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legalità

Recessione e mafie (1). È l’Eldorado delle economie illegali?

RUSSIA-EONOMY-BUSINESS-DERIPASKAdi Carlo Ruta

È il caso di partire da un dato. Nell’attuale crisi, la sola che riesce a evocare quella drammatica del 1929, un peso non da poco hanno avuto i flussi di capitali anomali, di origine illegale, per il rilievo del tutto particolare che i medesimi hanno recato nell’estendersi delle bolle speculative. Si consideri il caso della Russia, dove la forbice delle ricchezze ha assunto ampiezze iperboliche, anche al cospetto di paesi di tradizione liberal. Dopo il trauma dell’89, uomini d’affari legati spesso all’Organizatsya, la mafia di quelle regioni, hanno potuto dettare regole, fare accordi alla pari con pezzi di stato, fino al capolinea del Cremlino. Sono andati quindi letteralmente all’assalto, puntando sull’industria metallurgica, sul petrolio, ma pure, con decisione, sul grande mercato immobiliare: tutto da ridisegnare dopo decenni di edilizia pianificata dalle burocrazie sovietiche. Con tali numeri si sono riversati altresì lungo i continenti, mettendo radici negli Stati Uniti, nell’oriente asiatico, in Israele, nell’Europa occidentale, Italia inclusa. Hanno alimentato trame speculative, incettato territori, animato paradisi già esistenti o in ascesa tumultuosa, come quello di Dubai, finendo per crearne di propri, come quello di Goa, in India, dove hanno avocato a sé, con guadagni d’oro, gran parte del territorio, combinando ad arte le suggestioni dell’effimero e il cash, la forza del contante.

Si tratta evidentemente di uno scorcio, solo rappresentativo di uno scenario multiplo, euforico, che ha visto del tutto ridisegnate le mappe delle fortune. È fin troppo sintomatico che nella lista dei più ricchi al mondo compilata da “Forbes” emergano oggi non soltanto nababbi russi dal profilo equivoco, come Oleg Vladimirovič Deripaska, notoriamente legato alla mafia moscovita dei fratelli Lev e Michail Černye, ma anche autentici gangster, come il narcotrafficante messicano Joaquin Guzman Loera, che dopo l’uccisione del colombiano Pablo Escobar ha avocato a sé il mercato della cocaina negli Stati Uniti. In sostanza, una genia riconoscibile di uomini d’affari, di radice criminale, proveniente da tutti i continenti, ha potuto partecipare a pieno titolo ai processi, li ha in parte sospinti, ha corroborato un metodo, imprimendo agli scambi velocità inconsuete, radicalizzando quindi il senso dell’azzardo. Ne sono un riscontro i paradisi del riciclaggio che, sorretti da potenti cartelli, proprio negli ultimi due decenni hanno potuto operare al massimo di giri. Se quelli della tradizione, dal Liechtenstein a Panama, dal Lussemburgo alla Svizzera, hanno guadagnato infatti in scioltezza, soprattutto i più recenti, meglio attrezzati alle situazioni, hanno fatto per certi versi il nuovo catechismo della finanza internazionale.

In sostanza, tali siti, pur connettendosi con la tradizione inesausta dell’evasione fiscale, hanno mutato carattere e modi, per certi versi specializzandosi, rendendosi sempre più organici alle economie propriamente criminali: in particolare ai traffici di narcotici, armi, esseri umani. Le contiguità, pure dirette e materiali, indotte da tali paradisi hanno contribuito altresì a superare remore e slargare gli orizzonti operativi. Evidentemente, le isole Cayman, che, come testimoniano le vicende della Bank of Credit and Commerce International e non solo, a lungo hanno costituito un punto di condensazione fra mafie ed economie ufficiali, sono solo l’emblema di un modo d’essere. Come può esserlo Lefkose, capitale della repubblica cipriota vassalla della Turchia, in cui, all’ombra di un centinaio di banche off-shore e di ben 18 casinò, da qualche decennio vengono organizzate le tratte dei migranti, e degli schiavi, che dall’oriente asiatico e dall’Africa si versano in Europa, dalle porte balcaniche, spagnole, siciliane. Dalle cose emerge insomma che i paradisi vecchio stampo, immobili, perfino riconoscibili, hanno lasciato il posto a un mondo ubiquo, mobile, al passo con i tempi, largamente impermeabile alle stesse rilevazioni dell’Ocse, e comunque irriducibile, malgrado il sommarsi di accordi, perlopiù incoerenti, fra governi dopo il varo del Patriot Act statunitense nel 2001.

Tutto questo, ovviamente, non può essere estraneo alle bolle speculative, che, impinguate pure dalla politica economica americana di questi anni, volta ad alzare valli di difesa e a pianificare assalti “preventivi”, alla fine sono esplose in modo catastrofico. E qui si innesta un paradosso. Se l’economia illegale ha contribuito, seppure da comprimaria, a generare la depressione economica dei nostri giorni, è quella che di più può beneficiarne. Le mafie del resto hanno sempre guadagnato dalle crisi, non soltanto economiche, dell’ultimo secolo. Quella italiana ha tratto vantaggi immensi dalle cesure del 1943-45. Quella russa e le altre slave hanno tratto uno slancio supremo dall’89. L’illegalità economica statunitense può essere detta figlia della grande crisi del 1929, perché proprio in quello snodo, nei primi anni trenta, i boss raccolsero maggiormente i frutti del contrabbando che aveva caratterizzato il decennio precedente, del proibizionismo: Al Capone in testa, che dall’hotel Lexington di Chicago, suo quartier generale, dettava legge alle ufficialità, mentre nei propri ristoranti offriva pasti caldi ai poveri che più erano stati colpiti dalla recessione.

In che modo, allora, gli imperi economici illegali stanno beneficiando della recessione? Il caso italiano, di certo fra i più rappresentativi per numeri e presenze in campo, consente di tracciare delle coordinate. È stato documentato che clan mafiosi stanno acquisendo proprietà d’immobili in tutta la Liguria, facendo leva sulla loro disponibilità di contante. È stato segnalato inoltre, con dovizia di dati, che è in crescita l’usura, quindi il passaggio di mano di attività economiche legali ad ambiti illegali. Allarmi in tal senso sono stati quindi lanciati dalla Direzione Nazionale Antimafia e da varie procure, oltre che da numerose associazioni, lungo tutta la penisola. Se si allarga tuttavia il quadro affiora dell’altro. Le mafie italiane, che secondo la Confesercenti muovono capitali per diverse centinaia di miliardi di euro, pari al 6 per cento del PIL, hanno sempre avuto un feeling con l’edilizia, come del resto quelle di ogni altro paese. Mai però come in questi anni, che proprio nella vicenda immobiliare hanno visto le accensioni economiche più telluriche, si sono dimostrate lungimiranti. Si sono rese artefici infatti di un importante progetto di diversificazione, che sta recando dei punti fermi in tre ambiti divenuti eminentemente economici: l’acqua, il ciclo dei rifiuti, le energie, incluse quelle che vengono dette alternative, come nel caso delle eoliche. E tali affari, a conti fatti, non possono conoscere crisi né in Italia né altrove, almeno nei modi e nei numeri che adesso, a titolo generale, si registrano.

Tale paradigma non può valere d’altronde solo per questo paese. La crisi, che ha avuto l’epicentro negli States ma si è propagata ovunque per le interdipendenze del sistema, è stata originata soprattutto dalle bolle speculative, abnormi, che hanno interessato il mercato immobiliare. Non c’è ragione quindi di ritenere che le economie illegali di stati come Colombia, Russia e Stati Uniti, non prive peraltro di nessi con quella italiana, si siano mosse diversamente. E alcuni dati ne danno conto. È documentato che la mafia russa e quella cecena sono presenti nel business del petrolio, dei materiali radioattivi, del gas. È emerso in particolare che il controllo esercitato dalla neftemafiya sulle esportazioni di greggio, ha provocato alla Federazione Russa perdite annue per miliardi di dollari. I dati delle maggiori borse internazionali, inclusa quella di Piazza Affari, confermano d’altronde che i titoli dell’acqua, del gas e dell’energia elettrica, le cosiddette Utilities, hanno retto meglio di altri, inclusi quelli del mitico Nasdaq, ai colpi della recessione. Prova ne è che i fondi EFT, contenenti i titoli delle 30 maggiori società multinazionali dell’acqua, sono fra i pochi in questi tempi a garantire degli utili. 10 mila dollari investiti in tali titoli agli inizi del 2002, sono diventati infatti 20 mila a fine 2008. Mentre altri fondi, soprattutto a causa dei rovesci del biennio 2007-2008, hanno dato di massima risultati negativi.

Giulio Cavalli relatore a Piacenza nel convegno ““Come combattere il fenomeno mafioso. L’impegno della società civile come parte integrante della filiera antimafia”

Sabato 26 settembre 2009 a Piacenza in via moizo 2, Giulio Cavalli sarà tra i relatori del convegno ““Come combattere il fenomeno mafioso. L’impegno della società civile come parte integrante della filiera antimafia” a partire dalle ore 17.30 organizzato dal Lions Club Piacenza Ducale in collaborazione con il SIAP. Ecco il programma di massima:

“Come combattere il fenomeno mafioso”. L’impegno della società civile come parte integrante della filiera antimafia.

Tale evento organizzato presso il ristorante La Volta del Vescovo sito in Piacenza avrà luogo il 26 Settembre 2009 alle ore 17,30.
Per motivi organizzativi La prego di confermare la Sua presenza e quella di eventuali ospiti, unitamente ad eventuali necessità legate agli spostamenti e/o agli alloggi, al Presidente del Comitato Service del L.C. Piacenza Ducale Club Davide Bonanno al n° 335/6830498 o al Segretario Provinciale del SIAP Walter Verardi al n° 331/3724596 .
Lo scopo dell’ iniziativa è quello di sensibilizzare la cittadinanza affichè sempre più, si diffonda il messaggio di solidarietà verso coloro che si espongono in prima persona nel combattere la criminalità organizzata per affermare la legalità.   

Il ruolo di moderatore verrà rivestito dal Governatore del Distretto Lions
Prof. Dott. Renato Sambugaro

Hanno già confermato la loro partecipazione quali ospiti relatori:

Giulio Cavalli
Attore e scrittore
“il dovere per la cultura di informazione e alfabetizzazione nella battaglia antimafia al nord”

Dott. Leonardo GUARNOTTA
Presidente del Tribunale di Termini Imerese

On. Mario TASSONE
Membro della Commissione Parlamentare Antimafia

Dott.ssa Nadia FURNARI
Laurea in Informatica – Scienze dell’informazione
Associazione “Rita Atria”
l’impegno della società civile nella lotta contro le mafie.

I.M:D.
Autore del libro “Catturandi” edito da Flaccovio
“Come e perchè è fondamentale la ricerca dei Latitanti da parte della polizia
giudiziaria”

Pino MANIACI
Giornalista e Direttore di “TELEJATO”

Rosa FRAMMARTINO
Responsabile scientifica del Progetto “Percorsi di Cittadinanza e Legalità”
Consorzio “Oscar Romero”

Quattro chiacchiere con… Giulio Cavalli, il “giullare” sotto scorta

lucarinaldi.blogspot.com

Prima intervista della rubrica “Quattro chiacchiere con…”, dove si intervisteranno nel corso del tempo alcune personalità, non scelte a caso. Proprio l’inaugurazione è dedicata ad un personaggio, un attore, regista, sceneggiatore di teatro: Giulio Cavalli, che ringrazio per la grande disponibilità dimostrata. Giulio non è una personalità scelta casualmente per inaugurare questa rubrica, che spero apprezzerete, tutt’altro.

Lo vidi all’opera la prima volta non molto tempo fa, solo questa estate, mentre portava in giro per l’Italia il suo spettacolo, scritto con Gianni Barbacetto “A cento passi dal duomo”, un bellissimo, ma soprattutto forte, spettacolo sulle infiltrazioni mafiose nel nord Italia. Il teatro di Cavalli è proprio questo: narrazione civile, un teatro spesso scomodo, che si mostra però come una delle forme forti di denuncia sociale: Cavalli tiene vive, tramite il suo teatro, pagine importanti della storia recente che non vanno dimenticate, dato che, e qui prendo spunto da un altro pezzo di teatro civile, “Promemoria” di Marco Travaglio, “la storia è maestra, ma nessuno impara mai niente”.

Oggi Giulio Cavalli, a seguito di alcune minacce da parte di mafiosi, dopo aver portato in scena il suo spettacolo “Do ut Des”, vive sotto scorta, un segno forte come le mafie debbano essere innanzitutto combattute con la cultura e la conoscenza del fenomeno, che ancora oggi manca alla maggioranza degli italiani.

Ecco l’intervista:

Domanda: Giulio, da quanto vive sotto scorta e qual’è stata la rappresentazione che ha cominciato a far paura a qualcuno?

Risposta: La vicenda è cominciata in una climax ascendente dal 2006. In quel periodo insieme a Rosario Crocetta, Antonio Ingroia, Giovanni Impastato e molti altri avevamo deciso che era il momento di riprendere in mano la lezione di Peppino Impastato e “disonorare” Cosa Nostra mettendone a nudo le bassezze morali e la comicità dei limiti medievali di riti e boss. Disonorarli, per noi, era una questione di onore. Un modo per ribellarsi ad un racket culturale di eroicità negativa di individui che una certa televisione ci proietta come “astuti geni del male” e invece si rivelano infimi nella loro bassezza. Ridere di mafia significava urlare forte che “il re è nudo” e, di conseguenza, che difficilmente questi personaggi avrebbero potuto tenere sotto scacco una nazione senza l’aiuto dei colletti bianchi e di alcuni pezzi della politica.

D: Da dove arriva la scelta di fare “teatro civile”?

R: Non è una scelta. Piuttosto un’esigenza. Il rispetto per il privilegio di avere un pubblico disposto ad ascoltarti e che si merita quelle storie che in altri campi (giornali, tv) emergono con difficoltà. Ammetto che l’etichetta “teatro civile” mi lascia però molto perplesso. Tutta la cultura è civile nel momento in cui professa un ideale, lo argomenta, ne traccia le linee e lo veste con gli abiti della bellezza.

D: Crede che la sua storia sia una dimostrazione di come il teatro e l’arte in generale, possa ancora influire a livello sociale e di come la mafia, oltre che con la legge, vada combattuta anche con la cultura?

R: Come dice Don Luigi Ciotti “l’etica libera la bellezza”. Finchè sfideremo le criminalità organizzate (anche) con l’arma bianca della cultura sveleremo la deriva culturale che a loro appartiene e scalfiremo la loro credibilità.

D: In “A cento passi dal duomo” cita molti personaggi del panorama politico milanese. Ha mai avuto rimostranze o minacce da parte di questi?

R: Le minacce sono gli effetti. Io peroro cause. Le minacce le trovo banali, noiose, nemmeno meritevoli di essere accennate. Comunque tutti i miei copioni nascono da sentenze di tribunali e quindi sono opinabili ma difficilmente smentibili.

D: La mafia al nord, come ricorda anche nel suo spettacolo, per molti è un argomento pretestuoso per infangare il buon nome della Lombardia e di Milano. Analogo discorso veniva fatto trent’anni fa in Sicilia dai sindaci, e ad oggi, tutta Italia conosce la situazione dell’isola. Crede che a Milano si possa mandare un chiaro messaggio sui pericoli di queste infiltrazioni o vede la popolazione del nord cieca e sorda a questi appelli?

R: A Milano bisogna mandare un messaggio forte. Una regione che continua a sfilare presuntuosa credendosi immune è una regione già pronta per essere presto malata terminale. La questione della pulizia del buon nome di una regione è un barricarsi barbaro e insensato. Non saranno i ciechi irriducibili dell’onorabilità di un marchio a salvare il nord. Il negazionismo lo pagheremo quando il cancro sarà ormai una metastasi che non si potrà più nascondere. E allora l’irresponsabilità della politica la sconteranno i nostri figli.

D: Cosa differenzia la mafia del sud da quella del nord?

R: Al nord hanno l’abito buono delle organizzazioni economiche. Profumano di partite iva e eleganza, stanno nel riciclaggio in cravatta e nella cocaina del dopo aperitivo di certa borghesia. Ma l’odore è lo stesso; quello peloso della prevaricazione e della bava dell’illegalità.

D: Il Giulio Cavalli del futuro a quali spettacoli sta pensando?

R: Sto scrivendo un libro, ci tengo molto. È il diario impersonale di un viaggio continuo tra storie, sopravvissuti e sopravviventi.” A 100 passi dal Duomo” ad ottobre debutterà a Milano al Teatro della Cooperativa nella sua dimensione scenica definitiva. Poi ho l’onore di raccontare in tournè il testo datomi da Dario Fo “L’Apocalisse Rimandata” su politica e ambiente. Continuo a non dimenticare l’incidente di Linate e la pedofilia con altri miei spettacoli. In più sto preparando un progetto di legalità “resistente” sul territorio. Non mi annoio.

D: E il lavoro teatrale sul processo Andreotti scritto con lo scrittore Carlo Lucarelli?

R: È un fiore che stiamo allevando con cura e che tra poco sarà pronto per sbocciare. È la storia di uno stato che si infiltra nella mafia e di una sentenza dimenticata. Cose incredibilmente fantasiose se non fosse che sono vere.

http://lucarinaldi.blogspot.com/2009/09/quattro-chiacchiere-con-giulio-cavalli.html#ixzz0QEteD9SD

Salvo Vitale e la sincerità per niente smemorata

Tipologie dell’antimafia

di Salvo Vitale – 3 settembre 2009
Ci sono vari tipi di antimafia: mi soffermo su alcuni:

1) L’antimafia di facciata, è la più diffusa: manifestazioni formali, commemorazioni in occasione di ricorrenze (nascite, morti, partecipazione ad eventi, intestazioni di strade, convegni ecc.). E’ l’antimafia tutto fumo e niente arrosto, nel senso che basta impegnare pochi soldi (amplificazione, locale, spese di viaggio e di soggiorno per i relatori per promuovere l’immagine di un’amministrazione seriamente impegnata in questo campo, attraverso la diffusione della notizia sul giornale o in tv. Qualche presenza del politico di turno assicura più visibilità e più parole inutili. I risultati d queste attività sono pressocché nulli se non rafforzati da momenti di riflessione e da azioni d’intervento sul territorio. Da questa antimafia i mafiosi non si sentono disturbati, anzi condividono o promuovono la partecipazione di loro simpatizzanti alle iniziative, onde avere un alibi.

2) L’antimafia talebana: è quella di chi vede mafia e interessi mafiosi dappertutto, quella di chi su un saluto, su una parentela, su una frase avulsa dal suo contesto, scopre collusioni mafiose con i politici, loschi affari che nascondono chissà quali oscure trame. Si mettono assieme le più disparate notizie che possono avere una qualche connessione, per elaborare analisi indimostrabili, utili comunque a gettar fango sul proprio avversario politico o sul proprio nemico personale. Molti personaggi di primo piano, soprattutto a sinistra, hanno fatto parte di questa antimafia, finendo con il generalizzare in un unico calderone categorie sociali e persone che nulla avevano a che fare con la mafia. Personalmente ritengo di essere appartenuto anche io, in altri tempi, a questa categoria, quando, ai tempi di Peppino Impastato, ritenevo che “Scudo crociato- mafia di stato” o che ” D,C.+P.C.I= mafia”. C’erano allora certamente molti mafiosi nelle D.C. così come ora nell’UDC e nel PDL, alcuni anche nel PD, senza per questo dover concludere che tutti quelli che fanno politica sono mafiosi o collusi. “Se tutto è mafia niente è mafia”, diceva Sciascia. E questa sorta di smania di trovare “connessioni mafiose” dovunque, ricorda per certi aspetti l’integralismo dei talebani afghani. Quindi due tipi di “talebaneria”: quella sincera e radicale, chiusa in una completa intolleranza e nel rifiuto totale del sistema, quella che utilizza o strumentalizza presunte collusioni come mezzi utili a qualche strategia politica. E qua passiamo già alla successiva tipologia,

3) L’antimafia strumentale: l’uso dell’antimafia come strumento per far carriera. Sciascia, a suo tempo, bollò come “professionisti dell’antimafia” anche Falcone e Borsellino, accorgendosi, solo molto più tardi e dopo la loro morte, di avere sbagliato bersaglio. Per un magistrato che cura particolari inchieste, è facile costruire una cornice in cui l’impegno personale si media con la carriera professionale. Anche il politico può servirsi di quest’arma con intelligenza, favorendo le associazioni antimafia, assegnando loro beni confiscati, plaudendo alle operazioni delle forze dell’ordine quando smantellano organizzazioni malavitose presenti sul proprio territorio, o esprimendo solidarietà nel caso di attentati. Sull’esistenza di un autentica volontà antimafia si può avanzare qualche dubbio, anche se non mancano risultati eclatanti.

4) L’antimafia passiva, che comprende una “maggioranza silenziosa”, ostile alle prepotenze, desiderosa di vedere l’alba di una nuova Sicilia, ma che sopporta tutto e si adatta al sistema per mancanza di coraggio. “Pi amuri di la paci ognunu taci- e supporta la mafia in santa paci” , cantava Otello Profazio. Difficile catalogare come antimafia questa forma di accettazione passiva, specie quando è determinata dall’idea che nulla cambia o potrà cambiare l’attuale assetto di vita: non c’è miglior terreno di cultura della mafia che la conservazione dello stato di cose che ne costituisce il naturale brodo di coltura. Un passaggio più avanzato è l’accettazione determinata dalla paura: a nessuno piace subire la violenza, assoggettarsi al pagamenti del pizzo per evitare ritorsioni che possono arrivare alla rovina di un’attività. Lamentarsi non basta, ma c’è già qualche luce di ribellione, o comunque, di presa di distanza.

5)
Più consistenza ha l’antimafia militante, cioè quella di coloro che dedicano il proprio tempo e la propria vita a lavorare per l’eliminazione di questo triste fenomeno del sottosviluppo meridionale: quella di coloro che vanno nelle scuole, che scrivono inchieste coraggiose su alcuni giornali, che creano associazioni e promuovono iniziative di formazione e di lotta, anche spontanee, contro chi usa il potere per ricattare la gente impedendole di scegliere liberamente il proprio futuro. E l’antimafia di amministratori che si attivano per utilizzare i terreni confiscati ai mafiosi, quella dei docenti che elaborano progetti di educazione alla legalità ( non sempre efficaci), quella dei pochi giornalisti pronti a rendere note le collusioni con la politica e i giri d’affari illegali, mentre gran parte dei loro colleghi preferiscono scaldare le sedie con inutili servizi sulle vacanze, sui prezzi, sull’enalotto, sui meriti e i miracoli del loro padrone e dei suoi amici, ecc.

Tratto da: corleonedialogos.blogspot.com

Mafie: l'impunità culturale tutta lombarda della politica del non fare

mafianonesistePassano d’agosto i circhi vecchi delle dispute politiche officiate dagli strateghi della politica dello “stare”: quelli per cui ogni comunicato stampa serve a tranquillizzare e tranquillizzarsi, e per i quali  l’azione politica si riduce ad un “tenere in bilico” la barca dalle onde di collaboratori troppo ingombranti o peggio ancora di magistrati e forze dell’ordine che osano esimersi dalle ronde (alcoliche e analcoliche) o dalle persecuzioni legittimate. Se perseverare è diabolico, la Lombardia, pure ad Agosto, sottolinea la propria perseveranza (diabolicamente incendiaria e cornuta) nell’arroccarsi tra codicilli e competenze pur di non prendere decisioni e tanto più negarne il diritto agli altri.

A Milano che “la mafia non esiste” o perlomeno “non appartiene a questa città” la sindachessa Moratti ha provato a ripeterlo ovunque dai consigli comunali, alle televisioni in prima serata fino ad abusarne favoleggiandoselo (probabilmente) la sera per addormentarsi. Non soddisfatta ha poi lanciato comunque la commissione comunale antimafia che è durata poco meno di uno starnuto (come un coniglio dal cilindro) per rimangiarsela subito dopo adducendo competenze prefettizie che non andavano scavalcate. Ora, saputo che nella sua “Milanoland delle fiabe” un’intera cittadella è in mano alla criminalità organizzata come segnalato dal pm Gratteri (che di ‘ndangheta un po’ ne conosce avendone studiato la storia, morsicato alcune locali e reativi capibastone e annusandone tutti i giorni l’odore tra gli stipiti blindati che il suo lavoro gli impone)  la sindachessa e la politica milanese tutta rimbalza responsabilità di intervento a non precisati enti o ruoli. Mentre La Russa si ridesta invocando l’esercito.  Intanto tutti felici e contenti concordano nel ritenere i 6 caseggiati popolari di Viale Sarca e via Fulvio Testi in mano agli onomatopeici fratelli Porcino (bossetti di periferia legati alle cosche di Melito di Porto Salvo), i nomadi Hudorovich e i Braidic semplicemente un “neo”, una pozzanghera piccola piccola in quel placido, enorme e ligresteo tappeto di cemento che è il capoluogo lombardo spiato dall’alto.

A Lonate Pozzolo (come descrive puntualmente nel suo sito il bravo Roberto Galullo) il leghista Modesto Verderio, dopo aver denunciato gli interessi della famiglia Filipelli tutta in odore balsamico di ‘ndrangheta all’interno dell’areoporto di Malpensa finisce accantonato come si compete al visionario del rione. Intanto una statua di San Cataldo arriva da Cirò Marina a Lonate Pozzolo per scalzare Sant’Ambrogio nella festa del patrono santo con prepotenza laica.

A Buccinasco perde la pazienza addirittura la Lega che sul proprio giornale cittadino (“El giornalin de Bucinasc”) scrive contro il sindaco Loris Cereda: “Nonostante il sindaco Cereda continui a prodigarsi per dichiarare che a Buccinasco la mafia non è un problema e non riguarda le istituzioni  i cittadini sono sempre più allarmati dalle notizie dei telegiornali che parlano di arresti e di commistioni fra politica e malavita organizzata. Noi siamo stanchi di sentire ripetere le solite litanie: la ‘ndrangheta è un’invenzione dei giornalisti, delle istituzioni, delle commissioni parlamentari, ecc. Come cittadini vorremmo finalmente capire cosa c’è e cosa non c’è di vero al di là delle strumentalizzazioni politiche. E non ci bastano le prese di posizione di alcuni consiglieri che dichiarano di ritenersi calabresi nel consiglio comunale aperto alla presenza dei magistrati Castelli e Pomodoro“.

A Desio (fine 2008) Il Consiglio comunale ha respinto un ordine del giorno contro la mafia (’ndrangheta, camorra e quant’altro) in Brianza. Hanno votato contro tutte le forze di maggioranza. L’o.d.g. era stato presentato in seguito alla scoperta delle discariche abusive di rifiuti tossici a Desio e a Seregno.

A Corsico diventa quasi una vergogna una targa di marmo in onore di Silvia Ruotolo, donna, moglie e madre innocente, uccisa durante una sparatoria tra clan rivali della Camorra, a Napoli. Lei rincasava. Loro si spartivano a pistolate due piazze di spaccio, che fruttavano 20 milioni a sera. Il Comune voleva affiggere la targa in ricordo di Silvia Ruotolo sotto i portici di via Malakoff, al civico 6: oggi sede di un’associazione che si occupa di disabili psichici, ieri supermarket gestito da un mafioso della famiglia siciliana Ciulla, confiscato dallo Stato e poi riassegnato a fini sociali, come prevede la legge 109. Durante l’ultima assemblea di condominio, l’ordine del giorno relativo a quella “etichetta” commemorativa (concedere o meno al Comune l’autorizzazione di affiggerla sulla parete esterna dell’edificio, ben visibile a tutti) era sul fondo della “scaletta”. Alla fine l’amministratore ha deciso da sé, perché se n’erano già andati quasi tutti. Il permesso non è stato concesso. E i famigliari di Silvia Ruotolo (il marito e il figlio di 17 anni) hanno assistito alla cerimonia di scopertura della targa da parte del sindaco Sergio Graffeo all’interno dell’immobile confiscato. Pochi i presenti. Cerimonia quasi intima. Come se i panni sporchi della mafia si debbano lavare nel silenzio. Di soppiatto. Quasi per effetto di una forzatura. Di coscienza civica, di fatto, ne gira poca nel supercondominio di Corsico, che a est si affaccia sul quartiere Lorenteggio di Milano. Duecentodieci famiglie. Qualche negozietto sotto i portici che continua a cambiare gestore, a parte due o tre che resistono a che cosa, bene, non si sa. Qualche cognome “importante” sui campanelli, soprattutto di siciliani.

Negli uffici della Direzione Nazionale Antimafia Enzo Macrì, sostituto procuratore nazionale antimafia, parla da profeta inascoltato. «Che la ‘ ndrangheta stesse colonizzando Milano lo dicevo negli anni 80. L’ ho confermato due anni fa e i fatti mi danno ragione. Ora c’è l’ Expo e non so più come dirlo».

Solo per citare alcuni esempi.

Stupirebbe questo atteggiamento impermeabile in un paese normale, dove normalmente i politici dovrebbero essere eletti per prendere posizione, dare segnali forti e non solo per banalmente amministrare capitoli di spesa e distribuire (scaricandosene) ruoli e responsabilità. Qui non si tratta di disquisire i ruoli di governo e ordine pubblico come stabilito dalla legge; qui si rimane a supplicare un segnale, un lampo in cui ci si illuda che Marcello Paparo non possa sentirsi “libero” di collezionare bazooka come nei peggiori scenari di desolazione metropolitana post industriale, o Morabito non sfrecci impunito a parcheggiare il ferrarino in un posteggio dell’Ortomercato con l’arroganza di uno zorro a quattro ruote, o che Andrea Porcino (classe 1972, giusto per identificarlo meglio là fuori dal suo fortino dove gioca a seminare terrore) possa addirittura inventarsi intermediario con arie da tour operator mentre raccomanda ai secondini del carcere milanese di San Vittore dei buoni servigi e una residenza confortevole per i suoi amici Nino, Ettore e Massimo.

L’impunità dentro le teste (oltre alle tasche) dei capibastone ‘ndranghetisti o dei prestanome camorristi o dei ragionieri di Cosa Nostra in Lombardia è una responsabilità politica. Risolvibile semplicemente con la voglia e l’onestà di  volere dare al di là di tutto un segnale. Per restituire dignità anche nella forma.

Una regione che controlla la carta d’identità di un mojito e cammina su fiumi di cocaina. Una regione che s’abbuffa alle conferenze stampa delle grandi opere e che inciampa al primo gradino del primo subappalto. Una regione che convoca gli stati generali dell’antimafia per ribadire di stare tranquilli. Una regione che ci convince di aver risolto tutto spostando i soldatini del Risiko con la scioltezza di un tiro di dadi. Una regione diventata maestra perspicace nel strappare con la pinzetta delle ciglia l’allarmismo mentre grida all’emergenza dei rom che scippano le nonne. Una regione che se il fenomeno criminale non emerge allora non esiste. Una regione che mette i moniti dei procuratori antimafia nei faldoni di “costume e società”. E intanto ride. Nel riflesso degli eroi diventati onorevoli che “la mafia l’hanno debellata decenni fa” e se così non fosse è semplicemente perchè non l’hanno mai trovata.

Una regione che è sacerdotessa della clandestinità diventata finalmente illegale e intanto finge di non sapere che l’illegalità pascola clandestina.

Ma c’è un tempo che è quello della memoria che supera le circostanze brevi della politica tutta a parare i colpi mungendo voti: la memoria sulla pelle dei nostri figli, delle prossime generazioni, quella che non entra nei libri di storia ma rimane sotto pelle come una traversata nella stiva mai raccontata. E allora pagheranno pegno davanti alla storia tutti i politici pavidi,  cravattari amministratori tra la casetta in centro e l’incenso delle sciantose; pagheranno i sindaci dell’ “insabbia et impera” e i tranquillanti per professione. Pagheranno l’ignoranza e la persecuzione di uno stuolo di attivisti messi al muro per discolparsi di uno sguardo fatto di fatti. Sorrideranno a leggere che qualcuno, metti per caso una sindachessa di Milano calpestando i cadaveri delle antiestetiche vittime milanesi delle mafie, sia riuscita a mettersi nella situazione di dover essere smentita per un allarme che da decenni è già rientrato perchè metabolizzato: endovena, silenzioso. Impunito, appunto.

Nel gioco dei segnali così caro alla pochezza criminale, se esistesse un santo dell’estetica contro il diavolo della politica per comunicati stampa, da domani partirebbero le ronde della legalità nei crani dei politici a cercare con il lumicino la responsabilità della dignità.

E intanto è ferragosto così cinico e vacanziero, mentre qualcuno, tra i pochi ostinati, scrive anche d’agosto di una storia che parla da sola come Gianluca Orsini sull’Unità:

ASSALTO ALL’EXPO

L’Unità – Edizione Nazionale – 10/08/2009 10/08/2009 29 Inchiesta Nazionale GIANLUCA URSINI Gli affari languono nel Meridione, per le imprese legate ai clan che negli anni hanno monopolizzato i mercati del calcestruzzo, del movimento terra e inerti, fino a essere presenti in ogni cantiere pubblico e privato in Calabria: nei prossimi anni la torta più grande verrà dalle opere legate alla Esposizione universale prevista a Milano nel 2015. È il tam tam che si sta diffondendo in quella ristretta comunità di ingegneri e costruttori che si contendevano gli appalti da Caserta in giù. «Dopo aver lavorato ai macrolotti Gioia – Palmi e di recente Palmi – Villa san giovanni dell’autostrada Salerno – Reggio – spiega un ingegnere veneto trasferitosi da un decennio- la mia ditta, emiliana, mi chiede se sono disposto a programmare i prossimi dieci anni a Milano: si apre un ufficio lì, ci saranno fin troppi appalti da gestire». I clan hanno capito che non c’è più da fare affidamento sui grandi appalti in queste regioni, e così come le ditte “pulite” direzionano la bussola degli affari verso l’altro polo. «Qui stanno smobilitando tutti – continua l’ingegnere, sotto garanzia di anonimato – fino a febbraio mi chiedevano ancora se avevo intenzione di restare perché c’erano grosse aspettative legate al Ponte sullo Stretto, ma poi si è capito che per 5 anni soldi non ne arrivano. Sono previsti 2 anni per il progetto esecutivo, ma sappiamo tutti che ce ne vorranno più del doppio. Cantieri a breve non apriranno,quindi tutte le ditte hanno una sola preoccupazione: non rimanere indietro a Milano. È lì che si lavorerà bene. Quelli del posto che ho visto per anni sui cantieri della Salerno- Reggio mi dicono da mesi: ci vediamo in Lombardia». È tempo di preparare i bagagli per il Nord: per i calabresi non è certo un mercato nuovo. Le imprese legate ai clan hanno messo radici da almeno due generazioni nelle terre tra il Ticino e l’Adda: già nel 1999 il magistrato milanese Armando Spataro avvisava la commissione parlamentare antimafia di Beppe Lumia come nel capoluogo padano «il 90 percento delle inchieste riguarda clan di ’ndrangheta: le mafie della Locride stanno penetrando il cuore finanziario d’Italia». Infiltrazione andata a buon fine dieci anni dopo, se nell’ultima relazione della procura antimafia, su 900 pagine si dedica un lungo capitolo a Milano e ai calabresi in Lombardia, passando a setaccio territori diversi. La metropoli e il suo hinterland sono «appannaggio delle cosche reggine, sia della costa Jonica che Tirreniche come pure le famiglie di Reggio città, che agiscono in sintonia con i siciliani di Cosa Nostra legati da antichi rapporti con i clan della Locride, in mano a loro la gestione del pizzo degli investimenti immobiliari e le infiltrazioni nel commercio». L’ortomercato si era rivelato terreno di casa dei Morabito di Ardore dopo un blitz della polizia nel 2007. E in provincia gli investigatori scoprono crotonesi e vibonesi sempre più presenti in alta Brianza e Valtellina, nelle provincie di Lecco Como e Sondrio. Già nel 2006 la procura di Lecco riesce a incriminare 20 persone legate ai clan Coco-Trovato che in zona hanno creato un loro “locale” (come vengono chiamate le nuove cellule) collegato con i clan Arena di Isola Capo Rizzuto a Crotone e con i potentissimi De Stefano di Reggio. I Farao Marincola, crotonesi di Cirò Marina, sono presenti nei cantieri e si occupano di recupero crediti, tra Varese Legnano e Busto Arsizio, a ovest del capoluogo, monopolizzando anche il traffico di cocaina. I Mancuso di Limbadi (Vibo) controllano Monza, nella periferia milanese di Sud ovest, tra Buccinasco, Cesano Boscone e Assago, le famiglie dell’Aspromonte si sono radicate da tre generazioni creando un «consorzio del Nord» che impone le proprie imprese in subappalto in ogni cantiere. Fanno capo ai Barbaro di Platì, che coordinano le famiglie Perre, Trimboli Sergi e Papalia, già inserite negli appalti per l’Alta velocità, come pure al raddoppio della Venezia-Milano, adesso aspettano Pedemontana lombarda e nuova Tangenziale est milanese. Lo scorso marzo tre pm del Tribunale di Milano hanno chiesto 21 arresti per i compari di Marcello Paparo, imprenditore edile che riforniva di bazooka i parenti di Isola Capo rizzuto dalla sua ditta di Cologno Monzese. Dalle 400 pagine del gip Caterina Intelandi emerge una «cabina di regia» unica delle cosche sugli appalti lombardi, che impongono «quale impresa lavora e quale no» e dividono la torta in parti uguali, anche per Tav a quarta corsia della A4. Nella stessa inchiesta emerge anche un fattore nuovo: queste imprese dai profitti elevati fanno gola generano una devianza insospettabile: i lumbard che si affiliano alle cosche. Almeno quattro nominativi di contabili, geometri e piccoli imprenditori del Milanese sono stati indicati dalla gip Interlandi. Cinque kalashnikov, tre mitragliette Uzi, tre pistole Sig sauer. «Su ordine del boss Trovato le consegnai ad un capofamiglia alleato nel ristorante “Il Portico” di Airuno in Brianza», confidava un testimone di giustizia al gip milanese Vittorio Foschini a inizio anno, «le forniture di armi erano iniziate nel 2002, dopo che clan rivali nel milanese avevano ordito un attentato contro Peppe De Stefano e Franco Trovato a Bresso (periferia nord di Milano, a ovest di Sesto San Giovanni)». Gli arsenali vengono preparati in vista della possibile guerra degli scissionisti, per il sostituto procuratore antimafia Pennisi «inchieste come la Over size del 2006 dimostrano il graduale affrancamento dei clan calabresi di Lombardia dalla regione d’origine, con la sostanziale autonomia dei nuovi clan brianzoli e milanesi», una novità segnata dal fatto che le nuove famiglie possono comprendere elementi che provengono da province, paesi diversi, sfuggendo «all’elemento di radicamento con la comunità originale», con un territorio calabrese ben definito, come aveva già segnalato il magistrato antimafia Nicola Gratteri. E queste nuove famiglie hanno fame di appalti, di altri soldi. Tanto da far temere che ben presto, con l’Expo, i kalashnikov si faranno sentire anche in Lombardia. «I sempre più rilevanti interessi nel settore dell’edilizia e dei subappalti per opere pubbliche, possono far saltare alleanze consolidate da tempo», avvisa la Direzione investigativa antimafia nella sua ultima relazione. Le avvisaglie ci sono già: il 27 marzo 2008 Rocco Cristello, ex alleato dei Mancuso caduto in disgrazia, viene ucciso in Brianza, il 14 luglio tocca a Carmelo Novella a San Vittore Olona, territorio dei Farao Marincola, che pagano con il sangue del loro affiliato Aloisio Cataldo, ucciso fuori Legnano il 27 settembre scorso.

Radio Mafiopoli 25 – Il negazionismo certificato e l’antimafia pregiudicata

Buongiorno a tutti. Da oggi Radio Mafiopoli viene trasmessa in video direttamente dal nostro studio, che non è ovale ma fecondo, a tratti spassosamente ovulatorio. Del resto a quanto pare basta spesso una cartellonistica di spalle, anche nella forma di una Disneyland in tetrapak, per arrogarsi il diritto di fare informazione e questo a Mafiopoli non è consentito. Ormai sono anni che il principe Cacchiavellico, monarca despocratico della repubblica di Mafiopoli, sta ripetendo che l’informazione è un’infezione virulenta, contraffatta dalla Cina, che sta uccidendo quella meravigliosa coscienza civile mafiopolitana sempre così delicatamente dormiente, assopita, pressoché comatosa: rivedendo l’ultimo decreto legge sembra che siano in molti tra gli eletti reggipancia del re a volerle staccare la spina. Il lupotto Fini ha dichiarato che “ormai l’informazione mafiopolitana non ha più speranze ed è meglio staccare il sondino”. Poi come al solito è stato sculacciato per avere detto una cosa troppo di sinistra. A Mafiopoli non passa una settimana senza che ci sia una di quelle novità che ti facciano addormentare con quel retrogusto al dixan che è tutto un gioco di scambio di fustini due meglio di uno.
Pino Maniaci è stato denunciato. Il che di per sé non sarebbe nemmeno una notizia buona per il settimanale dell’oratorio. È la sua 270esima denuncia, del resto, e non è un segreto da servizi segreti il fatto che Pino sia l’inventore di un nuovo modello di antimafia: l’antimafia pregiudicata. Questa volta è stato denunciato per abuso di professione, che è una forma particolare di reato esclusiva proprio della legislazione di Mafiopoli: tutti coloro che non si allineano agli albi dei soprusi per professione vengono portati davanti alla santa inquisizione della delazione pubblica. Una volta, nell’era paleomafiusa, la delazione era coltivata al bar insieme alle patatine e ai tramezzini dell’aperitivo, mentre al tavolo si davano lezioni sulla legalità rigorosamente quella degli altri. Ora, purtroppo, a causa della nuova legge delle intercettazioni che rende carta straccia qualsiasi dichiarazione che non sia fatta in una notte di luna piena con una coda di gatto nero e un occhio di topo, i delatori devono prendersi la briga di fare le portinaie per denuncia bollata. Arrivata la denuncia il magistrato, dicono, ha dovuto aprire l’inchiesta. Ci sono cose a Mafiopoli a cui la giustizia non può sfuggire: verificare le mestruazioni delle malelingue, prescrivere Andreotti o fingere di trovare 400.000 trascrizioni secretate dentro il calzino di Genchi nel comodino. “L’informazione deve essere fatta di pregiudizi e non di pregiudicati!” ha urlato il Ministro al Giudizio di Stato durante l’inaugurazione del ponte da Messina all’Expo, “ i pregiudicati stiano al loro posto!” ed è scattato l’applauso alla bouvette del Parlamento. Non tutti hanno applaudito, solo i capigruppo, per tenere libere qualche paio di mani a toccarsi i Maroni, senza nessuna allusione a quelli dell’Interno. E così a Pino ci toccherà portarci le arance e le sigarette. Per il caffè magari chissà si offrirà di portarglielo qualcuno dei Fardazza (soprannominati Vitale, famigliola immafusita di Partinico) o della Bertolino (famosa distilleria di querele al Maniaci e famosa per la sua grappa “Scacciacani” ecocompatibile) , il caffè specialità del posto, detto anche “il caffè alla Sindona”.
Intanto, si sono aperti i balli e scaldati i cotechini per la famosa sagra mafiopolitana della negazione: a Lodi in provincia di Mafiopoli la mafia non esiste, non è mai esistita, e non esisterà. Bum bum. Solo una volta all’anno arriva a Lodi vestita da befana per portare una bara ai bambini che sono stati cattivi. A Parma il prefetto Paolo Scarpis ha dichiarato: “da Saviano solo sparate”. Al verbo sparare Riina ad Opera è corso in mensa a giocare ai pirati mentre gli brillavano gli occhi. A Parma la mafia non c’è. Non c’è mai stata e non ci sarà mai. La Moratti sindachessa di Milano, provincia di Mafiopoli, appena sentite le parole magiche “mafia” e “non c’è” si è illuminata e con il parrucchino in erezione ha convocato una conferenza stampa all’urlo “tana libera tutti!”. Un trionfo. Bum bum. A Genova il questore Parenti dichiara “mafia a Genova? A noi non risulta”, ha ragione al massimo un paio di puttane. A Buccinasco intanto il sindaco Ceresa organizza a sorpresa una giornata contro la mafia, titolo dell’iniziativa: “la storia della mafia dai fasci siciliani ai primi anni 50 quando è stata debellata”.
L’onorevole Fini, promosso proprio in questi giorni a onorevole fermacarte sulla scrivania del Re, ha dichiarato “la mafia è una dittatura!”, soddisfazione inaspettata. Poi ha aggiunto “non votate per chi offre un posto di lavoro”, e il Popolp della Pubertà è sceso sotto il 5%. Poi ha aggiunto “non ci sono mafiosi alla Camera”, e a quel punto sono entrati dei signori con un camice bianco che in camicia di forza l’hanno portato via.
C’è stata davanti alle questure d’Italia una manifestazione di solidarietà verso Gioacchino Genchi. L’avete vista? Ne avete sentito parlare? No. Allora non è vero. Ricredetevi. Alla negaziopolitana.

Radio Mafiopoli 24 – Giuochiamo alla Mafia (ma per finta!)

Ascolta la 24a puntata: Giuochiamo alla Mafia (ma per finta!)

Ricca la settimana Incom giù a Mafiopoli: settimana di resti, arresti e giocatori.
Gli arresti: a Trabia, Sciara e Termini Imerese bussano di notte i carabinieri di Monreale. E di notte, con il neurone tipico mafiuso che svegliato di soprassalto sbadiglia cannolicchio, in quindici vanno ad aprire con le ciabatte da boss e lo sbadiglio seduto sulla spalla. Un antico proverbio mafiopolitano dice “se di notte bussa il carabiniere sono calci nel sedere” e, infatti, sono guai per i clan di Trabia, Sciara e Termini Imerese. Pisellati di soprassalto in un mattino senza oro in bocca sono volati a fare compagnia nelle patrie galere con i loro capetti Giuseppe Bisesi, Vincenzo Salpietro e Giuseppe Libreri. Aperta una raccolta fondi per l’iniziativa “Regala anche tu una sveglia con il busso carabiniero al boss del tuo quartiere!”. Appena saputo dell’accaduto quella vecchia volpe di Domenico Raccuglia (della stirpe dei Caccuglia) si dice che nel cuore della notte lieve e latitante sia sceso dal letto per strappare il cognome sul campanello.
A Caserta, provincia di Mafiopoli, alla mattina insieme al latte e al giornale sullo zerbino ci hanno trovato anche le guardie. 28 ingabbiati del clan di Antonio Farina, che nonostante il nome, non vuota il sacco. “ma è una vergogna!” – ha urlato il Farino (per gli amici 00) “a quest’ora del mattino mi si fanno le borse sotto agli occhi!”.  A Marcianise e Casal di Principe ai Casalesi ora tocca trovare altri cassieri con cui spartirsi al 50 il mercato ricco delle estorsioni. Appena saputo il topo Semola per gli amici Setola (sanguinario rosicchia formaggio della zona) si è alzato dal letto ma si è ricordato di essere in gabbia. Aperta una raccolta fondi per denunciare i topi in cattività.
A Cologno, provincia di Mafiopoli, cittadina colognese famosa per gli studi televisivi di Beghe4 e Banale5, la ‘ndrangheta in trasferta ci lascia 22 castrati sul campo. Medagliato sul campo il capetto Marcello Paparo in trasferta da Crotone. Il Paparo e la sua figliola Luana si erano specializzati nella movimentazione terra ed erano così bravi e così veloci che a suon di minacce si sono presi anche il cantiere dell’Alta Velocità nella tratta Pioltello-Pozzuolo Martesana. Tra gli arrestati anche il maresciallo finanziere Giuseppe Russo campione italiano della disciplina olimpica mafiopolitana di “chiudere un occhio”. E con l’occhiolino strizzato ci ha guadagnato una quota del ristorante “Taverna d’Isola” di Villasanta (famoso per il menù fisso  con l’occhiolino e senza scontrino) e un soggiorno vacanziero omaggio a Capo Rizzuto (località nota per il nome afrodisiaco). Per questa mania tutta ‘ndrina di rizzarsi tra una manetta e l’altra gli inquirenti hanno trovato una lanciarazzi in dotazione alla Nato. “E’ una vergogna!” – ha gridato Giancarlo Paparo fratello onomatopeico del suo fratello Marcello – quell’arma ci serviva per importare democrazia!” il giudice per il soggiorno in gabbia ha ordinato di spegnere la televisione agli arrestati.
Intanto a Lodi (cittadina ridente famosa per le Banche Impopolari) due ragazzini, finito il torneo di calcetto all’oratorio, hanno deciso di dedicarsi a giochi nuovi; erano indecisi tra il “lancio dell’opa secondo San Fiorani” oppure il più laico “suona il citofono e poi scappa”. Ingrigiti nella scelta dall’ombra delle logistiche si sono buttati proprio all’ultimo al “Giuoco della Mafia” acquistando via internet un paio di prostate di ricotta per assomigliare a Zu’ Binnu Bernardo Provenzano. Si sono fatti poi prendere la mano e hanno cominciato ad inviare anche lettere anonime per raggranellare un po’ di racket. Arrestati, condannati, derisi e compianti in una delle lettere chiedevano testualmente «la riscossione di una tangente, cioè di una piccola tassa che pur non segnalata tra le tangenti legali dello Stato dovrete lo stesso oblare.» Prima di essere incarcerati sono stati premiati dal Giampy nazionale per la creatività finanziaria. “Faranno strada!” ha urlato il Popolare di Lodi dalla sua nuova attività di serre floreali (Non Fiorani ma opere di bene) “arrestare dei ragazzini che promettono bene già da piccoli di essere i re della finanza!”. Ma la città condanna. Poco, modestamente, quasi niente, com’è nelle corde dei borghi dove la mafia non esiste. Del resto è solo una ragazzata: come quella dei fratelli Antonio e Marcello Reitano che nel 1992 nel lodigiano chiedevano all’imprenditore Daniele Polenghi, per scherzo, 200 milioni. La Sony è già pronta a lanciare sul mercato il gioco “Mafia anche tu!” disponibile per playstation. Bum bum.
Nel gioco dei segnali che non si devono prendere sul serio gli allegri graffitari a Monreale scrivono sui muri “Sonia Alfano infame” mentre Sonia a cento passi perdeva tempo a parlare di legalità. “Ma è uno scherzo!” ha urlato il Principe Macchiavellico mentre inaugurava la prima pietra del ponte da Messina a Infame “è stato scritto in rosso come la temperatura sugli autogrill! Non può essere sul serio! E poi, infame è maschile e Sonia è a e quindi femminile!” è partita la pubblicità e tutti si sono addormentati.
Non tutti si sono addormentati: qualcuno, sovversivo e pericoloso, ancora continua:
Però se continuo a farlo vuol dire che credo – e lo credo fermamente – che le nuove generazioni, le generazioni che verranno, riusciranno a sentire quel fresco profumo di libertà di cui Paolo parlava e per cui Paolo è morto.
Alla Borsellino.

BIBLIOGRAFIA

http://www.repubblica.it/2009/01/sezioni/cronaca/camorra-7/operazione-caserta/operazione-caserta.html

http://archiviostorico.corriere.it/1992/maggio/05/racket_tre_manette_co_7_9205051075.shtml

http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/09_marzo_12/ragazzini_estorsione_lodigiano_lettere_minacce_commercianti-1501081045223.shtml

http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/09_marzo_16/arresti_ndrangheta_cologno_monzese-1501091237612.shtml

http://www.antimafiaduemila.com/content/view/13936/78/

Radio Mafiopoli 23 – Salvatore Borsellino e che Stato è stato

Ascolta la 23a puntata: Salvatore Borsellino e che stato è stato

Salvatore Borsellino è uno di quei fiori rari di memoria attiva, di quelli per cui una perdita è soprattutto il dovere di un inizio. Lo incontro che è mattina già matura, nel suo ufficio, dove sorridono in foto suo fratello Paolo insieme a Giovanni Falcone.

Salvatore, in uno stato civile i famigliari delle vittime che sono morte per servire lo stato non dovrebbero avere l’obbligo e l’emergenza di continuare a lottare ma dovrebbero avere il diritto semplicemente di preservarne la memoria. Invece questo con tuo fratello Paolo Borsellino non è successo…

– Non è successo anche perché, purtroppo, quello che si tenta di fare in Italia è di limitare la commemorazione di Paolo, facendola diventare proprio commemorazione, cioè pensando a Paolo come una persona morta. Invece la verità è tutt’altra: io vado tanto in giro in Italia e mi accorgo che la figura di Paolo è una figura ancora estremamente attuale, una figura estremamente viva. La gente la sente proprio come qualcosa che gli manca e che vorrebbe. E allora noi ci siamo dovuti prendere questo compito soprattutto per un fatto: per il fatto che di quella strage non è stata fatta giustizia, cioè non si sa ancora nulla, i processi vengono bloccati e le indagini su alcuni punti chiave come quello dell’agenda rossa [l’agenda su cui Paolo Borsellino segnava gli sviluppi e le ipotesi sulle sue indagini, misteriosamente sparita dalla borsa del giudice prelevata subito dopo l’attentato di via D’Amelio ndr]o del Castello Utveggio non vanno avanti.

E c’è proprio un patto a qualche livello che sancisce che queste cose devono essere dimenticate dall’opinione pubblica. Di queste cose non si deve parlare, le deve coprire il silenzio. A fronte di questo atteggiamento è nostro dovere, dei famigliari di Paolo, cercare di tenere viva nelle persone la memoria che qualcuno invece cerca di occultare.

Secondo te, perché c’è questa sonnolenza di gran parte della società civile, per cui ogni tanto, anche andando in giro parlandone, facendo incontri, ci si accorge che, inconsciamente, la gente sembra che dia per chiuso o per risolto il problema dei colpevoli della morte di Paolo?

– Perché quello che è stato fatto è proprio cercare di fare passare l’assassinio di Paolo e di quei ragazzi che sono morti in via D’Amelio come una strage di mafia. E purtroppo credo che a livello di opinione pubblica si sia abbastanza riusciti in questo intento. Hanno messo in galera un po’ di persone – tra l’altro condannate per altri motivi e per altre stragi – e in questa maniera ritengono di avere messo una pietra tombale sull’argomento. Devo dire che purtroppo una buona parte dell’opinione pubblica, cioè quella parte che assume le proprie informazioni semplicemente dai canali di massa – televisione e giornali – è caduta in questa chiamiamola “trappola” ed è stata, potremmo dire, partecipe inconsapevole di questo disegno. Quello che noi invece cerchiamo in tutti i modi di far capire alla gente – e un certo numero di persone, cioè quelle che assumono informazioni anche dai libri e dalla rete, questa cosa la capiscono sicuramente e c’è anche una forte attività sul voler dire la verità – è che questa è una strage di stato, nient’altro che una strage di stato. E vogliamo far capire anche che esiste un disegno ben preciso che non fa andare avanti certe indagini, non fa andare avanti questi processi, che mira a coprire di oblio agli occhi dell’opinione pubblica questa verità, una verità tragica perché mina i fondamenti di questa nostra repubblica. Oggi questa nostra seconda repubblica è una diretta conseguenza delle stragi del ’92.

Al di là degli esiti processuali (che in realtà non ci sono nemmeno poiché qui si procede per archiviazione) ci sono degli elementi incontrovertibili che fanno credere che ci sia una relazione tra la strage di via d’Amelio e una certa parte di Stato in quel tempo?

– È vero che si procede per archiviazione, ma la gente si dovrebbe rendere conto che archiviazione non vuol dire che una persona o delle persone sono state assolte, ma semplicemente che le indagini non hanno potuto nei tempi necessari arrivare al punto in cui avrebbero dovuto arrivare. E se la gente si andasse a leggere tutti i procedimenti di archiviazione, per esempio di Caltanissetta, che tra l’altro spesso sono archiviazioni magari forzate dal capo della procura – come per esempio nel caso dei Tescaroli come ben si legge nel recente libro “I colletti sporchi” di Tescaroli e di Ferruccio Pinotti – si capirebbe che l’archiviazione non è un’assoluzione e nemmeno significa che le indagini ad un certo punto si sono fermate perché non c’erano elementi. Spesso gli elementi ci sono ma non hanno potuto essere sviluppati a sufficienza oppure addirittura qualcuno ha fatto sì che il processo ad un certo punto venisse bloccato. Quindi gli elementi ci sono sicuramente: basta andare per esempio a leggere negli atti del Processo ‘Borsellino Bis’ la relazione di Gioacchino Genchi quando scrive quale può essere stato l’unico punto da cui può essere stato attivato il telecomando che ha fatto esplodere l’esplosivo preparato in via D’Amelio, basta andare a vedere – sempre nella stessa relazione – quali telefonate sono partite in un senso e nell’altro da Castel Utveggio verso numeri intestati a componenti dei Servizi Segreti, per capire come gli elementi ci sono e sono fortissimi. Basta andare a vedere le fotografie dell’Arcangioli [colonnello dei carabinieri ndr ] che si allontana dalla macchina esplosa con la borsa dell’agenda rossa in mano e chiedere come davanti ad una prova incontrovertibile come questa le indagini siano state nuovamente bloccate per capire come sia evidente come non è che non ci siano elementi sui quali avviare dei procedimenti, ma c’è la precisa volontà di bloccarli nel momento in cui arrivano a toccare certi fili che non devono essere toccati, quando arrivano a certe persone che sono – adesso anche per legge dello Stato, anche se è una legge incostituzionale – intoccabili.

Ho letto quello che hai scritto sul procedimento di archiviazione legato alla vicenda della sottrazione della borsa e mi sono chiesto qual è stata la tua sensazione da famigliare nel vedere la borsa contenente la famosa agenda rossa (una delle memorie più importanti di Paolo) in mano ad una persona che nella fotografia è ritratta con piglio molto sicuro in una situazione assolutamente tragica, in mezzo a cadaveri, con tutto quello che stava succedendo in quel momento: ti ha scoraggiato o ti ha dato nuova linfa per continuare a pretendere la verità?

– In un primo tempo – l’ho anche scritto sul mio sito – è stata di scoraggiamento. Addirittura, scrissi: “non so se riuscirò a resistere a questo ulteriore colpo”. Poi purtroppo mi sono accorto di non potermi permettere questi atteggiamenti, anche se momentanei, perché la gente che mi segue e che segue la mia lotta è rimasta un po’ smarrita rispetto a questa mia affermazione e ha pensato che allora non ci fosse più niente da fare. Io mi sono ripreso immediatamente e ho preso anzi da questa vicenda ulteriore linfa come faccio da sempre. Ormai mi sono imposto un’operazione mentale quasi cosciente: a fronte di questi scoraggiamenti ne adopero i motivi per buttarli dentro la fornace e far sì che producano ulteriore rabbia. Ed è quello che mi è successo anche in questo caso: a fronte di questo ennesimo insabbiamento addirittura in questo caso di una prova assolutamente evidente. Prima tu dicevi che basta guardare la fotografia per vedere con che faccia sicura si muove. È proprio questo che mi fa rabbia, che mi ha provocato prima scoraggiamento e adesso ha aumentato la mia rabbia: l’ambiente in cui si trovava e il fatto che l’Arcangioli si muovesse calpestando cadaveri, camminando in mezzo a pozzanghere di sangue. Questo al contrario è stato adoperato nella sentenza di archiviazione del GUP proprio per giustificare il fatto che si assolveva l’Arcangioli che ha giustificato le dieci versioni diverse sui suoi movimenti e sulle persone a cui avrebbe consegnato la borsa, dicendo proprio che era così sconvolto dall’aver dovuto calpestare pezzi degli agenti della scorta di Paolo e dello stesso Paolo, che in quella condizione non può ricordare. E io credo che basti che una qualsiasi persona guardi l’atteggiamento dell’ Arcangioli che si allontana con passo sicuro guardandosi intorno tranquillamente – forse per verificare se qualcuno lo stesse osservando – per capire che questa motivazione della sentenza è addirittura assurda e che in base a quella motivazione Arcangioli non può essere assolto e non si può bloccare il processo. Io questa motivazione – benché non l’accetto neanche da lui trattandosi di un magistrato – la posso accettare da Ayala, il quale dice di non ricordare se effettivamente quella borsa gli è stata consegnata e se l’ha presa o non l’ha presa. Ma Ayala era anche amico di Paolo e quindi aver dovuto – come ha detto lui – “scavalcare il troncone di Paolo” penso che possa avergli provocato uno shock. Arcangioli in quel caso, guardando le riprese, mi sembra una persona che sta compiendo un’operazione di guerra. In guerra di cadaveri se ne vedono e se ne calpestano, tant’è vero che Arcangioli sembra proprio che stia compiendo una missione che qualcuno gli ha affidato.

Tornando su quell’appunto sull’agenda di Paolo in riferimento all. On. Mancino (secondo cui Paolo Borsellino sarebbe rimasto sconvolto da un incontro con Mancino proprio alcuni giorni prima dell’attentato), tu che idea ti sei fatto? Sapendo che lì è terreno minato…

– Di quell’incontro io ritengo che sia evidente – anche davanti alle giustificazioni puerili di Mancino – il fatto che ci sia stato e che in quell’incontro deve essere successo qualcosa di importante. Mancino adduce delle giustificazioni così puerili, che io chiamerei vergognose più che puerili, dicendo “io non conoscevo fisicamente Paolo Borsellino e quindi non posso ricordare se tra le altre mani che ho stretto ci fosse anche la sua”. Queste sono le frasi ignobili che adopera, come se la mano di Paolo Borsellino fosse una mano qualsiasi quando Paolo Borsellino in quei giorni era una persona della quale tutti erano sicuri che la morte fosse vicina. Che un ministro dell’interno possa non essersi interessato di chi era Paolo Borsellino e possa non aver visto neanche quel giudice che trasportava la bara di Falcone vestito della sua toga e che quindi possa affermare di non conoscerlo fisicamente è veramente una cosa che si può definire puerile, direi anche che si possa definire ignobile che un allora ministro della Repubblica parli in questa maniera nei confronti di un giudice come Paolo Borsellino. Anche le sue giustificazioni addotte tirando fuori quell’agendina in cui non c’è scritto assolutamente nulla per cercare con quella di contrastare l’agenda che io gli avevo presentato dove di pugno di Paolo c’è scritto “ore 19.30 Mancino”. A fronte di una testimonianza autografa di Paolo lui tira fuori da un cassetto un planning qualsiasi dicendo: ecco qui non c’è scritto l’appuntamento quindi io non ho avuto nessun appuntamento con Paolo. In quell’agendina non c’è scritto, e io l’ho vista molto velocemente nella ripresa televisiva, ma ci sono scritte tre righe in tre giorni diversi. Se quella è l’attività di un ministro della Repubblica, che si può concentrare in tre righe scritte in fondo all’agenda per un’intera settimana, penso che tutti devono capire che questa sia una giustificazione di una persona forse in difficoltà e che quindi cerca in qualche maniera di trovare delle prove. Io sono convinto, e tante cose me lo fanno pensare, che in quell’incontro a Paolo abbiano prospettato quella trattativa tra mafia e Stato che adesso sta emergendo in tutta la sua evidenza dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino. E se ne sta parlando in quel processo nascosto che si sta svolgendo a Palermo, proprio sulla trattativa in cui sono imputati il colonnello Mori e tutti i componenti del Ros, che hanno portato avanti questa trattativa per conto dello Stato.

Secondo te il fatto che dalle bombe si sia passati invece ad un’azione mafiosa fatta di decreti o di comunicazione “di distrazione” vuol dire che Loro hanno meno paura? si sentono più impuniti? o noi siamo meno efficaci nella nostra opera di pretesa di legalità e giustizia reale?

– Io penso che faccia parte tutto della stessa strategia, per cui da un lato la cupola mafiosa ha deciso di inabissarsi e quindi di essere meno evidente all’opinione pubblica per tornare allo status quo precedente agli anni Ottanta, quando c’era una connivenza tra stato e mafia che non balzava agli occhi, poi c’è stata la stagione stragista dei corleonesi e a questo punto si è ritornati – ed è stata una scelta ben precisa – alla situazione precedente. In più le persone che oggi detengono il potere sono molto esperte dal punto di vista della comunicazione e dell’impatto sulle persone, perché sono dei maestri a gestire la loro immagine attraverso gli organi di comunicazione che tra l’altro hanno in mano. Sono dei maestri a gestire l’impatto sull’opinione pubblica. La strategia ben precisa è stata – a fronte del fatto che la reazione della coscienza civile rispetto alle stragi di Capaci o di via D’Amelio e a fronte dell’uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di tutte le altre innumerevoli stragi di Stato che l’hanno preceduta è tale da costringere lo Stato a simulare una reazione e da rendere necessario il prendere, almeno di fronte all’opinione pubblica, dei provvedimenti che poi a poco a poco nei tempi successivi vengono rimangiati – quella di non adoperare più il tritolo per eliminare i giudici ma di eliminarli in maniera ancora peggiore come è stato fatto con De Magistris e come è stato fatto con la Forleo e con Apicella. Proprio perché questo tipo di azione comporta in ogni caso la messa a tacere, l’eliminazione di quella persona che deve essere eliminata. Però non provoca per contro quella reazione dell’opinione pubblica che costringe lo stato a simulare una reazione nei confronti della criminalità organizzata, visto che in effetti una reazione autonoma e una lotta autonoma dello stato nei confronti della criminalità organizzata in Italia possiamo dire a voce alta che non c’è mai stata.

Ti faccio una domanda un po’ scomoda. Falcone diceva che “per combattere la mafia serve non l’impegno straordinario di pochi ma l’impegno ordinario di tutti”. Questo fronte comune dell’antimafia sembra impossibile da realizzare: l’antimafia diventa in qualche caso uno strumento politico, magari per un’opposizione che manca di altri contenuti, e comunque sconta al suo interno alcuni dissapori per questa presunzione di qualcuno di essere il detentore unico dell’antimafia . Tu hai trovato, hai vissuto dinamiche di questo tipo? credi che ci possa essere un momento per cui l’urgenza riesca veramente ad unire tutti?

– Io non so perché mi dici che è una domanda scomoda: questo è quello che io ho sempre pensato. Il fatto è che nelle organizzazioni antimafia da un lato si insinua della gente che cerca di sfruttare questo filone anche per le proprie mire personali e dall’altro ci sono delle vere e proprie infiltrazioni nell’organizzazione antimafia di gente che arriva esattamente dall’altro lato. Faccio l’esempio del consigliere di Francesco Messina Denaro – il signor Vaccarino – che nonostante sia stato condannato a nove anni per traffico di droga sta cercando di rifarsi una verginità e addirittura di infiltrarsi, di porsi come una persona che fa parte di organismi antimafia e che promuove delle organizzazioni antimafia. Questa persona l’ho addirittura querelata perché ha cercato di infangare la memoria di mio fratello dicendo addirittura che Paolo si era presentato in carcere tre giorni prima di morire dicendo che su di lui si era sbagliato e che quindi l’avrebbe fatto mettere in libertà, cosa assolutamente assurda per un giudice come Paolo fare un’azione del genere, tant’è vero che poi ho cercato di documentarmi andando a cercare proprio nell’unica sua agenda che ci è rimasta, l’agenda grigia, e ho visto come nei movimenti di Paolo in quei giorni non sia assolutamente menzionata una visita alle carceri dove era detenuto questo personaggio. In più io ritengo che ci siano delle organizzazioni antimafia di grandi dimensioni e, io non ho paura di parlare, faccio riferimento a Libera, che potrebbero fare molto di più. Libera si presenta come l’associazione di tutte le associazioni antimafia. Io dico: non sono neanche stato invitato l’anno scorso a Bari alla manifestazione nazionale antimafia. Probabilmente non ci sarei andato proprio perché quando queste organizzazioni assumono queste dimensioni forse non fanno abbastanza attenzione a guardare chi viene invitato e se le persone invitate sono degne di stare lì dove si manifesta contro la mafia. Le posizioni che assumo da un po’ di tempo necessariamente devono andare non contro le istituzioni, ma contro chi le occupa, perché io ritengo che il più grosso vilipendio alle istituzioni sia il fatto che certe persone non degne di occupare quelle istituzioni, le occupano. Allora il fatto che io debba necessariamente, per forza di cose, per quelle che sono le mie convinzioni sulla strage del ’92, andare ad attaccare delle persone che occupano le istituzioni viene visto da certe organizzazioni come qualche cosa di dirompente, qualcosa che non può essere mostrato. E di conseguenza io non sono stato invitato a quella manifestazione ed è successo un caso quest’anno quando dopo essere stato invitato a Crema – non mi ricordo se Crema o Cremona – a parlare nell’ambito della Carovana Antimafia è arrivato il volantino senza il mio nome. Probabilmente perché non ero abbastanza presentabile, proprio per questo mio atteggiamento. Io credo che queste cose fanno veramente pensare: forse ad un certo punto le organizzazioni antimafia quando crescono troppo devono salvaguardare certi equilibri e io queste cose le ho dette anche recentemente ad un incontro che ho avuto con Nando Dalla Chiesa, e l’ho detto in maniera franca. Io mi aspetterei da Libera che assuma certi atteggiamenti molto più forti in certe situazioni a fronte di certi fatti che accadono in Italia, invece siamo sempre i soliti: io, Sonia Alfano, Benny Calasanzio, l’organizzazione Dei Georgofili, che assumono atteggiamenti netti e decisi. Non voglio dimenticare anche mia sorella, tant’è vero che non mi risulta che mia sorella attualmente sia in rapporti idilliaci con Libera.

Non ti capita mai di sentirti solo in questa battaglia?

– Ma io, probabilmente per il fatto che vado tanto in giro e incontro tanti giovani e tante persone che della lotta alla mafia hanno fatto un loro impegno ben preciso e costante – e io vengo invitato in tutta Italia non sicuramente dalle istituzioni ma da gruppi autonomi di ragazzi, da ragazzi dei licei, ragazzi delle scuole, dai meet up di Grillo – mi sento meno solo, cosa che forse se non avessi questi incontri costanti con questo tipo di persone probabilmente mi potrebbe succedere.

Quale potrebbe essere il consiglio che ti sentiresti di dare alla gente che vive di televisione , alla gente che ogni 19 luglio prova una commozione autentica nel vedere al TG, se lo faranno quest’anno, il servizio sulla morte di Paolo? Qual è lo scatto che manca per avere veramente una nuova partigianeria, nel senso di prendere in modo deciso e netto e intellettualmente onesto una parte?

– Guarda, quando faccio questi incontri con i giovani e anche con gli adulti alla fine qualcuno mi viene a dire: “mi sono commosso”. Io forse in maniera troppo brusca gli dico che se si è commosso allora io non sono riuscito a fare quello che intendevo fare. Perché io in questi incontri con la gente intendo far indignare le persone, intendo fargli suscitare una rabbia contro quello che è lo stato del nostro paese. Quello che invece qualcun altro vuole fare è proprio di limitare le memorie di Paolo alla commozione una tantum in occasione delle cerimonie di commemorazione o altro. Questo è quello contro cui mi ribello, questa è una ben precisa strategia e proprio a fronte di questo io ho organizzato questa manifestazione quest’anno in via D’Amelio il 19 luglio per impedire che la gente vada lì a commuoversi, per impedire che i soliti avvoltoi vengano lì a celebrare la morte di Paolo Borsellino. Il consiglio che posso dare alla gente è quello di spegnere la televisione e di non leggere i giornali e invece di informarsi in maniera autonoma come infatti per fortuna fanno oggi tanti giovani. È vero che esiste anche la massa di giovani che guarda il Grande Fratello e purtroppo questo mi viene detto da quei giovani impegnati che incontro, dicono di sentirsi certe volte un po’ isolati perché cercano di diffondere queste cose e si sentono rispondere: “no guarda che devo registrare il Grande Fratello”. Purtroppo è vero che questo problema esiste, però io dico che nelle nuove generazioni soprattutto c’è una tendenza a non accettare questa informazione così come viene propinata per cercare di addormentare l’opinione pubblica, per addormentare le menti, e a cercare invece di informarsi direttamente. Il consiglio che posso dare alla gente è proprio questo: leggere, leggere il più possibile, informarsi in maniera autonoma e quindi in questa maniera conoscere quella che è la verità. Poi certe cose verranno autonomamente, verranno come diretta conseguenza del fatto che la gente sa, che la gente conosce. Io mi accorgo che c’è una grossa ignoranza in giro, c’è la strategia di fare dimenticare, addirittura di cancellare le nostre memorie, che è quello che viene fatto: si cerca di cancellare la memoria della Resistenza, si cerca di cancellare la stessa Costituzione o per lo meno di stravolgerla. La strategia, purtroppo, è una strategia che sta dando i suoi frutti e che in questo momento purtroppo è vincente. Bisogna incitare la gente a reagire a questa strategia, a non perdere la propria memoria, a informarsi. Quando vado in giro a parlare oggi di agenda rossa e di Castel Utveggio spesso la gente rimane stupita. Mi confessa di non conoscere assolutamente queste cose. Se la gente conoscesse che cosa c’è dietro la strage del ’92 forse reagirebbe in maniera diversa. E forse oggi non saremmo nel terribile stato in cui siamo.

Ma tu sei ottimista?

– Io non mi posso definire ottimista, nel senso che se non altro penso che della mia lotta per la giustizia e per la verità credo che non riuscirò a vedere i risultati. Io credo che me ne andrò da questo mondo ancora continuando a lottare, e lo farò fino all’ultimo giorno, per la verità e per la giustizia. Ma credo che non riuscirò a vedere i risultati di questa mia piccola lotta che spero non sia solo mia. Però se continuo a farlo vuol dire che credo – e lo credo fermamente – che le nuove generazioni, le generazioni che verranno, riusciranno a sentire quel fresco profumo di libertà di cui Paolo parlava e per cui Paolo è morto.

Radio Mafiopoli 20 – Il sugo della settimana

Il sugo della settimana
Ci sono settimane in cui Mafiopoli dà il meglio di sè. Sono le settimana in cui accade tantissimo, se ne sparla di più e si informa molto poco; secondo l’antico proverbio mafiopolitano “succede qualcosa solo quando è scritta o al massimo sparata”. Una di quelle settimane al gusto rosso di chiasso distraente e qualche macchia di pomodoro.
A Partinico giù all’ospitale ospedale civico c’è da spanciarsi dalle risate. Ma con parsimonia. Con ordine: su un letto tutto gomitolato c’è un malato di lusso, Niccolò Salto. Chi è Salto? Facciamo un balzo indietro con un riassunto delle puntate precedenti. Niccolà Salto, per gli amici di Mafiopoli detto “la zampetta più veloce del west” per la velocità di salti, zompelli, scalate professionali in Cosa Nostra e trasferimenti. I maligni dicono sia boss della zona di Borgetto (lui si difende “sono amico di tutti, e degli amici degli amici”), dicono sia stato colpito in un agguato in pieno centro trivellato da quattro colpi, ma non morto e resuscitato in meno di tre giorni per meriti nel nome del padre, del figlio e del padre di suo zio e ci siamo capiti. Probabilmente il killer assoldato per bucherellare il leprotto Salto era il famoso Ciro “lo strabico”, che da anni studia il manuale del buon sparatore di Bum Bum Bagarella ma in compenso fà male più o meno come una dichiarazione di un ministro del governo ombra. Salto si salva, evviva!, e salta nel regno dei cieli? O no.. salta a piedi uniti con un bel tuffo a bomba dentro una condanna di carcere duro 41 bis. Quel 41 bis che nel Pirlamento di Mafiopoli pochi giorni fa tutti in coro hanno urlato di averlo inasprito. Con una goccia di limone e due foglie di rosmarino. E allora cosa fa quel grillo mattacchione del Salto? Salta di palo in frasca e si accorge che sta male, che un proiettile uno forse gli è rimasto in pancia tra la caponata e l’arancino. Curiamolo! Perchè no! – urlano i garantisti della digestione dei mafiusi – è un suo diritto. Ma a Mafiopoli i diritti sono al sugo. E allora ricoveriamolo. Dove? Il carcere duro imporrebbe lontano. E infatti lo parcheggiano lontano, lontano, lontano, lontano 2 km e mezzo fino al vicino ospedale di Partinico. Così almeno (dicono i garantisti) per impartire ordini al telefono non scatta nemmeno l’interurbana. Hip hip urrà. Bum bum. Ma il carcere duro ai domiciliari in ospedale vicino a casa? È una vergogna! – dicono i maligni. Sì, ma in terapia intensiva. Caro Niccolò, tu che ascolti (lo sappiamo per certo) questa puntata di Radiomafiopoli non prendertela nel tuo nuovo carcere a 5 stelle, altrimenti se ti arrabbi ti si sposta il catetere. Bum bum.
A Santo Domingo intanto hanno accalappiato il boss camorrista Ciro Mazzarella. Dopo il mandato di cattura era stato anche in Colombia e Costarica. I suoi legali gli hanno assicurato che se il 41 bis a Mafiopoli continua così al massimo da oggi  gli mancherà solo la fetta di lime dentro mojito.
A Mafiopoli hanno inaugurato il nuovo decreto sulle intercettazioni. In parole semplici: si potranno intercettare solo mafiusi già dichiaratamente colpevoli, solo nel momento in cui commettono un atto criminoso, in notti di luna piena, con una coda di gatto nero e mescolare tutto con la formula magica. Un successo. Nella baldoria di festeggiamenti addirittura ad Opera è stato intercettato un neurone ancora seminuovo di Zi’ Totò il capo dei capi. Evviva evviva.
Condannato definitivo Vincenzo Santapaola, figlio di Benedetto Santapaola. Benedetto Santapaola l’unico boss già nel nome votato al paradiso. Il Vaticano mafiopolitano insorge: scherzate con i fanti ma lasciate stare i santi! Applauso dei presenti. Poi consapevoli della gaffe hanno mandato la pubblicità.
A Trapani iniziato il processo Grigoli, presunto cassiere del boss Matteo Messina Denaro per gli amici Soldino. Sequestrate 12 società, 220 fabbricati, 133 appezzamenti di terreno e uno yacht di 25 metri. Grigoli dice che ha avuto culo; Matteo Messina va a letto triste come un soldo di cacio. Bum bum.
Da un sondaggio a Palermo i ragazzi mafiopolitani dichiarano al 22% di credere che Chinnici e Costa siano due mafiosi. Incredibile. In uno stato così si rischierebbe che un pregiudicato diventi presidente del consiglio.
Ieri un’azienda di calcestruzzi confiscata al virulento boss Virga, il mafiuso dalla piccola Verga, è diventata una cooperativa libera gestita dai suoi stessi operai. Hanno urlato: “bisogna liberare le aziende mafiuse per farle ritornare alla legalità e ad una gestione libera da collusioni!”. In Parlamento hanno chiuso la porta con due giri di chiavi.
Tutto il resto è noia. Alla Banale 5.

Radio Mafiopoli 11 – ANTIMAFIA CERTIFICATA ISO 9001

Ce l’ha insegnato uno mica da niente, dico a Mafiopoli il primo professore dell’Antimafia, eletto onorato venerabile, è stato il Marcello Dell’Utri. Detentore unico monopolista dell’antimafia in tutte le sue declinazioni, anche senza eventuali preposizioni. A Mafiopoli è andato in onda sul tiggì internazionale delle veline abbagasciate. Il tiggì che si apre con l’angelus e si chiude sul badedas. E Dell’Utri, del mandamento di Montecitorio, in due parole condensa il senso del suo dire al suo ingelloso intervistatore, l’antimafia? Dice arricciandosi il naso sulla radio frequenza elettorale…
[intervento Dell’Utri “L’antimafia è un brand”]
A Mafiopoli l’antimafia l’hanno conosciuta nell’anno mille e non più mille della promozione dei pandori. Un giorno santo, un giorno mammasantissimo che ha aperto le acque, innalzato le acque e rotto le acque.
Dal libro dell’esodo dalla legalità 19:1-25 bum bum.
Era quello il giorno che il Campanella della famiglia dei campanelli della stirpe dei dlin dlon conduceva il suo popolo per il Sinai. Campanella veniva all’Egitto dalla terra santa di Villabate, dal consiglio comunale come aveva voluto la profezia di Re Magio Provenzano. Lì aveva seminato la parola sacra dell’antimafia con un premio in pubblica piazza al figliuol prodigo Roul Bova e con l’altra mano preparato a colpi di scolorina il testo sacro della carta d’identità di Ziu Binnu. Alziamo il cuore Ziu Binnu…. Campanella si era congiunto con la sua sposa secondo i sacri riti dei puliti di cuore. Con Mastella e Cuffaro chierici di nozze. Alziamo il cuore a Cuffaro… poi Campanella mafiuso dell’antimafia era sudato e proprio quel giorno esso arrivò al deserto del Sinai. Campanella si accampanò davanti al monte e qui gli apparve il profeta Giuliano circondato da angeli in coppola bermuda e gli disse:
–    Campanella, zio nostro ti vuole parlare e svelare le leggi per distrarre il tuo popolo. Nel nome del padre, dello zio e dello zio di suo padre. E ci siamo capiti.
Fu così che due giorni e due notti dopo Campanella scese dal monte, con slittino e comunicato stampa, e davanti al suo popolo di popoli lanciò lo spot elettorale dei comandamenti antimafia mafiopolitana certificata iso 9001 odissea nello pizzo.
1-    Non esiste antimafia al di fuori di me se non la nostra di cosa nostra.
2-    La mafia è male ma i mafiosi non esistono. E quelli che c’erano sono tutti morti.
3-    Non desiderare la mafia d’altri.
4-    Onora comunque i tuoi politici, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore nostro Zio.
5-    Non rubare l’antimafia d’altri.
6-    Esiste solo la mafia d’altri.
7-    Non turbare.
8-    Ricordati di santificare le ricorrenze istituzionali antimafiopolitane e solo quelle.
9-    Non commentare atti giudiziari impuri
10-    Non nominare alcun nome invano.
Grazie, prego, tornerò, bum bum.

Ecco, disse il Campanella, questo è quello che scolpì nei pizzi di pietra lavica lo Zio di Nostro Signore. Prendetene e mangiatene tutti e ricordate che la fede è un dono e la fedina è un condono. E fu così che andò e così è scritto nelle sacre scritture. E alziamo il cuore a Campanella, mafioso, antimafio, testimoniato e pure pentito: il bigino della storia d’Italia. Amen. Rendiamo grazie allo zio.
E così ora anche Mafiopoli ha la sua sana antimafia. Perchè “meglio l’antimafia oggi che la mafia domani!!” gridò il principe cacchiavellico all’inaugurazione del ponte da Messina al Paradiso. Per un’antimafia leggera, impotente, frigida e libera. Alla Paperolopolitana.
[Intervento Giuseppe Fava]
Enzo Biagi -Giuseppe Fava, giornalista, scrittore Catanese e autore di romanzi e opere per il teatro. Fava per i suoi racconti a cosa si è ispirato?
Giuseppe Fava – Alle mie esperienze giornalistiche. Io ti chiedo scusa ma sono esterrefatto dinnanzi alle dichiarazioni del regista svizzero. E mi rendo conto che c’è un’enorme confusione che si fa sul problema della mafia. Questo signore ha avuto a che fare con quelli che dalle nostre parti, come Sciascia giustamente dice, sono “scassapagliare”. Cioè delinquenti da tre soldi che esistono su tutta la faccia della terra. I mafiosi sono in ben altri luoghi e in ben altre assemblee. I mafiosi stanno in parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che adesso sono ai vertici della nazione. Se non si chiarisce questo equivoco di  fondo…cioè non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale. Questa è roba da piccola criminalità che credo ormai abiti in tutte le città italiane e in tutte le città erurope. Il problema della mafia è molto più tragico, molto più importante: un problema di vertice della gestione della nazione ed è un problema che rischia di portare alla rovina, al decadimento culturale definitivo l’italia.