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legalità

In divisa sputi sulle vittime e ti guadagni un posto sicuro nelle liste di Salvini

“Esprimo piena soddisfazione per l’assoluzione in appello di tutti gli imputati per la morte di Stefano Cucchi. In questo Paese bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, ad essere puniti per colpe non proprie”.

E poi.

Su Federico Aldrovrandi: “La condanna è ingiusta, si tratta di un errore giudiziario. Di fronte al dolore della madre non abbiamo nulla da eccepire ma non possiamo confondere verità con pietismo. Tutti i giorni muoiono giovani sulle strade, ma non diamo la colpa alle strade. C’è più di un ragionevole sospetto, le cause della morte di Aldrovandi sono altre. Non è il fermo di polizia la causa”.

A proposito della legge sulla tortura: “L’obiettivo della legge è difendere non la brava gente, ma fornire strumenti ai delinquenti. Le vera vittima di questa legge sono le persone perbene”. E poi: “Acute sofferenze psicologiche. Cosa significa sofferenza psicologica verificabile? Da che cosa, da una ricetta medica per farmaci ansiolitici o da una perizia a pagamento? Ogni delinquente può lamentare sintomatologie avendole apprese da Internet”.

Sono le parole non di un Giovanardi qualsiasi ma di Gianni Tonelli, segretario del Sindacato autonomo di Polizia, candidato blindato nella Lega di Salvini. Uno che è riuscito addirittura a beccarsi le rimostranze dei suoi stessi colleghi del suo stesso sindacato che giusto ieri hanno detto: “Ora è tutto chiaro: la maglietta della polizia di Stato regalata a Salvini aveva un obiettivo politico”, in riferimento a una maglietta della divisa indossata da Salvini durante un comizio. “Ci prepariamo ad una campagna elettorale che vedrà sicurezza e lavoro tra le priorità dell’agenda sociale e politica. Un rappresentante dei poliziotti tra le file di un partito che parla di sicurezza in termini di paura mirando alla pancia della gente, senza pensare minimamente ai problemi reali della nostra categoria”.

Bravo Tonelli. Salvinista da così poco (eppure così uguale da sembrare un gemello separato alla nascita) è già riuscito nel miracolo di far scrivere al SIAP un comunicato ragionevole come non si leggeva da tempo.

Buon mercoledì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/01/31/in-divisa-sputi-sulle-vittime-e-ti-guadagni-un-posto-sicuro-nelle-liste-di-salvini/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui.

Mica l’antagonista ma l’erede di Maroni

Se avete cinque minuti leggetevi Silvia Bianchi su Gli Stati Generali:

Ad ogni angolo della mia città, il volto di Giorgio Gori mi fissa da una miriade di manifesti che pubblicizzano la sua candidatura alla presidenza della Regione Lombardia con lo slogan “fare, meglio – libera la forza della Lombardia“.

A me, elettrice di sinistra che vorrebbe finalmente voltare pagina dopo decenni di governo della destra, cadono le braccia. Come è possibile che il “mio” candidato riproponga la retorica berlusconian-formigonianapiù stantìa, il solito elogio della proverbiale operosità lombarda e la consueta promessa di affrancarla dai “lacci e lacciuoli” che la ostacolano? E perché quel maglioncino blu, che evoca una deprimente sensazione di dejà vu?

La risposta è nella strategia politica che caratterizza il Partito Democratico dall’avvento dell’era renziana: il mimetismo, cioè il tentativo di vincere sottraendo consensi all’avversario che parte da una posizione di vantaggio. La sua realizzazione richiede un percorso piuttosto impegnativo e una buona dose di “pelo sullo stomaco”.

Il primo passo da compiere è conquistarsi la fiducia degli elettori dell’area politica del rivale, evitando di attaccarla e, anzi, riconoscendo in qualche misura i meriti dei suoi esponenti. Ecco come Gori racconta oggi la sua candidatura a sindaco di Bergamo, nel non lontano 2014: “era una città discretamente amministrata dal centrodestra, dove si viveva abbastanza bene. Ma era come seduta in quell’ “abbastanza” che a noi invece non basta“.  Ed ecco come si è recentemente espresso riguardo a Formigoni: “mi sento di riconoscere alla sua gestione una visione. Era portatore di un pensiero forte e di una visione chiara di marcia”; e ancora: “nei 18 anni in cui ha governato la Lombardia, Formigoni ha espresso un’idea forte della politica: lo Stato non deve soffocare la società ma deve favorire il suo fiorire”.

Lo step successivo è lasciar intendere che si condividono gli aspetti fondamentali del pensiero politico dell’avversario, ma sottolineare la sua incapacità di metterlo in pratica. Ad esempio, per Gori la riforma del sistema sanitario voluta da Maroni è apprezzabile nelle sue linee generali (del resto ha appena reclutatonella sua squadra quell’Angelo Capelli che a suo tempo ne fu relatore); è la realizzazione ad essere insufficiente e  l’impegno è di migliorarla: “manterremo noi le promesse di Maroni”, ha annunciato il candidato del Pd nel discorso di lancio della sua candidatura.

La tattica camaleontica si perfeziona poi accantonando con prudente disinvoltura le proprie posizioni politiche divergenti, per avvicinarsi a quelle del competitore. Per noi che apprezzavamo il Gori campione dell’accoglienza, che ben gestiva i richiedenti asilo in collaborazione con l’influente mondo cattolico della nostra città (e veniva per questo quotidianamente attaccato dalla Lega), è un’amara sorpresa vedergli liquidare il tema in un capitoletto del suo programma elettorale intitolato “Immigrazione, legalità, sicurezza(una triade dall’inconfondibile sapore leghista) e sentirgli usare toni vagamente salviniani (“sperimentiamo percorsi di integrazione per chi rispetta le regole e ha voglia di lavorare, e per tutti gli altri esigiamo che si facciano i rimpatri assistiti“; “qualche cosa non funziona se importiamo braccia ed esportiamo cervelli“). I tempi della marcia “senza muri” di Milano sembrano ormai acqua passata.

Ma è quando l’avversario sta per segnare un punto importante a proprio favore che la “strategia mimetica” diventa sorprendente. Lo abbiamo visto quest’estate, quando Gori – già lanciato nella corsa alla Presidenza della Lombardia – ha annunciato il suo convinto sostegno al costosissimo referendum consultivo sull’autonomia voluto da Maroni: una mossa che ha contraddetto il suo precedente appoggio alla riforma costituzionale (di impianto decisamente centralista) e che ha stupito per la sua solerzia, ineguagliata persino dagli alleati del governatore leghista. Portare acqua al mulino della principale iniziativa politica del proprio rivale è una scelta inspiegabile se non, appunto, nella logica di provare ad appropriarsene.

E’ quindi chiaro che Giorgio Gori sta puntando a rappresentare sé stesso più come l’erede che come l’antagonista di Maroni. Agli elettori lombardi, che sembrano propensi a confermare l’amministrazione uscente, Gori promette di proseguirne l’opera con l’efficienza dell’imprenditore e il pragmatismo del sindaco: un pragmatismo che, purtroppo, noi bergamaschi conosciamo bene e che ci ha causato più di una delusione.

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Le elezioni a Ostia le hanno già vinte gli Spada e i Fasciani

Come se non bastasse il fatto che per Roma giri una giornalista sotto scorta per le loro minacce (Federica Angeli, che scrive per Repubblica) ieri Roberto Spada è rimbalzato su tutti i telegiornali mentre in pieno giorno, sotto l’occhio di una telecamera, prende a testate un giornalista Rai come nemmeno nelle peggiori fiction di mafia. Così, apertamente e liberamente, mentre tutto intorno Ostia si prepara al ballottaggio di un voto erroneamente considerato locale ma che invece propone tutti i lineamenti di una mafia parafascista che su Roma ci riporta ai periodi bui della banda della Magliana e di altri terrificanti personaggi della storia capitolina.

Come se in fondo il processo di Mafia Capitale (e che tristezza leggere decine di editoriali tutti proni a sminuire un fenomeno che continua a sanguinare) fosse solo un incidente e non la spia di una criminalità che addirittura si esibisce pubblicamente nella minaccia come potrebbe accadere a Corleone o a Casal di Principe. Chiunque sappia qualcosa di fatti di mafia sa bene che quel naso spaccato (addirittura pubblicato sulla propria pagina Facebook) è una medaglia che accresce l’onore marcio di chi, proprio con la violenza, si è affrancato in un territorio omertoso e spaventato.

Ostia è la terra di mafia dei nuovi fascismi pericolosamente coalizzati con l’illegalità del territorio (oltre che intrinsecamente illegali, per Costituzione) che dietro al falso mito della “cura dei bisogni della città” trasforma mafiosi in potabili imprenditori, la violenza e le minacce in “perdita di pazienza” e l’estrema destra in legittime posizioni politiche.

Oltre alla solidarietà doverosa ai giornalisti di Nemo, malmenati nello stesso Paese che facilmente si offende quando crolla nella classifiche della libertà di informazione, forse sarebbe il caso di aprire anche alcune riflessioni: c’è la responsabilità di chi negli ultimi mesi (fior fiore di giornalisti) ha legittimato Casapound come se davvero fosse un partito politico e non solo un grumo di orribile passato e c’è anche l’inutile tiritera di chi punta il dito contro “il web” senza rendersi conto che internet (come la politica, l’imprenditoria e il giornalismo stesso come ha dimostrato la prima pagina di Libero di ieri) è solo la fotografia reale di un Paese che normalizza la ferocia e poi se ne lamenta.

Buon giovedì.

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Cartolina dalla Sicilia: il candidato in lista con Micari che voterà Musumeci

Seguitela bene questa storia perché è, in piccolo, un manifesto nazionale: lui si chiama Antonello Firullo, è un imprenditore di Agrigento e risulta essere candidato in lista con la lista Sicilia Futura, in appoggio al Fabrizio Micari candidato del Partito Democratico (seppur blandamente sostenuto in previsione del possibile sfacelo elettorale).

Bene: Firullo ha dichiarato pubblicamente che voterà Giorgio Assenza, deputato uscente di Forza Italia e candidato nella lista Diventerà Bellissima a sostegno di Musumeci. Avete letto bene: il candidato del PD non solo non si voterà (adorabili i candidati che non “meritano” nemmeno il proprio voto) ma addirittura voterà il proprio avversario. O forse no, l’avversario.

La scelta di Firullo risale al 25 ottobre scorso, quando con un post su Facebook ha annunciato: «Formalmente il ritiro della mia candidatura per le prossime elezioni regionali all’interno della lista Sicilia Futura, a sostegno di Fabrizio Micari». Il candidato “scandidato e convertito” ha precisato che «sul piano formale non ci sono i tempi tecnici per eliminare il mio nome dall’elenco dei candidati. Ma, dal punto di vista sostanziale, mi considero disimpegnato».

Va detto che Firullo ha interpretato bene la parte fino a poco tempo fa: «Il mio impegno – scriveva – la mia passione, le mie lotte per la legalità a sostegno di una sfida gentile necessaria per la Sicilia. Con Fabrizio Micari presidente».

E invece niente.

Buon giovedì.

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La Meloni voleva salvare Roma ma non le pagava l’affitto

È stata brava, bravissima Virginia Raggi a sgomberare i paladini della legalità di Fratelli d’Italia che, al grido anche loro di “prima gli italiani” intanto se ne stavano comodi in una sede di proprietà del comune capitolino a Traiano Terme con un contratto scaduto nel 1972. Essere morosi dal 1972 significa qualcosa di più di una semplice dimenticanza sia chiaro: significa avere istituzionalizzato un privilegio illegale nel corso di decenni come se fosse dovuto. Potremmo chiamarlo un “occhio chiuso” 45 anni di seguito per intenderci.

E, attenzione, non stiamo parlando di un sottoscala di quelli di cui le amministrazioni pubbliche si dimenticano di essere proprietarie: l’immobile presenta al suo interno ambienti di età romana pertinenti al complesso delle Terme di Traiano, così come già aveva segnalato la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali che aveva già rappresentato più volte, da ultimo nel 2015, la necessità di riacquisire il bene per sottoporlo alla sorveglianza degli organi di tutela.

Lo scempio nella gestione del patrimonio immobiliare pubblico nella capitale è qualcosa che affonda le radici nella notte dei tempi e su cui si potrebbero scrivere intere enciclopedie ma il gesto di ieri (seppur piccolo e insignificante nel quadro complessivo) simbolicamente sta lì a ricordarci, una volta ancora, che prima di riempirsi la bocca di legalità forse sarebbe il caso di praticarla. E forse farebbe una bella figura la Meloni, sempre attenta alle piccole illegalità delle diverse etnie, se si inferocisse come lei sa fare anche con il suo stesso partito.

Ma non accadrà, no: per essere destrorsi, oggi, bisogna avere imparato a nascondere le travi nel proprio occhio oltre che essere abili cercatori di pagliuzze. E quindi farà finte di niente. Ancora. E noi glielo ricorderemo gentilmente ogni volta che volerà come un avvoltoio nel cortile di qualche casa popolare. Ogni volta. Tutte le volte.

Buon mercoledì.

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Dove sono questa settimana: dalle parti di Bergamo a presentare Santamamma e a leggere Sciascia. E lunedì in scena a Pavia.

Questo fine settimana, se vi va, mi tocca fare cose molto interessanti, se vi va di venire con me.

 

Sabato 14 ottobre per la decima edizione di “Presente Prossimo” presento il mio romanzo Santamamma alle 18 alla biblioteca di Albino (BG). L’evento è qui.

 

Domenica 15 ottobre per la bellissima rassegna “Fiato ai libri” leggo “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia a Montello (BG) presso l’auditorium comunale. Mi accompagna alla fisarmonica l’insostituibile Guido Baldoni. E c’è bisogno di Sciascia, di questi tempi. L’evento è qui.

 

Lunedì si torna in scena. Con “Mafie maschere e cornuti” sono a Pavia per la XIII edizione del ciclo di conferenze “Mafie, Legalità ed Istituzioni” 2017, dedicato alla memoria del Prof. Grevi e riguardante i temi della lotta alla MAFIA. Ci vediamo in Università, aula del ‘400. Ingresso gratuito.

 

Tutti i miei appuntamenti li trovate qui.

Il sindaco di Seregno, lo zerbino dei mafiosi: le carte dell’inchiesta

Dopo «7 anni» di indagini sulla ‘ndrangheta in Lombardia «posso dire che c’è un sistema» fatto di «omertà» e di «convenienza da parte di quelli che si rivolgono all’anti Stato per avere benefici». Così il procuratore aggiunto della Dda di Milano Ilda Boccassini ha commentato il maxi blitz avvenuto all’alba di martedì: 24 arresti – tra cui il sindaco di Seregno Edoardo Mazza e un dipendente della Procura di Monza, Giuseppe Carello – nelle province di Monza, Milano, Pavia, Como e Reggio Calabria, nell’ambito di un’inchiesta su infiltrazioni della ‘ndrangheta nel mondo dell’imprenditoria e della politica in Lombardia, inchiesta che vede tra gli indagati anche l’ex vicepresidente della Regione Mario Mantovani. Boccassini ha commentato che oggi, a 7 anni dell’operazione Infinito, «è facile» per le cosche «infiltrarsi nel tessuto istituzionale». L’inchiesta è coordinata dalla Procura di Monza e dalla Procura Distrettuale Antimafia di Milano. In tutto, 27 le misure cautelari: 21 in carcere, 3 ai domiciliari e 3 interdittive, firmate dai gip Pierangela Renda e Marco Del Vecchio. Le accuse: associazione di tipo mafioso, estorsione, detenzione e porto abusivo di armi, lesioni, danneggiamento (tutti aggravati dal metodo mafioso), associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio, abuso d’ufficio, rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento personale.

In particolare, un terremoto giudiziario scuote l’amministrazione di Seregno. Agli arresti domiciliari per corruzione è finito il sindaco in persona, il forzista Edoardo Mazza. Sotto accusa i suoi rapporti con il costruttore Antonino Lugarà (in carcere), considerato uomo vicino ad esponenti della ‘ndrangheta. L’imprenditore, come notato dagli inquirenti che hanno ascoltato le intercettazioni, trattava il sindaco come «uno zerbino». L’ipotesi sostenuta dai pm di Monza Giulia Rizzo e Salvatore Bellomo è che Lugarà abbia ottenuto la concessione di un’area del Comune brianzolo, la cosiddetta area «ex Dell’Orto», sulla quale realizzare la costruzione di un supermercato, come contropartita del sostegno e consenso elettorale procurato al sindaco di centrodestra durante la campagna elettorale del 2015. «Ogni promessa è debito», gli dice infatti il sindaco in un’intercettazione. Agli arresti domiciliari anche un consigliere comunale di Seregno, e inoltre sono state emesse tre misure interdittive all’esercizio di pubblici uffici, una delle quali riguarda l’assessore Gianfranco Ciafrone.

Avvocato civilista, 38 anni, Edoardo Mazza è stato eletto nel 2015 nelle fila di Forza Italia alla carica di sindaco di Seregno, paese di 45mila abitanti in provincia di Monza. Per la sua elezione Lega e Forza Italia si sono compattate per sostenerlo. Molto attento ai social network, Mazza ama comunicare servendosi di Facebook. In alcuni di questi interventi, si è distinto per aver preso in mano un paio di forbici quando parlava degli stupratori di Rimini, o per le sue campagne contro i mendicanti, invitando i suoi cittadini a non dare l’elemosina per scoraggiare il loro arrivo in città.

La solidità della coalizione di centrodestra ha mostrato i primi scricchiolii tra maggio e giugno di quest’anno, con le dimissioni del leghista Davide Vismara da segretario di sezione, alle quali sono seguite quelle della collega di partito Barbara Milani da assessore alla Pianificazione territoriale ed all’edilizia privata e poi quelle di due consiglieri comunali, anch’essi del Carroccio. Una «fuga» che alla luce dell’esecuzione della misura cautelare emessa nei confronti del primo cittadino dal tribunale di Monza per corruzione, suona oggi come una presa di distanza preventiva.

L’inchiesta dei carabinieri, partita nel 2015, e che porta la firma dei pm monzesi Salvatore Bellomo, Giulia Rizzo e del Procuratore della Repubblica di Monza Luisa Zanetti e dei pm della Dia Alessandra Dolci, Sara Ombra e Ilda Boccassini, rappresenta una costola dell’indagine «Infinito», che nel 2010, sempre coordinata dalle procure di Monza e Milano, aveva inferto un duro colpo alle «locali» ‘ndranghetiste in Lombardia.

Anche un dipendente dell’ufficio affari semplici della Procura di Monza, Giuseppe Carello, è stato arrestato in esecuzione di ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari con l’accusa di rivelazione di segreti d’ufficio. Il procuratore della Repubblica di Monza Luisa Zanetti ha riferito: «Attraverso le sue credenziali accedeva alla nostra banca dati e rispondeva alle domande dell’ imprenditore di Seregno indagato. Viene ascoltato mentre elenca gli indagati davanti alla nostra schermata, poi abbiamo una fotografia che inquadra l’imprenditore con il nostro dipendente». Il procuratore poi ha aggiunto: «Giuseppe Carello, ai domiciliari, ha violato la fiducia del procuratore e del personale giudiziario ed amministrativo che sono totalmente estranei ai fatto. Ha violato il giuramento alle istituzioni».

Come riferito da Boccassini, «è stata individuata una delle persone che era rimasta fuori» dagli arresti dell’operazione Infinito del 2010, e che partecipò in quell’anno al noto summit in un centro intitolato alla memoria di Falcone e Borsellino a Paderno Dugnano. Sono stati identificati i boss della locale di Limbiate, ed è stato sgominato un sodalizio dedito al traffico di ingenti quantitativi di cocaina, con base nel Comasco, composto prevalentemente da soggetti originari di San Luca (RC), legati a cosche di ‘ndrangheta di notevole spessore criminale. Nel corso dell’indagine sono stati ricostruiti, ha spiegato Boccassini, «episodi brutalmente e stupidamente violenti». Per esempio, un cittadino di Cantù che andava al lavoro alle 5 di mattina fu colpito con il calcio di una pistola ma non ebbe il coraggio di denunciare: «Non me lo chiedete perché ho paura e so che sono pericolosi», disse agli inquirenti.

«La ‘ndrangheta è l’associazione mafiosa più pericolosa perché si insinua nel tessuto economico e ha rapporti con le istituzioni. Bisogna scoprire questi legami e tagliarli di netto»: così il presidente della Lombardia, Roberto Maroni, ex ministro dell’Interno ha commentato la maxioperazione in Lombardia. «Chi rappresenta il popolo nelle istituzioni – ha spiegato Maroni ai microfoni di Radio 24 – deve ovviamente stare lontano e rifiutare ogni rapporto con queste persone. Se poi qualcuno ci casca, è giusto che venga estromesso immediatamente dalla politica alle istituzioni».

Mario Mantovani, consigliere regionale lombardo di Forza Italia ed ex vicepresidente della Lombardia, già arrestato due anni fa in un’altra inchiesta, è indagato per corruzione (non gli vengono contestati reati di mafia) in un filone dell’indagine. Da quanto si è saputo, l’accusa riguarda i suoi rapporti con l’imprenditore Antonino Lugarà, lo stesso che ha intrattenuto rapporti con il sindaco di Seregno. Mantovani ha scritto su Facebook: «Avvenuta perquisizione questa mattina presso i miei uffici in relazione ai fatti (su cui indaga la procura di Monza) di cui nulla so, che apprendo dai media di stamane e che sono lontanissimi dal mio agire politico e personale. Nulla è emerso. Sempre a disposizione della trasparenza e della legalità». Secondo la ricostruzione delle indagini, Lugarà avrebbe dato «la disponibilità e l’impegno a procurare consenso elettorale e l’appoggio politico» durante la campagna elettorale del maggio e giugno 2015 a favore di Mazza «nonché assicurando l’appoggio di Mantovani». «Ciao Mario ti ringrazio molto per la vittoria di Seregno è anche merito tuo, quando puoi ti vorrei incontrare», scriveva Lugarà in un sms.

(fonte)

L’ordinanza completa:

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Caporalato agropontino: denunce e aggressioni nell’articolo di Marco Omizzolo

Marco Omizzolo è una delle voci più preparate e autentiche sul fenomeno del caporalato. Questo suo articolo (scritto per Articolo21) è un quadro impietoso della situazione in provincia di Latina che ben racconta come il fenomeno dello sfruttamento non appartenga solo alla Puglia e, soprattutto, come l’emergenza non abbia bisogno di vittime per essere tale.

 

In provincia di Latina per molti giornalisti, ricercatori e attivisti non è facile lavorare. È infatti usanza consolidata di alcuni politici denunciare chi studia e racconta le mafie, la corruzione, l’urbanistica e l’ambiente per ostacolarne il lavoro. Se poi si riprendono, descrivono e raccontano anche i luoghi e i personaggi che praticano lo sfruttamento lavorativo, il caporalato e la tratta internazionale, allora dalle denunce temerarie si passa facilmente alle aggressioni, intimidazioni e minacce. È accaduto, ancora una volta, solo qualche giorno fa.

Il 5 settembre scorso, infatti, come faccio da anni, mi trovavo nelle campagne pontine a documentare, intervistare, raccogliere storie di vita di braccianti indiani per approfondire il tema dello sfruttamento lavorativo ad opera di alcuni imprenditori e caporali. Un lavoro affascinante e difficile, scomodo e spesso battistrada per individuare una serie di interessi criminali e metodi in sé mafiosi. Molte ricerche scientifiche e giornalistiche, italiane e straniere, ormai concordano nel riconoscere lo sfruttamento lavorativo, soprattutto quando associato ai migranti, insieme al caporalato e alla tratta internazionale, espressione di una criminalità più o meno dipendente dalla consorterie mafiose tradizionali.

Con me questa volta si trovava una troupe della Bbc, network tra i più importanti al mondo composta da Rahul, giornalista peraltro di origine indiana, e dal suo operatore, e Floriana Bulfon, giornalista de L’Espresso che sul grave sfruttamento lavorativo dei lavoratori indiani ha già pubblicato importanti inchieste, lì in veste di interprete.

Una combinazione di professionalità di livello internazionale e, grazie anche alle origini del giornalista della Bbc, che si è subito confrontata non solo con le testiminianze dei lavoratori da anni sfruttati da padroni italiani, caporali e trafficanti spesso loro connazionali, ma anche con le reazioni, minacce e intimidazioni di chi si ritiene legittimato a sfruttare e a non dar conto dei propri comportamenti.

Giunti intorno alle 09.00 del mattino a ridosso di un campo agricolo, restando sulla strada pubblica e dunque senza invadere proprietà privata alcuna, Rahul e il suo operatore iniziano a riprendere un gruppo di lavoratori indiani chini sui campi. Nulla di particolare, nulla di ambiguo. Una telecamera a ripredere ciò che nelle campagne pontine tutti vedono ogni giorno. E poi un giornalista che racconta la giornata di un lavoratore indiano, descrive quelle condizioni, non esprime giudizi ma approfondisce, come deve, ciò che nei giorni precedenti aveva raccolto in termini di informazioni mediante interviste fatte agli stessi lavoratori come anche ad alcuni rappresentanti istituzionali e delle forze dell’ordine.

Tanto però è bastato per essere fermati subito da un ragazzo italiano, probabilmente il padrone del campo e datore di lavoro di quei lavoratori. Dovevamo, secondo lui, interrompere le riprese. In pochi secondi siamo stati raggiunti anche da un’auto dalla quale è scesa una donna che ha subito fotografato la nostra auto (presa a noleggio) e chiesto spiegazioni, peraltro prontamente fornite con tanto di esposizione dei documenti e tesserini da giornalista. La tesi era “voi non potete riprendere senza il nostro permesso, non potete fare domande, i lavoratori sono tutti in regola, dovetre andare subito via o vi denuncio….ora chiamo i carabinieri”. Intanto sono arrivate altre due auto che parcheggiano a poca distanza da noi dalle quali scendono due uomini. Capiamo che rischiamo di restare lì tutto il giorno e decidiamo di andare via evitando di cadere nelle provocazioni. Riprendiamo a girare per le campagne di Sabaudia e dopo soli dieci minuti veniamo fermati un’altra volta. In questo caso ad intimarci l’alt è la polizia municipale di Sabaudia. Accostiamo sul ciglio della strada. Alla nostra destra e sinistra solo campi pieni di lavoratori indiani piegati a raccogliere. Accanto a loro, in piedi, qualche italiano e altri indiani. I primi erano i “padroni” e i secondi i “caporali”. Ci sarebbe piaciuto intervistarli ma non è stato possibile per il prontissimo intervento della celere municipale. Bene, è dovere loro controllare e lo fanno con attenzione certosina. Ci chiedono i documenti. Ognuno presenta il proprio, compresi i tesserini da giornalisti. La telecamera intanto riprende i braccianti indiani piegati nei campi e i caporali che ridono. I controlli sono così accurati che non so se esserne lieto o demoralizzarmi. Il vigile annota tutto con scrupolosità: i nostri nomi, i numeri dei nostri documenti, il contratto di noleggio dell’auto, l’effettiva revisione della stessa, l’assicurazione e infine guarda se l’auto ha qualche problema. Alle sue domande rispondiamo con educazione mista ad ironia, forse per alleggerire la tensione. Intanto l’operatore, di origine egiziane e con una lunga esperienza internazionale, ci dice che neanche quando è stato in Egitto, Libia o in Siria gli era mai capitato di vivere una tale situazione. Ma è solo l’inizio. Il vigile ci comunica che tanta solerzia è dovuta al pericolo terrorismo. La sua attenzione è indispensabile perchè “è un periodo difficile e il pericolo di attentati può esserci ovunque”. Un po’ la cosa fa ridere, un po’ invece no. Intanto alla sua destra e sinistra i lavoratori indiani continuano a lavorare sotto padrone e caporale. Padrone e caporale che dovrebbero essere perseguiti, addirittura arrestati, stando alla recente nuova legge contro il caporalato (lex 199/2016). Loro invece restano lì, in piedi, a controllare il lavoro dei braccianti, a chiedere loro di fare più in fretta per una retribuzione oraria che non arriva ai 4 euro (nella migliore delle ipotesi) a fronte dei 9 lordi circa che la legge prevede. Non vengono rispettate le misure a tutela della loro salute. Lavorano anche 12 ore, con pause brevi. Il datore di lavoro in alcuni casi si fa chiamare padrone. Il caporale li insulta. Se un lavoratore indiano si infortuna viene allontanato o portato in prossimità di un Pronto Soccorso e poi abbandonato. Abbiamo decine di referti di aggressioni o malatti legate allo sfruttamento. Ma il vigile, giustamente, controlla la revisione della nostra auto e il contratto di noleggio quale strategia per contrastare il terrorismo internazionale. Il giornalista della Bbc ride, io un po’ meno.

Finito ogni controllo, pensiamo di andare via. L’aria si è fatta pesante. In solo un’ora siamo stati avvicinati da vari datori di lavoro, presi in giro da caporali e padroni, controllati dalla polizia municipale. Ci pare abbastanza.

Decidiamo di trovare una location adatta per farmi intervista. Suggerisco il Mof di Fondi, ossia uno dei maggiori mercati ortofrutticoli d’Europa. Già al centro delle cronache giudiziarie e giornalistiche d’Italia, il Mof è il luogo ideale in cui raccontare il rapporto tra mafie, sfruttamento lavorativo, tratta internazionale e caporalato. Proprio in  prossimità dell’entrata di quel Mercato si ritrovavano, come ho già avuto modo di scrivere per Articolo21, Gaetano Riina, fratello di Totò Riina, e Nicola Schiavone, figlio di Carmine Schiavone detto Sandokan, tra i fondatori del clan dei Casalesi. Le indagini portarono alla luce il sodalizio criminale tra i casalesi, i Mallardo e i corleonesi per la gestione di vari mercati ortofrutticoli dalla Sicilia a Fondi. I clan campani fungevano da service per trasporti e logistica mentre i mafiosi siciliani fornivano i prodotti agricoli con il beneplacido interessato della ‘ndrangheta. Camion che trasportavano ufficialmente la frutta e la verdura prodotta nelle campagne pontine dai braccianti nascondevano e trasportavano anche armi, droga e forse anche denaro frutto di rapine, estorsioni e traffici illeciti di varia natura.

Prima di arrivare spiego la storia criminale del pontino che ho provato a ricostruire, almeno per una parte della sua genesi, con una mia recente pubblicazione (http://www.tempi-moderni.net/prodotto/la-quinta-mafia/). Gli racconto delle estorisioni, delle mancato scioglimento dell’amministrazione comunale di Fondi, della reazione della politica al potere, dei silenzi e dell’operato lodevole delle forze dell’ordine della magistratura. In auto c’è silenzio interrotto da qualche battuta per stemperare la tensione.

Anche in questo caso arriviamo a ridosso dell’entrata del MOF. Restiamo però ancora sulla strada. Parcheggiamo e l’operatore, con Rahul, si posizione su un’aiuola. Si tratta di suolo pubblico. In lontananza si vede l’enorme scritta del MOF. Iniziamo l’intervista. La prima domanda riguarda il mio interesse per le agromafie e lo sfruttamento lavorativo e da qui arrivo all’uso indotto di sostanze dopanti da parte dei lavoratori indiani per reggere i ritmi imposti al lavoro e lo sfruttamento, tutto documentato  da un dossier (Doparsi per lavorare come schiavi) pubblicato da In Migrazione.

Ancora una volta veniamo interrotti. Questa volta è la guardia giurata del Mof. Ci chiede le generalità e lo scopo del nostro lavoro. Siamo ovviamente collaborativi. Floriana è paziente. L’essere una giornalista di giudiziaria de L’Espresso e trattando il tema mafie e terrorismo da anni, riesce a gestire adeguatamente la situazione. La guardia giurata ci ricorda che per stare lì dobbiamo chiedere l’autorizzazione. Non importa se il suolo è pubblico e se siamo distanti dal Mof. Serve l’autorizzazione. Sembra di vivere in un film comico. Avendo saputo che si tratta della Bbc, la guardia chiama la direzione che gli intima di lasciarci lavorare. Sono evidentemente più astuti dei padroni agricoli pontini.

Riprendiamo l’intervista ma dopo due minuti arriva un altro controllo. Si ferma un’utilitaria. Nessun logo sulla fiancata, nessun lampeggiante o titolo in evidenza. Scende un uomo sui 55 anni. Ci sorride e non interviene subito ma ci scatta con il cellulare alcune foto. Io mi fermo perchè avverto quella presenza come inquietante. Floriana gli si avvicina e torna a spiegare, per la quarta volta in due ore, che lei è un’interprete, che si tratta della Bbc (cosa che quest’uomo sapeva già), cosa stavamo facendo e perché eravamo lì. In questo caso la nostra percezione è diversa da quelle passate. Quell’uomo così gentile ferma subito Floriana e le dice che sa perfettamente che lei non è solo un’interprete ma una giornalista. Poi ci spiega, sempre sorridendo, che dobbiamo avere un’autorizzazione sia per stare su quell’aiuola sia per filmare ma che ci concede, bontà sua, di continuare. Floriana lo avverte che non stavamo facendo un servizio sulle mafie nel Mof e lui, astutamente, non risponde. Fotografa però ancora la nostra auto e mi scatta una foto da distanza abbastanza ravvicinata. Non ci dà spiegazioni sulle ragioni della sua presenza, sul suo ruolo e attività. Non è affatto arrogante. Ad alta voce, per farsi sentire distintamente da tutti, dice però di fare attenzione perché “potrebbero improvvisamente attivarsi gli annaffiatoi” e aggiunge che quello in cui eravamo è un posto pericoloso perché passano molti camion. Qualcuno, afferma, soprattutto quando è carico, potrebbe “perdere il controllo e venirci addosso” facendo una strage. Si preoccupa per noi. Floriana ed io restiamo per qualche secondo in silenzio. Continua affermando che quei camion hanno già perduto il controllo in passato salendo varie volte sull’aiuola dove ci trovavamo. Lo informiamo che staremo ancora solo due minuti e lui dalle foto passa al video. Ci riprende qualche secondo e va via, salvo nascondersi dietro una curva dalla quale poteva tenerci d’occhio.

Finisco l’intervista parlando di sfruttamento, doping, mafia, di tratta internazionale, caporalato e del bisogno che abbiamo di giustizia e diritti. L’entrata del Mof è alle mie spalle. Alla nostra destra, lontano qualche centinaio di metri, quell’ometto basso e sorridente che si preoccupava della nostra salute. La minaccia io e Floriana l’abbiamo capita benissimo. Stare attenti e soprattuto stare lontanti, dal Mof, da certi temi, da certi campi.

Torniamo a Sabaudia per continuare il nostro lavoro, ben sapendo che esistono interessi e luoghi che non devono essere ripresi ma che proprio per questo, ne siamo convinti, meritano di essere descritti, indagati, studiati.

La sensazione che si vive è di pressione e ostacolo costante al nostro lavoro da parte di chi sfrutta, di criminali vari, di alcune istituzioni che sembrano refrattarie a qualunque impegno volto a ristabilire legalità e giustizia, di personaggi non meno precisati che si sentono così forti da minacciare direttamente un giornalista della Bbc, il suo operatore, una giornalista de L’Espresso e il sottoscritto. Si ha la certezza che lavorare nel Pontino raccontando le storie degli ultimi, degli sfruttati, dei migranti obbligati ad abbassare la testa dinanzi al padrone di turno, procura problemi e intimidazioni. La Bbc ha capito bene come stanno le cose e ad ottobre manderà in onda il servizio a livello mondiale e da Londra a New York, da Calcutta a Roma, tutti vedranno e sapranno. Non c’è stato dunque bisogno di usare troppe parole. È bastato fargli vivere l’esperienza diretta di chi prova a raccontare puntando il dito, l’obiettivo e la penna negli angoli bui di questa provincia dove poco si vede e meno si sa. Poi arrivano padroni, caporali, vigili, guardie giurate e anonimi personaggi sorridenti a domandarti chi sei, cosa fai e soprattutto a raccomandarsi di stare attento alla salute che qui ci vuole poco a farsi male. Intanto tutto intorno braccianti, indiani e spesso anche italiani, si spezzano la schiena per pochi euro al giorno, i caporali comandano, i padroni ordinano e fanno i soldi e i padrini fanno politica e filmini con il cellulare. Ma le cose prima o poi cambiano ed è per questo che continueremo ad analizzare, raccontare e descrivere decidendo ogni giorno da che parte stare e contro chi combattere.

“Ischia capitale dell’abusivismo e del rischio”: lo scriveva Legambiente

Un’intervista da leggere di Cristina Nadotti a Michele Buonomo, presidente di Legambiente Campania:

Legambiente lo denuncia da anni con i suoi dossier “Mare Monstrum“: la Campania è in testa alla classifica dell’illegalità nel ciclo del cemento costiero, con 764 infrazioni accertate dalle Capitanerie di porto e dalle altre forze dell’ordine solo nel 2017 e sul suo territorio è commesso il 20,3 per cento dei reati totali inerenti la cementificazione.”A sfregiare la costa è soprattutto il “vecchio abusivismo” – sottolinea l’associazione ambientalista nel suo dossier 2017 –  quello che da decenni sopravvive alle demolizioni, quello delle seconde case in riva al mare che godono delle particolari attenzioni dei politici, locali e nazionali, sempre attenti a impedire che arrivino le ruspe”. In particolare, solo per il Comune di Ischia sono state presentate 7.235 domande di condono in 30 anni, 4.408 delle quali risultavano ancora da evadere ad aprile dello scorso anno e molte di queste si riferiscono ad abusi che non possono essere sanati

Michele Buonomo, presidente di Legambiente Campania, commenta ora con rabbia il terremoto di Ischia: “Da oltre 20 anni abbiamo lanciato iniziative per segnalare casi eclatanti – dice – e dopo la demolizione di ecomostri come quello di Fuenti, sulla costiera amalfitana, per la prima volta dal Dopoguerra in Italia c’è stato un rallentamento nell’abusivismo. È successo pressoché ovunque, tranne a Ischia”.

Perché? Di chi è la responsabilità?
“A Ischia l’abusivismo è pratica consolidata e diffusa, alimentata dalla politica, che in maniera trasversale chiude un occhio, e dalle scappatoie legali. Vige la prassi di costruzione abusiva “per necessità” e all’interno di questo concetto rientra di tutto, dagli ampliamenti poi affittati ai turisti, a interi nuovi edifici che diventano alberghi. E ad essere più pericolose, come stiamo vedendo in queste ore, sono le sopraelevazioni, che indeboliscono la struttura”.

Non esistono i controlli?
“Tutto avviene in una situazione di diffusa illegalità. Abbiamo accertato che sopraelevazioni e ristrutturazioni abusive sono fatte con lavori che si concludono in 48/62 ore. Non è indispensabile essere ingegneri per capire quale sia l’affidabilità di tali costruzioni e la perizia delle ditte che le eseguono. E poi, come sottolinea il nostro dossier, la politica strizza l’occhio a queste pratiche, perché vietarle non porta voti”.

È una situazione senza speranza?
“È una situazione allarmante, anche perché a Ischia non c’è soltanto il rischio terremoto, ma anche quello di frane e smottamenti, a causa dei quali abbiamo già pianto molti morti in passato.Con la siccità di quest’anno le prime piogge rischiano di essere un disastro, l’acqua scorrerà come un fiume sull’isola. Ma si può prevenire, si deve agire subito”.

Come?
“Ho sentito il presidente della Regione Campania De Luca dire in queste ore che “non si può buttare giù tutto”. Si chiarisca allora, subito, togliendo ogni possibilità di scappatoie, che cosa si intende per “necessità”. Si faccia un censimento, siamo il Paese europeo con il maggior numero di case sfitte. Infine, ma è la cosa più importante, si faccia la riqualificazione”.

Ma è possibile una riqualificazione in una situazione di degrado come quella di ischia?
“Non vanno riqualificati gli abusi totali, quelli vanno abbattuti. Ma si può migliorare la parte preesistente agli abusi. Nel Nord Europa le pratiche di “deep renovation” hanno mostrato che si può mettere in sicurezza un edificio in poco tempo e quasi senza mandare via chi ci abita. In Italia abbiamo lecompetenze per farlo. serve la volontà politica”.

Servono anche i fondi.
“Riprendo le parole di De Luca, bisogna passare “dalle parole ai fatti”. Gli incentivi stabiliti per la riqualificazione energetica delle abitazioni private hanno prodotto interventi per 10 miliardi di lire. Provvedimenti simili per la messa in sicurezza degli edifici convincerebbero la gente a tirare fuori i soldi dai cassetti per non vivere nel terrore”.

(fonte)