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Intanto gli Agnelli scappano

Il tradimento dell’anno non è Higuain alla Juventus, anche se la prosopopea del calcio ha risonanza popolare, ma la fuga degli Agnelli dall’Italia. La famiglia (tra le più abbeverate dallo Stato) ha deciso che è giunta l’ora di smettere di fingere spostando con la leggerezza di una gita fuori porta la propria cassaforte (la holding Exor) in Olanda come era già successo per Fca, Chn e Ferrari.

Il vaffanculo all’Italia ha una sintassi pomposa: secondo il comunicato aziendale l’operazione serve per costruire  “una struttura societaria più semplice, che risponda meglio al crescente profilo internazionale della società e dei suoi business”. Se ci fossero i sottotitoli sarebbe “perché dovremmo accanirci su un Paese in declino e fiscalmente asfissiante quando in giro per il mondo ci sono posti favolosi?”. Una cosa così.

Eppure il carrozzone Fiat sbriciolato fuori dai confini nazionali ha anche un preciso significato politico poichè dimostra chiaramente che si può essere rivenduti come benefattori anche senza benefare un emerito niente: “Abbiamo fatto scelte difficili per poter continuare a produrre in Italia” disse tre anni fa il compitissimo Jhon Elkann. E poi aggiunse l’anno seguente di essere “contento perché Fiat è ancora più italiana e ha le forze che rendono la componente italiana del gruppo ancora più forte” fino al 25 luglio del 2014 quando in coppia come Renzi disse “Siamo molto orgogliosi di essere qua e di farle vedere come Fca avrà una presenza sempre più forte in Italia”.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai.

Da leggere Igiaba Scego, fino in fondo:

«Ma qui in occidente ogni musulmano è potenzialmente colpevole, ogni musulmano è considerato una quinta colonna pronta a radicalizzarsi. Il fatto non solo mi offende, ma mi riempie anche di stupore. Sono meravigliata di quanto poco si conosca il mondo islamico in Italia. L’islam è una religione che conta più di un miliardo di fedeli. Abbraccia continenti, paesi, usanze diverse. Ci sono anche approcci alla religione diversi. Ci sono laici, ortodossi, praticanti rigorosi, praticanti tiepidi e ci sono persino atei di cultura islamica. È un mondo variegato che parla molte lingue, che vive molti mondi. Andrebbe coniugato al plurale.

Il mondo islamico non esiste. È un’astrazione. Esistono più mondi islamici che condividono pratiche e rituali comuni, ma che sul resto possono avere forti divergenze di opinioni e di metodi. E poi, essendo una religione senza clero, per forza di cose non può avere una voce sola. Non c’è un papa musulmano o un patriarca musulmano. L’organizzazione e il rapporto con il Supremo non è mediato. Inoltre, bisogna ricordare che i musulmani (o più correttamente, le persone di cultura musulmana) sono le prime vittime di questi attentati terroristici. È chiaro che la maggior parte della gente, di qualsiasi credo, è contro la violenza. A maggior ragione chi proviene da paesi islamici dove questa furia brutale può colpire zii, nipoti, fratelli, sposi, figli.

Not in my name, lo abbiamo gridato e scritto molte volte. Ci siamo distanziati. Lo abbiamo urlato fino a sgolarci. Lo abbiamo fatto dopo il massacro nella redazione di Charlie Hebdo, dopo la strage al Bataclan di Parigi o quella nell’università di Garissa in Kenya. Lo facciamo a ogni attentato a Baghdad, a Damasco, a Istanbul, a Mogadiscio. E naturalmente abbiamo fatto sentire la nostra voce dopo Dhaka. Ma ora dobbiamo entrare tutti – musulmani, cristiani, ebrei, atei, induisti, buddisti, tutti – in un’altra fase. Dobbiamo chiedere ai nostri governi di schierarsi contro le ambiguità del tempo presente.

Il nodo è geopolitico, non religioso. Un nodo aggrovigliato che va dalla Siria al Libano, dall’Arabia Saudita allo Yemen, passando per l’Iraq e l’Iran fino ad arrivare in Bangladesh e in India. Un nodo fatto di vendite di armi, traffici illeciti, interessi economici, finanziamenti poco chiari. E se proprio dobbiamo schierarci, allora facciamolo tutti per la pace. Serve pace nel mondo, pace in Siria, in Somalia, in Afghanistan e non solo. Serve un nuovo impegno per la pace, una parola che per troppo tempo non abbiamo usato, anzi che abbiamo snobbato come utopica. Serve un nuovo movimento pacifista. Servono politiche per la pace. Serve la parola pace coniugata in tutti i suoi aspetti.

Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai. L’unica che può farci uscire da questa cappa di sospetto e di paura.»

(fonte)

Ma i 180 milioni di euro che la Lega ha preso (e speso indebitamente) da Roma ladrona?

(Un pezzo di Francesco Giurato e Antonio Pitoni per Il Fatto Quotidiano)

Dalla Lega Lombarda alla Lega Nord, transitando dalla prima alla seconda repubblica a suon di miliardi (di lire) prima e milioni (di euro) poi generosamente elargiti dallo Stato. Dal 1988 al 2013sono finiti nelle casse del partito fondato da Umberto Bossi e oggi guidato da Matteo Salvini, dopo la parentesi di Roberto Maroni, 179 milioni 961 mila. L’equivalente di 348 miliardi 453 milioni 826 mila lire. Una cuccagna, sotto forma di finanziamento pubblico e rimborsi elettorali, durata oltre un quarto di secolo. Ma nonostante l’ingente flusso di denaro versato nei conti della Lega oggi il piatto piange. Ne sanno qualcosa i 71 dipendenti messi solo qualche mese fa gentilmente alla porta dal Carroccio. Sorte condivisa anche dai giornalisti de “La Padania”, storico organo ufficiale del partito, che ha chiuso i battenti a novembre dell’anno scorso non prima, però, di aver incassato oltre 60 milioni di euro in 17 anni. Insomma, almeno per ora, la crisi la pagano soprattutto i dipendenti. In attesa che la magistratura faccia piena luce anche su altre responsabilità. A cominciare da quelle relative allo scandalo della distrazione dei rimborsi elettorali, che l’ex amministratore della Lega Francesco Belsito avrebbe utilizzato in parte per acquistare diamanti, finanziare investimenti tra Cipro e la Tanzania  e per comprare, secondo l’accusa, perfino una laurea in Albania al figlio prediletto del Senatùr, Renzo Bossi, detto il Trota. Vicenda sulla quale pendono due procedimenti penali, uno a Milano e l’altro a Genova.

MANNA LOMBARDA Fondata nel 1982 da Umberto Bossi, è alle politiche del 1987 che la Lega Lombarda, precursore della Lega Nord, conquista i primi due seggi in Parlamento. E nel 1988, anno per altro di elezioni amministrative, inizia a beneficiare del finanziamento pubblico: 128 milioni di lire (66 mila euro). Un inizio soft prima del balzo oltre la soglia del miliardo già nel 1989, quando riesce a spedire anche due eurodeputati a Strasburgo: 1,03 miliardi del vecchio conio (536 mila euro) di cui 906 milioni proprio come rimborso per le spese elettorali sostenute per le elezioni europee. Somma che sale a 1,8 miliardi lire (962 mila euro) nel 1990, per poi scendere a 162 milioni (83 mila euro) nel 1991 alla vigilia di Mani Pulite. Nel 1992 la Lega Lombarda, diventata proprio in quell’anno Lega Nord, piazza in Parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori. E il finanziamento pubblico lievita a 2,7 miliardi di lire (1,4 milioni di euro) prima di schizzare, l’anno successivo, a 7,1 miliardi (3,7 milioni di euro). Siamo nel 1993: sulla scia degli scandali di tangentopoli, con un referendum plebiscitario (il 90,3% dei consensi) gli italiani abrogano il finanziamento pubblico ai partiti. Che si adoperano immediatamente per aggirare il verdetto popolare, introducendo il nuovo meccanismo del fondo per le spese elettorale (1.600 lire per ogni cittadino italiano) da spartirsi in base ai voti ottenuti. Un sistema che resterà in vigore fino al 1997 e che consentirà alla Lega di incassare 11,8 miliardi di lire (6,1 milioni di euro) nel 1994, anno di elezioni politiche che fruttano al Carroccio, grazie all’alleanza con Forza Italia, una pattuglia parlamentare di 117 deputati e 60 senatori. Nel 1995 entrano in cassa 3,7 miliardi (1,9 milioni di euro) e altri 10 miliardi (5,2 milioni di euro) nel 1996.

RIMBORSI D’ORO L’anno successivo, nuovo maquillage per il sistema di calcolo dei finanziamenti elettorali. Arriva «la contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici», che lascia ai contribuenti la possibilità di destinare il 4 per mille dell’Irpef(Imposta sul reddito delle persone fisiche) al finanziamento di partiti e movimenti politici fino ad un massimo di 110 miliardi di lire (56,8 milioni di euro). Non solo, per il 1997, una norma transitoria ingrossa forfetariamente a 160 miliardi di lire (82,6 milioni di euro) la torta per l’anno in corso. E, proprio per il ’97, per la Lega arrivano 14,8 miliardi di lire (7,6 milioni di euro) che scendono però a 10,6 (5,5 milioni di euro) iscritti a bilancio nel 1998. Un campanello d’allarme che suggerisce ai partiti l’ennesimoblitz normativo che, puntualmente, arriva nel 1999: via il 4 per mille, arrivano i rimborsi elettorali (che entreranno in vigore dal 2001). In pratica, il totale ripristino del vecchio finanziamento pubblico abolito dal referendum del 1993 sotto mentite spoglie: contributo fisso di 4.000 lire per abitante e ben 5 diversi fondi (per le elezioni della Camera, del Senato, del Parlamento Europeo, dei Consigli regionali, e per i referendum) ai quali i partiti potranno attingere. Con un paletto: l’erogazione si interrompe in caso di fine anticipata della legislatura.

ELEZIONI, CHE CUCCAGNA Intanto, sempre nel 1999, per la Lega arriva un assegno da 7,6 miliardi di lire (3,9 milioni di euro), cui se ne aggiungono altri due da 8,7 miliardi (4,5 milioni di euro) nel 2000 e nel 2001. E’ l’ultimo anno della lira che, dal 2002, lascia il posto all’euro. E, come per effetto dell’inflazione, il contributo pubblico si adegua alla nuova valuta: da 4.000 lire a 5 euro, un euro per ogni voto ottenuto per ogni anno di legislatura, da corrispondere in 5 rate annuali. E per la Lega, tornata di nuovo al governo nel 2001, è un’escalation senza sosta: 3,6 milioni di euro nel 2002, 4,2 nel 2003, 6,5 nel 2004 e 8,9 nel 2005. Una corsa che non si arresta nemmeno nel 2006, quando il centrodestra viene battuto alle politiche per la seconda volta dal centrosinistra guidato da Romano Prodi: nonostante la sconfitta, il Carroccio incassa 9,5 milioni e altri 9,6 nel 2007. Niente a confronto della cuccagna che inizierà nel 2008, quando nelle casse delle camicie verdi finiscono la bellezza di 17,1 milioni di euro.

CARROCCIO AL VERDE E’ l’effetto moltiplicatore di un decreto voluto dal governo Berlusconi in base al quale l’erogazione dei rimborsi elettorali è dovuta per tutti i 5 anni di legislatura, anche in caso discioglimento anticipato delle Camere. Proprio a partire dal 2008, quindi, i partiti iniziano a percepire un doppio rimborso, incassando contemporaneamente i ratei annuali della XV e della XVI legislatura. Nel 2009 il partito di Bossi sale così a 18,4 milioni per toccare il record storico con i 22,5 milioni del 2010. Anno in cui, sempre il governo Berlusconi, abrogherà il precedente decreto ponendo fine allo scandalo del doppio rimborso. E anche i conti della Lega ne risentiranno: 17,6 milioni nel 2011. La cuccagna finisce nel 2012 quando il governo Monti taglia il fondo per i rimborsi elettorali del 50%. Poi la spallata finale inferta dall’esecutivo di Enrico Letta che fissa al 2017 l’ultimo anno di erogazione dei rimborsi elettorali prima della definitiva scomparsa. Per il Carroccio c’è ancora tempo per incassare 8,8 milioni nel 2012 e 6,5 nel 2013. Mentre “La Padania” chiude i battenti e i dipendenti finiscono in cassa integrazione.

FINANZIAMENTI E RIMBORSI ELETTORALI ALLA LEGA NORD

(1988-2013)

1988 € 66.249,25 (128.276.429 lire)
1989 € 536.646,25 (1.039.092.041 lire)
1990 € 962.919,55 (1.864.472.246 lire)
1991 € 83.903,87 (162.460.547 lire)
1992 € 1.416.991,83 (2.743.678.776 lire)
1993 € 3.707.939,87 (7.179.572.723 lire)
1994 € 6.125.180,49 (11.860.003.225 lire)
1995 € 1.915.697,39 (3.709.307.393 lire)
1996 € 5.207.659,00 (10.083.433.932 lire)
1997 € 7.648.834,36 (14.810.208.519 lire)
1998 € 5.518.448,11 (10.685.205.533 lire)
1999 € 3.947.619,62 (7.643.657.442 lire)
2000 € 4.539.118,41 (8.788.958.807 lire)
2001 € 4.511.422,19 (8.735.332.610)
2002 € 3.693.849,60
2003 € 4.284.061,62
2004 € 6.515.891,41
2005 € 8.918.628,37
2006 € 9.533.054,95
2007 € 9.605.470,43
2008 € 17.184.833,91
2009 € 18.498.092,86
2010 € 22.506.486.93
2011 € 17.613.520,09
2012 € 8.884.218,85
2013 € 6.534.643,57

TOTALE 179.961.382,78

Li armano e poi li combattono /10

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Il più vicino territorio italiano (l’isola di Lampedusa) dista dalla Libia 355 km in linea d’aria (mentre dista dalla Tunisia 167 km), ma per qualcuno “l’invasione” dell’ex bel paese da parte della potente armata dell’Isis (che non dispone di un esercito regolare né tanto meno di una marina o un’aviazione da guerra) è prossima, quasi imminente, così al grido di “armiamoci e partite” c’è chi sostiene l’opportunità di un intervento armato italiano in terra libica, ex colonia tricolore un tempo governata. Ma chi ci guadagna da una guerra? Al di là dell’aspetto politico (è noto da tempo che l’Arabia Saudita da un lato, la Russia dall’altra, cercano di ottenere la supremazia nell’area medio orientale, interessi che contrastano quelli di paesi come Iran, ma anche Cina, Stati Uniti e persino Francia e Gran Bretagna) una guerra va quasi sempre a impattare sui traffici legali o illegali di armi di vario genere.

L’Isis, ad esempio, ha iniziato ad essere sotto i riflettori dei media occidentali da un paio d’anni, ossia da quando ha intensificato la sua lotta in Siria e in Iraq contro il regime del presidente sciita Bashar al Assad. Ma l’Isis è legato a Abu Musab al-Zarqawi, un combattente giordano che fonti vicine alla Cia e al partito Repubblicano Usa hanno presentato sin dal 2004 come un “lupo solitario” antagonista di Osama Bin Laden (la cui famiglia aveva fin troppo imbarazzanti relazioni d’affari con la famiglia Bush) per la guida di Al Qaida. Inizialmente descritto come “protetto” dai più alti livelli del governo iraniano al-Zarqawi è stato ucciso nel 2006 da un attacco aereo congiunto giordano-stattunitense dopo aver rischiato, secondo alcune fonti, di essere consegnato proprio dall’Iran agli Usa nell’ambito di un accordo poi sfumato e mai confermato da fonti ufficiali.

Quel che appare certo è che i suoi successori (Abu Omar al-Baghdadi prima, ucciso a sua volta nel 2010, Abu Bakr al-Baghdadi autoproclamatosi “califfo” dell’Isis ora) si trovano di fatto sul fronte opposto dei loro ex protettori, visto che l’Iran al momento schiera le proprie milizie in Iraq per combattere i guerriglieri dell’Isis, mentre l’Arabia Saudita è tra i sostenitori dell’Egitto, impegnato a sua volta come la Giordania a combattere i guerriglieri dopo le ultime uccisioni di civili e militari giordani ed egiziani. Ma oltre a chi ha fornito soldi, armi e coperture all’Isis e ai suoi leader, chi è tuttora tra i suoi sostenitori?

La verità la sanno, forse, i servizi segreti militari, ma certo se il quadro delle alleanze “politiche” è a dir poco variabile e incerto, le fonti economiche del “business” dell’Isis sembrano molto più stabili. La sola vendita di petrolio estratto da una sessantina di pozzi in precedenza sotto il controllo di Siria e Iraq avrebbe permesso lo scorso anno di incassare una cifra che Issam al-Chalabi, già ministro del Petrolio iracheno ai tempi di Saddam Hussein stimò attorno ai 150 milioni di dollari, pur trattandosi di petrolio venduto a “forte sconto” (30-40 dollari al barile quando le quotazioni ufficiali erano ancora attorno ai 100 dollari al barile).
Ai prezzi attuali è tuttavia ipotizzabile che tali ricavi si siano dimezzati o ridotti a un terzo. Ci sarebbero poi i saccheggi compiuti nei territori conquistati: l’assalto alla sola banca centrale di Mossul, città caduta in mano all’Isis nel giugno dello scorso anno, avrebbe fruttato qualcosa come 430 milioni di dollari. Cifre, va ribadito, estremamente difficili da verificare, come non è facile verificare di quali forze disponga nel concreto l’Isis. Nel giugno dello scorso anno secondo Charles Lister il totale dei miliziani era di circa 8 mila uomini mentre secondo Michael Pregent e Michael Weiss, in gran parte dotati di fucili AK-47 come armamento individuale. Sempre dopo la caduta di Mossul l’Isis avrebbe messo le mani su una trentina di carri armati M1 Abram di fabbricazione americana, più varie armi anche pesanti di fabbricazione russa.

Altre fonti hanno indicato la disponibilità di 10-20 carri armati T-54/55, 20-30T-62 e una mezza dozzina di T-72, più alcune decine di missili a medio raggio SA-6 Gainful (utilizzato come sistema antiaereo e con una gittata utile di 24 km massimi, quindi del tutto incapace di colpire obiettivi italiani anche se fosse sparato dalla punta estrema della Tunisia, oltre che dalla ben più lontana Libia). Numerosi anche i missili anticarro, i lanciarazzi (montati su Suv) i lanciagranate e una serie di obici e cannoni anticarro e antiaereo, anche di produzione cinese (ma pure statunitense come nel caso dei missili Stinger), con gettate dai 900 metri ai 27 km massimi. Non è chiaro tuttavia in che misura tale arsenale sia mantenuto in efficienza ed eventualmente da chi. Escluso che possano essere forniti aiuti militari ufficiali, rifornimenti e parti di ricambio potrebbero giungere attraverso canali illegali o comunque non ufficiali.

Da parte sua l’Italia, che dall’intervento armato in Libia voluto dalla Francia ha finora avuto più problemi che benefici, perdendo tra l’altro varie commesse che erano state concesse dal precedente regime libico a imprese italiane in particolare nel settore petrolifero e delle costruzioni e opere civili, oltre che nei trasporti e nella meccanica, con gruppi come Eni, Terna, Finmeccanica, Prysmian o Trevi che hanno visto svanire investimenti pluriennali per decine di miliardi di euro, rischia ora di subire la perdita, nel caso di totale destabilizzazione della Libia, delle forniture di gas (quello del giacimento libico di Bahr Essalam, ma anche quello tunisino di Wafa) che raggiungono il nostro paese attraverso il gasdotto Greenstream, il più grande del Mediterraneo che collega Mellitah, in Libia, con Gela, in Sicilia.

Greenstream, che ha già subito temporanee chiusure nel 2011 e nel 2013, può trasportare sino a 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno e per la sua realizzazione Eni, con la francese Total la più esposta tra le major petrolifere occidentali in Libia, ha investito 7 miliardi di euro, ossia poco meno di un anno di interscambio import-export tra Italia e Libia, interscambio che dal 2011, quando è iniziata la rivolta contro il regime di Geddafi si è sensibilmente ridotto e che gli scontri tra varie fazioni libiche, anche prima della minaccia dell’Isis, ha ulteriormente fatto calare, tanto che dai 10,942 miliardi del 2013 (pari a poco più della metà rispetto ai 20,054 miliardi segnati nel 2008), nei primi sei mesi del 2014 si erano fermati a 4,786 miliardi.

Di questi 1,732 miliardi erano rappresentati da esportazioni italiane verso la Libia e 3,054 miliardi da importazioni italiane dalla Libia. Per difendere questi interessi, vale la pena di scatenare una guerra contro un esercito fantasma, consci dei fallimenti di almeno 15 anni di politica occidentale in Medio Oriente? O non è forse meglio provare altre strade, affiancando ad una sorveglianza di tipo militare, che pure ha i suoi costi (Mare Nostrum, l’operazione di pattugliamento marittimo durata un anno, è costata 9,5 milioni al mese per complessivi 114 milioni di euro, Triton, successiva operazione tuttora in essere, costa 3,5 milioni), la cui copertura finanziaria andrebbe trovata verosimilmente con ulteriori tasse o addizionali sulle accise e che peraltro sarebbero di gran lunga inferiori a quelle di una nuova missione militare in terra straniera (per fare un esempio, quella in Afghanistan costa oltre 130 milioni di euro a trimestre, quella in Libano una quarantina, quella in Kossovo oltre 22 milioni), una maggiore cooperazione con forze locali che si oppongono all’Isis?

(fonte)

In Grecia e in Italia si lavora 300 ore in più della Germania, ma si guadagna la metà. Ecco perché

Il paese Ue più stakanovista? La Grecia: 2.034 ore di lavoro pro capite nel solo 2012. Quelli più “indolenti”? Germania e Olanda: meno di 1.400 ore.

Come scrive Tiziana:

La questione greca (e perché no italiana e del Sud Europa), sembra la versione europea della vecchia questione meridionale, quella che Antonio Gramsci affrescò così un secolo fa: «La borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento», scriveva Gramsci in Alcuni temi della questione meridionale. Che sia Napoli o Atene, il risultato non cambia.

L’articolo è qui.

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#LEFT di questa settimana, cosa ci abbiamo messo dentro

20150605_LeftN21-800x600La sharing economy è diventata famosa per il caso di Uber-Pop, l’app che mette in contatto con i passeggeri una rete di autisti occasionali. Di recente, come la Germania, anche l’Italia l’ha bloccata per competizione sleale nei confronti dei tassisti che, a differenza di quelli dell’app, devono sottostare a regole precise per la tutela della qualità del servizio.

Ma non c’è solo Uber. Servizi analoghi di condivisione sorgono come funghi nell’affitto delle case e degli appartamenti con Airnb mentre per video e musica in streaming “esplodono” i vari Netflix, Spotify, Pandora e Gamefly. Addirittura esistono sistemi di affitto di capi d’abbigliamento di alta moda, come FashionHire. L’economia della condivisione, della cooperazione e della collaborazione, che potrebbe essere una valida risposta alla crisi con finalità etiche, accanto alle luci nasconde però alcune ombre. Ed è quanto mette in evidenza la storia di copertina di Left in uscita sabato. Dietro la patina dell’innovazione tecnologica si profila lo sfruttamento del lavoro e la sistematica elusione della regole. Insomma, c’è chi specula sulla sharing economy.

Left affronta anche il tema delle elezioni regionali cercando di dare risposte alle numerose domande che sorgono dopo i risultati del voto, segnato come non mai dall’astensionismo. La luna di miele tra Renzi e gli italiani è ormai finita.

Per le inchieste, la seconda puntata di “Strade nostre” racconta lo scempio dell’ambiente a Sabaudia e dintorni: il cemento e gli abusivismi che soffocano uno dei gioielli naturalistici dell’Italia, il Parco Nazionale del Circeo.

In Calabria c’è un ragazzino di 17 anni che vorrebbe fare il calciatore. La sua storia è particolare: si chiama Steeven, è fuggito dal Camerun assediato dai terroristi di Boko Haram e ora, al compimento dei 18 anni rischia di non poter rimanere in Italia. Left racconta la sua vita, i suoi pensieri e il suo sogno: quello di incontrare il grande Eto’o.

Negli Esteri lo scrittore Hanif Kureishi intervistato da Left racconta l’Inghilterra di oggi e il fallimento del melting pot, mentre gli altri temi affrontati sono le elezioni in Turchia con Erdogan che vuole blindare il risultato con la repressione, il diario dall’assedio di Kobane e la “frantumazione”, con l’Is che avanza, della Libia.

In Cultura Left presenta i nuovi narratori della collana L’età delle febbre: undici scrittori under 40 che con stili diversi narrano l’inquietudine dell’Italia di oggi, mentre Wu Ming 1 presenta un nuovo progetto collettivo. E ancora: la riscoperta del codice etico di Mario Rigoni Stern, la nuova storia delle origini dell’uomo che emerge dal ritrovamento di pietre scheggiate oltre tre milioni di anni fa e una intervista a Paola Turci che festeggia trent’anni di carriera. Buona lettura!

Una bella osservazione sulla scempiaggine di Franceschini

“Faremo la Biblioteca Nazionale dell’Inedito. Un luogo dove raccogliere e conservare per sempre romanzi e racconti di italiani mai pubblicati”

Quando il Ministro Franceschini ha twittato così ieri ho pensato che fosse un’uscita senza senso, vuoi per i pochi caratteri che il social ci lascia a disposizione o vuoi per una sintesi frettolosa di un progetto veramente più vasto e più spesso. E invece no.

E siccome il web è pieno di opinioni (spesso troppe e troppo sparse) non ne aggiungo ma vi ripropongo lo scritto di Christian Raimo qui.