza abitativa” i dipendenti che lavorano nel noto ristorante di sua moglie.

Parlano di onore, quelli di Casapound, e siamo sicuri che non avranno il disonore di venirci a dire “ah beh, allora gli altri?” come dei bambini all’asilo per cercare di giustificarsi. Ordine e disciplina, mica benaltrismo. Sono i duri e puri, no? Mostratecelo.

Leggi anche: 1. Altro che famiglie indigenti. Ecco chi abita nel palazzo occupato di CasaPound a Roma / 2. Casapound, sequestrata la sede in via Napoleone III a Roma

L’articolo proviene da TPI.it qui

Così la Lega di Salvini cerca voti al sud

Giuseppe Pipitone scrive un articolo che spiega nel dettaglio l’indagine che vede coinvolti esponenti leghisti in Sicilia ed è un desolante siparietto:

Il fratello conosciuto, quello con i voti, non si poteva candidare a causa di una condanna passata in giudicato. Il suo partito, però, quel bottino di preferenze non voleva perderlo. Un bel problema se fai il leader della Lega e sei chiamato a dimostrare per la prima volta che anche il più nordico dei movimenti può prendere voti in Sicilia. Come fare, dunque, per superare quell’ostacolo insormontabile? Con un trucco degno di Luigi Pirandello: lo scambio di persona. Candidi l’altro fratello, quello sconosciuto e senza voti ma con lo stesso cognome del politico. Lo tieni nascosto, stampi volantini senza foto e senza nome di battesimo e in giro a fare campagna elettorale va quell’altro, quello che i voti li ha. E alla fine li prende, seppur con l’inganno.

Il trucco alla Pirandello e i leader della Lega – C’è una storia paradossale al centro dell’inchiesta per voto di scambio della procura di Termini Imerese. Una vicenda che sembra scritta proprio dall’autore di Uno, nessuno e centomila e che ha portato i pm a contestare ad alcuni indacati anche l’ipotesi dell’attentato ai diritti politici del cittadino. Nella carte dell’indagine gli inquirenti parlano di “una campagna elettorale fatta di menzogne, inganni e promesse di utilità di diverso tipo che ha fortemente alternato il gioco politico”. Ai domiciliari sono finiti i fratelli Salvino e Mario Caputo. Il primo è un ex consigliere regionale del Pdl, noto per essere stato il primo politico decaduto a causa delle legge Severino a causa di una condanna in via definitiva a un anno e cinque mesi per tentato abuso d’ufficio. Da sindaco di Monreale, infatti, aveva cercato di far cancellare alcune multe al vescovo della zona. Poi fulminato dal verbo di Alberto da Giussano, Salvino Caputo è diventato coordinatore in provincia di Palermo del movimento Noi con Salvini, cioè la costola siciliana della Lega, che alle ultime elezioni regionali ha candidato – senza eleggerlo – suo fratello Mario. L’inchiesta siciliana, dunque, è una bella tegola per il partito di Matteo Salvini, fresco di espansione al sud del suo partito. Soprattutto perché coinvolge direttamente anche i due luogotenenti isolani dell’aspirante premier: Alessandro Pagano e Angelo Attaguile. Entrambi ex deputati del Pdl, hanno poi aderito al Carroccio che li ha ricandidati alle politiche con alterne fortune: Pagano è stato rieletto a Montecitorio, Attaguile, invece, è rimasto fuori. Oggi sono entrambi indagati a piede libero. Il gip li definisce “istigatori nei confronti dei quali si procede separatamente”.

Le intercettazioni: “Non possiamo perdere 7mila voti” – A inguaiarli, come spesso accade, è il telefono. Non il loro, però, visto che sono parlamentari. A essere intercettato è invece il cellulare di Salvino Caputo, che nel settembre del 2017 sta preparando la sua ricandidatura all’Assemblea regionale siciliana. C’è un problema, però: quella condanna definitiva. E soprattutto il fatto che si è visto rigettare l’istanza di riabilitazione. Per questo motivo chiama Pagano. È il 29 settembre del 2017, la vigilia delle elezioni in cui la Lega avrebbe eletto il suo primo consigliere in Sicilia e il deputato del Carroccio non vuole perdere i voti di Caputo.  “Senti tu mi devi fare una cortesia. Noi non possiamo perdere settemila voti, seimila voti, non meno di questo, e buttarli al macero. Se oggi salta questo, noi perdiamo in termini di credibilità. Non esiste: scusami lo abbiamo costruito in sei mesi e ora sul traguardo…Male che va tu candidi tuo figlio“, suggerisce Pagano a Caputo per poi spiegare meglio la sua strategia. “Io so già la soluzione qual è: Caputo senza fotografie, e Gianluca – come si chiama tuo figlio – detto Salvino. Punto e basta. Funziona così”. In pratica basta che Caputo candidi suo figlio, faccia stampare manifesti senza fotografie e il gioco è fatto.

“Candida tuo figlio col tuo nome” – Un escamotage che sarebbe stato benedetto anche da Attaguile. “Io ho parlato con Alessandro – dice al telefono il coordinatore della Lega in Sicilia orientale – La soluzione che ha posto lui è ottima. Candidare tuo figlio mettendoci il nome Salvino”. Alla fine, in realtà Caputo candiderà il fratello Mario, inserito in lista con una postilla: sostiene di essere conosciuto anche con l’appellativo di Salvino, cioè quello che in realtà è il nome del fratello. “Tieni conto che molti sapranno che sono io il candidato, perché non è che tutti sono raggiungibili o tutti sanno che io non mi candido: si gioca sull’equivoco”, dice il politico incandidabile in un’altra intercettazione. “All’esterno chi non lo sa? Lì c’è scritto Caputo. Non è che c’è la foto. La gente fuori non lo deve sapere. Non glielo dobbiamo spiegare”, dicono invece alcuni dei suoi portatori di voti. In pratica gli elettori andranno a votare Mario Caputo convinti di sostenere invece il fratello Salvino. Il quale a sua volta avrà mantenuto in famiglia il seggio a Palazzo dei Normanni.

Il candidato che non doveva incontrare gli elettori – E in effetti il trucco funziona. “In numerosi comuni della provincia di Palermo – dicono i pm  – Salvatore Caputo si presentava al corpo elettorale come se fosse lui e non il meno conosciuto fratello Mario, il reale candidato. Pertanto lo scorso 5 novembre gli elettori si sarebbero recati alle urne convinti di avere espresso la propria preferenza per Salvatore Caputo”. Il segreto è tenere quanto più possibile nascosto Mario Caputo, il vero candidato. Come quando a Termini Imerese è fissato un grosso incontro elettorale con più di 200 persone. “Alla domanda del fratello se occorresse la sua presenza- annotano gli investigatori – Caputo rispondeva che non era necessario”. Il candidato non doveva incontrare i suoi elettori, che altrimenti avrebbero potuto capire tutto. “Detto Salvino è un modo per non perdere voti. Ci sono nei paesi persone che non sanno che non sono io il candidato, sono convinti che sono io. E quindi vanno a scrivere Salvino Caputo, che faccio ci perdo voti?”, dice ancora al telefono l’ex consigliere regionale. “Giocando sull’equivoco scaturito dal cognome Caputo e dall’appellativo Salvino, sul fatto che nei piccoli centri la gente fosse poco informatae fosse dotata di minori strumenti, gli odierni indagati hanno posto in essere condotte fortemente censurabili non solo dal punto di vista etico, ma anche dal punto di vista penale avendo, avendo tratto d’inganno i cittadini chiamati ad esercitare i propri diritti politici”, spiegano gli inquirenti. Tutto questo, però, non è bastato per conquistare uno scranno a Palazzo dei Normanni: a Mario Caputo detto Salvino, infatti, andarono meno di 2.500 voti. Troppo pochi per essere eletti. Abbastanza, invece, per reclutare nuove seguaci della Lega in Sicilia.  ““L’unica strada – diceva un sostenitore di Caputo –  è Salvino, Salvini a livello nazionale e Salvino a regionale”. E poco c’è mancato che dopo aver candidato il fratello utilizzando il suo nome, Caputo non lanciasse un nuovo partito: Noi con Salvino.

(fonte)

Questo nostro tempo dove un prete candidato al Nobel è indagato per il reato di solidarietà

Un avviso di garanzia è stato notificato al sacerdote eritreo Mosè Zerai, candidato al Nobel per la pace nel 2015 e impegnato da anni negli aiuti umanitari ai profughi. Con l’iscrizione nel registro degli indagati, la Procura di Trapani, che conduce l’inchiesta sulla ong tedesca Jugend Rettet, lo accusa di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”.

Le indagini che hanno portato al provvedimento, eseguite dalla Squadra mobile della città siciliana sorebbero cominciate, però, nel novembre scorso. Don Zerai, fondatore e presidente dell’agenzia di informazione Habeshia, “il salvagente dei migranti”, offre assistenza telefonica a chi si accinge a partire, avvertendo le autorità quando imbarcazioni che attraversano il Mediterraneo si trovano in difficoltà e hanno bisogno di un intervento di salvataggio. “Ho saputo solo lunedì dell’indagine – commenta il sacerdote – e voglio andare fino in fondo alla vicenda. Sono rientrato a Roma dall’Etiopia di proposito. In passato ricevevo moltissime telefonate ogni giorno – aggiunge – oggi invece ne ricevo molte meno e non saprei dire perché: il mio intervento però è sempre stato a scopo umanitario”.

L’inchiesta giudiziaria avrebbe come riferimento presunte pressioni svolte dal prelato nei confronti degli organi competenti nel soccorso in mare. “Prima ancora di informare le Ong – sostiene don Mosè – ho allertato ogni volta la centrale operativa della Guardia costiera italiana e il comando di quella maltese. Non ho mai avuto rapporti con la Iuventa (la nave posta sotto sequestro dalla Procura trapanese, ndr) – precisa – né, tantomeno, aderisco a chat segrete e ho sempre comunicato attraverso il mio cellulare”.

Proprio ieri il religioso eritreo aveva definito “vere e proprie calunnie” nei suoi confronti certe illazioni riportate da testate giornalistiche che avrebbero promosso contro di lui e i suoi collaboratori una “campagna denigratoria”. “Ma io non ho nulla da nascondere – afferma – perché ho sempre agito alla luce del sole e in piena legalità”. Il sacerdote conferma inoltre di aver inviato, nell’ambito della sua attività umanitaria, segnalazioni di soccorso all’Unhcr, e a organizzazioni come Medici senza frontiere, Sea Watch, Moas e Watch the Med. Don Zerai ha incaricato i suoi legali di “tutelare in tutte le sedi opportune la mia onorabilità personale, quella del mio ruolo di sacerdote e quella di Habesha”.

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Grufolano sulla nonna di Renzi e intanto affossano la legge sulla tortura (e il “teorema Zuccaro” non esiste)

Forte questo governo Gentiloni. Ancora una volta, dopo quella brutta legge sulla legittima difesa (che si augurano di aggiustare in quel Senato che volevano abolire) ieri alla Camera sono riusciti a partorire una legge sulla tortura che appena nata ha già infranto parecchi record: non è stata votata dal suo primo firmatario Luigi Manconi (come se un ristoratore servisse nel suo ristorante un suo piatto avvisandovi che farà schifo), ha meritato critiche dalle associazioni umanitarie che si occupano di tortura e dai famigliari dei torturati e, per di più, è riuscita a fare arrabbiare anche le forze di polizia. Un capolavoro di inettitudine. Solo che questa volta è il Senato a confidare nella Camera perché “intervenga con le opportune migliorie”. In tempi di referendum i sostenitori della riforma costituzionale lo chiamavano “ping pong” e invece è banalmente dappocaggine.

Forte anche tutto il can can sul teorema Zuccaro: frotte di politici che si sono buttati a pesce che si doveva “fare chiarezza sulle ONG” dimenticandosi di essere pagati proprio per quello. Quando si sono ripresi hanno messo in piedi un’indagine conoscitiva affidata alla Commissione Difesa che finalmente ha prodotto un risultato: non ci sono inchieste in corso sulle ONG (ma va?) e c’è una sola inchiesta (“conoscitiva”) su alcune persone (non meglio specificate). In sostanza: non esistono al momento attuale elementi che possano farci dubitare di eventuali accordi illeciti tra ONG e scafisti. Balle, insomma. Balle grasse e stupide che hanno riempito la bocca di una manciata di politici pressapochisti che oggi invece rimangono muti.

 

(continua su Left)

Sala ha saputo dell’indagine dai giornali? Sì, perché il suo avvocato non ha aperto le mail.

(Manuela D’Alessandro per Giustiziami)

Metà del messaggio postato su Facebook in cui Beppe Sala annuncia di voler tornare a fare il sindaco è dedicata al suo “stupore” nell’aver appreso dalla stampa di essere indagato. “Giovedì sera nessuna comunicazione ufficiale al riguardo mi era stata fatta, nessun avviso di garanzia mi era stato notificato (…). Mi direte, non è certo la prima volta. Vero, ciò nondimenno dobbiamo tutti insieme fare uno sforzo per non considerare la cosa ‘normale’. Non lo è se riguarda un cittadino e non lo è se riguarda il sindaco di Milano”.

Questa versione del sindaco sembrerebbe prefigurare una clamorosa violazione del segreto istruttorio a suo danno, con la ‘soffiata’ di una irrispettosa procura generale al cronista di turno. La realtà è ben diversa.

Giovedì sera, la magistratura ha notificato una mail con la richiesta di proroga dell’indagine sulla Piastra di Expo all’avvocato d’ufficio Luana Battista. E’ quello che accade al qualsiasi “cittadino” da lui evocato che non ha già un legale perché non è mai stato coinvolto in quell’inchiesta. Sala dimentica di raccontare che ha saputo dai giornali di essere accusato per la presunta falsificazione di due verbali solo perché l’avvocato d’ufficio non ha aperto la sua posta elettronica, come da lei candidamente ammesso (“Non c’erano nomi noti nella prima pagina, sembrava una nomina come le altre”). Nel frattempo, i giornalisti hanno dato risalto a un atto non più segreto in quanto (in teoria) già conosciuto dall’indagato.

Forse al sindaco da’ fastidio aver saputo troppo tardi che l’accusa a suo carico era ‘solo’ quella di falso.  Quando sono uscite le prime notizie, racconta chi è gli è stato vicino, il suo timore era di essere accusato di turbativa d’asta, il reato attorno a cui ruota l’inchiesta sul più ricco appalto di Expo. Di qui il tono infastidito verso stampa e procura generale: se avesse saputo che doveva rispondere ‘solo’ di avere retrodato dei verbali non si sarebbe cacciato nel limbo scivoloso dell’autosospensione.

Ecco la moratoria della Procura su Expo (di Frank Cimini e Manuela D’Alessandro)

(dal sito giustiziami, che vale la pena tenere tra i preferiti, di Frank Cimini e Manuela D’Alessandro)

Chissà, magari Beppe Sala, il ‘sindaco della procura‘ ha provato a prendersi la palma del peggiore in questa storia di malagiustizia, inventandosi l’autospensione che tecnicamente esiste ma politicamente assomiglia molto a una pagliacciata. Ha provato ma non ci è riuscito, perché è fuor di dubbio che quella palma appartiene alla procura di Milano (non ai pm Robledo, Filippini, Pellicano e Polizzi che ci ‘provarono’), alla moratoria delle indagini su Expo che adesso con anni di ritardo per sei mesi cercherà di fare la procura generale dopo aver avocato il fascicolo.

Sala poteva restare al suo posto perché è un semplice indagato dopo essere stato archiviato per l’assegnazione a Oscar Farinetti senza gara pubblica oppure poteva dimettersi. Invece si è autosospeso dopo aver saputo di dover rispondere di concorso in falso materiale e ideologico, la retrodatazione del cambio di due componenti della commissione aggiudicatrice sulla piastra. Non è una quisquilia si parla di verbali di riunione falsificati.

Milano rischia di tornare al voto in primavera, pagando un prezzo salato alla celebrazione costi quel che costi di Expo. C’era fretta, non si potevano rispettare le regole, non c’era tempo. La stessa spiegazione fornita per l’affaire Farinetti. Con la procura di Milano che aderisce e di fatto copre. Ma la magistratura copre anche se stessa perché per i fondi di Expo giustizia non era stata indetta la gara pubblica e tutti possono ammirare da anni gli inutili schermi appesi per tutto il Palazzo acquistati con quei fondi.

Fin qui era andata bene alla procura e a Sala diventato sindaco di Milano perché le indagini non erano state approfondite. Non tutte le ciambelle riescono con il buco. Si mettevano di mezzo un gip che rigettava l’archiviazione per la piastra e la procura generale che avocava. I boatos del palazzo riferiscono che dietro ci sarebbe anche una storia di correnti in lotta tra loro. Quelle correnti che al Csm fanno da sempre il bello e il cattivo tempo. E del resto il Csm rifiutò di aprire una pratica al fine di verificare l’esistenza o meno della moratoria della quale questo umile blog aveva iniziato a parlare nell’aprile del 2015, molto tempo prima dell’inaugurazione di Expo. Una voce nel deserto. Adesso la moratoria è sempre più chiara. Matteo Renzi da premier ringraziò due volte l’allora procuratore Edmondo Bruti Liberati per il senso di responsabilità istituzionale inserito tra le ragioni del sucesso di Expo.

Comunque sia si indaga sia pure con ritardo e va considerato pure che a maggio Felice Isnardi il sostituto procuratore generale titolare del fascicolo compirà 70 anni e andrà in pensione. Magari prima di andare potrebbe anche convocare come testimone Renzi per chiedergli: “Scusi a che cosa si riferiva esattamente?”. (frank cimini e manuela d’alessandro)

Parla Robledo: “Alla Procura di Milano c’è stato un abbraccio mortale tra giustizia e politica”

(fonte)

La ripresa delle indagini su Expo? “È con viva e vibrante soddisfazione che prendo atto del fatto che uffici inquirenti milanesi hanno ripristinato la tradizione di autonomia e indipendenza delle indagini che negli ultimi tempi si era un po’ appannata”. Così commenta Alfredo Robledo, che con un goccio di humor ricalca la formula dei comunicati del Capo dello Stato. Non gli sfugge che gli “uffici inquirenti milanesi” che hanno ripreso a indagare sull’esposizione universale non sono quelli della sua ex Procura, bensì quelli della Procura generale: i vecchi “parrucconi” si dimostrano più dinamici di quelli che una volta erano i pm d’assalto.

Ma dottor Robledo, che cosa vuol dire “appannata”?

È mia opinione che nel 2014 alla Procura di Milano ci sia stato un abbraccio mortale tra magistratura e politica. Il corto circuito è stato fatto scattare da questi rapporti, con il risultato, a mio avviso, di far perdere ai magistrati la loro autonomia e il loro ruolo di controllo, stabilito dalla Costituzione.

Lei nel 2014 è stato esautorato dal procuratore Edmondo Bruti Liberati che le ha prima proibito di partecipare a due interrogatori di un suo indagato, il manager Antonio Rognoni.

Anche il Csm ha valutato illegittimo questo comportamento, senza però che ci sia stata alcuna conseguenza.

Quando poi lei è ricorso al Csm, mandando un esposto in cui denunciava gli attacchi di Bruti, è intervenuto l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

I giornali dell’epoca, riferendosi al procuratore Bruti, titolavano: “Salvate il soldato Ryan”. I soldati obbediscono, i magistrati no.

Il Consiglio giudiziario, articolazione locale del Csm, ha poi dato ragione a lei contro Bruti che per escluderla dalle indagini aveva prima formato l’Area Omogenea Expo e poi le aveva tolto il coordinamento dell’anticorruzione, provvedimento ritenuto dal Consiglio illegittimo.

Il Consiglio giudiziario di Milano ha scritto un giudizio durissimo: “Il provvedimento in esame (…) sostanzialmente si risolve in un esautoramento completo del dottor Robledo dal ruolo di coordinatore del Secondo Dipartimento, senza alcuna considerazione della sfera di autonomia e dignità della funzione semidirettiva del magistrato, ma anche delle reali esigenze organizzative dell’ufficio”… “In conclusione, il provvedimento, che avrebbe dovuto avere finalità esclusivamente organizzative, risulta essere stato utilizzato per risolvere in modo improprio l’esistenza di un conflitto”. Parole dure, eppure il Csm non ha fatto una piega.

Due anni fa, alla Festa del “Fatto Quotidiano” alla Versiliana, lei aveva denunciato che il ricambio in corso di centinaia di dirigenti degli uffici giudiziari avrebbe reso la magistratura più gerarchica e più disponibile verso la politica.

Dissi anche che i membri laici del Csm, scelti dai partiti di destra e di sinistra, avrebbero spesso votato nel medesimo modo, indipendentemente dalla loro estrazione politica e sulla base di accordi tra e con le correnti. E così è stato.

Ma davvero i magistrati oggi sono meno liberi e meno autonomi?

Sono soprattutto i dirigenti delle correnti ad andare incontro alle esigenze della politica, e i cittadini e i magistrati poi finiscono per subirne le conseguenze. Se invece le correnti vogliono ritrovare il loro spirito primario, legato a riferimenti culturali e non a giochi di potere, devono porre fine alle spartizioni correntizie degli uffici. Anche l’Associazione nazionale magistrati deve dire sul punto una parola chiara: fa bene il presidente Piercamillo Davigo a ripetere che uno dei problemi dell’Italia è la corruzione dei politici, ma dovrebbe aggiungere che anche i magistrati non danno certo un bell’esempio, quando si spartiscono le cariche tra correnti.

Si è sentito solo in questa vicenda?

Lo sono stato. E il silenzio dei magistrati e della Associazione è assordante.

Ora i documenti dell’inchiesta sulla piastra spiegano perché, per esempio, i 6 mila alberi di Expo, comprati in un vivaio a 266 euro l’uno, sono stati pagati da Sala alla Mantovani 716 euro l’uno. Contratto affidato nel luglio 2013, senza gara, alla Mantovani per un importo di 4,3 milioni. La Mantovani nel novembre successivo stipula un contratto di subfornitura con un’impresa vivaistica per 1,6 milioni.

Gli italiani che derubano sui rom

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Ogni tanto la cronaca regala drammaturgie finissime, inaspettate come saprebbe fare solo la penna di un creativo potente: a Roma, dopo una campagna elettorale (fiacchetta) di salvinate contro i rom succede ancora una volta che un’indagine della magistratura racconti quanta gente continui a lucrare sui campi rom. Illegalmente. Rubano sui campi rom e sono italiani, italianissimi. Romani al midollo.

I problemi in Italia sono problematici solo per quelli che non ci guadagnano: i rom, i rifugiati, gli ammalati, gli anziani, i disabili, i disoccupati, i senza casa e molti altri fragili ancora sono una miniera d’oro per chi ha lo stomaco di non intenerirsi. E oltre a essere un’ottima palude per un funzionale sistema correttivo si può anche fingere di intenerirsi o odiarli secondo le bisogna. Cosa c’è di meglio di un nemico da abbattere disponibile a diventare un’emergenza stabile?

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Oltre al figlio di Lupi

Oggi vale la pena leggere Luca Sofri:

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Magari mi invento dei pezzi, ma ripeto, mi pare una storia emozionante ma fuorviante. Era più furbo evitare, e fargli trovare lavoro altrove che non dal primo collegabile alla tua famiglia, certo. Ma il problema è un altro, se spostiamo le telecamere dal figlio e torniamo sull’edificio del ministero delle Infrastrutture in via Nomentana: è che quell’amico di famiglia abbia ricevuto in questi anni decine di incarichi preziosi e importantissimi dal ministero. E che il ministro Lupi abbia avallato decisioni che hanno reso al suo amico milioni, e che – se fossero dimostrate le accuse penali – abbia omesso il minimo controllo su un sistema di corruzione di cui erano responsabili, nel suo ministero, il suo più importante dirigente e il suo amico costruttore.
C’è una sola cosa che Lupi può dire per non dimettersi: «Sono convinto che queste accuse contro Incalza e Perotti siano completamente false, perché la mia vicinanza professionale e personale ad ambedue mi fa escludere completamente che possano essere vere; e se lo fossero lo saprei e dovrei dimettermi; e se non lo sapessi, sarei colpevole di inettitudine nel mio ruolo di ministro e dovrei dimettermi». Se Lupi è disposto a dire questa cosa guardando tutti negli occhi e ad affrontarne l’eventuale smentita, la dica.
Se no, ci si dimette.

Il resto è qui.

Caso Uva: sempre peggio

Ora si scopre che gli atti raccolti dai magistrati sono “illogici“. Le ombre quelle no: paventano una logica chirurgica e aberrante.

Il caso Uva squassa ancora la magistratura. L’11 marzo era già sembrato un colpo di scena che il giudice Giuseppe Battarino, nel respingere la richiesta di archiviazione di due carabinieri e sei agenti di polizia proposta dai pm Agostino Abate e Sara Arduini, li avesse obbligati invece a chiedere il processo ai rappresentanti delle forze dell’ordine per la morte nel giugno 2008 del 43enne Giuseppe Uva in ospedale dopo una parte della notte trascorsa nella caserma dei carabinieri. E il 20 marzo i pm, come in questi casi impone la legge, avevano ovviamente ottemperato all’obbligo, formalizzando l’incriminazione di carabinieri e poliziotti richiesta dal gip Battarino per le ipotesi di reato di omicidio preterintenzionale, arresto illegale, abuso d’autorità e abbandono di minore. Solo che – si scopre adesso – ad avviso del loro procuratore capo facente funzioni Felice Isnardi (inviato 20 giorni fa dalla Procura generale di Milano a reggere la scoperta Procura di Varese), i due pm l’avrebbero sì fatto, ma in un modo tale da costruire imputazioni deboli per illogicità e contraddittorietà, con il risultato di rischiare di minare in partenza un processo nel quale non credono e al quale solo il gip li ha obbligati.