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legalità

Gli amici dell’abusivismo? I Comuni. Collusi.

“Inefficienza”. “Collusioni”. “Inadeguatezza”. Qual è il vero ruolo della politica nel proliferare degli abusi edilizi e nell’incredibile lentezza che contraddistingue le demolizioni? FQ_L’inchiesta in questa quarta e ultima puntata sul fenomeno dell’abusivismo prova a guardare il fenomeno dalla prospettiva della magistratura. Qualche esempio. Se in Calabria, negli ultimi 25-30 anni, l’abusivismo è cresciuto in maniera così esponenziale è colpa dei Comuni. Sindaci, assessori e dirigenti degli uffici: sono loro i primi nemici della lotta all’abusivismo. A spiegarlo è il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci. Che non ha dubbi: “Questo fenomeno, in realtà, è legato all’inefficienza, alla collusione e all’inadeguatezza degli uffici pubblici che nel corso degli anni non sono stati in grado di imporre il rispetto delle regole”. Insomma, tutto ruota attorno alla relazione tra abusivi e amministratori comunali, ed è proprio nelle pieghe di questo rapporto che si trovano le ragioni di un fenomeno dinanzi al quale, troppo spesso, piuttosto che pretendere il rispetto della legge, la politica e alcune istituzioni fanno spallucce. Non vedo, non sento, non demolisco. Reggio Calabria, dal 2014 scoperte 700 sentenze mai eseguite Paci cerca di spiegarlo in maniera semplice: “Diciamo che i Comuni raramente subiscono l’abusivismo edilizio. Il più delle volte semplicemente lo tollerano, non esercitando i controlli che dovrebbero esercitare”. Non si tratta di affermazioni di carattere generale. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria va nel dettaglio: “Abbiamo verificato – spiega Paci – che immobili abusivi costruiti per fini industriali, a Bagnara Calabra come a Reggio, posti in una posizione visibile a tutti, sono stati utilizzati per anni, senza che nessuno mai svolgesse alcun controllo”. Non stiamo parlando della casetta per l’estate, ma di capannoni industriali, venuti su e utilizzati senza alcuna difficoltà. “È chiaro – continua Paci – che c’è una compiacenza, quantomeno degli uffici tecnici comunali e della polizia municipale, che sul territorio deve fare controlli, verificare e denunziare le situazioni di abuso”. È da oltre un anno ormai che il procuratore Federico Cafiero De Raho ha affidato all’aggiunto Paci il compito di occuparsi dell’abusivismo in provincia di Reggio Calabria, dove le demolizioni sono praticamente nulle se si escludono, appunto, quelle disposte, negli ultimi mesi, dalla Procura in seguito alle sentenze definitive. Sulla sua scrivania c’è un report dettagliato sulle sentenze del Tribunale che ha disposto l’abbattimento di immobili abusivi: “Abbiamo verificato che, a partire dal settembre 2014, oltre 700 sentenze di demolizione passate in giudicato non erano mai state eseguite”. Mai eseguite. “Eppure, da un punto di vista generale – sottolinea Paci – i comuni non dovrebbero incontrare difficoltà. È vero che questa attività comporta delle spese, ma vengono sostenute da una legge dello Stato, che ha stanziato un fondo di 50 milioni di euro gestito dalla Cassa Depositi e Prestiti. All’amministrazione comunale non rimane altro che accedere a questo fondo, rivalendosi poi sul proprietario abusivo”. Questo però non avviene. E il motivo è semplice. La lotta all’abusivismo è impopolare. E non porta voti. Anzi, rischia di farteli perdere.

Con gli abbattimenti si perdono voti e consenso. E le imprese convocate dalle procure si rifiutano di demolire “Demolire l’immobile di una persona che ha commesso un abuso edilizio – aggiunge il magistrato reggino – significa comunque inimicarsi per chi la dispone (soprattutto se è legato al territorio da un mandato di tipo politico-elettorale) quel tipo di elettore o addirittura quel tipo di elettorato”. Ecco perché, per la Procura, piuttosto che con i sindaci, è più facile lavorare con i commissari dei Comuni sciolti per mafia: “Loro non sono legati al territorio da un mandato di tipo politico-elettorale. Devono svolgere un’attività per il ripristino della legalità”.

Ma non si tratta dell’unica difficoltà. Paci descrive un vero e proprio percorso a ostacoli. Il motivo? Non è facile trovare la ditta che dovrà demolire. Non tutte le imprese che si iscrivono nella white-list delle prefetture, infatti, sono poi disposte ad effettuare le demolizioni: “Manifestano delle indisponibilità, talvolta allegando preventivi di spesa particolarmente onerosi. Altre volte ci sono dei rifiuti veri e propri, perché non vogliono impegnarsi nella demolizione di immobili costruiti abusivamente. Ecco – è lo sfogo del procuratore aggiunto – il nostro lavoro, almeno in questo settore, avviene in perfetta solitudine. Ed è osteggiato, neppure tanto velatamente, proprio da parte di chi dovrebbe sostenerlo”. E non esistono soltanto i furbetti convinti di farla franca. A volte c’è anche la criminalità organizzata: “Dentro questo fenomeno, chiaramente anche la ’ndrangheta ha avuto i suoi interessi e il suo tornaconto. Diverse famiglie mafiose, anche di un certo spessore, hanno operato con la compiacenza delle amministrazioni che dovevano controllarne e inibirne le manifestazioni criminali. Hanno realizzato immobili abusivi che poi, comunque, sono stati confiscati e diventati patrimonio dello Stato”. Dalla Calabria spostiamoci in Campania.

L’analisi del procuratore di Napoli. “In Campania amministrazioni compromesse con gli abusi” Nella provincia di Napoli, dal 1991 al 2016, l’83 per cento dei comuni commissariati lo è anche per il diffuso abuso e la corruzione dell’edilizia: il 77 per cento a Caserta e l’81 per cento in tutta la Campania. Sempre a Napoli, negli ultimi 11 anni, su 16.837 ordinanze di demolizione ne sono state emesse solo il 4 per cento. E non soltanto perché possono compromettere il loro bacino elettorale.

Per il procuratore generale del tribunale di Napoli, Nunzio Fragliasso, la motivazione è che “spesso le amministrazioni comunali sono compromesse con gli abusi e anche per questo le pratiche rimangono inevase”. Il problema, come abbiamo visto, è complesso e riguarda anche le procedure che coinvolgono comuni e procure. I primi sono gli unici interlocutori con la Cassa Depositi e Prestiti per accedere ai fondi necessari per le demolizioni delle strutture abusive, possibilità che non hanno le procure che, anzi, denunciano la mancata presentazione, da parte dei comuni, delle domande di accesso ai fondi. E se non bastasse, la classe politica al Governo, annunciando di volerci mettere una pezza, presenta un decreto legge – presentato dal senatore di Ala, Ciro Falanga – che secondo i Verdi e le associazioni ambientaliste rischia di trasformarsi in un codono permanente.

In attesa di approvazione definitiva alla Camera, la proposta di legge stabilisce per le procure dei criteri di priorità per la demolizione: in cima alla lista ci sono gli immobili costruiti in aree demaniali, o in zone soggette a vincolo ambientale, paesaggistico, idrologico, archeologico o storico artistico. Poi quelli che costituiscono un pericolo per l’incolumità. Infine quelli in uso ai mafiosi. Ma il nodo centrale della questione sono gli “abusi di necessità” e, in questo caso, la legge stabilisce che avranno la priorità gli immobili di titolari appartenenti a nuclei familiari che dispongono di altre abitazioni, escludendo quelli che ne hanno una. Se questo è l’apporto della politica, ecco cosa ne pensa la magistratura che, nel marzo 2016, viene chiamata dal Governo a dire la sua sulla legge.

Durante l’audizione in commissione Giustizia, il procuratore generale della corte di Appello di Napoli, Luigi Riello, spiega: “Passare per i comuni non è producente, perché sono loro i veri dominus e le demolizioni sono iniziate grazie all’autorità giudiziaria”. Per Riello, il ddl Falanga comporterebbe “la proliferazione degli incidenti di esecuzione, mentre un procedimento dovrebbe essere rapido”. E sulla rapidità, il nostro sistema non è di certo un modello, visto che, nella maggior parte dei casi per i reati di abusivismo, non si arriva nemmeno al primo grado di giudizio. Mentre l’abbattimento è previsto solo con la certezza della pena. Anche se si dovesse arrivare alla condanna, subentra il problema dei fondi necessari per la demolizione, quindi la palla ritorna ai comuni, che il ddl lascia come unici interlocutori con la Cassa Depositi e Prestiti. E i comuni, per usare le parole del procuratore Fragliasso, spesso “sono latitanti e di regola non eseguono le ordinanze di demolizione”.

Da Marsala a Terrasini. Quell’emendamento M5S che può invertire la rotta Leonardo Agate, scrivendo a red. inch. @ilfattoquotidiano.it, segnala il caso di Marsala: “Anche i sindaci siciliani avrebbero dovuto ingiungere la demolizione agli abusivi. A Marsala cominciarono nel 2012, e ne sono state abbattute, dagli stessi privati, o dal Comune per loro inerzia, poche decine su un totale di circa 400. Il ritmo delle demolizioni è di poche unità all’anno. La giustificazione accampata da sindaci e dirigenti comunali è che il bilancio non può sostenere la spesa delle demolizioni, che si aggira sui 10–20 mila euro per ciascuna, salvo abbattere il programma dei servizi essenziali. Giustificazione insostenibile: se il Comune demolisce, anticipa le spese della demolizione, che possono essere recuperate dall’abusivo con aggravio di spese, sanzioni e denuncia all’autorità penale. Se la procura della Repubblica iscrivesse i sindaci e i dirigenti comunali nel registro delle notizie di reato e proseguisse l’azione penale, si avvierebbero i processi nei riguardi degli inadempienti per le omissioni di atti di ufficio. Così si innesterebbe un processo virtuoso, perché gli abusivi demolirebbero dopo l’ingiunzione per non dovere pagare dopo un anno il doppio della spesa, e in ogni altro caso il Comune rientrerebbe in possesso delle spese fatte”. E in effetti, qualcosa si può fare, per obbligare i comuni ad eseguire le demolizioni. Per esempio, come accaduto a Terrasini, in provincia di Palermo, è possibile rimuovere i dirigenti che non adempiono ai loro doveri. E per farlo è sufficiente applicare una norma presentata dalla parlamentare del M5S Claudia Mannino.

Il punto di partenza è semplice: “I funzionari che non adempiono e rispettano i tempi previsti – spiega la deputata siciliana del M5S Claudia Mannino – sono suscettibili di causare un danno erariale”. Un anno dopo l’approvazione della sua norma Mannino è ritornata sul punto: “Ho presentato un esposto a tutte le procure siciliane, e a tutte le sedi regionali della Corte dei Conti, affinché si attivassero per far rispettare la norma e per evitare danni erariali agli enti locali”. E appena 5 giorni fa, nel comune di Terrasini, in provincia di Palermo, un dirigente comunale è stato temporaneamente rimosso dal suo incarico proprio perché – tra le altre contestazioni – ha tenuto “condotte omissive” che, oltre a determinare “un grave ritardo”, nei procedimenti che riguardano i “manufatti abusivi”, hanno provocato “un danno all’ente”. (da il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2017)

Per l’avvocato di Carminati Mafia Capitale è “un processetto”

Sono due, al momento, le date della possibile sentenza del processo Mafia Capitale. La sentenza potrebbe infatti arrivare il prossimo 18 luglio o il 10 settembre. La riserva verrà sciolta nel corso dell’udienza del prossimo 13 luglio, dopo che saranno ascoltate le dichiarazioni spontanee di Salvatore Buzzi. Inoltre il rinvio è stato disposto per ragioni tecniche legate alle intercettazioni.
 
Il difensore del ‘cecato’: “Gli hanno sparato in faccia perché, da morto, doveva diventare l’autore della strage di Bologna”
 
Poi l’affondo della difesa di Carminati, con l’arringa del suo legale Giosuè Naso: “Sfido tutti e cinque i procuratori della repubblica che si sono applicati in questo procedimento a indicarmi qual è il processo nel quale Massimo Carminati viene definito il ‘pirata’ o il ‘cecato’”. “Questo -ha aggiunto il penalista- dimostra che i processi si fanno con quello che scrivono i giornalisti. E poi è un problema di dignità, non porta una benda per apparire affascinante, porta una benda perché gli hanno sparato in faccia a bruciapelo. Non è vero che gli si sparò in macchina, scese con le braccia alzate e gli si sparò in faccia”. Lo stesso avvocato Naso, riguardo al ferimento di Carminati ha poi detto: “Gli agenti della digos gli hanno sparato perché Carminati doveva diventare da morto l’autore della strage di Bologna. Questa è la verità. Se volete cercare rapporti equivoci con le istituzioni cercate in quella direzione. Dopo 240 udienze, questo resta un processetto”.
 
“Nel caveau di Piazzale Clodio cercavano gioielli”. Poi le divagazioni sul ruolo dei militari dei Carabinieri
 
Ed ancora sul celebre furto al caveau di Piazzale Clodio: “Quale lista? Nel caveau cercavano gioielli”. Il penalista ha poi aggiunto che “ammesso che i magistrati che avevano cassette lì ci tenessero dei documenti riservati”, data la caratura istituzionale non si sarebbe certo trattato di carte compromettenti. “Questa -ha aggiunto il difensore- è una ipotesi offensiva nei confronti di persone che stavano ricoprendo cariche istituzionali”. “Sapete perché si è fatto il furto al caveau di piazzale Clodio? – ha spiegato Naso – Perché i carabinieri del nucleo traduzioni avevano provato a fare il furto all’agenzia della Cassazione e siccome erano carabinieri non ci sono riusciti e quindi si sono rivolti a un cassettaro, che gli ha detto facciamola a una agenzia più grande, a Clodio. I carabinieri gli dissero che avevano due giorni di tempo, a partire da venerdì notte, perché il cambio della guardia si faceva il lunedì. Poi il capitano decide di cambiare turno, e il cambio si fece di domenica mattina. La fretta ha fatto si che non si aprissero le cassette che resistevano al primo impatto”.
 
“Dopo  aver messo insieme 10 milioni di carte e la trascrizione di 80mila intercettazioni, questo resta un processetto”
 
“Nei miei confronti vengono utilizzati spesso dei pregiudizi, perché mi sono fatto la fama di provocatore – ha detto ancora l’avvocato Naso – Nel corso della prima udienza mi permisi di qualificare questo processo come un processetto. Dopo 240 udienze, avendo messe insieme 10milioni di carte, censurato 4 milioni di pagine di brogliacci, avendo trascritto 80mila intercettazioni, non ho cambiato il mio giudizio. Questo è un processetto dal punto di vista tecnico-giuridico. Non c’è alcun aspetto che merita un motivo di studio da parte di nessuno di noi difensori. Non c’è un argomento che mi abbia costretto a fare una ricerca giurisprudenziale. Non c’è niente in questo processo”.
 
“Si tratta di un processo farsesco”: poi il confronto con quello Pecorelli: “Sia lì che qui non si è processato un fatto di reato ma si sono investigati degli imputati per quello che erano…”
 
Rivolgendosi al tribunale, lo stesso penalista ha poi aggiunto: “Resta un processetto che però può essere definito con una grande sentenza. Adesso sta a voi. Perché se all’esito di questo mastodontico processetto emetterete una grande sentenza, non solo ristabilirete la legalità ma compierete un’opera di ristabilimento di garanzia dei diritti individuali e della libertà che in questo processo sono stati lesi, financo il diritto di difesa”.  “Un processo farsesco”, ha detto ancora Giosuè Naso. Lo stesso penalista, proseguendo nel suo intervento ha poi fatto un confronto con il processo Pecorelli. “Sia lì che qui non si è processato un fatto di reato ma si sono investigati degli imputati per quello che erano o per quello che qualcuno credeva che fossero -ha spiegato Naso- Ma se quello è stato un processo drammatico, questo è un procedimento farsesco”.
 
“Dal Tribunale mi aspetto una sentenza politicamente scorretta che non tenga conto di niente che possa intaccare il vostro libero convincimento…”
 
Poi la speranza: “Io mi aspetto dal tribunale una sentenza politicamente scorretta che non tenga conto di niente che possa in qualche misura intaccare il vostro libero convincimento e che sia resa in ossequio esclusivamente alle emergenze del processo. Ho questa aspettativa, questa speranza, ma resto con i piedi per terra perché conosco le cose del mondo – aggiunge – Mi auguro che voi emettiate una sentenza che certifichi l’insussistenza di questa presunta associazione mafiosa, e che mandi assolti tutti gli imputati per inconsistenza del fatto”.

Fondi Expo, ora il Tribunale scarica il comune di Milano

(ne scrive Manuela D’Alessandro qui)

“Non risulta che il Tribunale abbia mai assunto il ruolo di stazione appaltante”. Roberto Bichi consegna a una nota la sintesi della riunione coi presidenti di sezione (tutti presenti) del Tribunale di Milano per discutere sugli appalti Expo alla giustizia dopo l’esposto – denuncia di Anac.  E siccome la stazione appaltante dei 16 milioni piovuti sul Palazzo di Giustizia in modo poco trasparente e senza gare era il Comune di Milano (sindaco prima Moratti, poi Pisapia)  viene facile pensare a chi venga attribuita l’eventuale responsabilità di illeciti.  E’ un presidente che appare a chi c’era “molto teso” quello che si presenta al cospetto dei suoi magistrati ai quali legge e chiede un parere sulla nota stampa preparata per difendere “il ruolo del Tribunale di Milano, impegnato nel garantire il massimo di legalità”.

Bichi difende l’istituzione da lui guidata su tutta la linea, senza distinguo tra la sua era e quella di Livio Pomodoro, di cui è stato prima vicario e poi successore. Ci sono le telecamere e qualche giudice, prima di entrare, si copre il volto per non essere ripreso in quello che appare all’esterno come un robusto ‘serrate i ranghi’ di fronte all’attacco sferrato da Raffaele Cantone che nella relazione adombra responsabilità di loro colleghi.

Dopo avere ricordato che le carte degli appalti erano visibili da tempo su giustiziami.it, Bichi da’ conto di un dossier inviato dal Comune ai capi degli uffici giudiziari a marzo scorso in cui si riepiloga l’utilizzo dei 16 milioni di euro per informatizzare la giustizia. ”Emerge che tali impegni sono stati effettuati tramite gare d’appalto o con affidamento complementare o con adesione a convenzioni Consip”. Per quel che ne so io, assicura, era tutto a posto, i conti tornavano, e se ci sono singole responsabilità, aggiunge, “auspico che emergano al più presto per dirimere dubbi, evitare illazioni e non ledere l’immagine e il ruolo del Tribunale”.

Il nome di Roberto Bichi compare nel verbale della riunione della svolta del 15 ottobre 2014. Dopo i primi articoli di stampa, i vertici dell’amministrazione giudiziaria e i rappresentanti del Comune e del Ministero decidono che, per quel che resta da spartirsi dei 16 milioni di euro, non si faranno più affidamenti diretti ma solo gare. In quel momento, tutti i presenti sono quindi consapevoli che il ‘tesoro’ di Expo stanziato dal Governo è stato distribuito con affidamenti diretti quantomeno discutibili.

“Bichi – si legge nella sintesi dell’incontro – si dichiara d’accordo col Presidente Canzio che la consolle d’appello (uno dei progetti da finanziare, ndr) è indispensabile perché c’è un vincolo temporale e deve essere data una priorità pe via della scadenza. Ma si domanda che fine fa il giudizio d’appello, a livello nazionale se la Consolle non viene finanziata coi fondi di Expo”. Poi puntualizza che è scorretto “parlare di fondi Expo per il Tribunale di Milano, nel senso che sono fondi per la giustizia italiana e per tutti i Tribunali italiani”.

Dalla mailing list delle toghe, arriva intanto la reazione stizzita di Enrico Consolandi, magistrato civile tra i più atttivi nella gestione dei fondi. “Oggi qualcuno dice che il problema è la scelta del contraente – scrive –  distogliendo così le forze da quelli che sono i veri obbiettivi che sono quelli di potere ottenere risorse per lavorare”. Ma come vengono scelti i contraenti? Che rapporto c’era tra la Camera di Commercio, beneficiaria di strane convenzioni, e il Tribunale? E quali sono gli esiti di questa selezione? Questa è la vera domanda che si pone chi col naso all’insù vede tutti i giorni i monitor spenti che dovevano servire a orientare il cittadino e oggi lo lasciano ancor più smarrito.

Mafia, Gratteri: «Ragazzi studiate, fottiamoli»

Ne scrive Claudia Pepe per HP:

Gratteri ha parlato agli studenti: «Dovete studiare, comportarvi bene, essere educati. A 18 anni donare il sangue e andare a trovare gli anziani nelle strutture. Solo da voi può giungere il vero segnale di cambiamento della Calabria! Noi ce la stiamo mettendo tutta».

Il Procuratore Capo di Catanzaro, la scorsa settimana, è stato ospite della sede Rai regionale per presentare il volume “L’inganno della mafia” (edito da Rai Eri), scritto in collaborazione con Antonio Nicaso, studioso dei fenomeni criminali.

Nicola Gratteri, dall’aprile del 2016 Procuratore della Repubblica del capoluogo della regione Calabria, ha spiegato come è nato il libro: «Tutto è iniziato quando abbiamo visto ragazzini delle scuole medie emulare protagonisti di fiction e film sulla mafia. Cit Maurizio Costanzo show. Il suo libro nasce anche dai racconti di noi docenti: “Molti insegnanti ci hanno raccontato che davanti alle scuole medie i bambini giocano a parlare, a vestirsi e ad avere soprannomi dei protagonisti mafiosi dei film e delle fiction” Il dramma è che i ragazzi, soprattutto in quell’età così difficile, non capiscono che non esiste la Mafia buona che crea posti di lavoro, che salva famiglie dal lastrico, e la Mafia cattiva che brucia bambini nell’acido, distrugge famiglie, fa pagare il pizzo a commercianti finché nella loro vita l’unica via d’uscita rimane il suicidio. L’emulazione è quell’atto, costituente esercizio di un diritto soggettivo, che non abbia altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri, configurandosi così come abuso del diritto. Pensiamo un attimo ai nostri ragazzi quanta televisione guardano: da pomeriggio con Uomini e Donne, per passare a telefilm dove la violenza è il leitmotiv della trama. Poi passano alle trasmissioni alimentate solo da delitti, assassini, criminalizzazioni di extra comunitari. Una televisione diseducativa dove appaiono noti sociologi, o psichiatri che danno la colpa alla Scuola di tutto il male che imperversa il mondo adolescenziale. E, non si rendono conto, che qualcuno di quei ragazzi li ascolta e a priori fa rimbalzare i problemi che lo attraversano, non attraverso il dialogo, ma nell’aggressività. In casa, a Scuola, con gli amici, con loro stessi. Pensiamo a come i nostri ragazzi vivono la “Scuola” di “Amici”. Arrivano a pensare che quella è la vera Scuola. Non quella che ti dà la cultura per aver il diritto della scelta, ma quella che ti dà, una blanda occasione per poter apparire in un monitor. Non sapendo che si può spegnere, spegnendo anche tutti i loro sogni. Gratteri dice: Dovete studiare, comportarvi bene, essere educati. A 18 anni donare il sangue e andare a trovare gli anziani nelle strutture. Solo da voi può giungere il vero segnale di cambiamento della Calabria! Noi ce la stiamo mettendo tutta” Loro, sono procuratori che lottano non un giorno solo, ma tutta la vita per renderci liberi, per rendere cittadini quei ragazzi che giocano a fare i camorristi, Scarface, i Padrini. Forse proprio perché davanti ai Padrini del Paese, anche la Madonna guidata da uomini senza anima, la fanno inchinare per rendere grazie al “benefattore”. L’invito di Gratteri assomiglia all’appello di Gramsci che diceva ai ragazzi: Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra forza. Studiate, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza.” Non tutti avevano capito l’importanza di quelle parole, infatti ci troviamo davanti ad un Paese devastato dalla corruzione, da politici indagati, da mazzette che aprono le porte della malavita, un Paese che poteva essere un grande Paese, ma distrutto dalla mancanza di eticità e di morale. Il ruolo dell’Auditel, è diventato sovrano su ogni significato corretto che il mezzo televisivo dovrebbe trainare. La sua influenza su menti fragili può portare a pensare che lo status-quo di un ragazzo, debba essere il bullo, lo sfrontato, lo sbruffone. Quello che noi costruiamo a Scuola viene preso a picconate da una fiction qualsiasi.

Solo chi vive la realtà sul campo come Gratteri e tutti quegli eroi sconosciuti, possono capire il guasto morale che certe opere nate come denuncia, possono essere trasformate in macchiette, imitate non solo da chi vive nella feccia fino al collo, ma anche da ragazzi cresciuti senza problemi e in famiglie benestanti. Ho visto bambini, figli di gente ” normali” esibirsi orgogliosamente col taglio dei capelli alla Genny Savastano. Nelle nostre patrie realtà abbiamo bisogno di innocenza e bellezza da insegnare e far imitare ai nostri figli e studenti. Gratteri ha poi posto l’attenzione sulla Scuola esponendo un concetto che noi insegnanti della Scuola pubblica affermiamo da tempo: “La mattina bisogna prima studiare, poi – ha detto – incontri e dibattiti sulla legalità si possono organizzare di pomeriggio. Oggi gli insegnanti sono poco pagati e poco valorizzati mentre il loro ruolo è fondamentale. I giovani vedono il ragazzetto con la macchina di grande cilindrata e lo considerano un mito, poi vedono l’insegnante con una utilitaria e lo considerano un morto di fame” E noi, dobbiamo continuare a lottare perché negli occhi di un ragazzino che vede un’insegnante che dalla mattina alla sera sta a Scuola, e magari non ha neanche la patente come me, si serve di mezzi pubblici, e continua a credere nelle Istituzioni, nell’ agitazione dei nostri studenti, nel loro entusiasmo, nella loro forza e nella loro intelligenza, scelga il cambiamento, scelga la ragione, scelga la libertà. Ragazzi dobbiamo abbattere questo sistema: studiamo, pensiamo, curiamo l’ardore e la passione. Fottiamoli.

Era colpa del Tar. E intanto hanno corretto la legge, invece.

Tanto per rimanere nel merito. E per fortuna ne scrive Possibile qui:

Ma non era solo l’ennesimo capitolo della famosa “congiura dei Tar” contro il cambiamento (tanto da spingere il sempre misurato Renzi a rimpiangerne una “riforma”… tipo: “via i Tar!”)? Non era un’interpretazione quantomeno bizzarra del Tar Lazio quella per cui al concorso per la direzione dei musei non potevano accedere gli stranieri? In effetti il dubbio poteva esserci e era stato sollevato da più parti, anche se – come spiegavamo ieri – questo non superava i motivi di illegittimità della decisione del giudice amministrativo.

Ora, però, approfittando della discussione sulla “manovrina” viene inserito un emendamento (sulla cui coerenza rispetto al testo si potrebbe ben discutere), in base al quale «l’articolo 14, comma 2-bis, del decreto legge 11 maggio 2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2016 [in realtà 2014, ndr], n. 106, e successive modificaziofni, si interpreta nel senso che alla procedura di selezione pubblica internazionale ivi prevista non si applicano i limiti di accesso di cui all’art. 38 del decreto legislativo 31 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni».

Verrebbe da dire: “excusatio non petita, accusatio manifesta”. Infatti, questo conferma che la sentenza del Tar Lazio non è un “attacco al potere” come l’avevano descritta Franceschini e Renzi, ma semplicemente una decisione assunta in base al principio di legalità, secondo un’interpretazione della legge che l’emendamento presentato conferma che era quantomeno ben possibile. E evidentemente c’era più che qualche dubbio che il Consiglio di Stato si orientasse diversamente dal Tar Lazio, se il legislatore è intervenuto.

Rimangono insuperati, naturalmente, gli altri vizi rilevati dal Tar Lazio.

Ecco chi lucra sui migranti: gente da terraferma (amica di Angelino Alfano)

Impeccabile Giovanni Tizian (qui):

C’è un’inchiesta antimafia che fa tremare i signori dell’accoglienza. Descrive nei dettagli le origini di un impero fondato sul business dei migranti. Con la ’ndrangheta protagonista, infiltrata nelle pieghe dell’emergenza. Pronta a lucrare sulla pelle dei rifugiati. Un crinale, quello dell’accoglienza, in cui si intersecano interessi diversi. Capi bastone, imprenditori e politici. Ognuno con un ruolo ben determinato. Ecco perché l’indagine sull’accoglienza dell’antimafia di Catanzaro fa paura a molti. E crea imbarazzo a quei politici, ministri, sottosegretari e prefetti che negli ultimi anni hanno avuto a che fare con Leonardo Sacco, il governatore della Misericordia di Isola Capo Rizzuto, satellite calabrese della storica Confraternita delle Misericordie, che ha visto la luce nel lontano 1244 e oggi conta su 800 cellule sparse per l’Italia. Sacco ha ricoperto peraltro la carica di vicepresidente nazionale della Confraternita.

Ora è presidente della federazione Basilicata-Calabria, che partecipa al Consorzio “Opere di Misericordia”. L’indagine in realtà va avanti da tempo. La prima informativa reca la data del 2007. Sono trascorsi dieci anni. Un’eternità, che ha permesso al sistema su cui il Ros dei Carabinieri aveva acceso un faro di sopravvivere serenamente e di continuare a fare incetta di appalti, da Crotone a Lampedusa. Sacco può contare su amicizie trasversali, dal centrosinistra al centrodestra. Nel tempo ha costruito una rete di rapporti diplomatici con le istituzioni che si occupano dell’emergenza immigrazione.

ACCOGLIENZA E’ POTERE

Sacco è tante cose. Imprenditore di successo, spazia fino al noleggio di imbarcazioni. Manager della solidarietà. Presidente della squadra di calcio locale che milita in Eccellenza. Ma mister Misericordia è soprattutto un personaggio abile nel tessere relazioni istituzionali. Per capire meglio la sostanza di questi rapporti è utile ricordare un’immagine scattata nel febbraio di tre anni fa alla convention dei vertici calabresi del partito del Nuovo centrodestra convocata a Cosenza. In quell’istantanea c’è Leonardo Sacco in posa con il ministro Angelino Alfano, all’epoca numero uno del Viminale. Il ministero con competenza diretta nell’emergenza sbarchi.

All’evento era presente anche Giuseppe Scopelliti: un mese dopo sarà condannato in primo grado e darà le dimissioni da presidente della Regione. Quella sera con Leonardo Sacco, al fianco di Alfano, c’era anche un sorridente Antonio Poerio, che fino al 2011 ha gestito il servizio catering all’interno del centro di accoglienza crotonese. Fino a quando la prefettura non gli ha revocato la certificazione antimafia. Poerio è l’imprenditore che il Ros già nel 2007 definiva in contatto con alcuni personaggi del clan Arena di Isola Capo Rizzuto. Qualche mese dopo la foto di rito tra Alfano, Sacco e Poerio, l’associazione Misericordia ottiene un’importante commessa. La prefettura di Agrigento, con procedura negoziata e d’urgenza, gli affida la gestione del centro di prima accoglienza di Lampedusa. Per dirigere la struttura viene scelto Lorenzo Montana. Travolto, però, dalle polemiche per la sua parentela con il fratello del ministro dell’Interno. Infatti la moglie di Alessandro Alfano è la figlia di Montana. Messo alle strette il prescelto ha poi deciso di rinunciare all’incarico.

Ora, però, l’Espresso è in grado di ricostruire la vicenda. Fu la Misericordia a fare il suo nome, come Montana stesso ha ammesso. Risulta tuttavia che il curriculum del suocero di Alfano junior non fosse adatto a quel ruolo. Lui, in fondo, proveniva dall’Agenzia delle Entrate e con l’immigrazione non aveva mai avuto a che fare. Ma il dato rilevante è un altro: quella nomina e la successiva bufera mediatica hanno mandato su tutte le furie il prefetto Mario Morcone, capo dell’Immigrazione del Viminale, che con Leonardo Sacco è in contatto continuo. I bene informati riferiscono di un Morcone decisamente irritato per la mossa ritenuta un vero azzardo. E di un Leonardo Sacco che avrebbe persino sollecitato l’intervento della sottosegretaria ai Beni culturali Dorina Bianchi. Con l’obiettivo di far capire ad Alfano che non era sua intenzione metterlo in difficoltà con la nomina di Montana.

L’episodio è tra quelli che gli investigatori dell’antimafia stanno rileggendo alla luce di quella sbiadita informativa di dieci anni fa, in cui il nome di Sacco e Poerio veniva accostato al potente clan Arena di Isola Capo Rizzuto. Dorina Bianchi, 50 anni, è molto vicina al ministro fresco di nomina agli Esteri. La storia politica della parlamentare è costellata da cambi di casacca: in quindici anni sette partiti. Democristiana di base con alcune puntate nel centro sinistra, Pd incluso, per poi tornare a destra, Pdl prima e Ncd dopo con il collega Alfano. Bianchi è in ottimi rapporti con il governatore Sacco. La parlamentare d’altronde è di Crotone. E qui ha corso come candidata a sindaco nel 2011. Era la parentesi berlusconiana.

Il Cavaliere in persona chiuse la campagna elettorale della sottosegretaria. Non bastò, perché perse al ballottaggio. Dorina l’alfaniana, tuttavia, si è distinta anche per un’altra battaglia che stava molto a cuore a Leonardo Sacco: l’aeroporto di Crotone. Sacco, infatti, è stato nel Cda della società di gestione. Per questo nell’onorevole Bianchi ha sempre cercato un appoggio, anche solo per sollecitare l’intervento dell’allora ministro Ncd Maurizio Lupi. Che in effetti volerà nel crotonese per rassicurare gli interessati. Insomma, Sacco aveva trovato in Bianchi una chiave per parlare ai ministri della Repubblica. Eppure, per quanto il governatore calabrese della Misericordia cercasse di presentarsi come un paladino della legalità, organizzando convegni sulla mafia insieme a illustri ospiti, le ombre e i sospetti sulla sua figura erano noti da tempo. Dicevamo della trasversalità politica di Sacco. Ha, infatti, ottimi rapporti con alcuni Democratici renziani. Alle primarie del centrosinistra per scegliere il candidato alla presidenza della Regione, ha fatto il tifo per Gianluca Callipo, sindaco di Pizzo Calabro di rito renziano e membro dell’Assemblea nazionale del Pd assai quotato tra gli eletti del giglio magico. Il governatore dell’accoglienza ha poi avuto la grande fortuna di conoscere Matteo Renzi, poco prima che diventasse premier. Era il 2012 e Sacco, ai tempi numero due della Confraternita, ha incontrato l’allora sindaco di Firenze durante un evento pubblico sul volontariato. Alle buone relazioni politiche, si aggiungono poi quelle col mondo cattolico ed ecclesiastico. L’enfant prodige dell’accoglienza calabrese è l’allievo di don Edoardo Scordio: il parroco fondatore della Misericordia di Isola, e in contatto con i vertici dei padri Rosminiani, ordine a cui appartiene il sacerdote.

I SOLITI SOSPETTI

Tornando al rapporto dei detective di dieci anni fa, dal contesto descritto dai carabinieri del Ros poco o nulla è cambiato. Fatta eccezione per qualche sigla aziendale. Di quell’informativa dettagliata, tuttavia, si sono perse le tracce. Già allora gli investigatori gettavano un’ombra inquietante sulla gestione del centro di accoglienza crotonese. L’ipotesi mai tramontata è che il clan Arena di Isola Capo Rizzuto si fosse inserito nel business dell’accoglienza. Grazie proprio alla fornitura dei pasti all’interno della struttura dello Stato. Non deve sorprendere, del resto questa ’ndrina è dotata di uno spiccato fiuto per gli investimenti di nuova generazione. È accaduto, per esempio, con il boom delle energie alternative. Gli Arena hanno riempito di pale eoliche le campagne circostanti, in combutta con società estere. Il capostipite è il boss Nicola Arena. Il nipote, Carmine, fu ucciso nel 2004 a colpi di bazooka mentre si trovava nella sua auto blindata. Le nuove leve continuano a dettare legge.

DAL VENTO AI MIGRANTI

Che siano pale eoliche, rifiuti o immigrati, agli imprenditori delle cosche interessa relativamente. Per il semplice fatto che dove girano quattrini il clan locale mette il naso ed entrambe le mani. Nel documento investigativo del 2007, letto dall’Espresso, un’intercettazione rafforza il sospetto che i boss abbiano mangiato una fetta della torta milionaria dell’affare: «Questi neri girano per Isola Capo Rizzuto… di conseguenza tutto ciò che li riguarda è competenza nostra». Il sistema lo spiegava Antonio Poerio, altro grande protagonista dell’accoglienza calabrese che compare nello scatto insieme ad Alfano e all’amico governatore delle Misericordia. Poerio è un imprenditore noto nel settore del catering. Nell’informativa del Ros già veniva indicato come in contatto con una famiglia della ’ndrangheta locale. Fino al 2011 con la sua impresa – la Vecchia Locanda- riforniva ufficialmente la struttura d’accoglienza gestita dalla Misericordia. Pasta, patate, riso, pollo e verdure entravano nel centro a bordo dei mezzi targati Vecchia Locanda. Questo fino a quando la prefettura di Crotone non è intervenuta sospendendo il certificato antimafia alla società di Poerio. Un incidente di percorso che ha obbligato la Misericordia a rescindere il contratto. Al suo posto è subentrata la Quadrifoglio Srl. Il proprietario si chiama Pasquale Poerio, cugino del Poerio della Vecchia Locanda. Insomma, l’affare è rimasto in famiglia. Tuttavia l’azienda di Pasquale gode di referenze molto in alto: la società Quadrifoglio, infatti, aveva stipulato con la prefettura una convenzione per fornire il servizio di mensa ai poliziotti della questura crotonese. Un curriculum, perciò, al dì sopra di ogni sospetto. Il titolare, Pasquale Poerio, è anche consigliere comunale di Isola Capo Rizzuto, area centrodestra, e appoggia l’attuale sindaco. Due anni fa Sacco, rispondendo a un articolo pubblicato sull’Espresso definiva l’associazione che rappresenta «il braccio dello Stato» nell’accoglienza. Al pari, in pratica, dei colossi legati a Comunione e liberazione e di Legacoop che hanno trasformato l’accoglienza in un business, come mafia Capitale ha insegnato.

IL PADRINO

Alcune foto raccontano la vita pubblica di Sacco. Altre invece ne rivelano il lato più controverso. Come lo scatto che lo immortala al battesimo del figlio di un personaggio del clan Arena. Sacco è lì in veste di padrino. Un indizio, è la tesi dei detective, della vicinanza di Sacco alla criminalità organizzata. La foto è stata sequestrata per caso nel 2010, durante il blitz dei carabinieri di Modena che ha portato all’arresto di Fiore Gentile in un’indagine dell’antimafia di Bologna su un giro di riciclaggio tra Calabria, Emilia e Svizzera. Sacco versione padrino di battesimo assume ancora più importanza agli occhi degli investigatori se legato a un’altra immagine fino ad allora poco valorizzata. Si tratta di una riunione del 2005 tra importanti personaggi del clan Arena. Tra i presenti c’era Pasquale Tipaldi, che verrà ucciso la vigilia di Natale dello stesso anno. Davanti al bar dove gli uomini degli Arena si erano riuniti, al fianco di Tipaldi, i carabinieri riconoscono Leonardo Sacco. Un legame solido, quello tra Tipaldi e il governatore della Misericordia di Isola. A tal punto che la protezione civile della Misericordia utilizza il capannone che fu di Paquale Tipaldi, oggi intestato a suoi parenti. È lo stesso fabbricato dove viene ucciso il 24 dicembre di dodici anni fa dai killer della cosca avversaria.

UN LAVORO PULITO

Un tempo Crotone era la Torino del Sud, oggi di quell’industrializzazione sono rimaste solo le scorie velenose. Il merito di Sacco, perciò, è aver trasformato la solidarietà in un’industria moderna dell’accoglienza. Il centro per migranti è gestito almeno a partire dal 2007 da mister Misericordia. L’ indotto attorno è strepitoso: i cibi da preparare, giovani operatori da assumere, lavanderie industriali per pulire lenzuola e tovaglie. Subappalti, posti di lavoro, forniture. Tuttavia sarebbe stato semplice per i controllori (Prefettura e Viminale) bloccare l’infiltrazione denunciata dal Ros ormai 10 anni fa. Si sarebbe potuto evitare se solo quel fascicolo col timbro del 2007 avesse avuto una fortuna diversa. Intanto Leonardo Sacco ha coronato un successo dietro l’altro. Da tre anni ha ottenuto anche i finanziamenti per la gestione di due Sprar, in pratica gli appartamenti in cui i rifugiati alloggiano una volta ottenuto il riconoscimento. Ulteriori somme che entrano in cassa: gli enti locali sborsano 35 euro al giorno per i maggiorenni, 54 per i minori. E poi ci sono le due gare vinte. L’appalto del centro crotonese, 12 milioni e mezzo, e quello di Lampedusa, 4 milioni all’incirca, da dividere con la Croce Rossa. Quest’ultimo è stato assegnato nell’ottobre scorso: a gestirlo sarà il raggruppamento formato da Croce Rossa e Consorzio Opere di Misericordia, struttura della confraternita di cui fanno parte solo alcune realtà territoriali, tra queste la federazione Basilicata-Calabria presieduta da Leonardo Sacco. Il direttore, questa volta, non ha parenti ingombranti e proviene dalla Croce Rossa. Non vale per il catering: fornito sempre dalla Quadrifoglio, come del resto, è avvenuto negli anni scorsi, a partire dal 2014 quando a Lampedusa lavorava soprattutto la Misericordia di Capo Rizzuto. Nella forma nulla da eccepire: Il subappalto è previsto nel capitolato d’appalto. Tutto nella norma, dunque, se non fosse per quel filo che lega Lampedusa al lato più oscuro di Isola Capo Rizzuto.

«Ci serve un pentito di Stato, un Presidente della Repubblica, un uomo dei servizi segreti o un Generale»: parla Attilio Bolzoni

Un’intervista da leggere ad Attilio Bolzoni. Eccone uno stralcio:

“La mafia non sarebbe mafia se non avesse dei complici dentro gli apparati. Il libro è di 30 anni fa e racconta di processi aggiustati e il simbolo di questi processi aggiustati è quello che riguarda l’uccisione del Capitano Basile. E’ il processo più tormentato della storia giudiziaria per quanto riguarda la mafia. Hanno provato a condizionarlo e ad aggiustarlo da dentro il palazzo di giustizia in tutti i modi ma non ci sono riusciti. Prima dell’era Falcone, i processi a Palermo si trattavano nei corridoi, nei villini a mare…non si discutevano nelle aule di giustizia. I mafiosi stavano in carcere pochi mesi o pochi anni, ma sapevano che dovevano uscire. Dopo l’arrivo di Falcone e Borsellino, avviene una rivoluzione e si ristabiliscono le regole. Si è scoperto che un pezzo di magistratura era complice. All’epoca però, era molto più evidente la complicità del potere, oggi è molto più subdola e meno riconoscibile. Un’antimafia legata al potere ad esempio, non è una vera antimafia. Si parla dell’isolamento di Di Matteo, non posso dimenticare, un paio d’anni fa, il vecchio CSM è andato a Palermo e il vice presidente non ha stretto la mano a Di Matteo. E’ stato un bruttissimo segnale. Di Matteo non è un buon magistrato perché indaga sulla trattativa o non è un buon magistrato in assoluto? Il vice presidente che dichiara – il protocollo mi impedisce di incontrare Di Matteo – indica un atteggiamento ambiguo.”

– La negazione della trattativa Stato-mafia ha raccolto molti consensi, almeno quanto oggi la giustificazione della stessa. Maria Falcone, ad esempio, ha dichiarato “Se trattativa c’è stata, non credo che si sono voluti salvare i potenti, ma che si sia cercato di proteggere la sicurezza italiana”. Eppure c’è una sentenza che ne prova l’esistenza. La trattativa c’è stata. Ma l’oggetto dell’accordo qual é stato secondo lei? Lunghe latitanze e mancata perquisizione del covo di Riina per cominciare?

“Ci sono verità indicibili. Gli Stati, non solo l’Italia, hanno sempre trattato con le classi pericolose. Non sono corpi fuori dalla società. La trattativa c’e’ stata prima, durante e dopo le stragi che poi questa abbia rilevanza penale o meno non è fondamentale. Il negazionismo va molto di moda, ad esempio – Roma mafia capitale – è altrettanto evidente che ci sono organizzazioni mafiose radicate da decenni a Roma ma la maggior parte degli osservatori e della popolazione ne nega l’esistenza. Io ho seguito molto il processo di mafia capitale, sono andato in aula a Rebibbia e c’erano degli imputati, un famosissimo commercialista e un famosissimo consigliere comunale del PD, che si chiedevano – ma noi che ci facciamo qui? – non si rendevano nemmeno conto del perché fossero li. Non bluffano. E’ tanto fradicio il tessuto sociale e politico della Capitale che non si rendevano conto delle ragioni per le quali erano li insieme al nero Carminati, un signore, che per 18 anni è rimasto libero e in un Paese civile, un personaggio come Carminati non può rimanere libero ma anche li, siamo nelle zone di confine dove non sai mai chi è guardia e chi è ladro. Roma come Palermo. Gli stessi contesti.”

– La parola antimafia, crea molti imbarazzi ultimamente. Ma è necessaria questa etichetta per dimostrarsi ostili all’azione mafiosa?

“L’antimafia c’è sempre stata anche quando non si chiamava antimafia. L’antimafia moderna nasce subito dopo il delitto Dalla Chiesa e si è allargata estesa e diffusa dopo le stragi del 92. Io credo che abbia avuto una funzione veramente importante l’antimafia sociale in Italia fino a qualche anno fa ma poi, c’è stata una degenerazione dello spirito originario. Bisogna fare una distinzione tra la mafia che si traveste da antimafia, tra dei sistemi imprenditoriali mafiosi che occupano potere e l’antimafia che è degenerata. E’ vero che ci sono dei cerchi che mettono in relazioni queste tre realtà, però bisogna distinguerle. C’è l’antimafia dei finanziamenti pubblici da centinaia di migliaia di euro e l’antimafia dei funzionari delle grandi associazioni che provengono da un sottobosco politico. Bisognerebbe fare un esperimento : togliere per un paio d’anni un bel po di finanziamenti alle associazioni antimafia e assisteremmo ad un fuggi fuggi generale.

In alcuni casi, c’è la complicità del ministero degli Interni che concede finanziamenti esorbitanti per dei progetti che, vien da chiedersi, saranno andati a buon fine con tutti i milioni stanziati ? Ho conosciuto un signore di Avviso Pubblico, che gira l’Italia battendo cassa alle amministrazioni per organizzare convegni con partecipanti zero. Sono personaggi improbabili che si improvvisano esperti di mafia, che parlano di legalità e che vanno in giro per l’Italia a proporre pittoreschi kit per la legalità. Ma intorno alla maggior parte di queste realtà c’è solo un obiettivo, rastrellare denaro pubblico. Bisogna chiudere i cordoni della borsa. Poi c’è un’antimafia sociale che è ostile ad ogni dialogo, alcune realtà sembrano sette, appena uno le critica viene accusato di essere mafioso. Io non ne posso più di questi predicatori della legalità, imbonitori e saltimbanchi. Hanno messo su un circo. E a proposito dei predicatori della legalità, è molto grande la distanza tra quello che urlano nelle piazze e quello che in realtà fanno.
Un altro tema interessante è quello delle costituzioni di parti civile: quando un’associazione accompagna un commerciante, un imprenditore che denuncia la mafia lungo tutto il percorso – lo porta dalla polizia, dal magistrato, lo convince a collaborare – è giustissimo che si costituisca parte civile perché ha partecipato al percorso che porta al processo. Ma questo baraccone delle parti civili che c’è oggi in Italia è scandaloso.

Mi viene in mente un’associazione a Marsala che si chiama Paolo Borsellino, è formata da un solo avvocato che non fa nulla tutto l’anno, ma ha pensato bene di costituirsi parte civile al processo Aemilia e per questo ha ricevuto un risarcimento. C’è poi il caso di un comune sciolto per mafia – come quello di Brescello – che ha perfino ricevuto un indennizzo dopo la costituzione di parte civile al processo Aemilia. A questo punto credo che bisogna ridimensionare i finanziamenti alle associazioni antimafia perché sono emerse troppo vergogne.”

(la trovate qui)

Champagne e pasticcini per il ritorno del boss: Papalia arriva a Buccinasco

Ne scrive Cesare Giuzzi per il Corriere:

Via Nearco è un budello a senso unico. È una strada quasi insignificante, specie con questa pioggia fastidiosa. E non c’è neppure parcheggio anche se è sabato pomeriggio, ma sembra l’ora di punta, di un giorno di punta.

Eppure è qui, in un seminterrato al civico 6 con la porta blindata dalla quale escono voci di grandi e bambini, segnali di giochi e di festeggiamenti, che passano oggi i più delicati equilibri criminali del Nord Italia. E forse dell’Italia intera. Perché Nginu Rocco, Rocco Papalia, 66 anni, è tornato a casa. Dopo cinque lustri di carcere, dopo aver retto insieme ai fratelli Domenico e Antonio, il governo della ‘ndrangheta in Lombardia negli anni Novanta.

E non importa se quella casa Nginu neppure l’aveva mai vista, figuriamoci abitata. La sua, quella di via Papa Giovanni XXIII ad Assago dove viveva prima di essere arrestato nel ‘91, oggi è confiscata e affidata alla Caritas. E sul muretto esterno ha un graffito con il sorriso eterno di don Pino Puglisi, il prete di Brancaccio ucciso da Cosa Nostra.

Ma Rocco è tornato, nella sua Buccinasco. E nel battito d’ali che è bastato a far scattare la serratura della sua cella, il ritorno del boss ha spazzato via anni di lotta e cultura antimafia in una cittadina che ha cercato senza riuscirci di togliersi l’etichetta di Platì del Nord. Erano i tempi dei sequestri, dei cento omicidi all’anno tra Milano e provincia, del rapimento di Cesare Casella. Erano anni sanguinari, gli anni dei Sergi, dei fratelli Papalia, dei Barbaro, dei Trimboli, dei Molluso. E di fatto, dopo il blitz Nord-Sud del 1993, qualcosa era anche cambiato a Buccinasco, a Corsico, a Cesano Boscone. Ma mai del tutto.

Era cambiata certamente una cultura della legalità che qui organizza festival, incontri, dibattiti. Che ha portato alla confisca di una parte di quella villetta di via Nearco dove oggi si festeggia il ritorno del boss scarcerato venerdì sera da Secondigliano (Napoli). Nell’ala sequestrata c’è un appartamento gestito da un’associazione che dal 2015 ospita profughi e richiedenti asilo. Era stato confiscato a Serafina Papalia, 37 anni, figlia di Rocco, e al marito Salvatore Barbaro, del ramo dei pillari, coinvolto nelle operazioni Cerberus (2008) e Parco Sud (2009). Ora i migranti si troveranno a condividere il cortile proprio con il boss Papalia. Sul cancello c’è un cartello posto dal Comune di Buccinasco con tutti i nomi delle vittime di mafia. Poco più in là sull’ingresso pedonale c’è invece la targhetta d’ottone con il nome di «Papalia Rocco» e della moglie «Feletti Adriana». È lei adesso a portare i soldi a casa: con la figlia Serafina gestisce il bar Pancaffé di via Ludovico il Moro, 159. Ieri chiuso.

Intorno alle 17.20, all’ingresso di casa Papalia citofona un ragazzo sui 30 anni arrivato a piedi dopo aver parcheggiato una Smart bianca. Sotto braccio ha una confezione gialla con una bottiglia di champagne Veuve Clicquot. Suona, entra, scende i pochi gradini e sparisce. Alle 17.05 la scena si ripete. Stavolta il ragazzo è più giovane, indossa una tuta rossa, e ha capelli rasati sui lati. Stringe tra le braccia un’altra confezione di champagne. E poi bambini e genitori, nonni con confezioni di pasticcini.

Parenti e nipotini che Rocco Papalia, tra le carceri di Badu ‘e Carros e Secondigliano, in questi 26 anni neppure ha mai visto. Sono tutti parenti i Papalia, i Sergi, i Barbaro, i Trimboli, i Perre. E quindi conta poco il fatto che il neo uomo libero Rocco Papalia non possa frequentare pregiudicati come dispone la sorveglianza speciale che durerà tre anni e che gli impedirà di lasciare Buccinasco e lo obbligherà a stare in casa di notte. Ieri il sindaco Giambattista Maiorano ha protestato, per quanto si possa protestare per un provvedimento di scarcerazione che rispetta tutti i crismi della legge, che in uno Stato democratico è un diritto. Ma di certo il ritorno di Papalia agita (e non poco) i sonni dell’Antimafia milanese. Specie se si pensa che tra un mese ci sono le elezioni comunali.

Rocco era il solo dei tre fratelli a poter sperare un giorno di uscire dal carcere. Domenico e Antonio hanno condanne all’ergastolo (ostativo). E Nginu c’era andato vicino già tre anni fa, quando avrebbe dovuto usufruire dei primi permessi. Poi era arrivata una nuova misura cautelare per l’omicidio del nomade Giuseppe De Rosa, ucciso nel ‘76 fuori dalla discoteca Skylab. Ad incastrarlo una intercettazione di due affiliati che raccontarono a oltre trent’anni di distanza di come fu proprio Papalia a sparare. Quello, secondo i giudici, fu l’omicidio che segnò l’ascesa degli uomini di Platì (Reggio Calabria) a Milano. Per tenerlo in cella era necessario arrivare a una condanna all’ergastolo. Rocco Papalia,nel complesso gioco di aggravanti e attenuanti, venne condannato a trent’anni. Troppo poco. Così, una volta alla conta dei «cumuli» di pena, Papalia è stato scarcerato. «Un provvedimento di legge, non c’è da stupirsi di nulla», commenta ora l’avvocato Ambra Giovene. I parenti lo aspettavano a casa per giugno, la notizia ha sorpreso in parte anche loro.

E adesso preoccupa gli investigatori. Perché dopo gli arresti degli anni Novanta e gli ultimi colpi tra il 2010 e il 2014, il clan più potente del Nord Italia (il fratello Antonio era «capo della Lombardia») s’era ritrovato con un vuoto di potere. Una «vacanza» colmata solo in parte dagli eredi di famiglia. Personaggi come Domenico Trimboli, alias Micu Murruni, o come Antonio Musitano, alias Toto Brustia, seppure di buon pedigree mafioso, mai avrebbero potuto portare (e sopportare) un cappello tanto grande. Lo aveva fatto Rocco Barbaro, ‘u Sparitu, che dopo la scarcerazione aveva lavorato a Buccinasco come gommista. Ma pochi mesi dopo è tornato in Calabria per poi darsi latitante, inseguito da un ordine di cattura per mafia. Ora c’è Nginu. E con Rocco Papalia libero cambia tutto.

 

Piccole meschinerie dei trafficanti di consenso sulle ONG

Ma davvero qualcuno crede che tutto questo ciarlare di rifugiati, Mediterraneo e ONG sia davvero figlio di un reale interesse per le sorti dei soldi e delle persone da parte di questi quattro tirapiedi che cavalcano un’inchiesta (conoscitiva, tra l’altro) per riuscire a solleticare un po’ di razzismo travestendosi da “responsabilmente preoccupati”?

Ma davvero è così difficile capire che massimizzare il profitto dei dubbi del Procuratore di Catania (che tra l’altro ieri dopo essersi goduto un giorno di celebrità televisiva ha già cominciato a smussarsi e a bisbigliare che è stato “frainteso”) significa soprattutto buttare a mare (appunto) il lavoro umanitario di chi sulle nostre coste si occupa del salvataggio di vite?

Il giochino è semplice, quasi banale: bisogna riuscire a drenare voti a destra fingendosi “umani” e progressisti e qualsiasi minuscola possibilità di dare addosso allo straniero giocando di sponda è un’occasione imperdibile. È l’eterno gioco di chi in politica non prende posizioni nette per accattare voti da destra a sinistra. Come quelli che non pronunciano la parola antifascismo e il 25 aprile sfilano in blu questi indossano i panni dei paladini della legalità per rimestare nel fango e concedere un’idea di “mancato soccorso” in nome della legge. L’indagine di Catania, i documenti Frontex e le testimonianze degli operatori in realtà sono solo strumentali.

Qui siamo oltre: dal lucrare sui morti siamo passati al lucrare su chi salva i vivi. Sognano di essere Salvini, insomma, ma non ne hanno nemmeno il coraggio.

Buon venerdì.

(continua su Left)

«Scriverlo è stato salvifico»: una mia intervista su #Santamamma (e non solo)

(di Erika Pucci per VersiliaToday, fonte)

Sabato 22 Aprile lo scrittore e regista teatrale Giulio Cavalli ha incontrato i lettori alla libreria “La Vela” di Viareggio presentando per la prima volta in assoluto il suo ultimo libro “Santamamma” (Fandango, 2017). Un libro autobiografico in cui l’autore racconta la propria storia di figlio adottivo, bambino prodigio, “eroe” della legalità, gli anni della scorta fino al ritrovamento del proprio fratello. Condivisione e identità sono i due grandi temi di una storia appassionante e onesta. Il pubblico de “La Vela” ha accolto con calore, interesse e emozione l’autore. Prima dell’incontro ho rivolto a Giulio alcune domande per i lettori di Versilia Today.

Santamamma” a differenza di altri tuoi libri, ha la crudeltà dell’autobiografia. Quanto ti è costato scrivere questo libro e quali sono le motivazioni che ti hanno spinto a farlo?

Scrivere il libro non mi è costato, è stato salvifico, anche se sembra spigoloso e feroce per me è stato confortevole, prima di tutto. Perché sono nato come racconta storie e non come autore da inchiesta: con “Santamamma” sono tornato a fare il mio lavoro. Ho la fortuna di avere un pubblico che è molto più sensibile di me a ciò che mi riguarda, pertanto questo romanzo non è una risposta ma una domanda. Per esprimerlo con una citazione

” si vive soltanto nei momenti in cui si rivive qualcosa che si è vissuto nell’infanzia”.

Il tuo sito è uno spazio ben organizzato e efficace delle molteplici attività in cui sei impegnato, soprattutto emerge in modo deciso e convincente l’assoluta simbiosi tra parole e azioni nei vari temi in cui hai combattuto battaglie in prima linea: attraverso il tuo lavoro teatrale e di scrittore e giornalista, cosa significa impegno civile?

In un momento della mia vita mi hanno fatto credere che la mia complessità fosse un problema e io sono sempre stato innamorato della complessità. Sfogo nel giornalismo abusivo ciò che non riesco a esprimere nel palcoscenico così come nella scrittura di romanzi. Tra le azioni di cui sono fiero c’è quella di rivendicare la mia complessità. Il sito è lo spazio più libero da questo punto di vista. La scrittura è ciò che mi fa stare bene, è prendermi cura di me.

Recentemente il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini, con cui avevi scritto il monologo “L’isola che c’è“, ha ricevuto il premio Unesco per la pace. Che valore ha oggi la politica dell’accoglienza, ribadita dal riconoscimento, per il nostro Paese e per l’Europa?

L’Italia avrebbe potuto essere un avamposto culturale come è stata nei secoli, il tema non è l’accoglienza ma l’ umanità, quello che ritengo prioritario è un’impermeabilizzazione morale per gli stenti di questi tempi. Un grande intellettuale del nostro tempo ebbe una grande intuizione, Vittorio Arrigoni, e mi chiedo come racconterebbe questo tempo “restando umani”? Il premio a Giusi è importante, ci dovrebbe costringere a riflettere sulla cordialità nel senso letterale del termine ossia di sentire col cuore. Giusi ne è l’ultima testimone.

A seguito del fermo in Turchia del giornalista Gabriele del Grande sei stato tra i primi a prendere una posizione netta sul tema con un articolo in cui sottolineavi che la liberazione di Gabriele e il suo lottare per essa riguarda tutti. Perché?

C’è un aspetto personale in questa mia scelta ossia l’ enorme lutto che ho vissuto per Vittorio Arrigoni, conosciuto al grande pubblico da morto e infangato. Vittorio, Gabriele sono troppo poco ottundibili: l’ho vissuto sulla mia pelle che in certe circostanze sei preda dei cannibali non per quel che sei o che hai fatto ma per quel che ti è successo. E questo capita spesso quando scrivi, lavori fuori dai circuiti “istituzionali”: da questo l’ urgenza di scrivere subito di Gabriele, scrivere significava frenare i meccanismi che si erano attivati con Arrigoni e Baldoni. Fuori dai circuiti istituzionali: l’ urgenza di scrivere significava frenare subito i meccanismi che si erano attivati con Arrigoni e Baldoni. La fidelizzazione col pubblico.

Come sai qui a Viareggio siamo a pochi passi da S. Anna di Stazzema, luogo di eccidio nazista e famosa anche per gli incartamenti finiti nell’armadio della vergogna. Sulla tua bio ti definisci “Partigiano”: cosa significa oggi per te questo?

Partigiano oggi è colui che decide esattamente da che parte stare, che è uno dei vizi che ci chiedono di non frequentare. Essere partigiani significa non pensare che esistono storie o cose su cui non abbiamo diritto di parlare. Scegliere, dire la propria significa perdere ogni volta una parte di pubblico. A seguito della scorta che mi è stata assegnata mi sono ritrovato un grande pubblico, come accadde a Saviano che stimo ma di cui non condivido le ultime scelte. La fidelizzazione del pubblico è importante per chi sceglie da che parte stare.

Fra le varie attività che porti avanti c’è l’assiduo contatto con le generazioni più giovani attraverso gli interventi nelle scuole. Di cosa hanno “fame” i ragazzi che incontri?

Hanno fame di autenticità e incontrare i ragazzi soprattutto delle scuole professionali è il modo migliore per testare te stesso. Loro non ci cascano, con loro non puoi barare. Le scuole di frontiera mi piacciono. Spesso sono frequentate da alunni provenienti da altri paesi, da altre storie e strade che credono ancora nell’istruzione perché vedono l’ usibilità del sapere, cerco, se possibile, di evitare i licei classici.

Per finire tornando al libro: “Santamamma” è edito da Fandango, che è anche una casa di produzione cinematografica importante, è previsto un film tratto dal tuo romanzo?

Il romanzo drammaturgicamente si presta a diventare un film.

Sono quasi le 18,00, l’ora di andare in libreria. Per tutto il tempo dell’intervista gli occhi di Giulio Cavalli hanno brillato di onestà a confermare con lo sguardo ogni parola detta. Per tutto il tempo dell’intervista mentre muoveva le mani nel raccontarsi le parole “Stay Human “ tatuate sul suo polso ci hanno accompagnato così come nell’intenso incontro che Giulio ha avuto col suo pubblico in libreria. Forse sono proprio quelle parole, tatuate anche oltre la pelle, che rendono i suoi libri, le sue chiacchierate, i suoi monologhi, i suoi articoli, le sue parole così penetranti e necessari.