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indagini

Salutavano sempre

Gabriele Bianchi, uno dei fratelli arrestati per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, scriveva sul suo profilo Facebook (lo riporto letterale), è qualcosa di anni fa (9) perché purtroppo i profili sono stati immediatamente cancellati e non abbiamo materiale a disposizione. Scrive Gabriele Bianchi:

«lurido egizziano de merda te possa da na paradise secca pozzi rimane senza respiro, pozzi crepa lentamente, spero che qualcuno ti venga a cercare e che ti affoghi nella merda schifosissimo essere figlio di puttana se c’è ancora la guerra nel tuo paese di merda spero che ti uccidono adesso bastardoooooooo»

Risponde il fratello Alessandro, il fratello maggiore, estraneo alla vicenda della morte, quello che ieri in un’intervista ci ha detto che ha insegnato ai suoi fratelli “le regole, il rispetto per l’avversario, la disciplina” e che “il fascismo e il razzismo sono cose che non esistono. Politica non ne hanno mai fatta e in palestra si allenano con ragazzi romeni, albanesi, nordafricani”:

«egiziano de merdaa che tu possa bruciare all’inferno mi piacerebbe averti 10 minuti tra le mani il pezzo più grande rimarrebbe un tuo occhio negraccio de merda»

Gli risponde Gabriele Bianchi:

«aahahahahahaha che negro de merda… magari ora sta sotto fosso morto!!!».

I genitori dei fratelli Bianchi in caserma avrebbero dichiarato: «Cosa avranno mai fatto?! In fondo era solo un extracomunitario…».

Forse sarebbe il caso di dircelo chiaramente che la violenza (scritta, simulata, proposta, mimata, recitata) poi alla fine diventa azione. Forse sarebbe il caso di dirci, al di là delle risultanze delle indagini e del processo, che l’ambiente da cui escono i picchiatori di Willy è veramente tanto diverso da come ce lo vorrebbero raccontare, tutto tranquillo e sereno.

Basta farli parlare, si dipingono da soli. Di razzismo qui se ne sente l’odore, dappertutto.

Buon mercoledì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Cecilia Strada a TPI: “Vendere armi all’Egitto vuol dire sostenere torture e uccisioni come quella di Regeni”

Cecilia Strada a TPI: “Vendere armi all’Egitto vuol dire sostenere torture e uccisioni come quella di Regeni”

Cecilia Strada è una filantropa e saggista italiana, ex presidente di Emergency e figlia dei fondatori Teresa Sarti Strada e Gino Strada. La guerra la conosce perché l’ha vissuta da sempre in prima persona. L’abbiamo intervistata per TPI.
Cecilia Strada, alla fine l’Italia ha deciso di vendere armi all’Egitto. Come la vede?
Molto molto molto molto male. Sposo in toto la richiesta di Amnesty e di Rete Disarmo che chiedono almeno che se ne parli in parlamento. È una cosa contraria agli interessi dei cittadini italiani, qui si tratta di essere furbi non semplicemente disarmisti. C’è la legge 185/90 che dice che non si vendono armi a chi ha interessi contrari all’Italia e questo è il caso dell’Egitto, poiché in Libia non sostengono la stessa parte in causa: è una cosa poco furba oltre che poco etica. Vendere armi significa sostenere quello che l’Egitto sta facendo al suo interno (torture, ragazzi scomparsi, ammazzati, studenti come Regeni e Zaky). La legge dice che non potresti vendergli armi salvo diversa delibera del Consiglio dei ministri sentite le Camere, quantomeno che se ne parli in parlamento, è la legge, non è un sogno da pacifista. Gli interessi dell’Italia sono maggiori degli interessi delle fabbriche d’armi.

Di Maio ha definito l’Egitto un “partner imprescindibile”…
Partner imprescindibile su cosa? E poi bisogna decidere quali sono gli standard, chiediamo ai nostri partner il rispetto dei diritti umani? C’è un ragazzo italiano morto, le autorità hanno ostacolato le indagini, ridurre tutto al fattore economico è miope, non si fa l’interesse del proprio Paese.
Il pacifismo è sparito dall’agenda politica?
Il pacifismo non occupa spazio se non quando viene usato per dare del sognatore a qualcun altro. Il pacifismo è la non violenza, è riflettere sul modo in cui stiamo insieme, cercare il modo di evitare i conflitti, immaginare delle società alternative. Questo non c’è mai stato ed è un peccato. Sono comunque soldi, si dice, servono per l’economia italiana, ma se si investe nel civile il ritorno è maggiore rispetto al militare: se l’obbiettivo è creare posti di lavoro allora si investano fondi nel civile, come nelle energie alternative, l’investimento dà più posti di lavoro dell’industria bellica.

Intanto rimane in piedi la questione libica e continuano gli sbarchi…
Il Covid faceva paura e non c’era bisogno di inventarsi il nemico, Ong o migrante. Però gli sbarchi sono continuati, in numeri piccoli – poco più di 3mila persone da gennaio a oggi – ma ci sono stati, come anche le segnalazioni di naufragi difficilissimi da verificare perché non ci sono navi in mare che possano testimoniare, ci sono diversi casi di omissione di soccorso e almeno una strage a Pasquetta di una nave lasciata alla deriva con 12 persone morte dopo 5 giorni che chiedevano aiuto. Altri casi di cui non si saprà niente. Ora Mediterranea è tornata in mare, Sea Watch è ripartita poche ore prima con imponenti misure di sicurezza.
L’immigrazione tornerà a essere tema di scontro politico?
Dipende da quanto i politici sentiranno il bisogno di strumentalizzare facendo politica sulla pelle della gente. Io sto ancora aspettando la discontinuità promessa da questo governo, io ero in mezzo al mare sulla Mare Jonio di Mediterranea quando si insediò questo governo. I decreti sicurezza sono ancora lì. Non permetteremmo mai che dei bambini bianchi rimanessero su una nave dopo essere stati torturati, violentati e tenuti prigionieri. Discontinuità vuol dire stracciare gli accordi con la Libia: c’è una gravissima violazione dei diritti fondamentali dell’uomo, delle leggi, della Costituzione. I lager andrebbero evacuati e il sistema smantellato e bisognerebbe aprire canali d’accesso sicuri e legali sconfiggere il traffico di uomini. Tra l’altro non va bene che il soccorso in mare non venga fatto dagli Stati ma dalle Ong, non è normale.

Però in Parlamento alcuni si sono inginocchiati
Su questo ci penso da qualche giorno. I nostri parlamentari sanno chi è George Floyd, benissimo. Ma cosa sanno di Soumayla Sacko? Cosa sanno delle vittime del razzismo qui? Le vittime del nostro razzismo sistemico qualcuno le conosce? Possiamo interessarci a questo? Se sentiamo questo problema sollevato negli Usa allora dobbiamo guardarci intorno: i neri sono quelli nel Mediterraneo e quelli schiavi delle mafie nei campi a disposizione della grande distribuzione. Altrimenti inginocchiarsi servirà a poco.

Leggi anche: 1. L’Egitto acquista 2 navi militari italiane e tappa la bocca all’Italia sul caso Regeni /2. Regeni, Di Maio risponde alle accuse: “La vendita delle armi all’Egitto non è conclusa” /3. Patrick Zaky, gli affari con l’Egitto possono diventare un’arma per l’Italia

4. “Il problema degli Usa sono 400 anni di schiavitù, ma qui in Italia non siamo messi meglio”: parla Igiaba Scego /5. Torino, aggredita a 15 anni sul bus perché nera: “Il razzismo c’è anche in Italia”

L’articolo proviene da TPI.it qui

Con l’Egitto non servono “progressi”: serve la verità

Vendereste armi a qualcuno che vi ha massacrato un giovane studente e che si è inventato di tutto prima di ammettere a mezza bocca solo che tutto quello che aveva cercato di dire per depistare è falso? Pensateci bene. Vendereste armi a un Paese che ha poi ripetuto lo stesso schema con uno studente, questa volta non italiano ma praticamente adottato dalla città di Bologna dove studiava all’università, arrestato lo scorso 7 febbraio e tutt’ora in attesa di un giusto processo e sottoposto a una detenzione che solleva più di qualche dubbio?

Il Paese in questione è l’Egitto e i due studenti sono Giulio Regeni e Patrick Zaky. A Regeni, come sappiamo tutti, è andata molto peggio e non è un caso che i suoi genitori giusto pochi giorni fa abbiano ribadito di essere molto delusi dalle istituzioni italiane.

Con l’Egitto l’Italia sta trattando per un affare militare del valore di 9-11 miliardi di euro e il presidente del Consiglio Conte qualche giorno fa ha dato il via libera per la vendita di due fregate Fremm. Vendere armi a un regime è già qualcosa di orrendo, venderle a un Paese che insiste a prenderci in giro sulla morte di Regeni è qualcosa di insulso.

Ieri Liberi e Uguali ha presentato un’interrogazione al ministro Di Maio (se vi chiedete se governino insieme la risposta è sì, torniamo al #buongiorno di ieri della simbologia che annoia) in cui chiedeva conto di questa torbida situazione con Al-Sisi e il ministro Di Maio ha risposto precisando che «resta ferma la nostra incessante richiesta di progressi significativi nelle indagini sul caso del barbaro omicidio di Giulio Regeni. Il governo e le istituzioni italiane continuano ad esigere la verità dalle autorità egiziane attraverso una reale, fattiva ed efficace cooperazione».

Ed è una frase che non vuol dire nulla. Non c’è nessuna cooperazione tra Egitto e Italia sulla questione Regeni: l’hanno detto in molti, tra cui quelli che indagano. Esigere la verità stringendo accordi è quantomeno curioso. Di Maio ha anche aggiunto: «l’Egitto resta uno degli interlocutori fondamentali nel quadrante Mediterraneo, nell’ambito di importanti dossier, come il conflitto in Libia, la lotta al terrorismo e ai traffici illeciti, nonché la gestione dei flussi migratori e la cooperazione in campo energetico».

Ecco, no, non ci siamo proprio. Qui non servono “progressi”, non ci si avvicina ad annusare la verità. La verità è una, limpida e manca.

Grazie.

Buon giovedì.

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Expo. Di cosa è indagato Beppe Sala. Spiegato bene. E le carte della Procura.

Tanto per capire di cosa stiamo parlando. E, come spesso succede, vale la pena riprendere l’articolo di Affari Italiani. Qui c’è il pdf della Procura: l’avviso di conclusione delle indagini.

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Il sindaco di Milano Beppe Sala e’ accusato di falso materiale e ideologico e turbativa d’asta in relazione alla gara dell’infrastruttura piu’ importante di Expo, la Piastra. I dubbi, secondo quanto si apprende, sarebbero sulla fornitura delle piante per l’Esposizione universale 2015, costate alla ditta 1,6 milioni anziché i 4,3 milioni stanziati.

SALA HA “ADERITO A PRESSIONI DI POLITICI DELLA REGIONE LOMBARDIA” – Stando a quanto si legge nell’avviso di chiusura delle indagini, atto che di norma precede la richiesta di processo, Beppe Sala e’ accusato di turbativa d’asta (articolo 353 comma 2) in concorso con l’ex dg di Infrastrutture Lombarde Antonio Rognoni e con l’ex responsabile dell’Ufficio gare della stessa societa’, Pierpaolo Perez, per “avere turbato la gara cosiddetta della Piastra indetta da Expo 2015 spa con bando in data 20/12/2011 con base d’asta 272.100.000″. A Sala e agli indagati per questa vicenda viene anche contestata l'”aggravante di essere per legge preposti alla gara suddetta”.

Beppe Sala, Pierpaolo Perez e Antonio Rognoni avrebbero turbato la gara piu’ importante di Expo, quella sulla Piastra, per avere “aderito anche su pressione di esponenti politici della Regione Lombardia, ente socio di Expo 2015, nella misura del 20% alle richieste dell’associazione Lombarda Florivivaisti effettuate con lettera del 16 novembre 2011 inviata al Presidente della Regione Lombardia e all’a.d. di Expo 2015 finalizzata all’affidamento della fornitura delle essenze arboree da utilizzare nel sito dell’Espozione Universale 2015 a una o piu’ ditte aventi sede in Lombardia”.

La nuova accusa per Sala, quella di turbativa d’asta, si riferisce a una una fornitura di 6mila alberi che sarebbe stata scorporata dall’appalto principale sulla Piastra dei Servizi in cui era inserita originariamente. Il contratto viene affidato nel luglio 2013, senza gara, alla Mantovani per un importo di 4,3 milioni, 716 euro a pianta. Nel novembre successivo la Mantovani stipula un contratto di subfornitura con un’impresa vivaistica per 1,6 milioni, 266 euro a pianta. Sala e’ inoltre accusato di falso ideologico e falso materiale, per aver retrodatato due verbali per la sostituzione di due commissari di gara che avevano il compito di scegliere l’azienda vincitrice. La Mantovani spa si impose nell’agosto 2012 offrendo, con un ribasso del 42 per cento, soltanto 165,1 milioni: una cifra che “non era idonea neppure a coprire i costi”, annotavano gli investigatori della Guardia di Finanza, segnalando anche “numerose anomalie e irregolarita’ amministrative”, sia nella “scelta del contraente”, sia “nella fase esecutiva”.

Secondo questa impostazione dell’accusa, le pressioni dei politici sarebbero avvenute per non escludere i vivaisti lombardi determinando lo ‘scorporo’ dell’appalto per la fornitura di alberi da quello per la Piastra. A quel punto, tolta la parte relativa al ‘verde’, si sarebbe dovuta rifare tutta la gara della Piastra consentendo in linea ipotetica ad altre imprese di partecipare, quelle escluse in un primo momento perche’, per esempio, non erano in grado di occuparsi anche delle piante. I vivaisti non furono pero’ in grado di far fronte a livello finanziario alla fornitura e alla fine Expo ricorse all’affidamento diretto alla Mantovani che cosi’ si accapparro’ sia la gara per la Piastra che quella per gli alberi. Cosi’ il pg Felice Isnardi ricostruisce la vicenda: “Il 15 marzo 2012 viene individuato nella ditta Peverelli l’affidatario della fornitura (tanto che una prima bozza di gara era formulata con l’indicazione di requisiti tarati sulle caratteristiche della ditta in questione) da eseguire in associazione con un socio finanziario, ovvero uno sponsor, a sua volta individuato nella Sesto Immobiliare spa”. Societa’ che, secondo questa ricostruzione, in cambio, avrebbe avuto dalla Regione la Convenzione per la realizzazione della ‘Citta’ della Salute’. In questo contesto, a Sala viene addebitato di avere turbato le procedure con “mezzi fraudolenti” perche’ “il 23 marzo 2012, senza un provvedimento formale, stralcia la fornitura delle essenze arboree dal bando per la Piastra, scaduto il 20 gennaio 2012”.

“VERBALE RETRODATATO NELLA SUA ABITAZIONE” – Beppe Sala avrebbe falsato un verbale di Expo “nella sua abitazione”. E’ quanto emerge dall’avviso di chiusura delle indagini sulla Piastra di Expo notificato al sindaco con le accuse di turbativa d’asta in relazione a una fornitura di 6mila alberi al sito dell’Esposizione e di falso materiale e ideologico per avere retrodatato dei verbali. Secondo le indagini, Angelo Paris, titolare del procedimento sulla Piastra, avrebbe “fatto recapitare presso l’abitazione di Sala” il presunto atto falsamente datato “per la firma”. Stando alla ricostruzione della Procura Generale, il 15 maggio 2012 viene formalizzata la nomina della commissione aggiudicatrice della gara per la Piastra, l’infrastruttura su cui poi sorgera’ l’Esposizione. Tra i 5 commissari figurano anche l’ingegner Alessandro Moliaioni e il manager Antonio Acerbo, che poi verra’ arrestato per altre vicende. Tre giorni dopo, la commissione si riunisce per la prima volta, si accorge delle due incompatibilita’ e informa Sala che firma “l’annullamento del verbale di nomina della Commissione del 15 maggio e riporta la data falsa del 17 maggio”. Stando a a quanto era emerso dagli accertamenti della Guardia di Finanza, il 30 maggio per ‘salvare’ l’appalto a cui era legato il destino di Expo si sarebbe deciso di preparare un nuovo atto di nomina retrodatandolo al 17 maggio. Per farlo, era necessario l’intervento dell’attuale sindaco che avrebbe cosi’ sottoscritto l’annullamento del vecchio verbale redatto dai tecnici di Infrastrutture Lombarde motivando il provvedimento con l’esistenza di un “errore materiale consistente nella mancata nomina dei commissari supplenti e tacendo invece l’esistenza di una causa di invalidita’ che avrebbe comportato l’annullamento della procedura di gara”. Sempre l’allora Commissario avrebbe poi siglato il nuovo atto dove compaiono anche i due supplenti datandolo falsamente 17 maggio, anche se in realta’ si era al 30 maggio. La nuova nomina sarebbe stata portata dunque a casa di Sala su iniziativa di Paris che poi venne arrestato per altre vicende.

Expo, Sala e le indagini sul maxi appalto. Spiegate bene.

C’è il falso materiale e va bene. C’è quel documento retrodatato e una “commissione ombra” per non bloccare l’assegnazione dei lavori della Piastra di Expo. Per questo Beppe Sala rischia di finire a processo. E già domani forse si presenterà davanti al sostituto procuratore generale Felice Isnardi per farsi interrogare. Ma c’è qualcosa di più grave che emerge dalle carte dell’inchiesta avocata dalla Procura generale di Milano. Ovvero l’intera gestione del maxi appalto da 272 milioni, prima e dopo l’affidamento. C’è una condotta di Sala che tutto sembra tranne quella incentrata alla tutela del bene pubblico e alla gestione trasparente di un’opera strategica. Eppure, ed ecco il paradosso, per questo aspetto il sindaco di Milano ed ex ad di Expo spa non rischia alcuna imputazione. Partiamo dalla fine e dalle conclusioni della Guardia di finanza sulla vicenda Expo. “La condotta del management di Expo – si legge a pagina 672 – e in primis dall’ad Giuseppe Sala non appare né irreprensibile né lineare”, perché “attraverso condotte fattive ed omissive hanno comunque contribuito a concretizzare la strategia volta a danneggiare indebitamente la Mantovaniper tutelare e garantire, si ritiene, più che la società Expo, il loro personale ruolo all’interno della stessa”.

La vicenda Piastra svela un sistema che mette insieme interessi politici e carriere personali. Sala, in questo, risulta assoluto protagonista. Ecco allora i fatti. La Mantovani spa nell’estate del 2012 si aggiudica l’appalto con un ribasso di poco sotto il limite di legge e lo fa sorprendendo l’intero sistema Milano. Intercettazioni e verbali d’interrogatorio svelano che prima di Mantovani i favoriti erano da un lato Impregilo e dall’altro Pizzarotti. I loro padrini erano da un lato l’ex ad di Infrastrutture Lombarde Antonio Rognoni e l’ex governatore, oggi senatore, Roberto Formigoni. Vince, invece, Mantovani che pare godere di importanti appoggi politici, mediati, forse, dai soci della Socostramo, i fratelli Cinque molto vicini all’ex ministro dei Trasporti Altero Matteoli. L’azienda veneta mette così in allarme il sistema che reagisce. Da un lato con l’opera di Rognoni e l’accordo dello stesso Sala si aggiungono clausole economiche non previste per danneggiare Mantovani, dall’altro, però, viene evitata una più che dovuta verifica di congruità dell’offerta che avrebbe imposto una revisione completa del progetto allungando pericolosamente i tempi dei lavori.

Ed ecco il risultato dell’agire di Sala e dei suoi manager: “Pur mostrando una formale diffidenza – scrive la Finanza – si ottiene l’effetto di dare definitiva copertura a un’impresa illecitamente favorita”. Tradotto: le poltrone si tutelano limitando il raggio d’azione dell’intrusa Mantovani, che però va remunerata per non rischiare di far finire Expo a gambe all’aria. Mantovani grazie a forze politiche esterne e più potenti del sistema Milano sale su una carrozza che non è stata preparata per lei. Posizione ideale per battere cassa utilizzando il ricatto di “metter in discussione l’intero evento”. Di trasparente c’è poco. E così se da un lato Sala asseconda l’operato di Rognoni nell’ostacolare Mantovani, dall’altro apre la cassaforte di Expo all’ad di Mantovani Piergiorgio Baita. Ricordiamolo: il ribasso è del 41,8%, sull’importo iniziale si lima fino a 149 milioni. Nemmeno in grado di coprire le spese. Mantovani deve recuperare i soldi. Baita ne parla con l’ex dg di Expo, Angelo Paris. “In sostanza – riassumono i pm – l’imprenditore richiede che vengano riconosciuti ulteriori 50 milioni grazie alle riserve”. Il progetto doveva essere “elastico”, ovvero passibile di varianti. E così fu fin dall’inizio. Il giorno dell’aggiudicazione provvisoria, il responsabile unico del procedimento Carlo Chiesa dice a Sala: “Con il ribasso, lo sanno tutti che alla fine visto che devono fare delle varianti una parte la recuperano”.

Un concetto che Sala semplifica nei colloqui riservati con il presidente di Mantovani: “I soldi non mancano”. E i soldi arrivano, perché Expo non può fare altrimenti. A testimoniarlo l’Audit interno di Expo. Si legge: “Sono stati riscontrati reciproche richieste tra i soggetti coinvolti, finalizzate a recuperare da un lato i ritardi accumulati e dall’altro i maggiori compensi con la conseguente introduzione di elementi negoziali non coerenti (…). Le opere complementari sono sprovviste di proposta formale del Rup”. Il pm chiede a Baita: “Come è possibile che Mantovani si sia fidata di eseguire lavori priva dei supporti autorizzativi?”. Risposta: “Mantovani si relazionava con Sala, e riceveva rassicurazioni”. L’appalto di 272 milioni, affidato a 149, è costato 290. Ovvero 20 milioni in più.

(Davide Milosa, fonte)

Nuove indagini sulla sparizione dell’archivio di Peppino Impastato

di Francesca Mondin – 10 gennaio 2015
impastato-fumetto-c-luigi-alfieriNuove indagini sulla sparizione dell’archivio dell’attivista Peppino Impastato ammazzato dalla mafia nella nelle prime ore del 9 maggio 1978. La notte stessa del 9 maggio un gruppo di carabinieri perquisì l’abitazione della famiglia Impastato, nel corso Cinisi, portando via tutto quello che trovò in riferimento a Peppino: appunti, lettere, volantini, dossier di denuncia e ricerche. Un irruzione che lasciò senza parole Giovanni Impastato ancora sconvolto per il corpo dilaniato del fratello ritrovato poche ore prima.
Da quella sera le carte di Peppino sparirono nel nulla.
Anche Salvo Vitale, amico e compagno di lotta di Peppino Impastato ricorda benissimo i giorni successivi all’omicidio e più volte ha raccontato di come vennero gestite le indagini dai carabinieri. Interrogatori feroci in caserma e perquisizioni nelle case dei ‘compagni’ anche prive di mandati di perquisizione. Furono proprio i compagni di Peppino assieme al fratello Giovanni a raccogliere informazioni e prove che a distanza di anni dimostrarono il depistaggio messo in atto nelle prime indagini.

A riguardo sono stati indagati per favoreggiamento il generale Antonio Subranni e per falso i sottufficiali che all’epoca condussero la perquisizione a casa Impastato: Carmelo Canale, Francesco De Bono e Francesco Abramo. Per i quali però il pm Francesco Del Bene è stato costretto a chiedere l’archiviazione poiché i reati erano caduti in prescrizione. Tra i quattro uomini dell’Arma solo Canale ha rinunciato alla prescrizione in quanto vuole essere assolto dal reato.
Ora però sul mistero della sparizione dei documenti di Peppino il giudice per le indagini preliminari Maria Pino vuole andare fino in fondo. Infatti a fine dicembre il gip ha scritto un ordinanza disponendo nuove indagini. Entro sei mesi la procura dovrà ascoltare i testimoni indicati dal giudice e acquisire nuovi documenti.
Quel materiale scomparso dopo il sequestrato dalla casa di Peppino, secondo il gip rappresenterebbe proprio l’inizio di tutte quelle ‘azioni particolari’, di cui parlano gli amici e compagni di Peppino, che depistarono le indagini sulla morte dell’attivista di Cinisi.
In particolare ci sarebbero due documenti che potrebbero dimostrare il reato. Sono due relazioni stilate dai carabinieri all’epoca dei fatti e consegnate dal comando provinciale dei carabinieri di Palermo nel 2000, dopoché la procura e la commissione parlamentare antimafia avevano chiesto all’Arma di consegnare copia di tutti gli atti su Impastato conservati in archivio.
Nella prima relazione, scritta in un foglio privo d’intestazione, senza data e firma troviamo un elenco di 32 punti che si apre con “Fotocopia di una lettera con timbro postale di Cinisi 23.11.1973 spedita a Impastato Giuseppe, contenente minacce da parte di un gruppo di muratori del luogo» e si chiude con: «Statuto del Circolo Arci». In alto prima dell’elenco c’è scritto: “Elenco del materiale informalmente sequestrato in occasione del decesso di Impastato Giuseppe, nella di lui abitazione”.
La seconda relazione, datata il 1 giugno 1978, è invece un’annotazione di servizio dell’allora comandante del nucleo informativo della Legione carabinieri di Palermo.
Il cui oggetto è «Controllo persone sospettate di appartenenza a gruppi eversivi». Nella carta si legge: «Si trasmette l’accluso elenco, sequestrato informalmente nell’abitazione di Impastato Giuseppe».
L’allora comandante del nucleo Informativo Enrico Frasca, interrogato nei mesi scorsi dal pm Del Bene, ha detto però di non ricordare per nulla quella relazione ed ha anche ammesso un certo stupore per l’espressione “sequestro informale”, termine infatti che non esiste in nessun manuale di diritto italiano.
Anche se i reati di favoreggiamento e falso sono prescritti si potrà forse arrivare a capire come mai e chi ha fatto sparire i documenti di Peppino Impastato.

(clic)

Un raggio di luce

Si riapre il caso Uva:

Il caso Uva non è chiuso. C’è ancora la speranza di arrivare alla verità sul decesso di Giuseppe Uva, l’operaio di 43 anni morto al pronto soccorso dell’ospedale di Varese, il 14 giugno 2008, dopo essere stato trattenuto tre ore nella caserma dei carabinieri. Il giudice delle indagini preliminari Giuseppe Battarino ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dai pm Agostino Abate e Sara Arduini e ha deciso di accogliere l’istanza della famiglia, che tramite l’avvocato Fabio Anselmo e Alessandra Piva chiedevano nuove indagini, soprattutto sui fatti accaduti in caserma, e un nuovo processo. Il gip ha stabilito l’imputazione coatta di tutti gli imputati per omicidio preterintenzionale (più altri reati minori).

Il circo dell’antiracket

Attenzione: al di là della schiuma tra egocentrici c’è un circo sottoposto alla censura della Corte dei Conti di Napoli. Ne scrive qui il bravo (anzi: bravissimo) Arnaldo Capezzuto:

Non è la prima volta e non sarà l’ultima che la Corte dei Conti di Napoli, ovvero i giudici contabili, stigmatizzano questo modus operandi o quanto meno una pratica alquanto disinvolta nell’affollato mondo dei professionisti della legalità. I giudici – a più riprese- vagliando corpose documentazioni con atti formali chiedono, interrogano, dispongono approfondimenti, delucidazioni alle pubbliche amministrazioni quali erogatori: dalla Ue, ai Ministeri, alla Regione, alla Provincia, ai Comuni. Capita spesso che i giudici della Corte dei Conti debbano smascherare consulenze ad personamaccordate a Tizio, Caio e Sempronio accreditati come esperti di “Camorrologia” come puro scambio di favori. Gli importi sono fissati da un prezzario segretamente in vigore, i zeri sono svariati. Prendo spunto dall’ultimo accertamento della Corte dei Conti di Napoli, di ha dato notizia solo  Corriere.it. Nel mirino dei giudici partenopei è finito il mondo dell’antiracket e dell’usuraMi sembra che dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole mi sembra – a naso – davvero di trovarci di fronte ad un’altra storiaccia.

Al centro delle indagini sono finiti i Pon-Sicurezza cioè il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea per contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. Pare che la F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che raggruppa una cinquantina di associazioni antiracket e facente capo a Tano Grasso abbia ottenuto finanziamenti per7 milioni di euro. Una cifra – secondo le indagini – è sproporzionata in considerazione delle tante realtà operanti in Italia e che si occupano da anni di lotta al racket e all’usura. Il sospetto è che l’iter per l’assegnazione di questa pioggia di denaro pubblico non sia stata molto trasparente. La Corte dei Conti di Napoli insomma sospetta un illecito amministrativo che avrebbe provocato un danno erariale. Gli accertamenti sono stati avviati grazie all’esposto della “Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” dove in una lettera denunciavano la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. C’è un ampio spazio dove Tano Grasso saprà documentare e chiarire la posizione del Fai. Ma desta qualche perplessità – sinceramente – la nascita di una newsletter quindicinale “Lineadiretta” dove il Fai ha stanziato per la copertura di dodici mesi di pubblicazione la somma di centomila euro. L’unica certezza è che i giudici della Corte dei Conti di Napoli sapranno scrivere una parola di verità a tutela dei tanti che lottano in silenzio la camorra.

 

Il giudice filondrangheta

Vincenzo-GiglioIl magistrato del tribunale di Reggio Calabria, ora sospeso dal Csm,Vincenzo Giuseppe Giglio è stato condannato a 4 anni e 7 mesi di carcere nel processo milanese sulla cosiddetta “zona grigia” della ‘ndrangheta. I giudici hanno anche condannato a 8 anni e 4 mesi il consigliere regionale calabrese del Pdl Franco Morelli.

La Corte, presieduta da Maria Luisa Ponti, ha anche stabilito che alcuni degli imputati dovranno versare un milione e 400mila euro al comune di Milano che si era costituito parte civile per i danni patrimoniali e morali. Sia il consigliere Morelli che il giudice Giglio erano stati arrestati il 30 novembre 2011 nell’operazione della Dda di Milano coordinata da Ilda Boccassini contro la cosca Valle-Lampada infiltrata in Lombardia anche grazie ad appoggi nella cosiddetta “zona grigia”. Morelli era accusato diconcorso esterno in associazione mafiosa e corruzione, mentre Giglio rispondeva di corruzione, rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento aggravato dalla presunta agevolazione del clan.

I giudici hanno disposto anche l’interdizione per cinque anni dai pubblici uffici per Giglio. Per il consigliere calabrese Morelli i magistrati hanno disposto l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Il tribunale, inoltre, accogliendo l’impianto accusatorio del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e del Pm Paolo Storari ha emesso altre sette condanne: 16 anni per il presunto boss Giulio Lampada; 9 anni e 6 mesi per Leonardo Valle; otto anni per Vincenzo Giglio (medico e cugino del giudice); 4 anni e sei mesi per Francesco Lampada; 7 anni per Raffaele Firminio; 3 anni e 3 mesi per Maria Valle. E’ stato anche condannato a 5 anni e 3 mesi l’ex militare della Guardia di Finanza Luigi Mongelli, mentre altri tre finanzieri sono stati assolti con revoca delle misure cautelari. Per il consigliere Morelli anche due anni di libertà vigilata.

Secondo l’accusa, il magistrato Giglio si sarebbe rivolto al consigliere Morelli per far ottenere a sua moglie la nomina a commissario della Asl di Vibo Valentia e Morelli avrebbe invece chiesto e ottenuto dal giudice notizie riservate su indagini. Entrambi poi, secondo le indagini, erano in rapporto con Giulio Lampada, il quale tra l’altro avrebbe gestito un business di slot machine e videopoker in diversi bar di Milano.Nel corso del processo era anche stato ascoltato come testimone il sindaco di Roma Gianni Alemanno, perché in alcune intercettazioni Giulio Lampada si vantava di averlo incontrato in un appuntamento elettorale a Roma.

(via Il Fatto Quotidiano)

No, non sono indagato

Oggi LIBERO pubblica in prima pagina la mia faccia tra i presunti “nuovi impresentabili” che secondo l’organo ufficiale del berlusconismo più becero affliggerebbero la Regione Lombardia. Quella pagina è la fotografia del modo di fare informazione (e politica) di alcuni in Italia: notizie sommarie, urla per eccesso di difesa, l’antico gioco che tutti rubano così nessuno in fondo ruba e informazioni false.

No, io non sono indagato.

Mi spiace per i servitori di Formigoni e i servili ramazzatori di Maroni ma mettere il mio nome in prima pagina in quel modo è una delegittimazione che non abbiamo voglia di tollerare, per questo già oggi abbiamo intrapreso tutte le iniziative legali per tutelare se non l’immagine almeno la verità e la precisione di informazione.

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